Nell`estate del 1914, in seguito alla

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Nell`estate del 1914, in seguito alla
GLI ITALIANI IN GUERRA UN ANNO PRIMA DELL’ITALIA
dott. Quinto Antonelli
Relazione del 29 aprile 2014 del ciclo “100 anni fa la prima guerra mondiale”
Con lo scoppio della guerra il Trentino asburgico diventa il luogo di un “popolo scomparso”. In seguito all’ordine imperiale della leva di massa, circa 55.000 uomini in divisa austriaca vengono avviati sul fronte orientale a contrastare i reparti russi. Qui sono immediatamente coinvolti nelle sanguinose battaglie di Rawa-Ruska, di Grodek, di Leopoli e
travolti dalla controffensiva dell’esercito russo, che in pochi mesi occupa la Galizia orientale e centrale fino a giungere al campo trincerato di Cracovia. I soldati trentino-tirolesi
conoscono, spesso con disperazione, una guerra moderna che ai bombardamenti assordanti e allo scoppio degli shrapnells aggiungeva gli assalti con la baionetta, la lotta corpo
a corpo, le spaventose cariche dei cavalieri cosacchi; la distruzione dei villaggi e dei raccolti e l’opera sistematica degli «impiccatori» militari, che conducevano una loro guerra di
pulizia, giustiziando presunte spie e sabotatori galiziani. La ferocia degli scontri è riflessa
nei numeri dei caduti: alla fine del primo anno di guerra, l'esercito austro-ungarico aveva perso
994.000 uomini, più di un milione quello russo. Molti degli 11.400 caduti trentini che si conteranno al
termine del conflitto (uno ogni cinque arruolati), morirono in questi primi mesi, mentre altri caddero
prigionieri dei Russi, quando non agevolarono con la diserzione la propria cattura.
Con l’entrata in guerra dell’Italia le località a ridosso del fronte furono evacuate e non meno di 75.000
persone (donne, bambini e uomini anziani) furono trasportate in Austria, in Moravia, in Boemia. Ma altre 35.000 provenienti dalle zone occupate dall’esercito italiano si riversarono in Italia. Ai numeri dei
profughi si aggiunsero quelli dei fuoriusciti e dei settecento volontari che scelsero di arruolarsi
nell’esercito italiano. Ci furono poi gli internati e i confinati: circa 3.000 trentini vennero condotti nel
campo di prigionia di Katzenau presso Linz, 1.500 furono coloro che subirono l’internamento in Italia.
La popolazione residente subì le durissime leggi dell’economia di guerra: razionamenti, requisizioni, lavoro coatto.
1. Soldati
La sera del 27 luglio 1914, appena fu nota la dichiarazione di guerra alla Serbia, le autorità militari inscenarono, nelle maggiori località del Trentino, manifestazioni di apparente euforia: «Imbandieramento
degli uffici pubblici - scrive l'impiegato comunale Francesco Laich, descrivendo i festeggiamenti di Rovereto - e la sera una grande fiaccolata militare con in testa la musica del reggimento. Il castello, allora
adibito a caserma, era tutto illuminato di tremolanti fiammelle. Grida di evviva ed abbasso, un finimondo. In piazza Rosmini la banda militare si produsse coll’inno austriaco, quello Germanico e la marcia reale italiana non per nulla esisteva la triplice alleanza». Quattro giorni dopo, il 31 luglio, l’Imperatore
d’Austria impartiva l’ordine di mobilitazione generale dell’esercito e della leva di massa. Migliaia di uomini dai 21 ai 42 anni (reclute, congedati e riservisti) affluirono ai rispettivi depositi reggimentali per
essere inquadrati nei quattro reggimenti Kaiserjäger dell’esercito comune, nei tre reggimenti di montagna (Landesschützen, che poi nel 1917 prenderanno il nome di Kaiserschützen), oltre che nella milizia
territoriale austriaca (Tiroler Landsturm). Durante il conflitto la mobilitazione si estenderà di ulteriori 14
classi fino a comprendere gli uomini abili dai 18 ai 50 anni. Così circa 55.000 trentini di lingua italiana
furono avviati alla guerra. Nel Trentino, alla partenza dei soldati, non vi furono manifestazioni di entusiasmo collettivo, nessun patriottismo esultante, nessuna espressione di quell'Augusterlebnis che pure
altrove, in Austria come in Germania, aveva caratterizzato i primi giorni del conflitto. Profonda costernazione, amarezza, opprimente senso di incertezza, speranza in una rapida fine, presentimento di morte: erano piuttosto questi i pensieri e sentimenti dei soldati e delle loro famiglie, riflessi nei tanti diari di
guerra. Le stazioni ferroviarie di Rovereto e di Trento divennero, nella scrittura popolare, luoghi carichi
di significati simbolici: concretamente «il luogo della lacerazione dalla comunità che si lascia con una
pena di intensità sconosciuta». La destinazione dei trentini fu il fronte orientale: la Galizia, la Bucovina,
la Volinia, a contrastare i reparti dell’esercito russo. Il treno colmava gli ottocento chilometri che separavano Trento dai campi di battaglia in cinque, sei giorni e il paesaggio passava davanti agli occhi dei
soldati, incarrozzati spesso in vagoni che erano serviti per il trasporto del bestiame, «come una variopinta pellicola cinematografica, che sempre si rinnova». Ma una volta giunti erano colti dalla sorpresa,
se non dallo sgomento di fronte alle popolazioni contadine polacche e al loro modo di vivere: «sono
colpiti dalla loro povertà, dal loro abbigliamento sporco e trasandato, dalla fatiscenza delle abitazioni,
dalla mancanza di pulizia, dall'abbondanza di parassiti, dalla promiscuità di persone e animali». La presenza degli ebrei, in particolare, così numerosa e così appariscente imprimeva un marchio incancellabile nel paesaggio galiziano, tanto da alimentare tra i soldati il pregiudizio antisemita, già ampiamente
diffuso in patria dalla pubblicistica cattolica. Il «trauma galiziano», ovvero la traumatica scoperta della
realtà della guerra con le sue sanguinose battaglie, fu certo un fattore decisivo nell'accelerare forme di
renitenza militare, oltre ad un atteggiamento nazionale filo-italiano. Dispersi in una molteplicità di corpi
di truppa stranieri, ai trentini non fu permesso di socializzare, di integrarsi in una «comunità» di eguali,
presupposto indispensabile per conservare una disponibilità prolungata a resistere. Inoltre i soldati
trentini erano obiettivamente vittime di misure discriminanti nel reclutamento, nell'assegnazione ai
corpi e nella concessione delle licenze. A tutto questo si aggiunse, con l'entrata in guerra dell'Italia, l'aperta diffidenza dei comandi nei loro confronti che sfociava spesso in punizioni e maltrattamenti. Così
che il malumore, se non l'odio dichiarato, «si dirigeva verso il corpo ufficiali, in maggioranza tedesco,
che fra i soldati italiani assurgeva ad una sorta di onnipresente “nemico ideologico”».
Il lungo itinerario della prigionia aveva inizio ancora sul campo di battaglia, in mezzo ai corpi inerti dei
compagni caduti, tra i lamenti dei feriti. Suddivisi in due gruppi distinti, quello degli ufficiali e quello
della bassa forza, i prigionieri erano costretti a raggiungere altri punti di smistamento situati nelle retrovie. Poi, in treno raggiungevano i campi di raccolta come quello tristemente famoso di Darnitsa
presso Kiev. Lì e in altri luoghi di concentramento le condizioni igieniche e sanitarie dei prigionieri erano
disastrose, tanto che nel dopoguerra ci si chiese se il numero dei trentini morti in prigionia non fosse
stato superiore a quello dei caduti sul campo. Per altri si aprirono le estensioni quasi infinite della Siberia, dove cercarono di sopravvivere, lavorando nelle imprese addette alla costruzione delle ferrovie, nei
boschi, nelle fattorie dei contadini o si industriarono a fare il loro vecchio mestiere d'artigiani: il calzolaio, il panettiere, il falegname, il ruotaio. Di questa vicenda furono protagonisti circa 25.000 soldati italiani di cui presumibilmente più della metà trentini. Molti di loro, tra il 1915 e il 1916, ebbero la fortuna
di incontrare la Missione diplomatica italiana inviata in Russia, in seguito agli accordi intercorsi tra i due
governi, per contattare i prigionieri austroungarici di lingua italiana, guadagnarli alla causa
dell’irredentismo ed, infine, condurli in Italia. A Kirsanov (nel Governatorato di Tambov) venne organizzato un campo di accoglienza, in grado di offrire anche una prima acculturazione patriottica.
Nell’autunno del 1916, con tre diversi convogli, circa quattromila ex prigionieri partirono dal porto di
Arcangelo per l’Italia. Ma non fu il destino di tutti: molti seppero troppo tardi della presenza e delle iniziative della Missione; altri ancora decisero di rimanere fedeli alla divisa austriaca. Così quando nel
1917 la rivoluzione bolscevica spazzerà via il vecchio Stato e porrà fine alla guerra, i nostri prigionieri
saranno coinvolti, in un modo o nell’altro, dai nuovi eventi. Proprio la rivoluzione impedì altri rimpatri,
al punto da suggerire ai responsabili militari italiani di trasferire gli ex prigionieri, che nel frattempo erano affluiti a Kirsanov in numero di 2500, a Vladivostock, al fine anche di sottrarli alla propaganda bolscevica. Ci vollero venti giorni per svuotare interamente il campo. Il viaggio in transiberiana fu lungo e
disagevole; stipati nei vagoni ghiacciati, gli ex soldati rividero i luoghi della loro prigionia: Penza, Celjabinsk, Irkutsk, Cita.
Dopo due mesi, Vladivostock si rivelò solo una tappa: da lì vennero rispediti in direzione della Cina, nelle concessioni italiane e francesi di Pechino e di Tien-Tsin, da dove settecento di loro furono trasportati
in Italia da navi americane passando per gli Stati Uniti.
Per gli altri fu giocoforza arruolarsi nel Regio corpo di spedizione in Estremo Oriente (Cseo): in tal modo
i Battaglioni neri dei “redenti” (così detti dal colore delle mostrine) si affiancarono al contingente arrivato dall'Italia per dar man forte alle truppe dell'Intesa che lì operavano in funzione antibolscevica. Questo nuovo capitolo della loro avventura di guerra, viatico obbligato per il rientro e la riammissione nella
nuova patria (fortemente contrastato anche in Trentino dall'opinione pubblica socialista), ebbe termine
nel gennaio 1920, quando avvenne il definitivo e mortificante rientro in Italia. Ma l'esperienza dei prigionieri italiani fu ancora più complessa: alcune centinaia di loro vennero inquadrati nell'armata cecoslovacca e un numero imprecisato si arruolò nell'Armata Rossa. Mentre altre migliaia rimasero irragiungibili sul grande territorio russo. Una circolare del Capo della Missione italiana in Russia che ancora nella primavera del 1919 cercava di rintracciare e raccogliere gli ex prigionieri dispersi, li descriveva realisticamente come provati da ogni sofferenza: «Nessuna sofferenza fu loro risparmiata. Sia nei campi di
concentramento, che sui lavori per conto di privati, furono soggetti alla più dura disciplina ed alla più
esosa forma di sfruttamento. La rivoluzione russa poi li rese spettatori dei più orribili eccessi, che hanno contribuito non poco nell’opera di disgregazione morale che dalle sofferenze della prigionia ebbe la
prima spinta. È gente che ha lottato con la miseria e con la fame, che ha veduto la morte vicina di frequente, che moralmente si considera perduta ed a cui le ingiustizie delle dolorose vicende hanno scosso
il sistema nervoso ed ingenerato nel loro animo una viva avversione per il genere umano e specialmente per le autorità costituite».
2. Profughi
Fu un «esodo», una «via crucis», una «diaspora»: nei racconti dei profughi tornano frequentemente i
termini biblici e religiosi ad enfatizzare tutta la drammaticità dell’evacuazione messa in atto al momento dell'entrata in guerra dell'Italia, che trasforma il Trentino da retrovia in teatro di operazioni.
L'eventualità che il Trentino potesse diventare zona di guerra era stata presa in considerazione fin dal
1912. Successivamente, nel settembre 1914, le autorità militari del comando di fortezza con i capitani
distrettuali di Trento, Borgo e Rovereto, avevano elaborato alcuni piani di evacuazione dei civili, che avrebbero coinvolto, secondo stime del tutto ottimistiche, non più di 26.000 persone. Ma all'ultimo momento, nei giorni precedenti il 24 maggio, tali piani vennero giudicati inadeguati e fu decretato lo sfollamento totale delle località situate a ridosso della futura linea del fronte (tra cui la città di Rovereto) e
nel circondario di Trento, nonché l'evacuazione parziale della città capoluogo. Il flusso dei profughi si
rivelò ben presto superiore al previsto: il 26 maggio la Direzione generale dei trasporti comunicava che
già erano partite 32.000 persone, divenute 60.000 quattro giorni dopo. Per quanto sul numero dei profughi sussista ancora una certa imprecisione, si può sostenere che in quei giorni concitati di fine maggio, e in forma molto più diluita nei mesi successivi, abbandonarono il Trentino non meno di 75.000
persone (donne, bambini e uomini anziani). La partenza delle donne dai loro paesi fu, se possibile, ancor più drammatica di quella dei soldati e continuamente ripercorsa attraverso gli elementi caratteristici
di una «via crucis» laica: il tragitto a piedi o su carri fino alla stazione ferroviaria, il caos della partenza,
il viaggio in carri bestiame, la scrematura degli uomini e dei ragazzi abili al lavoro militarizzato, l'incertezza circa la destinazione. Furono partenze amare ed angosciate per la perdita della casa e il mondo
affettivo che essa poteva significare, un’identità riconosciuta, la rete sociale del paese. Furono colte,
queste povere donne, (ciò sta al centro delle loro memorie) da un tragico senso di amputazione, ben
sperimentato anche dalle profughe di fine secolo. Circola nei loro testi un sentimento doloroso di degrado e di vergogna, a vedersi costrette a fuggire con i pochi e improvvisati fagotti, in un clima di allarme, sotto il controllo dei militari e si paragonano spesso agli zingari e ai mendicanti.
«Per ragioni imprescindibili di sanità, di igiene e di polizia di stato e non in ultima linea ragioni di approvvigionamento» i profughi vennero coattivamente distribuiti nei capitanati dell'Austria superiore e
inferiore, della Boemia e della Moravia, disseminati su un territorio venti volte più vasto del Trentino.
L’arrivo non fu meno amaro della partenza. «Impossibile mi riesce a descriverti tutti i dolori di questa
partenza, di questo viaggio interminabile. Quante volte ti ho invocato in mio aiuto, quante volte ho
pianto disperata. Finalmente il dì dopo su carette tirate da robusti cavalli ci hanno trasportati fin qui, a
cinque ore dalla città [Braunau am/Inn in Austria Superiore]. Che bella prospettiva tutto pianure e
monticelli, prati e seggala, un po' di patate e niente più. L'acqua bisogna cavarla dalle sorbe e per lavarsi si è costretti a viaggiare mezza ora per trovare una pozza d'acqua. […] Di viveri poi non si trova
niente e non si sa come campare. In certi momenti non so più cosa penso, mi sembra d'esser pazza.
Sola con quattro figli, senza tue notizie e cola tema di saperti morto un dì o l'altro, povero caro! se tu
sapessi quanto soffro!». Nei diari delle donne troviamo ben descritto questo stato di «raminghe», lontane dalle loro comunità di origine e dalle loro occupazioni produttive, in una situazione di povertà per
molti del tutto nuova, per altri più drammatica di quella conosciuta in patria: sempre fuori casa a cercare qualche occupazione precaria, cibo e/o combustibile; a bussare presso i vari Comitati di assistenza
per ottenere un aiuto, un sussidio, un vestito. Altre fonti come le migliaia di lettere indirizzate al Segretariato per Richiamati e profughi, con sede a Trento e filiale a Vienna, illustrano l’improvvisazione della
partenza, l’assenza di informazioni certe («è solo per 15 giorni», si sentono ripetere gli evacuati) e segnalano le condizioni di povertà («trovandoci alla miseria qui in questo paese ove fan freddi tremendi
siamo senza coperte e senza vestiti», scrivono serialmente al Segretariato).
Nel complesso emergono alcuni elementi ricorrenti: la scarsità del vestiario (dovuto al limite dei 5 Kg di
bagaglio a testa); il problema degli alloggi, costituiti molto spesso da edifici fatiscenti, da cantine malsane, se non addirittura da stalle o fienili; la difficoltà di far fronte, con il sussidio o con i proventi di lavori sottopagati, al costo della vita; la diffidenza delle popolazioni locali, specie quelle dell’Alta e Bassa
Austria, che imputavano ai profughi la colpa di parlare la medesima lingua degli italiani «traditori». La
rete dei parroci trentini al seguito degli sfollati, assicurò un minimo di conforto non solo spirituale e costituì, per molti, l’unico solido punto di riferimento istituzionale per le richieste di aiuto e per i problemi
di lavoro. Le lettere e le relazioni dei sacerdoti inviate all’Ordinariato vescovile di Trento disegnano la
geografia della deportazione e la disseminazione dei profughi in città e paesi e rivelano, nel contempo,
le preoccupazioni pastorali dei parroci trentini che individuano nella prossimità con i protestanti, nella
promiscuità praticata nelle fabbriche, nella diffusione delle idee del socialismo, altrettanti pericoli morali
per le giovani donne.
Accanto alle decine di migliaia di profughi che vissero in «diaspora» per tutta la durata della guerra, altre migliaia vennero concentrate nei grandi lager, come quelli di Mitterndorf e di Braunau, vere e proprie «città di legno», che arrivavano a contenere 20 mila sfollati. Nonostante che per il governo rappresentassero la miglior soluzione per ricoverare (e sorvegliare) grandi masse di persone appartenenti alle
categorie più deboli, è qui che si consumò il capitolo più tragico dell’evacuazione con un peggioramento
intollerabile delle condizioni di vita, mentre si instaurò per la prima volta la militarizzazione della vita
civile. La residenza nei campi era di fatto coatta, i trasferimenti difficili da ottenere, le uscite rigidamente regolamentate, la posta censurata e l'ordine interno assicurato da gendarmi. Dosolina Zanelli, subito
dopo l'ingresso nel campo di Braunau, scrive al marito prigioniero in Russia: «Ieri siamo arrivati qui: io
non posso ancora dire se va bene o male; so solo una cosa: che noi siamo prigionieri. Il nostro vitto è il
vitto dei soldati, i nostri posti per dormire sono pagliericci, come i militari molti l'uno accanto all'altro,
150 in una baracca».
Nei campi il sovraffollamento e la promiscuità erano totali: le baracche potevano contenere anche 400
persone, suddivise in stanzoni da 50, 100: uomini, donne, bambini precariamente separati da stracci e
coperte. Sottoalimentazione e condizioni igieniche e sanitarie precarie favorirono un forte e generalizzato aumento della mortalità. «Fui a Mitterndorf e scappai inorridito. Povera gente», scrive lapidariamente monsignor Parteli, decano di Rovereto. E la paura dei baraccamenti si estese rapidamente tra i
profughi, ripresa anche nelle lettere dei parroci. Le carenze alimentari, abitative ed igieniche esistenti
nei campi si ripercossero in maniera drammatica sullo stato di salute dei profughi; non è esagerato dire
che nei mesi dell'inverno '15-'16 le baracche di Mitterndorf si tramutarono in cimiteri. Furono soprattutto i bambini a soccombere per primi e in maggior numero: dei 1931 trentini deceduti nel campo di Mittendorf dal giugno 1915 al dicembre del 1918, 875 (pari al 45,7 %) erano di età inferiore ai 10 anni.
Allo Stato, che teneva saldamente nelle sue mani la gestione dell’assistenza, si affiancava lo Hilfskomitee für die Flüchtlinge aus dem Süden di Vienna, costituito da personalità del mondo politico, culturale
ed ecclesiastico delle provincie interessate dall'esodo. Tra i trentini, il deputato Alcide Degasperi si trovò, come delegato, a ispezionare il campo di Braunau e soprattutto gli insediamenti dei profughi in Boemia. E forte di quest'esperienza, all'apertura del Parlamento nella seduta del 12 luglio 1917, poté denunciare la politica assistenziale del Governo. Affermò con decisione che i profughi non furono trattati
da cittadini ma «come oggetti da amministrare. Essi vennero evacuati, instradati, perlustrati, approvvigionati, accasermati, come se non avessero alcuna volontà propria, come se non avessero alcun diritto». E come secondo errore fondamentale (anzi «un crimine»), Degasperi denunciava «lo spirito di persecuzione» con cui era avvenuta l'evacuazione: e questo spiegava come si era giunti ai campi di concentramento. Ma quello dei profughi deportati nelle terre dell'Impero fu solo una parte del dramma che
si consumò ai danni della popolazione civile. La rapida avanzata dell'esercito italiano nel Trentino meridionale venne ad annullare, per i paesi occupati, l'ordine di sgombero totale emanato dai Capitanati distrettuali. Così il flusso dei profughi si arrestò per poi cambiare direzione, da nord verso sud. Ad ogni
spostamento della linea di combattimento, le autorità militari italiane, prive di un piano preordinato,
dovettero procedere di volta in volta, spesso sotto il fuoco dei cannoni austriaci, allo sgombero della
popolazione civile. Così in tre ondate successive, si riversarono in Italia, dal maggio 1915 al maggio
1916, 35.000 profughi trentini provenienti dalle Giudicarie Inferiori, dalla Val Lagarina, dalla Vallarsa,
dalla Valsugana e dall'Altopiano del Tesino, dalle Valli del Vanoi e del Cismon e dall'Ampezzano. Il Governo italiano, colto alla sprovvista da un così alto numero di profughi che si andava sommando a quello dei sudditi rimpatriati dai paesi in guerra, scelse di frazionarli, dal Piemonte alla Sicilia, in più di trecento comuni. Senza un piano organico, sotto l'urgente stimolo della necessità, i profughi vennero dislocati a numero, senza riguardo al comune di provenienza e spesso neppure ai legami di famiglia,
presso alloggi privati, ricoveri in comune, vecchi monasteri, ospizi, scuole, asili.
L'assistenza e la cura dei profughi furono affidate alla Direzione generale della Pubblica Sicurezza, alle
prefetture e alle commissioni di patronato, sorte in gran parte per iniziativa della Dante Alighieri: tre
organi diversi, privi di indicazioni comuni, che provvedevano con criteri molto differenti da zona a zona.
Le lamentele che si susseguirono dall'estate del 1915, indirizzate perlopiù a Giovanni Pedrotti vicepresidente della Commissione centrale di patronato tra i fuoriusciti adriatici e trentini, ritornavano sulle
modalità dell'evacuazione forzata, sul trasferimento nelle località malsane e inadatte dell'Italia centrale
e meridionale, sulla disparità di trattamento e sulla necessità di equiparare l'erogazione del sussidio,
sulla tutela del lavoro. Anche in queste lettere emergono le auto-rappresentazioni di gente sbandata e
“raminga”: «Siamo partite da Pieve Tesino per 15 giorni, prendendo con noi il poco che si poteva portare, ora son presto due anni, e la biancheria consumata i vestiti laceri, oramai colle bestie in dosso senza denari, e dimenticate da tutti! […] Invece da tante parti ci scrivono che i profughi hanno vestiti e
biancheria e perché tante indifferenze? Non siamo forse tutti miserabili raminghi, privi di tutto? Quando
avevano da farci morire di miseria così lentamente era meglio ci lasciassero lassù sotto il cannone almeno si moriva in un sol colpo».
Quella vita di segregazione e di disagi, tra gente indifferente quando non sospettosa, finì per preoccupare (anche dal punto di vista dell'educazione e consenso nazionali) i politici trentini più accorti. Scriveva, il 1° giugno 1917, Oreste Ferrari, direttore dell'organo dei fuorusciti trentini «La Libertà» al già citato Giovanni Pedrotti: «In questo momento io sono profondamente convinto, per quello che ò veduto e
per quello che conosco, che, se un'azione sana ed energica non sarà svolta, i profughi che torneranno
nel Trentino dalle varie regioni d'Italia saranno italianamente peggiori di quelli che riavremo dall'Austria
e questo periodo sarà per loro un vero e proprio esilio in patria». Dopo la rotta di Caporetto i 35.000
trentini si confusero con i 632.072 profughi civili fuggiti dalle province di Udine, Belluno, Treviso, Venezia, Vicenza. Profughi tra profughi poterono godere dell'assistenza del neo-costituito Alto Commissariato per i profughi di guerra che si proponeva di regolare in modo uniforme il soccorso «eliminando le incertezze che qualche volta si notavano nelle autorità e funzionari preposti ai relativi servizi». Ma per effetto di Caporetto non persero lo stigma d'irredenti e nei loro confronti si radicalizzarono i pregiudizi, i
sospetti e le diffidenze, tanto che il discrimine tra profughi ed internati si fece assai più sottile. Scrive a
questo proposito don Giacomo Riolfatti, profugo nel comasco al seguito dei profughi del Monte Baldo:
«Politicamente dopo l'invasione austro-tedesca nel Veneto si parlò male di noi, come fossimo anche noi
nemici dell'Italia, e il Governo stesso pareva che volesse tutti internarci non so dove. […] Da questo
procedere della politica italiana contro di noi, anche se non facciamo nulla affatto contro di essa, ne
viene a noi non solo un dispiacere, ma siamo sempre in una condizione precaria, e non possiamo neppure procurarci qualche riserva di patate, perché nel caso d'internamento ci riuscirebbe molto difficile il
trasportarle con noi».
3. Civili, militarizzati
Le donne e gli uomini che dimoravano nelle valli non direttamente coinvolte dal conflitto (l'altra metà
del Trentino), dovettero comunque subire le durissime leggi dell'economia di guerra. Già nell'estate del
1914 erano venuti meno gli introiti tradizionali derivanti dall'emigrazione, dal turismo, dal commercio
con l'estero. Era proibito far uscire dai confini dello Stato beni utili per l'economia interna, per cui non
si potè, ad esempio, esportare in Italia legname in cambio di generi alimentari e soprattutto di mais. A
danno dell'agricoltura e dell'allevamento furono requisiti carri, bestiame e fieno. Negli anni seguenti la
spoliazione delle ricchezze residue dei paesi divenne pratica quasi quotidiana: si requisirono gli oggetti
metallici, gran parte degli attrezzi agricoli, lo spago, la lana, gli stracci, le pelli di vacca, cavallo e capra. Furono mobilitati gli scolari per la raccolta delle foglie di mora e delle ortiche.
Venne introdotta la tessera per ogni genere di prima necessità: una novità che fu registrata con sarcasmo nei diari popolari. Scriveva l'oste Daniele Speranza il 31 maggio 1917: «La tessera. Questo nome
resterà a ricordanza funesta dei poveri abitanti della maggior parte del vasto Impero Austriaco. La tessera è una carta rilasciata dalla Commissione di sostentamento con la quale in determinate ore [ci] si
presenta al luogo di distribuzione e giusta il numero delle persone di famiglia si riceve la stabilita razione di vitto conforme ai depositi e qualità esistenti pella pubblica alimentazione. […] E così ogni volta bisogna andare colla tessera coi denari contati, e dopo lunga coda ricevere la piccola quantità che potrebbe servire appena per un giorno, e deve durare 7 giorni. Fosse almeno genere buono, ma il più delle volte farina di legno macinato o di torsoli, patate guaste, burro rancido, carne febbrata ecc. E così si
va avanti, ma il popolo fra la fame e l'incertezza del termine soffre doppiamente, diventò nevrastenico,
piange e diventa egoista». Ad aggravare la penuria alimentare si aggiunse l'onere di alloggiare truppe e
di ospitare profughi e prigionieri di guerra, serbi e russi. Inutilmente i capicomune facevano presente al
Comando Supremo dell'esercito le difficoltà della convivenza e denunciavano l'abbattimento irrazionale
e massiccio dei boschi, i furti, i danni alle campagne compiuti dai militari.
In occasione della visita del Luogotenente di Innsbruck nell'aprile 1918, mons. Donato Perli, decano e
preside del comitato di approvigionamento di Tione, illustrò così la situazione economico-sociale del distretto: «Ci tolsero il 32% dei bestiami grossi - in altre provincie e distretti soltanto il 6-8-15%. Ci tolsero il burro, il formaggio, il fieno. Ci devastarono le selve, ci spremettero la borsa di milioni di corone
pei prestiti di guerra; ci levarono i rami di cucina fin il paiolo della polenta, ed ora i soldati stessi parte
battono alla porta per polenta ed altri vanno a rubarci nei campi le patate seminate. In compenso non
riceviamo che promesse e amare disillusioni».
Nelle zone che divennero retroterra organizzativo delle prime linee, la popolazione civile fu di fatto militarizzata: tutti gli uomini non soggetti agli obblighi di leva come pure le donne e i ragazzi tra i 14 e i 18
anni vennero utilizzati nei cantieri militari o come portatori. Ancora nelle prime fasi della guerra, che
nel Trentino dall'Adamello alla Marmolada fu essenzialmente guerra di montagna, il fabbisogno di operai divenne impellente. Si trattava di scavare estesi campi trincerati e caverne, di costruire casematte
in calcestruzzo e fortificazioni di vario genere, baracche di legno e depositi, sentieri, mulattiere, strade
carreggiabili (400 Km sul fronte trentino), e poi teleferiche, funivie e ferrovie, linee elettriche e telefoniche, acquedotti. Così che le esigenze di quella guerra combattuta sulle cime imposero al paesaggio
una progressiva e profonda deformazione artificiale. Tra gli operai militarizzati, il vistoso ingresso delle
donne sulla scena bellica inquietò soprattutto i parroci che vi videro il segno di un degrado morale. Ma
comunque si prendesse la cosa, non c'è dubbio che dopo la partenza degli uomini le donne divennero,
come si disse, «padrone del paese»: la guerra impose nel modo più radicale il protagonismo femminile.
D'improvviso le donne dovettero inventarsi come capifamiglia, come artigiani, come operai di fatica,
come negozianti. Nel corso dei quattro anni di guerra trovarono impiego come cuoche, lavandaie o nelle cancellerie militari, ma quando la carenza di manodopera andò crescendo, alle donne furono assegnati compiti assai più pesanti a fianco, appunto, degli operai militarizzati come portatrici di materiale
edile (travi, rotoli di filo spinato, sacchi di sabbia) sino alla linea del fronte. E proprio come i soldati erano esposte al rischio di cadere travolte dalle valanghe o di trovarsi sotto il tiro dell'artiglieria italiana.
4. Confinati, internati, sospettati
«L'obiettivo supremo - la vittoria - per il quale noi tutti lottiamo, esige perentoriamente che per la durata dello stato di guerra gli aspetti militari siano anteposti a tutto il resto». Così si rivolgeva ai primi di
giugno del 1915, senza alcuna diplomazia, al Luogotenente del Tirolo, conte Toggenburg, il generale di
corpo d'armata arciduca Eugenio che, con il trasferimento di competenze dell'amministrazione politica
alle autorità militari, diventava la suprema autorità della Contea principesca del Tirolo. Già un anno
prima, il 25 luglio 1914, in esecuzione della legge del 5 maggio 1869, erano stati sospesi in parte o in
tutto i diritti costituzionali: la libertà personale, l'inviolabilità del domicilio, il segreto della corrispondenza, la libertà di associazione e di riunione, la libertà di opinione e di stampa. Con il conferimento all'esercito anche del potere politico e giudiziario (il 27 maggio 1915 venne introdotta in Tirolo la legge
marziale) si andava instaurando un «potere pressoché dittatoriale».
In questo quadro la popolazione trentina assumeva il ruolo di «sorvegliato speciale» dato che negli ambienti militari era radicata la convinzione che nessun italiano sudtirolese doveva essere considerato del
tutto affidabile. Così con l'entrata in guerra dell'Italia, si provvide con una certa urgenza ad arrestare,
su tutto il territorio trentino, quei soggetti politicamente sospetti, ben noti alle autorità di polizia, che
avevano provveduto già dal settembre precedente ad inserire in appositi elenchi, via via aggiornati.
Senza alcun processo gli «inaffidabili» furono internati nel campo di Katzenau, nei pressi di Linz. L'internamento, un metodo alquanto radicale di repressione preventiva, mancava in realtà di una base giuridica precisa, come denunciò Alcide Degasperi nel giugno 1917, in occasione dell'apertura del parlamento austriaco: se in caso di guerra «persone che potrebbero mettere in pericolo l'ordine pubblico […]
da un lato possono venire espulsi da luoghi dove non sono autorizzati, dall'altro però possono anche
essere costretti a non lasciare il comune o il distretto di loro attinenza. Nessuna legge invece dà diritto
alle autorità di allontanare a proprio piacere la gente e di destinarla in comuni di loro scelta e tanto
meno di chiuderle in campo di concentramento». Ma per una sorta di diritto di «emergenza bellica» la
semplice appartenenza alla Lega Nazionale o l'ostentazione della nazionalità italiana (nonché semplici
indizi, equivoci, voci) erano elementi sufficienti per subire l'internamento. Fino all'aprile del 1917,
quando per un atto di clemenza del nuovo Imperatore tutti i trentini poterono lasciare il campo, il numero degli internati oscillò tra le 1700 e le 2.000 unità. La pratica dell'internamento colpì soprattutto la
piccola e media borghesia trentina (insegnanti, commercianti, imprenditori, artigiani, impiegati, liberi
professionisti), le élites politiche ed intellettuali (i podestà, il clero) che davano corpo alla classe dirigente trentina.
Nelle misure dell'internamento e del confino fuori dal Tirolo (una forma più attenuata di isolamento), le
autorità militari coglievano l'occasione definitiva per mettere fuori gioco l'intero ceto politico, sommariamente definito irredentista. I consiglieri comunali di Rovereto e di Trento, che non erano riparati in
Italia subirono il confino o l'internamento. Valeriano Malfatti, podestà di Rovereto nonché deputato nazional liberale fu accusato di alto tradimento, così come il podestà di Trento Vittorio Zippel. Con loro la
quasi totalità dell'élite politica cattolica, liberale e socialista che all'epoca dello scoppio della guerra con
l'Italia si trovava ancora nei territori della Monarchia, venne internata e confinata. Lo stesso vescovo di
Trento, mons. Celestino Endrici, fu accusato dal Comando supremo dell'esercito di fomentare il movimento nazionale ed irredentistico. Tanto che dapprima fu allontanato dalla sede di Trento e poi confinato, il 19 giugno 1916, presso l'abbazia cistercense di Heiligenkreuz, nella Selva viennese. Il «perno» di
tutte le accuse, scriveva mons. Endrici in una lettera indirizzata a Benedetto XV, consisteva nella sua
opposizione, nel periodo antecedente alla guerra, alla invadenza delle società pangermaniste d'ispirazione protestante. Ma poi denunciava al Papa «l'onda spaventosa di odio e di vendetta» che si stava
abbattendo sopra il clero e il popolo trentino e che rispetto agli ecclesiastici assumeva la fisionomia di
un vero e proprio Kulturkampf. Quasi a simbolico coronamento di questa politica di «decapitazione spirituale della nazionalità italiana in Austria», il 12 luglio 1916 Cesare Battisti, deputato socialista e volontario nell'esercito italiano, viene processato e condannato all'impiccagione per il crimine di alto tradimento. Con lui subisce la stessa sorte il roveretano Fabio Filzi, mentre due mesi prima era stato fucilato il giovane Damiano Chiesa: esponenti entrambi di quei settecento volontari trentini che avevano
compiuto la difficile scelta (per molti aspetti estrema) di disertare, di abbandonare le famiglie per arruolarsi nell'esercito italiano
In definitiva nei tre anni della guerra contro l'Italia, il Comando Supremo dell'esercito considerò il Trentino come un territorio nemico e i trentini «come un popolo nemico, come un popolo conquistato». Contro di loro si aprirono migliaia di procedimenti penali, rubricati come reati di disturbo della quiete pubblica, alto tradimento, lesa maestà e oltraggio ad un membro della Casa imperiale, tesi a reprimere ogni forma, anche minima, di dissenso. Ma anche nel lembo di territorio occupato dall'esercito italiano le
ragioni militari vennero «anteposte a tutto il resto». Già la freddezza manifestata dalla popolazione,
ben lontana dalle immagini della propaganda, preoccupò non poco le autorità militari italiane. «Voi
Trentini siete tutti austriacanti. […] I miei soldati sono convinti di fare una guerra di liberazione, non di
occupazione, e guai se sapessero che voi non siete contenti di venir liberati dall'Austria», avrebbe detto, esprimendo tutto il suo disappunto, il general Cantore entrando ad Avio. Così sulla base di elenchi
preparati da informatori locali che si erano premurati di segnalare le persone ostili e inaffidabili, ora per
«sospetto austriacantismo», anche le autorità italiane fecero valere immediatamente lo strumento
dell'internamento. Secondo recenti stime circa 1.500 persone, di «sentimenti austrofili» e sospettate di
spionaggio, vennero interessate da provvedimenti restrittivi e parte di questi dispersa per lo più in centri dell'Italia meridionale o internata a Ventotene e a Ponza.
5. Ricomporre le lacerazioni
Il ritorno nel Trentino, divenuto italiano, fu per tutti, profughi, internati, soldati e prigionieri un evento
traumatico. Trovarono un territorio devastato: pascoli e boschi pesantemente sconvolti dalle trincee e
dalle tante opere belliche e dai bombardamenti, mentre interi paesi, collocati lungo la zone di confine,
erano stati distrutti. Inoltre lo spopolamento forzato, le requisizioni, la spoliazione sistematica delle
campagne, la decimazione del bestiame, il generale impoverimento avevano provocato una drammatica
caduta di produttività del suolo. Entro questo quadro si trattava di ricomporre le famiglie e le comunità
lacerate dai lutti e dalle traversie della guerra; di riprendere il corso di una vita che per tutti era passata attraverso prove e tensioni.
Le centinaia di diari, di memorie, di epistolari prodotte in quegli anni difficili consentono di rilevare le
trasformazioni soggettive (mentalità, religione, scelte politiche, ideologiche e nazionali) che avvennero.
Da esse, emerge senza dubbio anche la scoperta e l'affermazione di un'identità italiana dentro la crisi
dell'esercito imperiale o nei campi di prigionia. «Ma la scrittura popolare diffusa della guerra testimonia
anche la difficoltà, o l'impossibilità, di ridurre la profondità dell'esperienza vissuta entro la categoria
della redenzione patriottica. Il mito della guerra eroica, la sua celebrazione monumentale, l'enfasi sul
sacrificio dei volontari per l'Italia non potevano incontrare facile adesione presso uomini e donne che
della tragedia europea avevano conosciuto direttamente altri volti e altri scenari, e che si trovavano di
fronte alla necessità di elaborare altri lutti». Ad accentuare l'estraneità delle popolazioni rurali ai miti e
ai riti della redenzione ci fu, dopo la fine delle ostilità, l'internamento dei trentini, già soldati austroungarici, nei campi di prigionia italiani. Una sorta di «leggenda nera» che enfatizzò, nei decenni successivi, quella che venne da subito percepita come un'azione punitiva. Era successo che all'indomani
dell'armistizio i militari trentini che erano riusciti a raggiungere le loro case dalle varie località dell'Impero in cui si trovavano dispersi (quando non dalla prigionia in Russia), su disposizione di alcuni comandi e sulla base di direttive confuse e contradditorie, furono inviati nei campi di concentramento
dell'Italia centrale, come Isernia e Castellamare Adriatico. Vi rimasero due mesi in condizioni oggettivamente umilianti, che nelle memorie successive vennero descritte come peggiori di quelle subite durante la prigionia in Russia. Se «i fatti di Isernia» suscitarono tali proteste da indurre le autorità italiane
ancora a fine gennaio alla liberazione degli ex militari austroungarici, molti altri restarono più a lungo
nei tanti campi disseminati nella penisola, da Brescia a Servigliano (Ascoli Piceno) a Crotone, fino all'Asinara, dove furono internati gli ex prigionieri provenienti dalla Russia, via Odessa, in quanto «sospettati di sentimenti bolscevichi».
Terminate le ostilità, non si esaurirono gli effetti di quelle lacerazioni che divisero i trentini, ma continuarono, nel corso del Novecento, a determinare scelte e comportamenti, ad alimentare il conflitto tra
narrazioni e contronarrazioni d’identità.