L`uomo, la macchina e la comunicazione mediata: evoluzioni
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L`uomo, la macchina e la comunicazione mediata: evoluzioni
L'uomo, la macchina e la comunicazione mediata: evoluzioni di paradigmi e design per le esperienze nell'era organica dell'interazione di Carlo Giovannella Università di Roma Tor Vergata - ISIM_garage Dip. Fisica, ScuolaIaD e MIFAV [email protected] Se è innegabile che la facilità nel produrre e padroneggiare macchine è ciò che ci distingue dagli altri esseri viventi è pur vero che tale filiazione ha da sempre rappresentato, in particolare per il mondo umanistico e ancor più per quello del Novecento, motivo di angoscia e di generazione di visioni apocalittiche o, al contrario, in un numero più limitato di casi, di sfrenata ed esaltata passione [1]. Quantunque lo sviluppo di una qualsivoglia tecnologia non possa mai definirsi neutra, perché dettata da specifici bisogni/problemi e dal relativo desiderio di soddisfarli/risolverli, ciò non di meno la sua "messa a disposizione" all'interno di un sistema complesso, come il nostro mondo, rende così difficile prevederne le traiettorie di utilizzo che, non senza ragioni, si può assumerne la sua effettiva neutralità. Se si accetta questo punto di vista, privo di particolari preconcetti, allora non possiamo che concludere che le geodetiche dell'utilizzo e dello sviluppo di una tecnologia, e delle eventuali invenzioni scientifiche che sono alla base della sua epifania, dipendono solo ed esclusivamente dall'esercizio di un'attività critica, ovvero dalle intenzionalità del suo stesso creatore. Evidentemente, vista la percezione negativa della parola progresso tecnologico diffusa in ampi strati della popolazione mondiale, non resta che prendere atto di come molte delle suddette intenzionalità abbiano finito per determinare vissuti esperenziali non proprio a misura d'uomo. D'altra parte, però, dal momento che questo scritto vorrebbe contribuire a una riflessione in positivo sulle potenzialità della macchina di fungere da ausilio alla nostra esperienza del mondo senza, per questo, costringerci a modificare in modo sostanziale i nostri ritmi naturali, non possiamo esimerci da una breve riflessione sul significato che la parola macchina è andata assumendo nel tempo, alla ricerca di indizi di criticità. Risalendo alle origini, si scopre che la radice del termine greco mechane=machana è MAGH e MAH che significa aumentare, accrescere e si scopre altresì che essa è in relazione con le parole Magno e Mago [2]. Cio che appare curioso è che il termine aumentare è un termine molto in voga oggi per indicare, nelle lingue anglosassoni, l'effetto di potenziamento positivo che una tecnologia può apportare alla percezione della realtà, si pensi, ad esempio, all' augmented reality [3] o alla nostra definizione di augmented learning (a nostro parere più pregnante della più diffusa blended learning) [4]. In origine, dunque, la macchina, o meglio lo strumento (questo è il significato di mechane=machana) era quell'artefatto attraverso il quale era possibile aumentare la realtà, accrescere le potenzialità dell'uomo e, se mi è concesso proseguire lungo questa linea di ragionamento, di produrre/fare qualcosa di grande, persino di magico, ovvero di assoggettare/modificare lo stato naturale delle cose. Un potere che non sembrerebbe essere stato percepito come problematico o negativo; forse perché all'epoca l'influenza della macchina sui ritmi naturali del vivere si poteva considerare di intensità "omeopatica". Nonostante non manchino esempi di macchine ingannevoli anche al tempo dei Greci (si pensi al Cavallo di Troia), è solo più tardi, con il latino, che il termine machina comincia ad assumere anche accezioni più negative come quella di macchinazione e di inganno. Sembra, dunque, che nella lingua dei nostri antenati più prossimi si sia rotto l'idillio dell'uomo con la macchina e che la magia abbia assunto i connotati dell'inganno. Dall'inganno scenico al suo utilizzo in guerra (es. specchi ustori) e, più tardi, come strumento di tortura, la macchina diventa l'artefatto che invece di aumentare le potenzialità dell'uomo ne evidenzia i limiti percettivi e gli si rivolta contro mostrandogli tutta la sua forza distruttrice. Non è da escludere, per altro, che alla fine di questo idillio abbia contribuito anche la crescente complessità della macchina, una complessità che ha reso via via più opaco il funzionamento dei suoi meccanismi e che ha progressivamente ridotto il numero delle persone in grado di progettarla. È abbastanza illuminante, in tal senso, che il termine di machinator, accanto ai significati di fabbricatore e meccanico, abbia assunto anche quello di architetto e ingegnere. La scarsa comprensione delle modalità di funzionamento della macchina, unita alla mancanza di un corrispettivo e tangibile beneficio, è l'origine di modi di dire che ancora oggi ne sottolineano l'elefantiaca complessità e opalescenza, ad esempio: "macchina dello stato", "macchina elettorale", ecc...: poca chiarezza nel funzionamento, scarsi risultati, disagi per il cittadino e la macchina che diventa sinonimo di apparato burocratico. Un altro passo cruciale nel progressivo modificarsi della percezione relativa alla macchina è stato l'impiego di quest'ultima nella produzione seriale, sia di artefatti, come ad esempio nell'antichissima pratica del conio, che di supporti per l'informazione, come nel caso della stampa. Un processo che, come noto, non si è ancora arrestato e che ha avuto il suo maggiore impulso nel periodo della produzione industriale con il passaggio dall'industria manifatturiera alle grandi industrie delle catene di montaggio e con lo sviluppo dei media a base tecnologica, primo tra tutti la fotografia. Anche all'avvio e nel corso di queste trasformazioni si registrano posizioni contrastanti: - da una parte i tecno-entusiasti per i quali la catena di montaggio era lo strumento in grado, non solo di ridurre i tempi morti della produzione, ma anche di elevare il livello economico e di vita degli strati meno abbienti della popolazione [5]; per altri, ancora, la riproducibilità dell'opera sarebbe stata il grimaldello per soddisfare i nuovi bisogni appercettivi delle masse [6]; - dall'altra parte, però, altri, più critici, avrebbero messo in guardia sul pericolo di una macchina industriale, divoratrice di strumenti, nella quale il capitale era stato in grado di oggettivare il proprio dominio sull'uomo (ridotto ormai a comprimario) [7], come pure sul pericolo di eterodirezione che si nascondeva nella omologazione della riproduzione comunicativa asservita al sistema produttivo capitalistico [8]. E così tra adesioni e rifiuti, si è giunti sino ai giorni nostri, con una macchina che è sempre là, che continua a evolvere con l'avvento di sempre nuove tecnologie e scoperte scientifiche, di cui ormai non possiamo fare più a meno, nonostante le problematiche che sono in grado di generare. È in questo quadro che, lasciando da parte l'angoscia da macchina, con uno atteggiamento critico ma sereno, torniamo a domandarci per un specifico ambito - quello della macchina computazionale elettronica - se è possibile progettarla in modo che essa possa contribuire ad aumentare la nostra esperienza della realtà senza modificare in maniera sostanziale, o addirittura favorendone il recupero, la naturalezza dei nostri ritmi e modi di vita. Per poter formulare una qualche risposta dobbiamo necessariamente passare per una riflessione sulle peculiarità della macchina computazionale elettronica e sulle modifiche a cui nel tempo sono state soggette sia la sua funzione che il suo rapporto con l'uomo, suo creatore e utilizzatore. Benché l'inizio del ruolo di assistente al calcolo della macchina si perda nella notte dei tempi, è solo nel 1641 che essa ha preso ad eseguire calcoli senza la necessità di un intervento diretto dell'uomo in tutti i passi del calcolo. Con la macchina per addizioni di Pascal - Pascaline, progettata forse in parte da Leonardo 150 anni prima - fu possibile eseguire delle addizioni inserendo i numeri da sommare senza più essere parte del meccanismo di somma (come in un pallottoliere). Successivamente, 1674-94, con la macchina di Leibniz è stato possibile realizzare moltiplicazioni e divisioni. Ancora un secolo e mezzo - 1801-04 - e fa capolino l'idea che l'attuazione di una macchina (industria tessile) può essere controllata da un programma. È l'inizio dell'automazione, ma ancora non c'è alcuna relazione tra la capacità di calcolo della macchina e la sua automazione: i comandi vengono registrati su schede perforate (l'idea della scheda perforata, a livello prototipale è in realtà del 1728). Di non molti anni dopo, 1821, è un passo fondamentale, con Charles Babbage la macchina "computazionale" meccanica viene dotata di memoria. D'ora in avanti la macchina potrà ospitare al suo interno programmi e rendersi sempre più indipendente dalla presenza del suo creatore nell'esecuzione di calcoli e nella manipolazione logica e simbolica. D'ora in avanti lo sviluppo tecnologico delle macchine computazionali subirà una continua accelerazione, un'accelerazione di cui siamo diventati pienamente consapevoli solo negli ultimi trenta anni: nel 1859 la pubblicazione dell'algebra Booleana, nel 1867 l'applicazione dell'algebra di Boole ai circuiti elettrici ad opera di Peirce (è ormai aperta la strada alla macchina computazionale elettronica e digitale), del 1886 l'idea di Hollerith, fondatore dell'IBM (1911), di usare le schede perforate per sviluppare programmi di calcolo da inserire, eventualmente, nella memoria del computer, nel 1904 nasce la valvola elettronica, nel 1905 la calcolatrice elettrica, nel 1914 la calcolatrice a virgola mobile, nel 1932 la memoria bassata su relais, nel 1938 il primo calcolatore elettronico programmabile dall'utente, Z1, nel 1941 il primo calcolatore elettronico comandato da un programma, Z3, nel 1946 il primo calcolatore completamente elettronico, l'ENIAC. Prendiamo fiato. Ci troviamo ormai pienamente immersi nell'era post-industriale a cui hanno dato avvio le invenzioni della macchina fotografica e dei procedimenti che hanno consentito di stabilizzarne e riprodurne all'infinito la sua potente e pervasiva scrittura sincronica. In questa era le macchine non servono più per pro-durre in-formando gli oggetti, come nella precedente era industriale, sono divenute degli apparati che manipolano e riproducono dati, non si occupano più di modificare il mondo ma la percezione che ne abbiamo. Costituiscono degli schermi, diventano ancora più ingannevoli e se da una parte le si vuole far apparire sempre più amichevoli (cura dell'interazione con l'involucro esterno: interfaccia), dall'altra il loro interno diventa sempre più opaco e impenetrabile. E in effetti, dal 1946 ad oggi come si è evoluto e si sta ancora evolvendo il rapporto fra uomo e macchina computazionale elettronica ? A che punto siamo nel design di questo rapporto ? Quali sono i trend futuri ? Proviamo a discuterne partendo dall'analisi di tre immagini: la prima è un'immagine del già citato ENIAC [9], la seconda si riferisce all'introduzione del primo mouse [10], la terza è tratta da film Minority Report e ci parla di un futuro "in progress" [11]. La loro messa a confronto ci parla di cambiamenti epocali che negli ultimi sessanta anni hanno trasformato e stanno ancora trasformando in maniera sostanziale il rapporto tra uomo e macchina computazionale elettronica. Cominciamo dall'analisi della posizione. Nel primo caso, quello dell'ENIAC, nonostante fossimo già in piena era post-industriale, la posizione dell'uomo rispetto alla macchina ricorda ancora le immagini della lavorazione industriale in cui vengono ritratti operai che attorniano la macchina mangiatrice di strumenti - e sono asserviti al suo funzionamento. La differenza principale, rispetto all'epoca industriale, è che in questo caso l'asservimento è alla reificazione delle varie virtualità insite nel programma della macchina. La macchina non ha più una funzionalità ben definita, è plastica, consente l'esplorazione, anche se esclusivamente all'interno di quanto previsto dal programma, e utilizza l'operatività dell'uomo e i feedback che ne derivano per evolversi ed estendere le potenzialità del proprio programma [12]. L'era post-industriale è caratterizzata dalla nascita di quello che si può definire il funzionariato che si affianca al proletariato generato, a suo tempo, dalla catena di montaggio. Nella seconda immagine, il posizionamento relativo di uomo e macchina si conforma a quello tipico del rapporto tra uomo e apparato post-industriale, diventa un rapporto uno a uno come nel caso di una macchina fotografica, di una macchina da ripresa, ecc... La macchina computazionale elettronica, però, a differenza di un apparato fotografico, è riuscita nel tempo a sviluppare un strategia di rete che le ha consentito inizialmente di duplicare i soli terminali dell'interazione (epoca dei mainframe) e poi di riprodursi in maniera pervasiva nel web, ovvero in una forma che pur preservando l'operatività locale e l'interazione uno a uno tra uomo e macchina rende sempre di più tale rapporto dipendente dal cordone ombelicale con il cervello-rete, Un cervello-rete che, giorno dopo giorno, da semplice memoria universale (entità passiva) si sta trasformando in un sistema ricco di funzionalità di cui, per fortuna, ancora pochi, sembrano non poter più fare a meno. È questa la strada che conduce a una seconda vita, una vita parallela che potrebbe divenire per alcuni dominante e aprire la strada all'avvento dell'universo di Matrix [13]. Per fortuna, come vedremo nel prosieguo, esistono strade alternative da percorrere. La terza immagine ci parla di una situazione in cui il rapporto tra uomo e macchina straborda le dimensioni dello schermo: la macchina pervade l'ambiente e vi si nasconde aumentandone le potenzialità percettive e attuative, circonda l'uomo e a volte lo riveste. Ciò non di meno lascia ancora sufficiente spazio all'interazione uno a uno che non viene sostituita ma, piuttosto, accomodata all'interno di una strutturazione più complessa del rapporto uomo-macchina. La connettività reticolare wireless, di cui è dotata la macchina diffusa, potrebbe essere un altro elemento in grado di favorire una maggiore dipendenza dell'uomo dal cervello-rete, perché lo libera dalla necessità di usare cavi. Attenzione però a non identificare connettività reticolare con pervasività della macchina: non sono la stessa cosa. Prima di proseguire nell'analisi di altre caratteristiche delle immagini proposte vale la pena aprire un inciso e notare come l'evoluzione del rapporto uomo-macchina abbia preso, nel frattempo, anche un'altra direzione di cui noi non ci occuperemo in questa sede perché, seppur tecnologicamente molto complicata, è, a nostro avviso, concettualmente più scontata: quello della produzione di macchine realizzate a immagine e somiglianza dell'uomo: i robot. È sufficiente, a tale riguardo, citare il "terranauta" Asimo, della Honda [14], che sta imparando sempre più velocemente usi e costumi degli abitanti di questo pianeta ! E riprendiamo la nostra analisi soffermandoci sulla trasformazione delle modalità di interazione. Nel caso dell'ENIAC ciò che viene esposto dalla macchina rispecchia "fedelmente" la sua architettura interna e l'interazione è giocata sia sul livello cognitivo che su quello fisico. Prevede solo ed esclusivamente la manipolazione di oggetti fisici (switch, cavi, boccole) ed eventualmente la visualizzazione dell'accensione di indicatori luminosi, in maniera non dissimile da quanto previsto dalle prime centraline telefoniche o dai primi strumenti musicali elettronici. Nel caso della seconda immagine possiamo notare la persistenza dell'interazione fisica che si esplica nell'uso di appositi mediatori: il mouse, una o più tipologie di tastiere/ini. Nessuna delle operazioni che si svolgono influenza in maniera diretta l'architettura della macchina, e non vi sono neppure riscontri visibili dell'influenza che tali operazioni hanno sullo stato dei componenti della macchina. D'ora in avanti ciò che si manipolerà saranno solo oggetti simbolici, dapprima testi (reminiscenza dell'interazione conversazionale introdotta dall'uso della tastiera) e poi icone. Ben presto si affermerà la metafora della scrivania che da allora continueremo ad utilizzarla per spostare, creare, modifichare e gettare, virtualmente, cartelle e documenti di ogni sorta. Nell'immagine tratta da Minory report la visibilità e l'intervento dell'oggetto mediatore è ridotta al minimo: un mezzo guanto che viene indossato e che emette tre segnali luminosi che fungono da mediatori linguistici del gesto, ne consentono il tracciamento. L'interazione diventa più naturale e multimodale, si usano la voce, i gesti, ma tramite questi ultimi si continua a manipolare oggetti simbolici, come pure si continua, non si potrebbe fare altrimenti, ad utilizzare la vista come canale di input. Anche la sintesi vocale è della partita, ma non può, come d'altronde non deve, sostituirsi alle immagini; proprio come accade nella realtà ove la voce e la vista espletano funzioni differenti e complementari. Si potrebbe osservare che l'uomo sovente cerca di utilizzare un'unica modalità comunicativa per evocare le peculiarità di altre, come quando cerca di evocare immagini attraverso la scrittura o il suono, o quando prova a narrare attraverso la fotografia. La comunicazione umana, però, è per sua natura multimodale e solo quest'ultima può essere il presupposto per una comunicazione mediata naturale. Ma torneremo su questo tema più avanti. Prima vogliamo domandarci: quale è stata la conseguenza delle trasformazioni appena descritte sull'evoluzione della percezione della macchina computazionale elettronica da parte dell'uomo ? Al tempo dell'ENIAC la macchina appariva "nuda", almeno per gli addetti ai lavori. Il suo interno e le sue modalità operative erano completamente dichiarati, trasparenti, manipolabili. Con il passaggio all'era post-industriale ciò che viene esposto dalla macchina è solo l'interfaccia attraverso la quale l'utente deve poter svolgere in maniera chiara tutte le funzioni di input/output. L'interfaccia diviene un involucro che scherma, non solo metaforicamente, l'interno sempre più opaco della macchina. Nel mondo di Minority report, infine, la macchina scompare e di essa non si ha più una percezione fisica diretta. Grazie alla sua miniaturizzazione e flessibilità si dissolve nel tessuto della vita quotidiana lasciando come unica traccia percepibile la computabilità. Nel far questo rende spazi, artefatti e vestario più sensibili e "intelligenti", in grado di elaborare, mediare, coevolvere. I cambiamenti sin qui descritti, però, non sembrano aver indotto negli anni una pari evoluzione della percezione diffusa della macchina computazionale elettronica che per i più sembra restare ancorata all'aspetto funzionale. La macchina computazionale elettronica nasce come strumento per aumentare le potenzialità di manipolazione simbolica dell'uomo, come strumento da piegare al raggiungimento di una maggiore efficacia ed efficienza dei processi lavorativi e tale resta ancora per la maggior parte degli utenti e dei progettisti. È solo di recente, alle soglie del nuovo millennio, che la riflessione critica si è cominciata a spostare sulla macchina computazionale elettronica quale attore della comunicazione mediata. La comunicazione è una delle funzioni primarie di qualsivoglia organismo, quale l'uomo è. Non c'è azione che non implichi una qualche forma di interazione/comunicazione, e dunque possiamo ben affermare che riflettere sulla comunicazione mediata equivale a riflettere sulla macchina quale mediatrice di esperienza. Per quanto scritto sinora dovrebbe essere ormai palese che l'azione mediatrice della macchina pre-Minority report, è stata dominata da un'interazione davvero poco "umana", che si è giocata, e si gioca ancora, esclusivamente sui piani cognitivo e fisico, che chiede di impiegare strumenti le cui modalità d'uso non sono affatto intuitive (vedi mouse e tastiere), che misura la validità dell'interazione in termini di usabilità (un misto di ergonomia fisica e cognitiva) e, quindi, della facilità con cui si ottiene lo scopo. Oltre ad essere il risultato di limitazioni tecniche, è, a nostro parere anche il risultato di un'attitudine progettuale, retaggio dell'età illuminista, un'età che ha cercato di impostare la società sulla soddisfazione dei bisogni cognitivi, e che in passato ha generato, per compensazione, la nascita della psicoanalisi e il conseguente tentativo di recupero dei livelli trascurati della comunicazione umana attraverso la loro identificazione, forse un po' sbrigativa e incompleta, con l'istinto e l'eros. [15] Possiamo notare, dunque, che nell'epoca pre-Minorit report, non si è di certo favorito il recupero di una percezione positiva nei confronti della macchina. Una macchina che continua ad essere percepita più come strumento di asservimento ai processi produttivi che come amplificatore delle abilità personali. Anche quel poco di attenzione riposta negli aspetti sociali della comunicazione mediata si è concentrata, in realtà, su problematiche tipiche della sociologia del lavoro. Ci troviamo, dunque, in una situazione in cui la mediazione della macchina è avvenuta, trascurando completamente i livelli sociali ed emotivi della comunicazione, le sue modalità naturali, come pure la dimensione temporale dell'esperienza che si compone di un ante, di un durante, di un post e la cui durata percepita può essere ben diversa da quella misurata. Ha altresì trascurato, quasi totalmente, l'influenza del contesto. Un contesto che grazie alla pervasività della macchina e al suo occultarsi andrà configurandosi sempre di più come un'entità complessa, interconnessa, sensibile, in grado di percepire lo stato dell'individuo e di coevolvere per rispondere alle esigenze personali di ciascuno. Gli spazi fisici aumentati dalla presenza della macchina si popoleranno di relazioni sociali sempre più semplici da instaurare e complesse da gestire: diverranno dei liquid places. E la loro liquidità ci imporrà di considerare la località dell'esperienza senza trascurare, al tempo stesso, le conseguenze spazio-temporali di ampio raggio derivanti dall'utilizzo della macchina, come la sua accettabilità sociale e la sua e c o sostenibilità.[16]. Provare a ridisegnare la mediazione della macchina nei termini suddetti vuol dire transire dall'era post-industriale ad una nuova era del rapporto tra uomo e macchina, un'era che potremmo definire ERA ORGANICA DELL'INTERAZIONE [17]. I concept e il design per i liquid place dell' era organica richiederanno obbligatoriamente una maggiore attenzione nei confronti della naturalezza dell'interazione e dell'esperienza. Non è un caso, infatti, che da qualche anno si stia diffondendo sempre di più il bisogno di semplicità [18]. Il raggiungimento della semplicità d'uso e di interazione è un obiettivo largamente condivisibile ma è anche necessario chiarire da subito che, spazzando il campo da possibili malintesi, la semplicità nasconde la complessità e non c'è nulla che sia realmente semplice. Ogni processo di design che abbia a che fare con entità complesse, quasi organiche, non può che essere a sua volta molto complesso. In realtà le regole che sovraintendono alle interazioni delle parti di un sistema sono abbastanza semplici, è il numero delle entità interagenti che rende il mondo un sistema complesso in continua co-evoluzione. Per rendere il tutto apparentemente più semplice, si deve rinunciare a una parte della conoscenza e, dunque, ad una parte delle potenziali funzionalità. L'abilità sta nel comprendere a quale parte è meglio rinunciare (o come alcuni designer preferiscono dire: quale parte del problema complesso è meglio spostare da qualche altra parte) [19]. Di certo si deve rinunciare alla predizione esatta delle geodetiche dell'interazione. Si deve cambiare prospettiva, o almeno integrarla. Un sistema complesso non può essere considerato come una "scatola nera" in grado di fornire una precisa risposta ad un preciso stimolo, in accordo a quanto previsto dalla previsione teorica. Dobbiamo abbracciare il mondo delle possibilità. Dobbiamo progettare per l'imperfezione [20]. In una situazione co-evolutiva di tale complessità non c'è alcun bisogno di invocare, come avveniva in passato, il ricorso all'utopia quale panacea ai problemi posti dalle modalità di interazione uomo-macchina, caratteristiche della società post-industriale. Infatti, è la stessa complessità dei sistemi e dei place che rende le geodetiche dell'interazione sempre più impredicibili, aperte [21] e barocche [22] fornendo un argine naturale al possibile avvento di Matrix. È grazie alla complessità e alla liquidità dei place e alle interazioni che vi albergano che oggi possiamo ancora occuparci del design tecnologicamente avanzato quale supporto alla realizzazione di migliori e più contestualizzate esperienze, e non, al contrario, di tecnologie mirate alla costruzione di interazioni e di individui eterodiretti.[ 8] È grazie a tutto questo che possiamo sperare di recuperare la perduta e originale amicizia tra uomo e machana. Progettare per le esperienze dell' era organica dell'interazione non è compito semplice perché richiede un approccio olistico, e non sarà semplice educare una nuova generazione di designer adatti a tale scopo. Ciò non di meno questa è la sfida che ci presenta il futuro e che si erge sull'eredità del secolo scorso. Per aprire nuove strade bisogna osservare il mondo con gli occhi di un bambino ... concettualizzare il tutto con la mente di uno scienziato ... lasciare, come l'artista, libero sfogo alla propria creatività ... controllare le finalità e i processi con il rigore di un ingegnere. Si deve essere, in altre parole, uomini rinascimentali in grado di immergersi nel flusso della vita, e di partecipare al grande gioco barocco del design delle esperienze! Riferimenti bibliografici [1] si vedano gli altri contributi a questo volume [2] http://www.etimo.it/?term=macchina [3] http://en.wikipedia.org/wiki/Augmented_reality [4] C. Giovannella, "Observing the present, envisioning the future, filling the gaps.", Journal of e-Learning and Knowledge Society, 2006, p. 13 [5] il riferimento è alla politica fordista [6] W. Benjamin, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 1996; [7] C. Marx, Il Capitale, Libro I, Cap. 13, 1867 http://www.criticamente.com/marxismo/capitale/Marx_Karl_-_Il_capitale_Libro_I.htm [8] T. Adorno, Cultural Industry (Routledge, 2001) [9] http://it.wikipedia.org/wiki/ENIAC [10] http://en.wikipedia.org/wiki/Douglas_Engelbart http://sloan.stanford.edu/mousesite/MouseSitePg1.html [11] http://en.wikipedia.org/wiki/Minority_Report_(film) [12] V. Flusser, Per una filosofia della fotografia, Agora' editrice, Torino, 1987 [13] A. Wachowski A. e L. Wachowski L., The art of the Matrix, (Newmarket Press, 2000) [14] http://world.honda.com/ASIMO/ [15] H. Marcuse - Eros e civiltà - Einaudi 1964 [16] J. Thackara, In the bubble. Designing in a complex world (MIT Press, Cambridge, Mass., 2005) [17] C. Giovannella, "An Organic Process forr the Organic Era of the Interaction", in "HCI Educators 2007: creativity3: Experiencing to educate and design", ed. by Paula A. Silva, Alan Dix, Joaquim Jorge, pag. 129 [18] vedere per esempio: http://www.design.philips.com/about/design/index.html Maeda J., The Laws of Simplicity (MIT Press, 2006) [19] si fa riferimento alla legge di Tesler della Conservazione della Complessità (ca. 1984), see http://www.nomodes.com/ [20] C. Giovannella, Interaction Design or Design Imperfection, ID&A _magazine, N.0, 2005, 37-42 and IxD: what to do in order not to fail ?, ID&A_magazine, N.1&2, 2006, 215 [21] U. Eco, Opera aperta, Bompiani, 1962 [22] il termine "barocco" è usato nell'accezione di "baroque ensembliste", vedere Moretti L., Tapié M., Le Baroque Généralisé. Manifeste du Baroque Ensembliste, a cura del (Centro Internazionale di Ricerche Estetiche, Dioscuro, 1965)