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"La no e della Repubblica" è il titolo dell’inchiesta televisiva di altissimo livello, che spazia dalla
contestazione del ’68 sino al tragico epilogo del sequestro di Aldo Moro, con la quale nel 1989 Sergio
Zavoli fece luce sulla stagione di piombo appena conclusasi. Essa rimane a tu ’oggi uno degli esempi
più riusciti di giornalismo d’inchiesta capace di utilizzare e valorizzare le potenzialità del mezzo
televisivo senza rimanerne ostaggio. "La no e della Repubblica" è anche un esempio di indagine
storica rigorosa, de agliata, esauriente, realizzata valorizzando al massimo un approccio non mediato
alle fonti dire e, perfe amente il linea con i tempi e le esigenze del mezzo televisione, mai però a
scapito della qualità e della completezza del prodo o o erto. In poche parole, la prova lampante che
anche la televisione può essere utilizzata occur mezzo di conoscenza e di indagine, a pa o che si
posseggano le qualità e la sensibilità per farlo. Oggi i contenuti di quella trasmissione continuano
fortunatamente a essere reperibili con questo libro, all’interno del quale il le ore trova le interviste ai
protagonisti, le schede riassuntive, le cronache dei fa i, ovvero tu o ciò che Zavoli ha raccontato al
proprio pubblico trasferito sulla pagina e messo nero su bianco: gli eventi più cruenti che hanno
segnato un’epoca e il nostro Paese.
Sergio Zavoli è nato a Ravenna nel 1923 ed è riminese d’adozione. È stato condire ore del
Telegiornale, dire ore del Gr1, presidente della Rai. Documentarista, autore di grandi inchieste, inviato
speciale, scri ore e uno dei più intelligenti e lucidi osservatori della realtà italiana. Ha collezionato
decine di premi. Nel 1986 l’Università di Urbino gli ha conferito la laurea honoris causa in le ere. Tra i
suoi libri ricordiamo Viaggio intorno all’uomo, Socialista di Dio, I figli del labirinto, Z come Zavoli.
Sergio Zavoli
LA NOTTE
DELLA REPUBBLICA
l’Unità
l’Unità
Direttore: Walter Veltroni
Condirettore: Piero Sansonetti
Vicedirettore vicario: Giuseppe Caldarola
Vicedirettori: Giancarlo Bosetti, Antonio Zollo
Redattore capo centrale: Marco Demarco
Editrice l’Unità s.p.a. Presidente: Antonio Bernardi
Amministratore Delegato: Amato Mattia
Consiglio d’amministrazione: Antonio Bernardi, Moreno Caporalini, Pietro Crini Amato Mattia, Gennaro Mola, Claudio Montaldo,
Antonio Orrù, Ignazio Ravasi, Libero Severi, Bruno Solatoli, Marcello Stefanini, Giuseppe Tucci
Redazione Iniziative Editoriali dell’Unità:
Matilde Passa (responsabile),
Renato Angelini, Mario Massini (coordinamento tecnico)
Copertina: Giovanni Lussu
Supplemento al n. 17 dell’Unità del 22-1-94
Edizione fuori commercio
riservata ai lettori e abbonati dell’Unità
Finito di stampare gennaio 1994 presso AME stab. NSM Cles
INDICE
INTRODUZIONE
I — Prologo: Italia anni Sessanta — Una società divisa e inquieta — Rumore di sciabole: il «Piano Solo»
II — La scalata al cielo: contestazione giovanile e protesta operaia — Il centrosinistra in crisi
Interviste a Mario Capanna e Giampiero Mughini
III — La bomba a piazza Fontana: anarchica o nera? O di chi altro? Depistaggi e inquinamenti
Intervista a Corrado Stajano
Intervista a Pietro Valpreda
Intervista a Stefano Delle Chiaie
IV — Nascono le Brigate rosse: «Colpiscine uno per educarne cento»
Intervista ad Alfredo Bonavita
V — Br, un progetto di guerra civile — Dalla propaganda armata alla lotta armata: le prime vittime
Interviste a Corrado Alunni, Paola Besuschio, Franco Bonisoli, Alberto Franceschini, Mario Moretti, Patrizio Peci, Pierluigi Zuffada
VI — La minaccia da destra: golpe e golpisti — «Tora-Tora!», «Boia chi molla!», «Rosa dei Venti» —
Quell’autobomba a Peteano
Interviste ad Antonio Labruna e Amos Spiazzi
VII — «Attacco al cuore dello Stato» — I magistrati nel mirino dei brigatisti — Sossi rapito e rilasciato —
Coco, l’intransigente, ucciso
Intervista con il Presidente Giovanni Leone
Interviste a Mario Sossi e Alberto Franceschini
VIII — Piazza della Loggia, un eccidio mirato — Il mistero del treno Italicus — «
chi è il burattinaio?»
esti sono i bura ini,
Intervista a Franco Castrezzati
Intervista a Vincenzo Vinciguerra.
IX — Le teste dell’idra: le nuove Br — «Pagherete caro, pagherete tutto»
Intervista a Enrico Fenzi
Interviste a Corrado Alunni e Mario Moretti
X — Un’eruzione sociale: i movimenti del Se antase e -Lo a continua, Potere operaio, Autonomia —
Il processo del 7 aprile e il «teorema» contestato
Interviste ad Aldo Natoli, Luciano Lama ed Emilio Vesce
Intervista a Toni Negri
XI — La tragedia di Aldo Moro: agguato a via Fani — Il «fronte della fermezza»
Intervista a Franco Bonisoli
XII — La tragedia di Aldo Moro: lo a per la vita nel carcere delle Br e la condanna a morte — Il papa in
Laterano: «Signore, tu non hai esaudito la nostra supplica»
Intervista a Mario Moretti
XIII — La tragedia di Aldo Moro: i racconti dei brigatisti. Poteva salvarsi? — L’ultima intervista di
Zaccagnini — Santiapichi: il «mestiere di giudicare»
Interviste a Corrado Alunni, Paola Besuschio, Alfredo Bonavita, Enrico Fenzi, Mario Ferrandi, Alberto Franceschini
Intervista a Benigno Zaccagnini
Intervista a Severino Santiapichi
Intervista a Giulio Andreotti
XIV — La meteora violenta di Prima linea — Una raffica di arresti, abbandoni e pentimenti; poi la resa
Interviste a Enrico Baglioni, Maurizio Costa, Mario Ferrandi, Roberto Rosso, Silveria Russo, Sergio Segio, Claudia Zan
XV — La muraglia è incrinata: il primo pentito — D’Urso, l’ostaggio salvato dal «fronte della trattativa»
Interviste ad Alfredo Bonavita, Enrico Fenzi, Alberto Franceschini, Patrizio Peci, Roberto Rosso
Interviste a Gianni Letta e Giuliano Zincone
XVI — Sulla scacchiera «il nero muove»: l’eversione neofascista — Chi copre i vari scenari del terrore?
— Strage alla stazione di Bologna
Intervista a Torquato Secci
Interviste a Francesca Mambro e Valerio Fioravanti
XVII — Il terrorismo sconfitto — Fine di una rivoluzione senza popolo
Interviste ad Alfredo Bonavita, Alberto Franceschini, Enrico Fenzi e Patrizio Peci
XVIII — Epilogo: dopo l’emergenza — Ciò che tocca allo Stato. E a noi?
Interviste a Enrico Baglioni, Paola Besuschio, Franco Bonisoli, Giulia Borelli, Maurizio Costa, Enrico Fenzi, Mario Ferrandi, Alberto
Franceschini, Enrico Galmozzi, Mario Moretti, Roberto Rosso, Silveria Russo, Sergio Segio, Pierluigi Zuffada
NOTA DELL’AUTORE
BIBLIOGRAFIA
INDICE DEI NOMI
INTRODUZIONE
Nelle pagine che seguono troverete la storia del terrorismo italiano dalla sua nascita alla sua scon a:
la prova più lunga, di cile e cruenta che la società civile e le istituzioni abbiano a rontato in epoca
repubblicana.
Il racconto abbraccia i venti anni, tra il ’69 e l’89, nei quali si decise la sorte stessa dei giorni che
stiamo vivendo. La nostra democrazia — investita da un’ondata di violenza del tu o nuova, per
intensità e durata, nel mondo occidentale — ha rischiato non di perire, ma di pagare la sua
sopravvivenza con la riduzione della libertà, a scapito dei principi su cui si fonda.
esta ricostruzione ha preso forma secondo i metodi del lavoro giornalistico, cioè muovendo dalla
cronaca e autenticandola con le testimonianze di «chi c’era»; il che parrebbe inconciliabile con
quell’idea della storia che la vorrebbe credibile solo quando si è decantata nel tempo. A una storia
appena preceduta dalla cronaca, e non da altre opere di sintesi critica e di analisi dei fatti e delle fonti, si
addebita infa i la mancanza di quel distacco che è considerato come la fondamentale premessa
dell’imparzialità. Ciò non è sempre vero: non mancano esempi illustri di storie che tra ano di eventi
lontani e tu avia sedimentati in modo parziale o tendenzioso; e di altre, al contrario, avvantaggiate dal
fa o che lo storico abbia avuto conoscenza dire a di uomini e cose vivendo quel tempo e respirando,
per così dire, quell’aria.
È il caso, consentite qualche citazione sproporzionata, di Tucidide, il quale dichiara di «avere
vissuto per intero la guerra del Peloponneso»; di Basil Liddell Hart, il grande storico militare, che si
rammaricava di avere a disposizione, per uno studio sulla prima guerra mondiale, solo autobiogra e e
memorie dalle quali apprendeva ciò che gli autori pensavano e sentivano dopo, e non durante, gli
avvenimenti; e che perciò, alla ne del secondo con i o mondiale, si risolse a raccogliere le
testimonianze dei capi militari, vincitori e vinti; di William Shirer per il terzo Reich, e di Arthur
Schlesinger Jr. per i mille giorni di Kennedy, l’uno e l’altro testimoni dei fa i che narrano: come
corrispondente dalla Germania di Hitler, il primo, e quale consigliere del presidente degli Stati Uniti, il
secondo; e, ancora, dell’opera di Paul Ginsborg sull’Italia del dopoguerra, in cui la trattazione dei grandi
temi politici, economici e sociali si vale anche dei ricordi individuali, non di rado di gente comune.
Certo, la vera e grande di coltà della storia fa a a ridosso dei fa i che narra sta nel raccogliere,
ordinare e stendere la materia necessaria; sopra u o quando, come nel caso nostro, dovendo
abbracciare un periodo di circa vent’anni, essa è non solo ingente, ma dispersa in mille rivoli. Se questa
di coltà è stata vinta lo si deve al privilegio avuto da chi scrive di poter contare su una équipe
agguerrita di collaboratori e di consulenti che ha lavorato quasi ininterro amente per due anni, un
impegno del tutto fuori della portata di organismi diversi dal servizio pubblico radiotelevisivo. Un onere
che, ancora in chiave di «servizio», la Nuova Eri a sua volta si assume condividendolo con Mondadori
nella forma di libro che l’inchiesta qui prende.
anto alla ricerca di documenti e immagini, essa è
stata condo a presso i partiti, il sindacato, le associazioni, i privati, le fondazioni, nella teca centrale e in
quelle regionali della Rai.
Alle scoperte, fru o della perizia dei ricercatori, si devono aggiungere alcuni rinvenimenti
fortunati; spezzoni in «supero o» delle manifestazioni di piazza del 1977 erano addiri ura niti sui
banchi del mercato romano di Porta Portese; un « lmino» girato alla stazione di Bologna da un turista
svizzero di ritorno dalle vacanze, che coglie l’improvviso passaggio dalla normalità alla tragica
esplosione, era nascosto in un archivio giudiziario.
Più di mille ore di lmati hanno fornito il tessuto narrativo organizzato per immagini. Una miriade
di particolari ha contribuito a conferire al racconto un ragionevole grado di precisione, tanto da poter
azzardare che ogni frase, vorrei dire ogni parola, trovi riscontro in un documento, magari minimo,
passato al vaglio di una scrupolosa convalida. Nella ricostruzione non c’è niente che sia il prodo o di
illazioni o conge ure, e nella cernita dell’imponente massa di materiali si è cercato di non ome ere
nulla che fosse signi cativo. Il criterio guida si ri à alla celebre de nizione che Leopold von Ranke, un
grande maestro dell’O ocento, diede del compito della Storia: accertare e riferire, «wie es eigentlich
gewesen ist», ciò che realmente è accaduto. De nizione a prima vista ovvia, e persino banale, ma che
in realtà indica un obie ivo di cilmente raggiungibile. Ne fummo subito consapevoli, sin da quando
con Leonardo Valente e Paolo Graldi gettai le basi del progetto, risolvendoci a tentare.
Le vicende degli «anni di piombo» sono dunque narrate non secondo il punto di vista di chi guardi
dall’alto il loro sviluppo, quasi fosse tracciato su una proiezione cartogra ca, ma me endoci, invece,
allo stesso livello di chi li percorse — fossero individui, o gruppi, o la società intera — e scoprendo via
via ciò che si celava al di là dell’orizzonte visibile. Al contrario di quanto raccomandava Cromwell, che
«nessuno va così lontano come chi non sa dove sta andando», ci siamo dati una bussola rigorosa e
obbligante che indirizzasse soltanto verso i fa i, seppure disseminati come tanti atolli in un mare
sterminato.
Proprio per procedere insieme con i protagonisti e i testimoni degli avvenimenti, parte rilevante,
cara eristica e originale della ricostruzione sono i loro racconti, fermati in quarantacinque lunghe
interviste e in centinaia di brevi dichiarazioni. Non sono parentesi, mere illustrazioni del racconto, ma
componenti dell’impianto narrativo, ciascuna con la sua necessità. La stru ura a cui, per qualche
verso, l’ordito generale assomiglia di più è quella della scena antica: il messo che annuncia, i
protagonisti, il coro. Ma la somiglianza si ferma qui. Se la forma non è quella tradizionale della storia
semplicemente narrata, e ha invece un andamento drammatico, non di meno abbiamo cercato di
tenerci ai metodi dell’indagine storiografica, perseguita secondo le regole di tale disciplina.
Avevo sperimentato questa formula in Nascita di una di atura, un ciclo televisivo, poi trasposto in
volume, sulla presa del potere da parte di Benito Mussolini. L’analisi che ne fece allora il più autorevole
storico del fascismo, Renzo De Felice, è appropriata anche per la La no e della Repubblica. «Con tu i i
suoi limiti, ogge ivi e sogge ivi (in primo luogo di doversi muovere su un numero limitato di
testimoni, quelli ancora viventi, non tu i ugualmente rappresentativi ed omogenei tra loro) la formula
dell’intervista dire a ha (oltre a quella giornalistico-spe acolare) questa risorsa: consente allo
spe atore di essere messo a conta o, dire amente, con tu e le tesi in gioco e di confrontare alle fonti i
vari punti di vista.» Se ne ricaverà, sembra dire De Felice, un’idea corre a non solo sui signi cati
complessivi della vicenda, ma anche su come in essa agirono persone e gruppi, protagonisti e
comparse, eventi speci ci e circostanze collaterali, fa i minimi e fondamentali, situazioni singole e
scenari: perme erà cioè di partecipare con una sorta di contestualità alla ricostruzione dei fa i senza
trovarsi nella condizione di dovere soltanto recepire, più o meno passivamente, le conclusioni alle quali
altri è pervenuto. «Né va so ovalutato» aggiunge lo storico «un altro merito della formula ado ata
dall’autore: il ricorso alle interviste consente, da un lato, di ricostruire stati d’animo, motivazioni
politiche, retroscena, che furono alla radice delle vicende di mezzo secolo fa; da un altro lato o re
anche la possibilità di stabilire, almeno in prima approssimazione, l’eventuale ripensamento critico che
di quelle vicende, e delle loro motivazioni d’allora, i protagonisti sono (o non sono) oggi in grado di
fare.»
ando fu realizzato Nascita di una di atura si era alla ne degli anni Sessanta, il fascismo era
ancora circondato da una sorta di nimbo mitologico. Per la prima volta al come e al perché delle sue
origini si tentò di rispondere me endo a confronto le opinioni di fascisti e antifascisti, sindacalisti ed ex
comba enti, squadristi e intelle uali, monarchici e repubblicani, popolari e comunisti, socialisti e
liberali, invitando con quella partecipazione insieme varia, aperta e provocante alla le ura razionale di
un nodo cruciale della nostra storia. «Divulgazione storica ed educazione civile in termini nuovi» la
de nì De Felice «nei termini più producenti e aderenti ad una delle esigenze più sentite dagli uomini e
sopra u o dai giovani d’oggi: essere informati con precisione e compiutezza sugli avvenimenti che
sono alla radice dell’a uale situazione italiana, senza per questo dover necessariamente acce are una
determinata spiegazione di tali avvenimenti, ma ad contrario essere messi nella condizione di farsi su di
essi una propria idea e di darne una propria valutazione. Che è poi l’unico modo di fare una vera opera
di divulgazione storica moderna, spregiudicata e in grado di tradursi in un concreto apporto alla
coscienza civile e politica di un Paese che ha dimostrato e dimostra di meritare ducia nel suo senso di
responsabilità e nella sua autocoscienza democratica, e di essere stanco delle verità rivelate, delle
spiegazioni unilaterali e di parte.»
Lo storico dava un giudizio inedito sulle interviste orali; esse, diceva, «hanno un valore
documentario che travalica di molto i con ni della divulgazione storica e scon na spesso in quello
della documentazione vera e propria: costituiscono cioè delle vere e proprie fonti anche per lo storico
professionale. Da qui la loro importanza e da qui l’opportunità di consegnarle con precisione alle
stampe in maniera di metterle definitivamente a disposizione degli storici attuali e futuri». «Chi scrive»
aggiunge De Felice «non è certo un patito dell’oral history; al contrario, è convinto che le fonti orali
non possano avere che un valore sussidiario rispe o a quelle coeve. Nascita di una di atura prova
però, concretamente, quanto le fonti orali possano contribuire, se opportunamente vagliate e
criticamente tra ate, a chiarire posizioni e vicende particolari. E dimostra l’estrema utilità di insistere
sulla via di raccogliere quante più testimonianze orali è possibile.» Chi sa se nell’auspicio possono
comprendersi le parole di quell’anziana donna ebrea che perse a Dachau tu i i suoi cari — e sfuggì non
si sa come alla camera a gas — la quale ha de o di voler vivere a lungo perché, morto chi vide
l’Olocausto, nessuno potrà più rendere credibile quel crimine immane, neppure il più grande degli
storici o degli scri ori o dei poeti. Un giorno, voleva dire, tu o si perderà nell’a abulazione ideologica,
in qualche mitologia, se non addiri ura nella memoria ingenua dei cantastorie. Saul Bellow scrisse che
«bisogna dimenticarsi di ricordare»: non riesco ad avere questa idea s duciata del ricordo, e anzi mi
conformo a Tullia Zevi quando dice che «bisogna senza tregua testimoniare e trasme ere la
memoria».
La lunga citazione di De Felice mi sembra giusti cata dai molti nessi esistenti fra l’esperienza di
Nascita di una di atura e il tra amento delle fonti orali per La no e della Repubblica. E qui forse va
precisato che, mentre la «storia orale» comprende anche la registrazione del vissuto quotidiano,
generico e acritico di sogge i minori — materiale non di rado grezzo e appena articolato — nel nostro
lavoro l’intervista ha invece lo scopo di me ere a fuoco una personalità con le motivazioni coscienti
del suo agire, con il suo giudicare e giusti carsi in base all’in uenza esercitata non solo dall’ideologia e
dalla storia individuale, ma anche da una serie di contingenze magari fortuite. Sicché, se nella sua
forma compiuta il ciclo aspira ad essere un prisma a più facce che rifrange e moltiplica il raggio della
ricerca, ssando con un grado di credibilità che non sta a noi giudicare un risultato storiogra co di
valore ogge ivo, i colloqui con i terroristi, rivelando sincerità e reticenze, scoprendo dati di certezza e
lasciando aperte zone d’ambiguità, ri e ono, ciascuno in sé, l’immagine in gran parte inedita di una
realtà controversa che soltanto oggi comincia a schiudersi alla comprensione.
Ci ha presto incoraggiato, lo registro al di là d’ogni lusinga, il giudizio di alcuni autorevoli
osservatori, emerso, per così dire, in corso d’opera. Poco oltre la metà del nostro itinerario così scriveva
il sociologo Luigi Manconi su «La Stampa»: «La no e della Repubblica continua a mostrare — nel
corso di straordinarie interviste — la più radicale delle ri essioni autocritiche che un gruppo dirigente
di una qualunque associazione (politica e non) abbia mai fa o».
anto al signi cato complessivo
dell’inchiesta, lo storico Nicola Tranfaglia scriveva: «La storiogra a italiana evita gli argomenti troppo
vicini e si serve di strumenti d’indagine inadeguati. La ricerca documentaria d’archivio non basta più
quando il materiale più interessante è so o segreto di Stato, o istru orio. Bisogna rifarsi ad altre fonti,
quelle memorialistiche, biogra che, anche giornalistiche. Il fa o incredibile è che la televisione ha
indagato sul terrorismo più e meglio di noi». Un altro storico, Silvio Lanaro, ha aggiunto: «Il
giornalismo televisivo ha a sua disposizione strumenti d’indagine agili, e caci, preclusi sia al
giornalismo scritto sia agli stessi storici».
A questo punto, e con particolare riferimento al corpo delle interviste, sento l’obbligo di far
partecipe chi legge di alcuni miei convincimenti maturati in una lunga esperienza. L’intervista orale
nasce evidentemente alla radio, dove si faceva un grande abuso di parole. Bastava che una persona
sollevasse un qualche interesse per intra enerla a lungo, spesso al di là del necessario. Credo di avere
parlato con migliaia di persone senza pormi il problema di farmi dire cose mai de e prima: non
ricercavo, insomma, lo scoop. Mi lusingava invece lo scoprire, talvolta, che mi venivano de e cose di
cui l’interpellato non si credeva capace, e che perciò non aveva ancora de o.
esto a eggiamento
implica che ci si disponga a un’intervista senza idee preconce e, con un questionario non premeditato,
irrigidito da uno schema, ma in un a eggiamento di contestualità, cioè stabilendo un dialogo che vede
le domande nascere dalle risposte appena ricevute. Ciò consente il massimo di naturalezza e di
scoperta, scongiurando il massimo di preordinamento e non di rado di pregiudizio.
Ho una visione libera del mio mestiere, ma penso che al suo interno vi siano norme da rispe are.
Può essere appagante entrare con facilità nel vissuto degli altri, non escludo che ci si possa addiri ura
compiacere di questa a itudine a creare la con denza; bisogna però sorvegliare le regole del «gioco»,
le quali stanno, fondamentalmente, nel rispe o reciproco di chi domanda e di chi risponde. È un
problema di natura etica. In una tesi di laurea dedicata al nostro programma, Lorenza More i analizza,
con gli strumenti della semiotica, proprio l’applicazione di questo «contra o comunicativo» fra il
giornalista e l’interlocutore.
Alcune interviste possono risultare signi cative anche per le risposte che non si o engono. Mi è
capitato più di una volta nella realizzazione di questa inchiesta. Per esempio con Roberto Rosso, leader
di Prima linea, un intelle uale molto lucido, che ha studiato alla Normale di Pisa. Gli dissi: «Lei è fra
quelli che decisero di uccidere William Vaccher e scrisse il volantino che rivendicava il delitto. Vaccher
era solo sospe ato di delazione. Nel volantino lei parla di solidarietà. Era solidarietà giudicare e poi
uccidere un compagno senza avere le prove della sua colpevolezza?». Rosso non riuscì a rispondere.
Lo avevo portato in una zona in cui era molto debole, dove stentava a organizzare, d’acchito, una
difesa. Allora cominciò a guardarmi: in una maniera prima a onita, poi sempre più intesa a dirmi che a
quella domanda non poteva rispondere, che quanto gli contestavo era diventata la disperazione della
sua vita.
el silenzio, quello sguardo, quel tremore sulle labbra diventarono insopportabili anche per
me che lo intervistavo, oltre che per lui. Mi sembrò, allora, di non dovere pro are di una situazione
che pure aveva raggiunto una sua, sebbene dolente, spettacolarità.
Per toglierlo dallo sgomento in cui era caduto, e dal quale non sapeva risalire, gli dissi: «Vuole che
l’aiuti?», e la risposta non furono le parole, fu quello sguardo ducioso e quel «sì» appena percepibile.
Allora improvvisai un supplemento di domanda e lui poté uscire dall’ingorgo non solo psicologico in
cui era finito. È stato un momento di forte comunicazione tra due persone.
Anche nell’intervista a Bonisoli, alla richiesta di descrivere il suo ruolo nell’uccisione della scorta di
Moro, ci fu una risposta silenziosa, cioè uno sguardo d’impotenza, di resa e insieme di ri uto. Poi, la
successione di altre domande: «Lei ha sparato, quel giorno?
anti colpi?». «Non ricordo, un
caricatore.» «Su chi?» E qui, per così dire, il cortocircuito. La domanda è perentoria, e ha l’aria di
chiedere: «Glielo devo proprio dire, magari precisando il numero dei morti?». Allora allunga una mano
verso la telecamera e chiede: «Ci possiamo fermare?». Io rispondo: «Sì, certo ». Il video si oscura e
nessuno saprà mai quanto è durata quella pausa. Nel montaggio, un a imo; in questo libro, tre puntini
di sospensione. Poi l’intervista ricomincia, e ormai ha preso un’altra piega. Ma per quello che è appena
accaduto risulterà qualcosa di più, o di diverso.
Credo che Adorno avesse ragione quando si pronunciava contro l’estetizzazione della
testimonianza, giudicandola un modo di trasferire i contenuti dentro la cornice dell’e e o, anziché del
giudizio. D’altronde, nessuna delle interviste de La no e della Repubblica prende mai toni di teatralità,
ciascuno sta nel suo ruolo, resta dalla propria parte. L’incontro è nella rinuncia alla sopra azione, per
un verso, e alla doppiezza, per un altro.
La reazione del pubblico, quando le interviste andarono in onda, si rivelò in prevalenza non diversa
dal convincimento che io e il gruppo dei colleghi che avevano lavorato con me per due anni ce
n’eravamo fa o al termine del programma: che quel mondo, cioè, era tu ’altro che lunare; anzi, era
terribilmente nostro. Tanto da far cadere molti pregiudizi sulle qualità «ancora umane» dei suoi
protagonisti, per usare un’espressione lombrosiana che nasce dal ri uto di riconoscere una seppur
minima «umanità» a una guerriglia dai cara eri così cupi, devastanti e impietosi. Ma altri, in primo
luogo alcuni tra i parenti delle vi ime, si sentirono o esi proprio dell fa o che si era incrinato il cliché
corrente, costruito intorno all’inflessibilità dello sdegno, della ripulsa e della condanna.
Nello stesso tempo si ripresentò la questione, inseparabile da ogni storia, degli e e i del messaggio
complessivo. Arnaldo Giuliani, che fu inviato del «Corriere della Sera» negli anni del terrorismo, al
termine di una penetrante ri essione su quel periodo (fa parte di un prezioso volume dal titolo
L’eskimo in redazione —
ando le Brigate rosse erano sedicenti, di Michele Brambilla) scrive: « ello
che mi ha colpito ne La no e della Repubblica non è stato tanto il riascoltare le loso e, anche se a
volte rivedute e corre e, di certi terroristi. È stato quel presentare l’uccisione di coloro che avevano
ele o a nemici come un’operazione estraniata da qualsiasi umanità, quel valutare le vi ime non come
uomini, ma come simboli e quindi come sagome da bersaglio. Mi sono domandato che reazioni
possono avere suscitato More i e Franceschini in un giovane di oggi, se mai un giovane di oggi abbia
seguito la trasmissione. Ma quello che mi ha turbato di più è quando ho sentito Giusva Fioravanti e
Francesca Mambro. Nella loro spiegazione dei deli i commessi c’era lo stesso buio distacco dai valori
della vita; ma è stato quando hanno risposto su quello che era il loro privato durante la clandestinità
che hanno dato la misura delle loro anime morte. Parlavano d’amore e andavano a uccidere. Un
particolare che, ai tempi, non è mai emerso in alcuna delle nostre cronache...».
Rispondo alla domanda di Arnaldo Giuliani dandogli a o, innanzi tu o, che quando me e in risalto
le ambiguità, le incertezze, le reticenze dei mezzi di informazione rispe o al terrorismo, no al
rapimento e all’assassinio di Moro, contribuisce a ristabilire una grave verità su quel periodo; ma
aggiungo che tra gli ascoltatori de La notte della Repubblica gran parte erano proprio giovani; e giovani
sono, ovviamente, quanti oggi ne fanno ogge o di studio e che vorrebbero avere a disposizione il
programma, se non in videocasse a, in volume. A centinaia, scuole di vario ordine e grado, università,
anche straniere, centri di ricerca, fondazioni, sindacati, partiti, ne hanno fa o richiesta. Molti, giovani e
non giovani, sono stati turbati da ciò che ha colpito Giuliani, e l’hanno visto come la prova irrefutabile
che non ci si può consegnare ad dominio dell’ideologia, di qualunque ideologia, senza rinunciare a
essere interamente persone. Il tragico costo di sangue che ha accompagnato la militanza eversiva è un
rendiconto duro e straziante sopra u o per chi ha vissuto, anche intelle ualmente, quella rivoluzione
senza popolo, impersonando una contraddizione atroce e alienante fra la ricerca della palingenesi
sociale e i mezzi usati per raggiungerla; e ciò emergerà con augurabile chiarezza dalla le ura di queste
pagine.
Non credo che si possano addebitare a La no e della Repubblica tesi di comodo, né costruzioni
suggestive, né idee pregiudiziali; che dalla serie di interviste ai terroristi si possa trarre la sensazione, e
meno ancora il sospe o, di un approccio animoso e restìo, indulgente o provocatorio; Paolo Graldi, che
mi ha particolarmente assistito in questa fase della lavorazione, può testimoniarlo. Eppure, c’è da parte
mia qualcosa di non de o che forse va addebitato alla rilu ante natura del pudore e della discrezione,
alla paura di coinvolgere sentimenti e diri i, propri e altrui, in un contesto da valutare, invece,
ogge ivamente. È quanto vorrei, adesso, testimoniare: l’approdo, nel giudizio dei terroristi sulla loro
esperienza, alla «cognizione del dolore», per dirla con le parole di Carlo Emilio Gadda. Del dolore, in
qualche caso, prima ancora che della disfatta.
Si poteva certamente cogliere, in ciascuno di essi, un grado diverso di consapevolezza e di
coerenza, di pentimento e di dissociazione, ma nessuno mi ha lasciato l’idea di non sapere che, per dare
credibilità alla sua storia, occorreva innanzitu o dichiararla scon a non solo politicamente, ma anche
so o il pro lo morale. Nessuno — venisse sopra a o dall’emozione o restasse a ciglio asciu o,
amme esse senza riserve o con qualche reticenza, rivendicasse ragioni per farsene scudo o non
trovasse più nulla con cui accreditare il fru o della cecità — ha preteso di ritornare sui suoi passi senza
pagare lo scotto della sofferenza, cioè senza un’autentica, ritrovata coscienza dell’errore.
Del resto, era ciò che si doveva a una possibile rile ura della tragedia in nome dello sdegno e della
giustizia, della cronaca e della storia. Non tu o, di quanto n qui si è de o sull’argomento, ha invece
giovato a un auspicabile epilogo. Tempo fa, sul destino dei terroristi che stanno consumando in carcere
le rispe ive condanne, nacque un concitato diba ito politico e giornalistico che non ha certo favorito
la comprensione del problema. Anzi, si è addiri ura creduto che qualcuno volesse chiudere il libro
della più sconvolgente vicenda di questi ultimi anni con una sorta di esorcismo giuridico capace di
esprimere, di per sé, equità e perdono, conciliando l’esigenza di ricordare con il desiderio di
dimenticare.
ella concitazione, pur animata da buoni propositi, non poté evitare che generiche
ipotesi di indulto (non vuol dire amnistia, il cui signi cato etimologico è «dimenticanza») provocassero
obiezioni più o meno fondate, suscitando il comprensibile ri uto dei familiari delle vi ime, sentitisi
come spogliati di ogni ruolo, a cominciare proprio da quello morale; e non si poteva eludere l’accorata
protesta dei più bisognosi di giustizia. Ma di fronte alla scon a del terrorismo sarebbe poco razionale
non sancire — nel modo più e cace, cioè applicando il massimo di normalità giuridica — che lo Stato,
con il suo popolo e le sue istituzioni, ha prevalso. esto è il solo bilancio politico che ne emergerebbe,
l’opposto dei cosidde i «riconoscimenti» che i negatori di possibili revisioni processuali temono di
dovere concedere. Una legge la quale non indiscriminatamente aggiornasse talune norme che hanno
disegnato una «eccezionale» dimensione della pena, svincolandosi dal «contesto emergenziale degli
anni di piombo», dimostrerebbe essa stessa, solennemente, che lo Stato non solo ha vinto, ma è capace
di onorare il suo primato come meglio, anche giuridicamente, non si potrebbe. D’altronde, un Paese
che ha prodo o una tale tragedia non può uscirne a dandone la ne solo a una burocratica, distante
espiazione carceraria, come se tu o appartenesse a qualcosa di ormai estraneo alla nostra comunità e
alla nostra coscienza.
Così, fa o salvo il doveroso e pregiudiziale rispe o di chi più ha pagato, cioè con la partecipazione
morale dei familiari delle vi ime (peraltro mai del tu o risarcibili, in ogni senso) a una soluzione
eticamente compatibile con la qualità politica, sociale e giuridica del problema, si uscirebbe dalla Notte
della Repubblica in nome non più soltanto della cronaca, ma anche della Storia.
I
PROLOGO: ITALIA ANNI SESSANTA
UNA SOCIETÀ DIVISA E INQUIETA
RUMORE DI SCIABOLE: IL «PIANO SOLO»
Ore 18 del 1° settembre 1960. Dall’Olimpico giungono, in diretta, le parole del telecronista Paolo Rosi:
Partenza valida! Berruti è sca ato
è già in vantaggio
sta per completare i primi cento metri
è ne amente in testa
stupenda l’azione di Berruti che ora viene incalzato da Carney... Berruti riesce a conservare il vantaggio... è medaglia d’oro...
Il 25 agosto Giulio Andreo i aveva inaugurato, a Roma, i giochi della 17 a Olimpiade. Con una
spe acolare manifestazione, anche di e cienza, Roma si o riva al giudizio del mondo. Il successo,
grazie alla televisione, avrà una risonanza internazionale.
L’Italia è appena uscita da uno dei periodi più concitati della sua giovane storia repubblicana. Il
clima economico e sociale, per molti versi positivo, è fru o della più grande trasformazione che la
nostra società abbia mai conosciuto. Gli aiuti imponenti degli Alleati a raverso il cosidde o Piano
Marshall e la liberalizzazione degli scambi, ma sopra u o la partecipazione di un popolo deciso a rifare
il proprio Paese, sono alla base di una rinascita dai grandi successi e dai forti costi.
L’uomo politico che guida i governi della ricostruzione è Alcide De Gasperi. Alla coalizione formata
da democristiani, repubblicani e liberali dà il suo appoggio anche il Partito socialdemocratico di
Giuseppe Saragat, nato nel 1947 con la scissione dai socialisti. Sono i tempi della politica economica di
Luigi Einaudi, di quella energetica di Enrico Ma ei, di quella imprenditoriale di Vi orio Valle a e di
quella sindacale di Di Vi orio, Santi e Pastore. Sono anche i tempi della riforma agraria, dell’impulso
seppure non sempre organico e non di rado ine cace della Cassa per il Mezzogiorno, della
cantieristica e della siderurgia, del programma autostradale e della motorizzazione.
Così, una società prevalentemente agricola, e in parte so osviluppata, a ronta un complesso,
veloce e spesso contraddi orio sviluppo i cui risultati con gurano quello che, con una punta di enfasi,
viene chiamato «il miracolo economico».
Il Paese, esauritasi la cultura contadina in cui era germinato il fascismo e cresciuta la generazione
della seconda guerra mondiale, esce dal disastro con una moderna vocazione industriale. L’aumento
della produ ività e l’accresciuto potere di acquisto di una parte cospicua di ci adini favoriscono
l’espandersi dei consumi. Una congerie di cose no a ieri estranee alla dimessa economia familiare
entra in un gran numero di case. L’ogge o-simbolo di questa trasformazione è l’ele rodomestico, che
porta con sé abitudini di vita diverse, dall’alimentazione al tempo libero. Ma il mutamento non riesce a
coinvolgere la società intera. Le stru ure dello Stato non sono in grado di tenere il passo di un
cambiamento così tumultuoso. La necessità e la richiesta di beni stabili e di rilevanza sociale, come
un’abitazione per tu i, l’adeguamento e lo sviluppo dell’edilizia scolastica, dei servizi medico-sanitari e
dei trasporti pubblici, restano in larga misura insoddisfa e.
estioni irrisolte che faranno sentire, a
breve scadenza, i loro effetti.
Non è la sola contraddizione. Mentre le ci à del cosidde o triangolo industriale crescono a vista
d’occhio, raggiungendo quote di benessere sconosciuto al nostro Paese, dalle zone più povere del Sud
almeno un milione e mezzo di persone emigra nelle aree dello sviluppo. Un esodo così massiccio è il
segnale dell’assenza di una politica di programmazione nazionale capace di scongiurare squilibri
economici, sperequazioni sociali, disuguaglianze culturali. A pagare sono le fasce più deboli della
comunità.
La rinascita del Paese genera dunque, per paradosso, una nuova categoria di poveri i quali, presa
coscienza dell’emarginazione, esprimono la loro protesta in forme sempre più dure.
A orno a loro si mobilita la solidarietà non soltanto di partiti e organizzazioni sindacali, ma anche
di intelle uali, studenti, disoccupati. Gli esclusi dal cambiamento, che si addensano sopra u o nel
Meridione, sono presenti in tu o il Paese, la cui crescita non omogenea accentua la distanza fra due
diverse comunità.
Un grandioso, concitato e disorganico scenario economico-sociale fa così da sfondo all’Italia fra gli
anni Cinquanta e Sessanta. Accanto a legi ime forme di protesta si fanno strada revanscismi mai
sopiti, pronti a sfruttare una realtà che offre non pochi pretesti allo scontento.
Il quadro politico rispecchia questo clima di incertezza. La crisi della formula centrista inaugurata
da Alcide De Gasperi induce il capo dello Stato, Giovanni Gronchi, a giocare la carta di un governo
cosidde o del «presidente». L’incarico va al democristiano Fernando Tambroni.
esti, sebbene abbia
fa o parte della sinistra Dc, nisce con il dar vita a un esecutivo che conta sull’appoggio esterno della
destra missina.
Esterno, non gratuito. E la prima cambiale politica in scadenza è la richiesta di tenere il VI
Congresso del Movimento sociale a Genova, ci à dalle forti tradizioni antifasciste e resistenziali. Il 30
giugno 1960 centomila genovesi scendono in piazza per manifestare la loro protesta. È in pericolo
l’ordine pubblico: alla ne il prefe o decide di impedire il congresso e i delegati missini lasciano il
capoluogo ligure. Genova ha vinto.
Agitazioni anche in altre ci à: il 7 luglio, a Reggio Emilia, prende vita una grande e qua e là
tumultuosa manifestazione. La polizia interviene. Gli scontri si fanno durissimi: cinque dimostranti
restano uccisi. Incidenti anche a Palermo, con quattro morti, una vittima a Catania e un’altra a Licata.
Le forze dell’ordine sono chiamate a un confronto non solo impopolare, ma spesso cruento. I loro
interventi provocano un’aspra eco in Parlamento, dove maggioranza e opposizione danno luogo a
battaglie memorabili.
A questi anni resta legato il ruolo svolto dalla Celere, un reparto della polizia particolarmente
addestrato a fronteggiare dimostrazioni e a reprimere moti di piazza. Mario Scelba, ministro dell’Interno
negli anni più difficili della giovane Repubblica, l’aveva definito così:
Una specie di cavalleria motorizzata della polizia. Opera proprio come la cavalleria: pochi agenti sulle jeep che, lanciate alla
massima velocità, possono muoversi agilmente anche salendo sui marciapiedi, entrando so o le gallerie e persino dentro i
portoni...
Il governo viene travolto non solo dalle durissime reazioni ai tragici avvenimenti, sopra u o di
Reggio Emilia, ma anche dalle nuove prospe ive politiche che emergono nei partiti. Il clima,
d’altronde, si era fa o così teso che la stessa Dc, all’interno della quale vi sono forze che chiedono una
politica nuova, aveva invitato Tambroni a dime ersi. Il leader socialista Pietro Nenni, che ha ripreso il
suo cammino verso l’area governativa iniziato subito dopo l’intervento sovietico in Ungheria del 1956,
dichiara:
Si fa un grande parlare di nuovo corso politico, di centrosinistra, del fa o nuovo dell’appoggio socialista a un governo di
centrosinistra. C’è chi loda, chi critica, chi biasima. La svolta è stata reclamata e portata innanzi dalle masse dei lavoratori e
dall’opinione pubblica democratica, da dieci anni mobilitate nella lo a per una politica sociale che comporti dei sostanziali
cambiamenti nelle strutture e nel potere.
L’apertura a sinistra richiederà due anni. Ne freneranno il proge o l’opposizione, seppure non
frontale, del Partito comunista, ma anche le resistenze insorte in alcuni se ori moderati della Dc, perno
politico di ogni possibile alleanza, e varie componenti conservatrici del sistema economico, cui la
stampa più in uente presta aiuto. In seno allo stesso Partito socialista, seppure per ragioni inverse,
nascono obiezioni e si chiedono garanzie.
Dopo un primo esperimento di governo, de o delle «convergenze parallele» — con questa
espressione si volle dare l’idea di un avvicinamento, senza impegno, fra democristiani e socialisti —
l’operazione va in porto nel 1962, quando il congresso di Napoli della Democrazia cristiana dà al
segretario Aldo Moro il via libera per la svolta.
Il primo governo di centrosinistra è visto dalla bonaria «Domenica del Corriere» come un’auto
guidata da Fanfani, presidente del Consiglio, con a bordo Pietro Nenni, Giuseppe Saragat e Oronzo
Reale. Aldo Moro, in divisa da vigile urbano, invita a svoltare a sinistra.
Amintore Fanfani, riferendosi a resistenze e a dubbi, afferma:
Ma non possono essere di coltà virilmente previste a fare scartare un’operazione che dopo avere esperito tu i i sondaggi
opportuni, quando saranno esperiti, dovesse essere reputata utile al Paese e alla democrazia.
La nuova formula politica troverà compimento soltanto l’anno successivo, col varo del primo
centrosinistra cosidde o «organico», vale a dire con i socialisti dire amente inseriti nella compagine
ministeriale. Il governo è guidato da Aldo Moro, con Pietro Nenni alla vicepresidenza. Moro, nel
chiedere la fiducia delle Camere, dice:
È la libertà che sopra u o dobbiamo e vogliamo garantire, in una collaborazione politica che vuole essenzialmente salvare
la giustizia per riempirla, in ogni uomo, di tutto il suo naturale contenuto di dignità, di benessere, di diritto e di potere.
L’indomani l’«Avanti!» titola a tu a pagina: «Da oggi ognuno è più libero». È il tempo, per molti
versi privilegiato, di Giovanni XXIII, di Kennedy e di Kruscev. Il mondo sta sperimentando l’uscita
dalla guerra fredda e l’ingresso, così si spera, in una dimensione più universale dei problemi della
gente.
In Italia, il quadro politico ri e e il clima del momento. Il centrosinistra, d’altronde, è nato fra
l’ostilità di una parte consistente della destra economica e la di denza del Dipartimento di Stato
americano, preoccupato, con il vertice dell’Alleanza atlantica, della possibilità di un indebolimento
politico del fronte Sud; di cui l’Italia, si dice, è il «ventre molle».
La nuova formula di governo appare, in determinati ambienti, l’inizio di una rapida evoluzione
verso sinistra che va in qualche modo fermata. Nenni osserva:
Ciò che la destra vuole non è un mistero per nessuno. Il suo intento è di ricreare una situazione analoga a quella dell’estate
1960, con l’estrema destra arbitra del governo e il Paese al limite della guerra civile.
Per ragioni opposte, anche i comunisti e persino la sinistra socialista, uscita dal Psi pochi mesi
prima per dare vita al Psiup, avevano accolto il primo «centrosinistra organico» con reazioni negative,
giudicando moderato il suo programma politico. Togliatti aveva detto:
Bisogna oggi andare più in là, occorre una vera svolta a sinistra; è tu a la stru ura della nostra società civile che oggi è in
crisi: sono acuti i problemi della casa, della scuola, dello sviluppo delle ci à, del sistema sanitario, della sicurezza sociale,
delle pensioni, della stessa vita domestica, dal momento in cui centinaia di migliaia di donne sono nalmente entrate nella
produzione.
Moro si trova così a governare so o una specie di fuoco incrociato. Il chiarimento si ha quando
l’esaurirsi del boom economico fa parlare dapprima di congiuntura, poi di recessione, quindi di crisi
vera e propria.
Il primo «centrosinistra organico» cade nel giugno del 1964 per contrasti fra Dc e Psi sul modo di
a rontare, appunto, congiuntura, recessione e crisi. L’ultimo scontro nasce dalla bocciatura alle
Camere del nanziamento statale alla scuola privata. Il presidente della Repubblica, Antonio Segni,
a da ancora l’incarico a Moro, ma il progressivo sfumarsi del programma originario urta, all’interno
della coalizione, con la resistenza dei socialisti. È il 14 luglio, le tra ative per la formazione del nuovo
governo vengono interro e. Segni decide di ricevere al
irinale il presidente del Senato Cesare
Merzagora per sondare la possibilità di dare vita a un gabine o «tecnico», senza i socialisti. Con prassi
inconsueta il presidente ascolta anche il comandante dell’Arma dei carabinieri, il generale Giovanni De
Lorenzo. Il colloquio, sulle prime, solleva più meraviglia che critiche, più curiosità che inquietudine.
GIOVANNI DE LORENZO, 57 anni, è nato a Vizzini, in provincia di Catania. Ha partecipato alla seconda guerra mondiale
come u ciale d’artiglieria e dopo l’8 se embre ha preso parte alla guerra partigiana. Ciò gli procurerà le simpatie anche
degli ambienti di sinistra. È decorato di medaglia d’argento.
Il 27 dicembre 1955 viene nominato capo del Sifar (Servizio informazioni forze armate). Lo guiderà per sei anni, dieci mesi e
quindici giorni, il più lungo periodo di permanenza di una stessa persona al vertice dei Servizi segreti nella storia
repubblicana.
È proprio in questo periodo che si addenseranno molte ombre. Sono gli anni in cui gli uomini del Sifar conducono una
massiccia schedatura raccogliendo 157.000 fascicoli informativi su deputati, senatori, dirigenti di partito, sindacalisti,
intellettuali, professionisti, industriali e persino su 4500 fra sacerdoti e «cattolici impegnati».
Il 2 febbraio 1961 De Lorenzo è promosso generale di Corpo d’Armata. La nomina è possibile grazie ad una legge speciale
approvata per l’occasione che lo esonera dall’obbligo di esercitare, sia pure per breve tempo, un comando operativo prima
di assumere il nuovo grado. La carica di generale di Corpo d’Armata è incompatibile con quella di capo del Sifar, ma una
serie di tempestivi rinvii consentirà a De Lorenzo di ricoprire entrambi i ruoli no all’anno successivo, quando si libererà,
grazie a un pensionamento anticipato, il posto cui De Lorenzo aspira: quello di comandante dell’Arma dei carabinieri.
Con una mossa a sorpresa, contro ogni aspe ativa, i socialisti acce ano il programma di
coadizione. È tu o più chiaro pochi giorni dopo, quando sull’«Avanti!» Nenni o re una spiegazione
destinata a produrre sorpresa e allarme. L’alternativa, scrive Nenni, era «un governo delle destre con
un contenuto fascistico, agrario e industriale» nei cui confronti il ricordo del luglio 1960 sarebbe
impallidito.
Cos’era successo? Una Commissione parlamentare d’inchiesta così sintetizza i fatti:
Nella primavera-estate del 1964 il generale De Lorenzo, quale comandante dell’Arma dei carabinieri, al di fuori di ordini o
dire ive o semplici sollecitazioni provenienti dall’autorità politica, e senza nemmeno darne notizia, ideò e promosse
l’elaborazione di piani straordinari da parte delle tre divisioni dell’Arma operanti nel territorio nazionale. Tu o ciò nella
previsione che l’impossibilità di costituire un governo di centrosinistra avrebbe portato a un brusco mutamento
dell’indirizzo politico, tale da creare gravi tensioni fino a determinare una situazione d’emergenza.
È il cosidde o «Piano Solo». Prende nome dall’ipotesi di utilizzare solo unità di carabinieri per
a rontare possibili emergenze. Il piano prevede un insieme di iniziative tra cui l’occupazione della RaiTv, il controllo delle centrali telefoniche e telegra che, il fermo di numerosi esponenti della vita
nazionale. Bruno Trentin ricorda:
Che ci sia stato un clima di forte tensione e anche di allarme, non solo nei partiti della sinistra, ma anche nel movimento
sindacale, è indubbio. Come è vero che vi sono stati giorni in cui i dirigenti sindacali erano, almeno nella Cgil, in situazione
di preallarme e avevano provveduto in alcuni casi a trovare delle seconde abitazioni. Che siano state utilizzate, francamente
non ne ho conoscenza, a parte qualche caso sporadico.
Lo scandalo del «Piano Solo» scoppierà un paio d’anni più tardi e si concluderà con la sostituzione
di De Lorenzo nell’incarico di capo di stato maggiore dell’esercito, dopo che il generale avrà ri utato la
proposta del ministro della Difesa, Tremelloni, di dimettersi.
La polemica tornerà a divampare in seguito a una querela per di amazione aggravata contro il
se imanale «L’Espresso», dire o da Eugenio Scalfari, «reo» di avere pubblicato un articolo di Lino
Jannuzzi dal titolo «Finalmente la verità sul Sifar. 14 luglio 1964: complo o al
irinale. Segni e De
Lorenzo preparano un colpo di Stato». Racconta Lino Jannuzzi:
Il governo e lo stesso presidente della Repubblica smentirono le nostre rivelazioni. Il generale De Lorenzo ci querelò e il
tribunale, a cui il governo aveva ri utato i documenti con la scusa del segreto militare, ci condannò. Ma intanto il
Parlamento aveva deciso di fare su tu a la questione un’inchiesta parlamentare. Per la prima volta nella storia d’Italia il
Parlamento poté me ere il naso nelle cose segrete del mondo militare.
esta commissione, sia pure sfumando o
censurando alcune cose, accertò che i fatti erano veri.
Subito dopo la vicenda De Lorenzo, il presidente Segni è colpito da trombosi e si dime e. Muore a
Yalta il leader comunista Palmiro Toglia i. A Segni succede Giuseppe Saragat, ele o anche con i voti
dei comunisti dopo un lungo scontro all’interno dei partiti della maggioranza. È, in un certo senso, una
vittoria della sinistra: il tentativo di portare a destra il Paese è fallito.
Il Sifar cessa formalmente di esistere nel novembre del 1965, non senza aver prima contribuito a
nanziare un convegno su «La guerra rivoluzionaria» che si tiene a Roma, all’hotel Parco dei Principi,
dal 3 al 5 maggio, singolare per la partecipazione, accanto a generali e a colonnelli, di numerosi
esponenti della destra extraparlamentare tra i quali Stefano Delle Chiaie e Mario Merlino.
Al dispiegarsi della strategia dell’eversione di destra non rimangono estranei neppure i servizi
segreti internazionali, cominciando da quelli americani, i più a enti al ruolo che in Occidente svolge il
nostro Paese. Victor Marchetti, ex agente della Cia, racconta:
Allora avevamo stre i conta i con il Sid, lo appoggiavamo, gli fornivamo a rezzature e addestravamo il suo personale. Gli
uomini del Sid venivano in America per perfezionare il loro addestramento. Fornivamo loro direttive per agire in Italia. Non
ricordo esa amente la misura dei nanziamenti, so che si tra ò di milioni di dollari. Per la Cia, la norma è di farsi degli
amici nelle organizzazioni che fanno capo ai Servizi segreti e di penetrarvi capillarmente.
Il Sid: è il nuovo Servizio informazioni della Difesa nato il 18 novembre del 1965. Il nome è nuovo,
ma stru ure e strategia restano quelle di prima. Lo si vedrà nel corso delle successive inchieste sul
Sifar, quando il nuovo capo dei Servizi segreti, l’ammiraglio Eugenio Henke, o errà dal governo
l’autorizzazione a opporre il segreto di Stato. Torna una parola che provocherà negli anni continue
polemiche: omissis. Saranno proprio gli omissis a vani care il lavoro di chi cercherà di far luce su
alcune tra le vicende più cupe della nostra storia contemporanea.
C’è poi il mito della cosidde a «nazione tradita», cui va aggiunto il malinteso patrio ismo di alcuni
militari, come traspare da questo emblematico sfogo dell’ammiraglio Gino Birindelli, nella cui breve
carriera politica figurerà anche una presidenza dell’Msi-Destra nazionale:
Io dico che le forze politiche hanno violato un pa o fondamentale, hanno ingannato i militari che vogliono servire la
nazione con un’idea di Patria. Questi sarebbero i ribelli? Ma si ribellano perché voi, forze politiche, avete violato il patto!
Dopo il 1964 la crisi del riformismo europeo, oltre a me ere in di coltà l’esperimento di
centrosinistra, provoca in alcuni gruppi estremisti di destra il ritorno di un vecchio revanscismo:
l’aspirazione allo Stato forte, il disprezzo per quello che viene de nito un parlamentarismo parolaio e
imbelle, l’anticomunismo elevato a categoria ideale, la violenza come mito. Da questa matrice
ideologica, politica e culturale, si irradia un ventaglio di formazioni e comportamenti.
ORDINE NUOVO: fondato nel 1953 da Pino Rauti e Clemente Graziani, si rifa all’ideologia nazionalsocialista, in forte
polemica con quella che viene de nita la moderazione del neofascismo u ciale. Nel 1969 Ordine nuovo si scinde. Il gruppo
più moderato, che fa capo a Rauti, confluisce nel Movimento sociale italiano.
AVANGUARDIA NAZIONALE: fondata nel 1960 da Stefano Delle Chiaie, ha per simbolo la «runa» celtica. La sua «cultura»,
infa i, si radica in quella dell’arianesimo e della razza ele a. Anche Avanguardia nazionale accusa il Movimento sociale di
essere sceso a patti con la democrazia moribonda.
EUROPA CIVILTÀ: sorge nel 1967 sulle ceneri del movimento integralista legato ad ambienti della destra ca olica. Leader
del gruppo è Loris Facchine i. Il gruppo guarda all’Europa come terza forza fra Stati Uniti e Unione Sovietica. L’a ività
prevalente è l’organizzazione di campi paramilitari.
SAM (Squadre di azione Mussolini) e MAR (Movimento armato rivoluzionario). La prima formazione nasce a Milano subito
dopo la ne della guerra; la seconda, fondata nel 1969 da Carlo Fumagalli, opera nel Veneto, in Toscana e nel Lazio:
qualche bomba, diversi attentati incendiari.
GRUPPO AR: si rifa all’ideologia neonazista. Creato a Padova da Franco Freda, nel 1955, opera anche come piccola casa
editrice. Si ispira alle idee di Ordine nuovo.
LOTTA DI POPOLO, LOTTA STUDENTESCA, COMUNITÀ ORGANICHE DI POPOLO, COSTRUIAMO L’AZIONE, TERZA
POSIZIONE: sono organizzazioni sorte per germinazione dal lone spontaneista di Ordine nuovo e grazie a con uenze da
Avanguardia nazionale.
FRONTE NAZIONALE: fondato da Junio Valerio Borghese nel 1968 è costituito, inizialmente, da ex u ciali della X Mas e da
altri reduci della Repubblica sociale. Il movimento ha una stru ura nazionale con duciari in tu e le regioni. Tra i punti
programmatici del fronte è l’esclusione dei partiti da ogni partecipazione al governo.
Nel 1974, dopo alcune riunioni costituenti, uomini di Avanguardia nazionale e Ordine nuovo danno
vita al gruppo clandestino ORDINE NERO, immaginato e gestito come una stru ura paramilitare.
Microgalassia eversiva, è formata da una miriade di sigle che dal 1976 spuntano qua e là sopra u o a
Roma, ma anche nel Veneto, in Lombardia, in Campania e in Liguria, rivendicando a entati
dinamitardi, incendi, omicidi e rapine. Le organizzazioni più importanti sono il FAR, Fronte armato
rivoluzionario; l’MPR, Movimento popolare rivoluzionario; i GOAD, Gruppi organizzati per l’azione
diretta; l’UP, Unità di popolo; e infine i NAR, Nuclei armati rivoluzionari.
Lo scenario internazionale registra un evento che incoraggia l’estremismo di destra: il 21 aprile del
1967 i «colonnelli» greci prendono il potere. Il golpe è accolto con esultanza nel mondo dell’eversione
nera. «Viva i centurioni di Atene», si legge sul periodico di Ordine nuovo «Noi Europa», e ancora:
«Anche in Grecia si lo a per un ordine nuovo». Nel Mediterraneo l’Italia è come circondata dal regime
di Salazar in Portogallo, da quello di Franco in Spagna, dai militari in Grecia. Si fa strada la paura di un
possibile golpe anche nel nostro Paese.
È un momento cruciale. In una le era aperta all’«Espresso» Giangiacomo Feltrinelli teorizza la ne
della giovane democrazia italiana, «incapace — così si esprime — di reagire alla svolta che le destre
reazionarie le vogliono imporre».
A Roma l’università vive i prodromi dello scontro frontale. Nell’aprile del 1966 la morte di uno
studente di sinistra, Paolo Rossi, avvenuta in circostanze la cui dinamica non è stata mai del tu o
chiarita, provoca la prima occupazione di un ateneo. È l’annuncio di quello che diventerà il Movimento
studentesco.
Sei mesi dopo, un drammatico evento naturale, l’alluvione di Firenze, prende per sé l’a enzione
solidale delle nuove generazioni. La storia di come da tu o il mondo i giovani furono i primi a
rispondere all’appello per salvare la ci à, i suoi tesori, le sue a ività sociali, è nota. Ecco come ne parla
Tv7 di quella settimana:
Ieri no e, a partire da San Miniato, per Santa Croce no al Ponte alle Grazie, gli angeli del fango (così vengono chiamati)
hanno rischiarato per un’ora le vie di Firenze. Molti erano stranieri, ma ce n’erano di ogni parte d’Italia. Cantavano gli inni
di un’altra marcia della pace perché, in fondo, l’idea era quella: testimoniare la solidarietà e la fratellanza, tenerne acceso il
proposito. Poi getteranno le fiaccole in Arno per dire che, qui, la loro parte è finita.
Presto questi ragazzi diventeranno, essi stessi, una umana; un movimento giovanile di
contestazione che ha già fa o la sua comparsa negli Stati Uniti, in Germania, in Francia, e che la storia
chiamerà semplicemente «il Sessanto o», sta per raggiungere l’Italia. La voce dei giovani, dappertu o,
crescerà di tono. «Defraudati del futuro» dai loro padri, vorranno disegnarlo e farselo da soli.
II
LA SCALATA AL CIELO:
CONTESTAZIONE GIOVANILE E PROTESTA OPERAIA
IL CENTROSINISTRA IN CRISI
Berkeley, 1964. Nell’università californiana, che per i suoi aspe i elitari più avanzati è uno dei simboli
della società statunitense, scoppia una rivolta senza alcun precedente. Il contagio è immediato. Nei
campus americani gli studenti lanciano slogan non soltanto contro l’industria del sapere: la loro
contestazione è globale, me e insieme classi, ceti, gruppi, investe la morale e i rapporti umani, sovverte
un modello culturale, sconvolge un costume, rifiuta uno stile di vita.
esto bisogno di cambiamento, che è di immagine e di sostanza, si manifesterà in tu i i Paesi
industrializzati dell’Occidente. I giovani e le loro avanguardie, cioè gli studenti, gli di una società che
stenta a mutare, credono nelle stesse cose; esenti da ogni compromissione, respingono subito un
mondo che gli adulti avevano ricostruito sulle macerie lasciate dalla guerra perché anch’essi potessero
amarlo. Rifiutano, invece, una continuità in cui non possono riconoscersi.
«Vogliamo riprenderci la vita», gridano gli studenti della Sorbona. Lo slogan passa di bocca in
bocca, come una parola d’ordine: ciò che è stato convenuto altrove, prima e senza di loro, è privo di
valore.
Posti di fronte al dilemma «o una vita borghese obbligata o un’imponderabile rabbia» rispondono:
«Di date di quelli che hanno più di trent’anni». Nasce così quella grandiosa chiamata generazionale
che muove i giovani a uno a uno, a due a due, e poi a umane, verso una piazza spesso inde nita da
occupare in nome di qualcosa in cui poter credere.
Per alcuni basta un pretesto. Persino i capelli dei Beatles e le loro canzoni sono un modo di
accordarsi con il nuovo e di scendere in pista; per altri parlano Rudy Dutschke o Daniel Cohn-Bendit,
il Maggio francese o il Movimento studentesco; per altri ancora la scoperta dell’impegno sociale,
l’esperienza del lavoro, la vita comunitaria.
Alla ricerca tumultuosa di qualcosa, molti confondono il sociale e l’esistenziale, la ricerca e il
vagabondaggio, il leader e il ciarlatano, il profeta e il drogato, l’anarchia e la liberazione. Fra quanti
inseguono modelli imprecisi o stravolti c’è chi sceglie il picaresco anticonformismo hippy, la versione
freak, la loso a zen, il paci smo radicale, lo yoga, l’erba, l’amore di gruppo o la più generica delle
rabbie. Un giorno, essi stessi sapranno giudicarsi.
Lettera di Pino al giornale «Lotta continua» (1974):
Non avendo più nessuna assemblea a cui partecipare, ho potuto osservare dall’esterno il movimento dei compagni e vedere
che ne hanno fa o. C’è chi è diventato un intimista orientale, chi un freak emarginato, chi ha riscoperto il rock and roll,
chi è entrato nel Pci, chi ha scelto la lo a armata. Il modo di vestire, poi! Tu i uguali. Una volta portare i jeans era un
ri uto dell’abbigliamento borghese, oggi non è più questo, è kitsch sinistrese. Il linguaggio, poi! Tu i parlano nello stesso
modo. Siamo veramente diversi l’uno dall’altro? I cortei cosa sono diventati? Un pretesto per incontrarsi, raccontarsi
l’ultimo viaggio fa o, le esperienze alternative, sfoggiare i bei giacconi di renna usati, le belle gonne a ori, un modo per
conoscere qualcuno. Viva la moda di essere compagni! Tu o questo lo Stato ce lo concede e ce lo ha sempre concesso.
Vestitevi come vi pare, parlate il linguaggio che volete, fatevi le vostre menate, basta che non rompete i coglioni. Forza
compagni! Avanti, fino alla sconfitta totale! Io starò a guardare.
L’Italia vive in una democrazia che ha messo forti radici nella società e tu avia è incapace, nei suoi
ambiti più conservatori, di capire il nuovo che emerge. L’ondata protestataria ne suscita altre: dalle
rivolte sindacali agli scontri politici, dalle ba aglie per nuove condizioni di lavoro a quelle per una
diversa gestione della giustizia, della sanità, della scuola. Si tra a di pulsioni che accelerano la crescita
di una società complessa, destinata, nell’arco di qualche anno, a esprimere una violenza drammatica,
respinta dalla generalità dei ci adini, ma di cui sarà necessario trovare un’origine, magari imprecisa e
lontana.
alcuno sarà incline a collocarla nel clima genericamente eversivo provocato dal grande,
inconcluso falò del Sessantotto.
Ad accenderlo era stato un libro, L’uomo a una dimensione, del losofo Herbert Marcuse, che
esprime un insieme di pensieri, bisogni, rivalse già latenti nei giovani. Un giorno Marcuse dirà:
Esistono molte cose anche in questa società che io non vorrei respingere del tu o, negare del tu o; al contrario, direi che
considerandole so o determinati aspe i le apprezzo molto e non vorrei vederle scomparire.
ello che io ri uto nel senso
più completo è il modo in cui questa società è organizzata, con cui sperpera e abusa delle proprie risorse, accresce la
ricchezza unicamente di una certa parte della popolazione e, allo stesso tempo, non si preoccupa di fare praticamente niente
contro l’abbie a povertà ancora esistente in larghe aree del Paese. Sopra u o, ri uto che essa consideri assolutamente
normale e scontato il fa o che si comba a, in Vietnam, una guerra tra le più crudeli, immorali e meno necessarie della
storia.
Il «Libre o rosso» di Mao Tse-tung, che suscita ed accompagna il grande scontro ideologico e
armato della rivoluzione culturale cinese, di uso in milioni di copie fa il giro delle università
occidentali. Il maoismo è per molti una provocazione radicale. Il leader della «lunga marcia» invita a
far fuoco sul «quartier generale», cioè sul potere, ribadendo il conce o di fondo: ribellarsi è giusto.
Nascono altri miti, quello vietnamita di Ho Chi Minh e del generale Giap, della guerriglia del popolo
palestinese condo a da Yasser Arafat, e sopra u o di quella legata al nome di Ernesto Guevara, de o
il Che. Il grande idolo, prima di essere ucciso in Bolivia, lancia lo slogan «Crea due, tre, mille
Vietnam». Il grido risuonerà a lungo nelle piazze delle grandi metropoli occidentali; specie in Europa,
avamposto ideologico della protesta.
Gli studenti della Sorbona e di Nanterre innescano una rivolta che coinvolge le grandi fabbriche,
dalla Renault alla Citroen. Una piccola auto, la «due cavalli», è data alle amme come bersagliosimbolo del ri uto giovanile. Nascono slogan che segneranno un’epoca: «Non è che l’inizio, la lo a
continua», «Siate ragionevoli, chiedete l’impossibile,» gridano altri, e tu i vogliono «l’immaginazione
al potere».
La protesta studentesca trova terreno fertile in un reale disagio, le università non sono a rezzate
per far fronte alle nuove esigenze. In primo luogo c’è un fortissimo aumento delle iscrizioni e, per
giunta, non sono mutati gli indirizzi di studio, né i metodi di insegnamento e le normative che regolano
la partecipazione degli studenti alla vita universitaria. Per contro, il Movimento studentesco va
assumendo un’identità sempre più segnata da un proge o di lo a aperta, esplicita. Ciò porterà
all’occupazione di un gran numero di atenei. In pochi mesi la contestazione esce dalle aule
universitarie e dilaga. Intanto, nelle fabbriche, alle maggioranze spoliticizzate, con le quali il Sessantotto
stabilisce le prime assonanze, vanno a ancandosi sempre più delle minoranze, invece, fortemente
politicizzate, decise a contestare i signi cati di una crescita che ha sì trasformato il Paese, migliorando
sensibilmente le generali condizioni di vita, ma che non è riuscita a coinvolgere tu a la società. Della
quale, semmai, ha ancor più emarginato gli strati deboli.
Il 1° marzo 1968, a Roma, nei giardini di Valle Giulia, accade qualcosa di improvviso e durissimo:
studenti e forze dell’ordine danno vita a uno scontro senza precedenti. Alla ne si conteranno
centinaia di feriti, 228 fermi, 10 arresti. Il Paese è per la prima volta di fronte a qualcosa di impreciso,
ma forte, che si dichiara contro tu o e tu i. La società è impreparata a capire, anche gli intelle uali si
dividono sino all’eresia. Pier Paolo Pasolini viene tacciato quantomeno di stravaganza. Oggi il giudizio
ha subito una revisione. Ecco un brano di quella sua requisitoria:
Avete facce di gli di papà. Vi odio, come odio i vostri papà: buona razza non mente. Avete lo stesso occhio ca ivo, siete
pavidi, incerti, disperati. Benissimo; ma sapete anche come essere prepotenti, rica atoli, sicuri e sfacciati: prerogative
piccolo-borghesi, cari.
ando ieri a Valle Giulia avete fa o a bo e con i polizio i io simpatizzavo con i polizio i, perché i
polizio i sono gli di poveri, hanno vent’anni, la vostra età, cari e care. Siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione
della polizia, ma prendetevela con la magistratura e vedrete! I ragazzi polizio i che voi, per sacro teppismo, di ele a
tradizione risorgimentale di gli di papà, avete bastonato, appartengono all’altra classe sociale. A Valle Giulia, ieri, si è così
avuto un frammento di lo a di classe e voi, cari, benché dalla parte della ragione, eravate i ricchi; mentre i polizio i, che
erano dalla parte del torto, erano i poveri.
La protesta esplosa a Valle Giulia non ha un cara ere estemporaneo. Le sue origini risalgono
all’occupazione, nel novembre del 1967, dell’Università di Trento, della Normale di Pisa, dell’Università
Cattolica di Milano, della Facoltà di lettere a Torino.
L’agitazione si propaga: Mario Capanna, ormai leader del Movimento studentesco, guida i
dimostranti riuniti davanti alla Scala la sera in cui si inaugura la stagione lirica. Il 31 dicembre, analoga
contestazione davanti al dancing La Bussola di Viareggio. Negli scontri rimane gravemente ferito un
giovane: Soriano Ceccanti.
A Milano, il «Corriere della Sera» viene assalito da un migliaio di giovani che alzano barricate e si
scontrano con la polizia. In tu a Italia il movimento di protesta crea i suoi miti e i suoi leader.
alche
nome tra i più noti. A Trento: Marco Boato, Mara Cagol, Renato Curcio e Mauro Rostagno. A Torino:
Luigi Bobbio e Guido Viale. A Padova: Massimo Cacciari, Toni Negri, Emilio Vesce. A Roma: Oreste
Scalzone, Franco Piperno. A Pisa: Adriano Sofri e Gian Mario Cazzaniga.
Rostagno afferma:
Noi non vogliamo o enere una scuola meravigliosa in una società che non lo è; una scuola eguale in una società che è
diseguale; una scuola di ricchi per gli di ricchi. La scuola non può essere separata dal contesto sociale. L’azione fuori
dell’università è esa amente un’azione di tipo rivoluzionario, egualitario, che deve portare all’abolizione degli a uali
rapporti di potere di questa società.
Marco Boato indica queste prospettive:
Ci sarà una prima fase in cui si accentuerà l’impegno sui problemi universitari per allargare la base sociale e recuperare a
livello di massa il movimento studentesco. Ci sarà poi una seconda fase sul piano politico, logica conseguenza del discorso
sulla contestazione globale e sulla strategia rivoluzionaria del movimento: un allargamento al di fuori dell’università, che