2 Corriere di San Floro e della Calabria
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2 Corriere di San Floro e della Calabria
Corriere di San Floro lla e d Calabria e Periodico trimestrale in distribuzione gratuita - Direttore responsabile DOMENICO PARAVATI - Registrato presso il Tribunale di Tivoli al n. 13 del 2007 Editore-Proprietà-Dir.ne-Red.ne: Domenico Paravati - V.le Trieste 19 - 00068 Rignano Flaminio (RM) Tel./Fax 0761.597431- e-mail: [email protected] - Stampato da Tipografia Vallelunga - Via Monte Razzano 11 - Campagnano di Roma - Tel. 06/9043081 La collaborazione è sempre gratuita. I testi, pubblicati o no, non si restituiscono - Responsabile dati personali: Domenico Paravati Attività editoriale senza fini di lucro (art.4 D.P.R. 26.10.1972 n.633 e successive modifiche) - Per controversie legali foro competente è quello di Tivoli Per consegna a domicilio (Abbon. annuale per posta): euro 20; sostenitore euro 50; benemerito euro 100. 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Don Giuseppe lo ha messo in evidenza, più o meno con queste parole: “Se vi fossero state solo le offerte dei fedeli non si sarebbe riusciti a pagare le spese della festa per il Patrono”. Don Giuseppe, a nostro parere, ha purtroppo dimenticato che il popolo - composto non solo di fedeli “auD.P. (segue a pag. 3) Gli angioletti e il Santo Martedì 17 agosto 2010, ore 20.20, chiesa parrocchiale di San Nicola, in San Floro, vigilia della festa dell’omonimo Patrono. Il parroco don Giuseppe, davanti ad una folla di fedeli che ha appena assistito alla cerimonia preparatoria per il giorno successivo, se ne esce con queste parole: “Una raccomandazione, soprattutto a chi viene da fuori, a chi rimane qui solo per una settimana, dieci giorni, un mese: Fate caso a ciò che avete trovato in più in questa chiesa rispetto all’anno scorso, non a ciò che non c’è.”: Capisco le preoccupazioni di don Giuseppe, che ha ben diritto ad essere giudicato soprattutto per le belle cose che fa da quando governa questa comunità cristiana, certamente parecchie. Ma è bene che anche egli capisca i turbamenti di coloro che “vengono da fuori”, cioè noialtri emigrati (che però diamo linfa vitale proprio alle iniziative festaiole locali). Coloro che “vengono da fuori”, se non tutti, buona parte (ma credo di aver capito anche una parte non indifferente di quelli che rimangono qui tutto l’anno), continuano a chiedersi perché gli antichi quattro angioletti in legno D.P. (segue a pag. 3) A CHISSA RUGA… A chissa ruga ‘nc’è’na bella rosa: nessunu mu la tocca ch’è la mia! Si ‘nc’esta ‘ncùnu chi pretenda cosa cacciàra si la po’ la hantasìa. Sinnò la testa a li pìadi li posa, lu sangu fa lu hjùma pe lla via! PERSONAGGI Fortuna vitrea est. Tum cum splendit, frangitur Publilio Siro, I° sec. a.C. “Sententiae” Anno IV - N° 3 Luglio - Agosto - Settembre 2010 PERSONAGGI Mariana Rocca ricorda Paparazzo Salvatore Citraro Era lo “zio d’America” della bambina -ora scrittrice- adottata negli Anni Quaranta da una famiglia sanflorese. “Mi regalò il vestito più bello della mia vita” - “Sempre pulito e profumato, sento ancora l’odore del suo sapone da barba, delle sue sigarette bianche e lunghe, il sapore delle prime gomme da masticare che avevano il disegno del ponte di Brooklyn” Ha dedicato la vita alla scuola in varie località della provincia Mariana Rocca, che ha vissuto i primi difficili anni della sua infanzia nel nostro paese sotto altro cognome -quello del padre adottivo- è diventata scrittrice MARIANA ROCCA durante la presentazione dei suoi libri a San Floro proprio mettendo nero su bianco i ricordi tremendi della sua vita. Ha pubblicato due libri di questi ricordi, di cui leggerete in altra parte del giornale. Nei due volumi non figura però questo ritratto -stavolta molto positivodi un personaggio che a San Floro ha lasciato una simpatica traccia, Giuseppe Paparazzo, un emigrato in America nei primi anni del secolo. Mariana Rocca ce ne fa regalo e noi siamo lieti di pubblicarlo in apertura di questo numero del Corriere. Anche perché ci viene un dubbio: chissà che il nome di questo Paparazzo non abbia ispirato a Fellini quello appioppato al re dei fotoreporters romani nella “Dolce Vita”; chissà, cioè, che il famoso regista, recandosi negli States, non abbia incontrato lo stesso protagonista di questa nostra storia e quindi non abbia deciso di soprannominare “Paparazzo” il personaggio che nel film dava la caccia con la macchina fotografica ad attori ed attrici in via Veneto; per cui da allora sono diventati “paparazzi” tutti i fotoreporters. *** Ho un bellissimo ricordo dello zio d’America, Giuseppe Paparazzo. Il mio primo ed unico vestitino nuovo, che ho avuto da ragazzina verso i nove anni, me l’ha fatto fare su misura proprio lui da una brava sarta di Catanzaro, lui che era diventato negli Stati Uniti un sarto-stilista rinomato perché vestiva gli attori del cinema e i più grandi personaggi del governo, con i suoi vestiti tagliati, cuciti e rifiniti tutti a mano. Ma aveva mi raccontavano - anche un’altra passione: quella di fotografo e giornalista. Era famoso per la sua iro- OPINIONI Gli anziani di Borgia e le badanti straniere Un dubbio grave mi tormenta da qualche tempo. Sto cercando di capire la reale situazione in cui vivono tanti anziani nel nostro paese, Borgia. Mi chiedo: ma è possibile che ci sia tanta cecità? O peggio ancora: è possibile che la famiglia non esista più? Questo è il dubbio. Seguitemi, sarò breve. Cosa spinge oggi tanti figli a consegnare i propri genitori anziani e bisognosi di affetto alle badanti arrivate in massa dall’Est europeo? Niente razzismo, ovviamente, solo ragionamento. Queste donne hanno le basi per fare le badanti? Per poter assistere i bisognosi sono richieste competenze minime, in campo medico, in quello psicologico e, soprattutto, in quello umano. A ben vedere, mancano completamente queste qualità. L’assistenza non è assolutamente buona. Spesso si tratta di donne venute in Italia per trovare una sistemazione e, sicuramente, la loro intenzione non è quella di fare le badanti a vita. Queste donne ammirano il nostro stile di vita, che vorrebbero emula- re. Quindi, il loro lavoro di badante non è consono a quanto da loro sognato. Tanto più che spesso sono anche sottopagate ed in nero, in barba all’Inps. Si dà pieno mandato a queste donne di dare le medicine ai nostri genitori, a farli mangiare, a fargli compagnia. Si è delegata loro la vita dei nostri cari. Si vedono, e sono sotto gli occhi di chi vuol vedere seriamente, i visi spenti di questi anziani, smarriti e senza affetto. Spesso sono talmente ripieni di medicine che dormono in continuazione. Fanno pena questi anziani, seduti tutto il giorno, con la mente assente. Ma che vita è? Che pena sentire dire: “Gli abbiamo messo una donna”. È come se con questa frase ci si sia liberati di un peso. Non così per la coscienza, però. Risposta al mio dubbio: quello che manca a queste persone è l’affetto, quello vero, quello che è amore sincero che solo un figlio può dare, non certamente un estraneo. Non è soltanto il piatto di pasta o la tv, ma è proprio l’amore che manca. dom. proc. nia pungente. Era primo cugino del mio papà adottivo, perché erano figli di due sorelle. A me raccontava che avevano quasi la stessa età. Erano partiti per l’America a diciotto anni per fare fortuna insieme con tanti altri giovani, ancora prima della prima Guerra Mondiale del 1915-18. Mio padre dopo pochi anni è tornato al paese e si è sposato, mentre suo cugino era rimasto lì formandosi una famiglia e imparando il mestiere di sarto . Aveva lasciato l’unica sorella (dieci anni più di lui) che gli aveva permesso di partire perché erano orfani. Lei gli aveva fatto da mamma e da papà, lavorando come governante al servizio di una ricca famiglia di Girifalco. Non si era mai sposata e aveva cresciuto i quattro figli dei padroni come se fossero i suoi: un maschio, che era diventato avvocato, e tre femmine molto belle, che io ho conosciuto molto bene, insieme con la loro mamma che faceva finta di essere sorda; e suo figlio, l’avvocato, l’abbracciava ridendo e le diceva vicino all’orecchio: “Mamma , tu non senti quello che non vuoi sentire, ma Mariana Rocca (segue a pag. 2) Il valore del “Corriere” È da qualche mese che i tagli della finanziaria hanno decretato l’abolizione delle tariffe agevolate per gli editori. Il taglio ha costretto gli editori a chiedere ai loro abbonati un supplemento di prezzo al fine di coprire le spese postali. Questo aumento dei costi ha inciso irrimediabilmente sui prezzi degli abbonamenti, che, nella migliore delle ipotesi hanno subìto un aumento del 15%, gravante sulle tasche degli abbonati. Il Corriere di San Floro e della Calabria non ha risentito delle modifiche alle tariffe postali poiché da anni le spedizioni del giornale avvengono a tariffa intera, quella che ora dovranno pagare editori di periodici a diffusione nazionale, senza usufruire di alcun beneficio statale. Negli anni il nostro Corriere è vissuto grazie alle quote di abbonamento sottoscritte da tanti lettori lungimiranti che vedono nel giornale un ponte di collegamento tra la cultura locale e quella nazionale. Per anni i nostri lettori hanno potuto leggere, apprendere e conoscere tante realtà di cui non si trova traccia nei quotidiani locali. Si è saggiata la dedizione dei collaboratori alla nostra terra e si è letto quello che tutti vorrebbero dire. Insomma, una perla data a chiunque, nella speranza che ne sia riconosciuto il valore. Domenico Procopio Salvatore Citraro (Borgia, 19342002). Una personalità attiva, particolarmente connessa alla struttura sociale. Ha operato con umiltà per il prossimo e per la comunità nella quale viveva, senza pretese, tranne provare, via via, la gioia che suscita nell’animo il bene fatto. Il suo è stato un impegno sociale coerente per tutto il SALVATORE CITRARO tempo dell’esistenza. Una vita vissuta fra la gente, tra gli amici (ne aveva tanti!), con i quali gli piaceva intrattenersi, dialogare, ma soprattutto sentire i bisogni degli altri con partecipata sensibilità. Ha dedicato massimamente il suo “lavoro” alla scuola dove ha istruito ed educato più generazioni di alunni. Conosceva bene l’“arte di fare scuola”, che praticava nel rispetto delle norme e delle indicazioni contenute nei programmi ministeriali e alla luce delle sue conoscenze psicopedagogiche. Nella scuola statale ha prestato servizio per quasi 40 anni - dal 1958 al 1997 - alcuni dei quali in varie località della Provincia.ABorgiacentro(nella primaria“A.Pitaro”)dal1968al1997, dove, oltre all’insegnamento, ha esercitato la funzione di Vicedirettore, dal 1976 sino all’anno in cui è stato dispensato dal lavoro per motivi di salute. In aggiunta, ha impartito, per decenni, nel suo studio, l’insegnamento della matematica a un crescente numero di alunni e studenti borgesi che hanno seguito con interesse e profitto le sue lezioni private. Si è interessato anche di politica. Apprezzato collaboratore tra i numerosi iscritti alle locale sezione del PSI. Negli Anni Settanta, candidato alle elezioni amministrative di Borgia, veniva eletto Consigliere comunale e poi scelto a fare parte della Giunta (Assessore al personale dal 1970 al 1974). Dal matrimonio d’amore da lui contratto nel 1960 con la gentile e virtuosa Paola Vatrano sono nati due figli: Leonardo (oggi, avvocato) e Concetta (infermiera professionale). I suoi hobbies preferiti: giocare a carte con gli amici; andare in campagna (attratto dalla vita semplice dei campi); raccogliere , nei boschi vicini, nella stagione favorevole, qualche fungo mangereccio; occuparsi del buon andamento della squadra di calcio locale; tifare per la squadra del Milan. Antonio Zaccone COSE NOSTRE Cari lettori, regolatevi Cari Lettori, repetita iuvant ed inoltre ci piace l’estrema chiarezza. Questo giornale campa alla giornata. Ed anche questo numero nasce dopo molti dubbi. Gli ostacoli non sono superati, ma è possibile che riusciremo a coprire i costi di stampa di questo numero con l’arrivo di tutti gli abbonamenti scaduti. E di qualche nuovo acquisto. A proposito: vogliamo ripetere - come già scritto in altre parti del giornale - che la parola abbonamento per noi non significa impegno assoluto a far uscire il giornale per il prossimo o i prossimi numeri, ma è riferita solo ad un contributo a fondo perduto da parte vostra. Quindi nessuno vi assicura che, pur versando una qualsiasi somma, voi riceverete il numero di dicembre del”Corriere”. Dovrete, per forza, anche voi campare di speranza: la speranza che il giornale possa continuare ad uscire con l’impegno concreto di tutti (e quello nostro è piuttosto rilevante, del tutto gratuito e con rischio di pesanti perdite in moneta per il semplice amore del loco natìo). Per cui, regolatevi. Dateci speranza di vita finchè potete. Quando vi sarete stancati, molleremo anche noi. La Direzione Quando imparai a nuotare Quando mio padre mi ha insegnato a nuotare, teneva la sua mano sotto la mia pancia ed io mi sentivo felice e protetto. Ma fu quando tolse la mano che imparai a nuotare. d.proc. Corriere di San Floro e della Calabria Direttore responsabile: Domenico Paravati Vice Direttori (ad honorem): Feliciano Paravati (per i servizi fotografici) Antonio Zaccone (per Borgia e Catanzaro) Angiolino Guzzo (per i servizi tecnologici) 2 Corriere di San Floro e della Calabria Anno IV - N° 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2010 DALLA PRIMA PAGINA Mariana Rocca ricorda Giuseppe Paparazzo, lo “Zio d’America” senti benissimo quando ti conviene!”. E lei rideva e faceva ridere tutti noi che eravamo presenti a quelle scenette simpatiche. Mio padre era rimasto sempre in contatto con lei, che era la sua unica cugina carnale e si volevano molto bene, ma anche con suo fratello, che per tutte le feste gli scriveva lettere per gli auguri e gli raccomandava di andare a trovare sua sorella. Ogni volta che in quel paese c’erano le fiere, per cose o animali, io andavo con mio padre a piedi per più di 15 o 20 chilometri. Andavamo a casa di quella bella famiglia, che mi voleva bene e mi coccolava come una vera nipotina, che loro ancora non avevano perché nessuno di loro si era ancora sposato. Tante volte restavo a dormire da loro per una settimana. Per me era una festa perché mi ero affezionata a tutti loro, specie alla zia Concetta Paparazzo. Lei mi parlava sempre di quel suo tanto amato fratello che era partito per l’America ancora ragazzo e non era più tornato. Era rimasta in contatto con lui solo per lettera ma non aveva mai perso la speranza di rivederlo prima di morire. Aveva quasi ottant’anni ma, anche se piccola e curva su se stessa, era una donna in gamba, con una mente lucidissima, che continuava a fare il suo lavoro e governare quella famiglia che era diventata la sua, alla quale ave- va dedicato tutta la sua vita, le sue forze e il suo amore materno e allo stesso modo era ricambiata e rispettata da tutti loro che la chiamavano mamma Concetta. Anche io le volevo molto bene e la chiamavo zia. Un bel giorno d’agosto - era quasi vicina la ricorrenza del Santo Patrono San Floro - con grande gioia si avverò il suo desiderio di rivedere l’amato fratello, che chiamava Peppinuzzu. Così anche io conobbi il famoso zio d’America.Erano passati più di cinquant’anni, c’erano state due guerre mondiali, le bombe su Hiroshima; il mondo era cambiato da quando era partito, ma lui parlava ancora il dialetto del suo paese di nascita. E per tutte le persone della sua stessa età era come fosse tornato un fratello. Io ho subito incominciato a chiamarlo zio perché per me era una persona speciale. Quando veniva al paese era sempre nostro gradito ospite, sia a mangiare che a dormire. Al mattino seguivo con curiosità tutto il rito per la sua pulizia personale: sento ancora il profumo del suo sapone da barba, della sua colonia che portava dall’America, delle sue sigarette bianche e lunghe, il sapore delle prime gomme da masticare che avevano il disegno del ponte di Broocklyn e che ancora nessuno aveva mai visto. Io forse sono stata la prima al paese a masticare le gomme americane. Assistevo alla sua prima colazione con caffè, pane tostato e due uova fresche quasi crude: le voleva appena scaldate nell’acqua calda; poi faceva un piccolo buco sopra e sotto e le succhiava. Io non riuscivo a capire come facesse a svuotare l’uovo senza rompere il guscio, che restava intero, e lo dava a me per romperlo: si divertiva un mondo guardando la mia innocente incredulità. A volte mi faceva degli scherzi un po’ antipatici per farmi arrabbiare. Come quando, il giorno della festa, mi regalò un palloncino gonfiato a forma di cavalluccio. Poi mi fece andare vicino a lui. Eravamo davanti alla porta della chiesa, in mezzo a tanta gente perché era la festa del Santo Patrono. Aveva la sigaretta nascosta dietro la schiena. All’improvviso toccò il mio palloncino, che scoppiò come un petardo facendomi piangere per lo spavento. Lo zio, ridendo come un bambino, si affrettò a comprarmi un altro palloncino. Io lo guardavo con ammirazione perché sempre pulito e profumato, molto elegante nei suoi abiti tagliati e cuciti da lui stesso, con delle bellissime stoffe di lino e seta, le sue camicie bianche e azzurre, le sue cravatte adatte all’abito indossato. Mi piaceva guardarlo quando, davanti allo specchio, si faceva il nodo in modo perfetto che io da sola cercavo di copiare senza riuscirci. Le scarpe erano di pelle lavorata e cuoio sempre lucide, fatte a mano. Era proprio un signore distinto e simpatico. Un giorno sono andata con lui fino al bivio del paese, dove c’era il “casello” della posta e dove si fermava anche la corriera (al paese allora gli autobus non potevano salire perché la strada non era adatta neanche per le macchine). Lo zio doveva prendere la corriera, che allora chiamavano “Il postale”, per andare da sua sorella a Girifalco. Mentre eravamo in attesa, lo zio fu attirato dalla curiosità per un formicaio a forma di piccolo monte, con un buco al centro, dove le formiche con le ali entravano ed uscivano. Lo zio tirò fuori dalla tasca un foglio di carta e un fiammifero e lo buttò nel formicaio, uccidendo tante povere formiche. .Dopo quel primo anno è venuto ancora tre volte, sempre in agosto, per un mese. La seconda volta mi portò in regalo il primo bambolotto di plastica morbida che potevo smontare tutto. È stato il primo ed unico giocattolo che ho ricevuto nella vita. Lui era felice di vedermi crescere bella, sana, intelligente, scoprire la mia passione di studiare, imparare tante storie che ero felice di raccontargli. Lui cominciò a descrivermi la sua vita in America, i suoi lunghi viaggi con le navi, i suoi sbarchi nello stretto di Gibilterra quando veniva in Italia. Forse è stato proprio lui che mi ha inculcato la voglia di viaggiare alla scoperta di paesi e terre vicine e lontane ma mi ha fatto anche capire che puoi girare tutto il mondo, ammirare i posti più belli che esistono sulla terra; ma l’amore per il proprio luogo di nascita, bello o brutto che sia, te lo porti sempre nel cuore per tutta la vita. La terza volta che tornò io ero già una bella ragazza di nove anni, anche se ne dimostravo di più. Voleva vedermi vestita finalmente con un bel vestitino nuovo, su misura per me e per la mia bellezza in fiore, come era orgoglioso di scattarmi le prime fotografie ogni anno che tornava. Quella volta arrivò con un misurino da sarta, mi prese le misure giuste per farmi confezionare un vestito per la festa del Patrono. Una mattina partì per Catanzaro per comprare la stoffa e trovare la sarta. Non riesco a descrivere la gioia che provai alla vista di quella meraviglia. Avevo quasi paura di indossare quel vestito per paura di romperlo, ma mi stava a pennello. Era di una stoffa di moda in quel periodo, una stoffa che chiamavano bouclé. Aveva tutto il fondo rosa mattone con tanti mazzolini di fiorellini scuri, il colletto rotondo, le maniche corte a palloncino, la gon- na svasata. Io non avevo mai visto un modellino come quello neanche sui libri o sulle riviste. Per me è stato il vestito più bello della mia vita. Il giorno della festa ero la più bella di tutte ed ero molto orgogliosa del mio vestito rosa di bouclè. Quando ormai non riuscivo più ad entrarci perché ero diventata grande, ho tolto le maniche e la gonna e mi sono fatta una camicetta senza maniche. È stato il regalo più bello che abbia ricevuto nella vita perché ricevuto da uno zio americano che mi ha voluto bene, anche se tra me e lui e sua sorella non esisteva alcun legame di sangue. Mi dispiace di non avere più nessuna delle belle fotografie che mi aveva fatto, anche con quel vestitino che mi aveva fatto tanto felice. Dopo qualche anno è arrivata una lettera dall’America con la notizia della sua morte con dei ritagli di giornali che parlavano di lui come di un grande sarto, ma anche di un bravo giornalista e valente fotografo, calabrese di nascita ma cittadino americano da una vita: il grande Giuseppe Paparazzo. Sua sorella è morta due anni dopo; ma, almeno nell’ultimo periodo della sua vita, aveva avuto la gioia di rivedere l’amato fratello Peppinuzzu. Mariana Rocca Lavagna, 25 aprile 2010 I due libri di Mariana, un documento eccezionale sul nostro passato A San Floro, nel mese di agosto, il sindaco Procopio ha presentato al pubblico i due libri pubblicati da Mariana Rocca, una nostra compaesana, emigrata da tempo nel nord Italia. I volumi sono Nata per vivere-Autobiografia di Mariana e Una donna così-Note di viaggio , entrambi stampati da Pubblisfera Edizioni – San Giovanni in Fiore (tel.0984993932)-rispettivamente nel 2008 e 2010. I libri sono stati presentati anche in varie altre località sia della Calabria che di altre regioni e se ne è parlato in tv. In proposito una nota del direttore di questo giornale. Devo dire che i libri di Mariana Rocca mi hanno letteralmente scioccato. Personalmente ho avuto un’infanzia abbastanza felice e serenamente impegnata. Di questo ho trasmesso qualcosa nei due volumi che anch’io ho scritto, anche se di argomento completamente diverso perché ho colto il lato bello della vita di paese, con il suo folklore, le tradizioni, la vita “pubblica” di tutti i giorni…. Lei invece afferma di avere trascorso una fanciullezza - e non solo - molto triste, nello stesso nostro paese, San Floro. Soprattutto Nata per vivere – Autobiografia di Mariana - una spaventosa confessione sulla sua difficile vita - è stata dunque per me l’autentica scoperta di una realtà che avevo sì, immaginato, ma non con i colori così bui; come quando si pensa a qualcosa che è lontano da noi e di cui non si conoscono i particolari. I libri di Mariana- l’altro si intitola Una donna così-Note di viaggio – mi hanno inferto un duro col- po. A San Floro, dunque, c’era chi soffriva veramente tanto nell’ambito familiare, come certamente soffrivano (o soffrono ancora?) tante persone in altri posti soprattutto del Sud del mondo. A Mariana -ma a San Floro era Maria, Mariettina, Marietteddha, ecc.- invidio il coraggio che ha avuto nel pubblicare queste sue amare riflessioni, oltretutto chiamando tutto con il proprio nome. Ma bisogna dire che questo suo merito ha anche un aspetto negativo. Certe ferite non si rimarginano facilmente, non solo dentro di lei ma anche nei lettori del nostro paese, San Floro; in quei lettori che in queste pagine hanno avuto chiara la percezione di riferimenti a parenti o amici o semplici conoscenti. E certo non è bello sco- prire che il Tale – che tu consideravi persona del tutto normale e tranquilla, e magari era stato un tuo compagno di scuola - avesse quei brutti difetti, sempre se la realtà descritta corrisponde alla pura verità. Sarebbe stato meglio, forse, che Mariana descrivesse i suoi affanni di bambina e poi di adulta sostituendo i nomi reali di persona e di luogo - con altri di fantasia. Avrebbe evitato qualche dolore a chi è venuto su questo mondo dopo di lei oppure a chi i protagonisti o quei protagonisti se li ricorda bene, pur non avendoli mai conosciuti nel profondo così come raccontato dalla nostra formidabile scrittrice. La quale, se i suoi testi fossero stati maggiormente curati, avrebbe potuto legittimamente aspirare a pubblicarli presso un editore più importante. L’argomento che of- friva era veramente interessante e la cronaca è sempre meglio dell’affabulazione di tanti nostri scrittori (vedi il successo di Gomorra di Saviano, che ha solo raccontato fatti e non fantasie). Ma a chi ha proceduto alla stampa di questi due preziosi volumi preziosi per la testimonianza che offrono su quella che era molto spesso la vita nei nostri paesi- va dato comunque il grande merito di aver preso sul serio una donna che ne ha visti di tutti i colori, aveva solo pensato ad un diario, ma poi ha deciso, come si dice ora, di fare outing, cioè di confessare a tutti, - quasi un’autoanalisi quella che era stata la sua vita per alcuni decenni in un piccolo centro del profondo Sud a partire dagli Anni Quaranta. E comunque, per i piccoli errori che si rilevano nei suoi libri, una giustificazione c’è e il lettore attento è pronto a perdonare. La Mariana afferma che fin da piccola aveva sete di apprendimento ed avrebbe desiderato studiare oltre le elementari piuttosto che andare in campagna con i genitori adottivi, ma ciò non le sarebbe stato consentito; per cui solo molto più tardi ha potuto fare un salto in avanti. Ma proprio per questo i suoi libri -che vi consiglio vivamente di leggere- sono un eccezionale documento di sofferenza fisica e morale, che forse proprio ora Mariana riesce ad alleggerire grazie alla sua attuale grande famiglia -cinque figli che hanno già altri figli- che le vuole tanto bene, ricambiandola di quanto sofferto in passato e dove lei ora è “la nonna scrittrice”. Domenico Paravati Unatelettera di Mariana: Così ricordo alcuni miei vicini di casa fotografica che potrei raccon- ho capito che era quasi uguale case dei tuoi parenti, nella casa era un mito, perché veniva dal tutti loro. Carissimo Domenico, sono stata felice di poter parlare con te al telefono, ma molto più di aver rivisto insieme te e tuo fratello Feliciano, dopo più di cinquant’anni. Sembra ieri quando ero ancora una bambina e tu eri il fratello maggiore delle mie compagne di gioco e di scuola - Elisabetta (Bebè) e Maria Pia - e di Floro (Fofò) che ti adoravano e ti chiamavano Mimì. Anche io avevo imparato a chiamarti in questo modo. Poi vi siete trasferiti a Miglierina e per un po’ non ci siamo più visti perché ero andata via dal “Pizzo” a tredici anni e voi non eravate ancora tornati al paese. Poi mi sono sposata e al “Pizzo” non ci sono più venuta, finchè non ho cominciato a portare il mio primo figlio all’asilo al “Timpone”. Ma i ricordi che ho della vostra famiglia sono tanti, sono così impressi nella mia men- tarvi tanti episodi, come se fosse ieri, come il ricordo che ho scritto nel secondo libro. Come avrai capito, era il tuo papà che mi ha tolto il vetro dal tallone; e dove nessuno c’era riuscito, lui ce l’ha fatta. Ho il ricordo della tua mamma quando è venuta al paese (forse per le ferie estive) ed io l’ho vista con il pancione per la prima volta. Mi sembrava una cosa strana, ma era in attesa di Feliciano. Era come se si sentisse a disagio perché aveva già quattro figli. Ma quando è venuta con il bambino la prima volta tutti eravamo felici e contenti. Insieme con i grandi c’ero anche io che, curiosa, ho chiesto: “Come si chiama?”.Quando mi hanno risposto: “Feliciano” io sono rimasta un po’ confusa perché quel nome mi ricordava qualcosa ma non riuscivo a capire cosa. Poi al nome della mia vera mamma, che si chiamava Felicina, ma era un nome che tutti pronunciavano in mia presenza con disprezzo verso di lei, ed io cercavo di dimenticarlo, ma non ci riuscivo; e bastava un altro nome quasi uguale per riaprire la ferita mai rimarginata del mio piccolo cuore di bambina lasciata ad altri dalla sua mamma. Io ho conosciuto bene i tuoi nonni materni ed i tuoi zii Micuzzu e Polituzza, perché andavo sempre in casa loro, proprio in quella che adesso è tua. A me allora sembrava bellissima. Mi piaceva affacciarmi dai balconcini, ero sempre a pestare l’uva scalza nel palmento e tuo zio era sempre lì con il suo bastone a controllare che tutto filasse liscio con il torchio a cui teneva moltissimo. Io sono cresciuta quasi nelle in cui abitava Don Celestino, al “Pizzo”, e le sue nipoti ancora giovanissime, Giovanna e Rosetta. Poi è arrivata la bellissima signora Bonina (Amalia mi pare fosse il suo vero nome), cioè la moglie di tuo zio Salvatore, che veniva da Catanzaro; e già per me posto dove abitava la mia mamma. Ho visto quasi nascere tutti i suoi bellissimi figli perché da tua zia Teresina andavo ad imparare il cucito. Ho visto tuo nonno e tua nonna negli ultimi anni della loro vita e spesso sogno di essere ancora in quella casa con Era per tua zia Teresa, che io ancora non conoscevo nemmeno, che ho rischiato di annegare nel mare per recuperare il suo zoccolo che lei non riusciva a prendere. Era con lei che andavo in campagna nel vostro vigneto quando voi non eravate al paese, per aiutarla a dare il verderame, ed era sempre con lei che andavo a raccogliere erba per i suoi conigli, come avrai letto nella prima parte della mia autobiografia. Quando tuo padre è ritornato in paese per prendere il posto di ufficiale postale, perché l’anziano ufficiale era andato in pensione, io ero già sposata. Un giorno l’ho visto arrivare trafelato a casa di mia suocera, a “Li Cezulli”, dove abitavo, per avvisarmi di andare all’ufficio postale entro AMALIA “BONINA” PARENDELLA E SALVATORE DE Mariana Rocca NARDO (segue a pag. 3) Anno IV - N° 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2010 Corriere di San Floro e della Calabria BORGIA SEGUE DALLA PRIMA E DALLA SECONDA San Fantino in un articolo di Don Antonio Severini Antonio Zaccone ci segnala questo testo sull’antico monastero di San Fantino, nelle campagne di Borgia, scritto da Don Antonio Severini e tratto da “Il Mosaico”, periodico borgese di informazioni della A.S.C. “Auriga”, numero del novembre 2000. Quando da ragazzo andavo lungo il fiume Ghetterello a giocare con i miei compagni facendo tuffare in acqua le rane, saltando da una pietra ad un’altra e schizzandoci acqua, improvviso in lontananza appariva un agglomerato di case, nella mia fantasia un luogo incantato: San Fantino. Il nome evocava alla mia mente di ragazzo un mondo fascinoso, avrei voluto vedere di persona cosa ci fosse; ma, ai miei tempi, era troppo per un ragazzo. Quando andai a scuola raccontai al mio maestro l’avventura del fiume e delle case viste in lontananza e con molta gioia, con aria quasi ispirata, egli cominciò a parlare. “Molto e molto tempo fa, intorno al VII secolo avanti Cristo, i primi coloni greci, con grande entusiasmo e molte speranze, lasciarono la Grecia e, solcando il mare, approdarono alle spiagge della nostra regione, dove, per incanto, sorgono delle bellissime 3 città: Reggio, Locri, Caulonia, Scillezio, Crotone, Sibari. La feconda primavera ellenica rende le nostre terre fertili di storia, di poesia, d’arte e la Calabria diventa gran parte della Magna Grecia. Poi, ad una ad una ,come le foglie d’autunno, le gloriose repubbliche decadono, le belle città scompaiono e solo i maestosi ruderi rimangono a testimoniare la passata grandezza; anzi, molti di questi, sotto l’infuriare delle intemperie, vengono sepolti da detriti e una coltre di oblio si stende su questa parte così importante della Magna Grecia. Nella seconda metà del secolo VII dopo Cristo, sotto l’incalzare delle orde musulmane, e per l’infuriare della persecuzione iconoclasta poi, ancora dall’Oriente, monaci siro-melkiti, copti, basiliani approdano in Calabria. La nostra regione diviene una Tebaide e il Mercurion, Reggio, San Giovanni Teresti, il Patirion a Rossano, S. Adriano a San Demetrio Corone, Seminara divengono non solo centri di fede ma anche di arte. In un lontano mattino di novembre un’imbarcazione approdò presso la foce del fiume Alessi. Ne scesero dei monaci che, appena toccarono terra, la baciarono e si avviarono all’interno. Incontrarono gente impegnata nel lavoro dei campi, intenta, in particolare, alla semina. Il loro sguardo si posò a contemplare l’antica Squillace che sorgeva maestosa su una collina, ricca di uliveti. Poi si separarono dirigendosi chi verso la sede vescovile chi verso le colline che ondeggiando portavano all’interno. I luoghi erano incantevoli: il primo sole novembrino mandava i suoi raggi attraverso i rami spogli degli alberi e, raggiungendo gli oliveti e le vigne, tappezzava la costa di un verde velluto o di un manto di porpora. I folti boschi e la quiete solitudine esercitarono un fascino irresistibile su quegli uomini di Dio, i quali decisero di fermarsi per dare vita ad un modesto cenobio. La presenza del beato Fantino, la liberalità dei signori del luogo e la lungimirante intuizione pastorale fecero sì che il piccolo cenobio s’ingrandisse e, divenuto monastero, fosse centro di spiritualità e di cultura. I monaci accoglievano con amore tutti coloro che bussavano alla porta del monastero e per tutti c’era una parola di conforto, un piatto di minestra, un aiuto per l’apprendimento di un mestiere e una migliore colti- vazione dei campi. In seguito una grande fiera richiamò a San Fantino un gran numero di commercianti sicchè divenne anche un centro commerciale importante. Poi a poco a poco, come per tutte le cose, incominciò la decadenza: i monaci abbandonarono il monastero, e una coltre di oblio coprì quel luogo che per lungo tempo era stato un punto di riferimento per tanti uomini”. Qui il maestro, con gli occhi quasi velati di lacrime, interruppe il suo dire. Fu un momento di commozione per tutti noi. Poi, con grande slancio ed entusiasmo, riprese a parlare. “Domani faremo un’escursione a San Fantino”. Sui nostri volti si leggeva una grande gioia. Partimmo con tanto entusiasmo. Lungo la strada cantavamo per rendere meno faticoso il cammino e quando giungemmo restammo sorpresi nel vedere la grande costruzione, la chiesa, un frantoio. Il maestro ci spiegò che dopo che i monaci erano andati via, la costruzione subì svariate modifiche secondo le esigenze dei nuovi proprietari. Rimanemmo un paio d’ore e la visitammo con calma ed interesse. Alla fine, contenti, ritornammo a casa. Don Antonio Severini Il Patrono e il vile denaro tentici” ma anche di semplici persone legate alla tradizione - ha bisogno di segni esteriori ai quali rimane attaccato per tutta la vita. Purtroppo - ma non solo a San Floro certi “segni” sono stati soppressi, come l’offerta diretta in denaro al passaggio della statua del Santo; offerta che avveniva addirittura con la vile moneta attaccata ai nastri di stoffa pencolanti . Sappiamo che la fede è cosa seria, ma il popolo ha estremo bisogno di gesti esteriori, certamente poco in linea con l’insegnamento cristiano più profondo. Ma così è, da sempre e in tutte le religioni. Venendo a mancare questi segni, o una parte di essi (aggiungiamo che ora sono spariti dalla statua anche i meravigliosi, artistici angioletti in legno dipinto), la partecipazione “in denaro” del popolo alle celebrazioni è destinata a diminuire sempre di più. Con buona pace di don Giuseppe e di tutti coloro che sognano la perfezione ma dimenticano che essa non è di questo mondo. E che anzi talvolta può far pensare all’ipocrisia. Riflettete bene: perché il denaro appeso alla statua del santo è scandaloso per la manifestazione della fede autentica e invece poi in chiesa il parroco fa i conti di quanto incassato in vile denaro, addirittura quasi rimproverando i fedeli? Don Giuseppe è troppo giovane o comunque non dà prova di essere un buon psicologo, come dovrebbe essere ogni sacerdote. O forse sono un po’ ipocrite possibili direttive in questo senso degli organi ecclesiastici (ma esistono queste direttive?). Esempio: se a fine Novecento il signor X versava 100.000 lire attaccandole alla statua di San Floro e il suo nome figurava, con la suddetta cifra, su una sorta di registro tenuto da un componente della commissione ad hoc, ora egli sa che nessuno può accertare se ha “infilato” o no nell’urna la busta anonima. E allora, primo: potrebbe decidere di non preparare alcuna busta; secondo: potrebbe infilare una busta ma con soli 10 euro dentro anzichè 50 o 100. Tanto, il vicino non potrà mai pensare che egli non abbia “partecipato” come doveva alla festa del Patrono. Piccinerie. Ma ovvia la conseguenza: la raccolta in denaro non potrà che risultare, anno per anno, sempre più inferiore fino a crollare magari definitivamente. Cosa che non auguriamo né a don Giuseppe né ai parroci che verranno dopo di lui; né al nostro stesso paese, che ama tanto le tradizioni. E, proprio qui in fondo, un’annotazione logica: con il sistema “aperto” delle offerte il popolino della tradizione aveva la certezza del conto finale, perché la vile moneta e il donatore erano annotati scrupolosamente su un registro, casa per casa. Il signor X ha dato 100; il signor Y ha dato 30.Con il sistema della busta infilata nella cassetta (in chiesa e in vari giorni, e, si ritiene, in forma anonima) la certezza non c’è. E il dubbio - anche se assolutamente infondato – della manipolazione è sempre lì pronto a nascere, data la natura umana. Perché un conto è una cifra con accanto il nome del donatore, altra cosa è l’offerta anonima e quindi incontrollabile. Pur essendo la commissione parrocchiale ad hoc formata da persone al di sopra di ogni sospetto. D.P. Gli angioletti e il Santo BORGIA - Il monastero di San Fantino - Disegno del pittore SAN FLORO - La processione del Patrono il 18 agosto u.s. Domenico Cefaly (1996) (FOTO F. PARAVATI) Il monachesimo basiliano in Calabria La storia della Calabria passa anche attraverso il periodo in cui si insediarono i monaci basiliani. In particolare, a Borgia la prova della presenza di questi uomini di preghiera si ha nel complesso della laura di San Fantino, più comunemente detta Saffantino. I primi arrivi in Calabria dei basiliani, detti anche monaci orientali o italo-greci, si registrano nel VI secolo. Di origine bulgara, greca o di altri paesi orientali, questi emigrarono nel sud d’Italia in seguito alle guerre gotiche, quando era imperatore Giustiniano. A questa prima ondata, ne seguì una seconda e più massiccia avvenuta nell’VIII secolo in seguito alle lotte iconoclaste di Leone III Isaurico, imperatore romano d’oriente. Egli emanò un editto che ordinava la distruzione di tutte le immagini sacre, ritenute mezzo di commercio e superstizione. Così iniziarono anche le persecuzioni a danno dei monaci, i quali in gran parte furono costretti a fuggire trovando scampo sulle coste dell’Italia meridionale, soprattutto in Calabria. I basiliani presero il nome dal loro fondatore, San Basilio il greco, arcivescovo cattolico di Cesarea, che combattè l’eresia dei vescovi ariani. La regola da lui creata era semplice e prevedeva una continua ascesi sostenuta dal lavoro e dalla preghiera. I monaci ben presto crearono numerosi insediamenti in Calabria, lasciando un segno importante nella popolazione. La loro presenza è stata notevole non solo per ragioni spirituali, ma anche sotto il profilo sociale. Essi trasmisero alle popolazioni contadine i primi rudimenti delle tecniche di coltivazione e di irrigazione. Costruirono molte chiese e monasteri, tuttora presenti in tutta la Calabria. La più importante di queste chiese è la Cattolica di Stilo. Diedero molto impulso al culto della Vergine. Un esempio tuttora evidente è a Capocolonna, vicino a Crotone. I basiliani, come detto, amavano la vita contemplativa. Trascorrevano le loro giornate in cavità naturali o create artificialmente. Il loro antico ordine ebbe vari travagli; ma in tempi più vicini a noi è stato ricostituito da papa Leone XIII ed è tuttora presente in Italia. A Borgia, la presenza dei monaci basiliani è testimoniata dalla cappella, in disuso, di San Fantino, annessa alla laura. Gli affreschi della laura di Borgia non sono più visibili perché della costruzione rimane ben poco. Dall’analisi dei resti si evince che essa non doveva essere grande e avrebbe potuto ospitare solo pochi monaci. È ancora presente qualche resto dell’altare. Semplice è il pozzo, con struttura quasi intatta. Nonostante le scarse fonti storiche, la presenza dei monaci basiliani a Borgia ha costituito quasi sicuramente un momento importante anche per le popola- zioni vicine, che hanno potuto attingere alla conoscenza e alla sapienza di questi umili uomini di preghiera, dotti ed ingegnosi, venuti dall’oriente. Domenico Procopio Il colore di un sogno lontano Cantilena natalizia Spense la luce ed il sogno si fece brillante di un nuovo vigore, tra il giallo assonante di un sorriso pacato ed il rosso di una sgargiante risata. Continua il suo passo nella penombra staccata dal suono delle ore e replica mai stanco il suo canto ribelle di quel colore di un sogno lontano. Domenico Procopio A chissa ruga Sant’Andrìa porta la nova A li quattru Varvàra a li sìa Nicola a li ottu Maria a li tridici Lucia ‘U vinticincu ‘u veru Mìssìa (Sant’Andrea -il 30 novembre- porta la notizia dell’imminente arrivo del Natale. Il 4 dicembre arriva Santa Barbara, il 6 è San Nicola, l’8 è l’Immacolata, il 13 è Santa Lucia. E infine, il 25 è il giorno della nascita del vero Messia, Gesù) Ogni scarafagghiaddu... A chissa ruga nc’è ‘na rindineddha chi se lu prèja assai lu sua volàra. Nc’è ‘nu rindùna cu Un proverbio: tri ciancianèddha chi la rotija e si la po’ pigghjàra. Ogni scarafagghiaddu Sai chi ti dicu, rindineddha beddha? a màmmasa li para biaddhu Nommu ti priaji assai lu tua volàra, ca si ti pigghjiu pe ll’ala cchiù beddha (Ogni piccolo scarafaggio - a sua non cchiù pe ll’aria ti hazzu volàra!’ madre sembra bello!) lavorato e dipinto, che accompagnavano, sulla base di sostegno, la statua del Patrono, hanno perso il diritto di essere lì collocati e di andare in giro per il paese il 18 di agosto, come avveniva da decine, forse qualche centinaio di anni. È un perchè al quale finora non è stata data una risposta che attendiamo noi che stiamo”fuori paese” e che qui veniamo “per una settimana, dieci giorni, un mese”.. Noialtri “forestieri” saremmo ben lieti di apprendere una volta per tutte perchè quegli angioletti sono assenti. Causano forse scandalo? C’è una direttiva del Vaticano o dell’Arcivescovado? O è una decisione personale del Parroco, che pure - sappiamo bene - ha il potere di “governo” della chiesa a lui affidata? E a che fini è indirizzata questa eventuale sua autonoma decisione? O cos’altro c’è di così misterioso? In fondo, la Chiesa - Papa, Vescovi, Parroci - esiste in quanto ci sono i fedeli che ne fanno parte. Di conseguenza i fedeli hanno il pieno diritto di sapere perchè gli angioletti di San Floro non accompagnano più la statua del Santo Patrono. E se questa risposta c’è già stata e noi, che viviamo lontano, non siamo stati in grado di prenderne atto, non casca il mondo se il bravo e buono don Giuseppe si deciderà a ripeterla ai sordi. L’umiltà, da quel po’ che sappiamo, è uno dei pilastri della fede cristiana. D.P. Una lettera di Mariana mezz’ora perché c’era una telefonata per me da parte di mia sorella, che era a Genova da anni. Io mi sono spaventata, anche perché non avevo mai parlato al telefono, quella era la prima volta e non sapevo neanche come e dove dovevo parlare. Lui, quasi ridendo, divertendosi, mi fece entrare nella cabina e mi fece rispondere alla sua chiamata dal centralino, facendomi uno scherzo; ma in quel modo mi ha fatto capire come si doveva parlare al telefono. Lo ringrazio ancora PER VERSAMENTI C/C POSTALE 54078100 DOMENICO PARAVATI adesso per la sua lezione pratica, per quel vetro che mi ha tolto dal piede e per la sua simpatia. Sono proprio felice di avervi rivisti. Tu, Mimì, sei diventato una persona importante, come tuo fratello Feliciano, ma ne manca ancora uno ai miei conti: l’altro tuo fratello Florino (Fofò). Dov’è? Io ricordo un bel ragazzo sui quattordici anni, molto timido e studioso. Vorrei incontrare anche lui, se sarà possibile vederci almeno nella nostra seconda giovinezza. Cordiali saluti a tua moglie, a tuo figlio Alessandro ed a Feliciano e famiglia, a tutti i tuoi parenti. A te un saluto speciale da una vecchia amica ancora bambina, che ti chiamerà sempre Mimì. Mariana Rocca Settembre 2010 4 Corriere di San Floro e della Calabria ARCHIVIO CALABRESE Anno IV - N° 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2010 SCRITTORI NOSTRI Una lettera responsiva (del 1567) Giuseppe Olivadoti, “emigrato” a Vincenzo Macario, insegnante a Squillace debutta con “Una storia dimenticata” In un suo recente articolo apparso in “Rogerius” e riguardante due lettere responsive inviate dall’editore veneziano Paolo Manuzio (1512-1574) a due illustri personaggi vibonesi, Giacinto Namia 1 ha fatto notare che nell’epistolario di quell’editore c’è pure una lettera da lui indirizzata a un certo “Vincenzo Macario di Squillace”. Preso dal desiderio di sapere qualcosa su quest’ultimo, mi sono affrettato a consultare l’epistolario del Manuzio, in cui ho trovato quella lettera2. Si tratta di una missiva scritta in latino, la VI del libro VIII, della quale riporto qui di seguito una mia traduzione in italiano. A Vincenzo Macario SquillaceEssendo stretto dalla morsa degli impegni, non posso dilungarmi nel rispondere alla tua lettera scritta in maniera assai gentile ed elegante. In qualche modo, tuttavia, debbo dar riscontro ad essa, visto che è vergognoso non rispondere quando si è in dovere di fare ciò. Che tu abbia a Squillace l’oneroso compito di erudire i giovani è per me motivo di grande gioia. Amo, infatti, la patria del mio Geronda (sic), la cui memoria nessun giorno cancellerà dal mio animo. Se egli vivesse, sarebbe senza dubbio con me ed insieme godremmo dei medesimi studi e del medesimo genere di vita. Ci fa particolarmente piacere che tuo fratello Francesco si ricordi di noi. Siccome noto che sia tu che lui eccellete negli studi letterari e nei buoni costumi, nutro per entrambi voi tanto affetto che, se io potessi far qual- cosa e per vostro onore e per vostra utilità, desidererei perseguire tal fine con ogni cura, fatica e diligenza. Quanto al mutato modo di scrivere, ti toglierà questa preoccupazione il libro di mio figlio sull’ortografia, pubblicato lo scorso anno. Saluti. Ho scritto queste cose in fretta, ma col pensiero rivolto altrove. Vorrei che tu mi scusassi di ciò. Roma, 14 giugno 1567. Dalla lettura di questa missiva emerge, in primo luogo, che Vincenzo Macario era certamente un insegnante e che, assieme al fratello Francesco, eccelleva negli studi letterari e nei buoni costumi. Dalla medesima lettera emerge anche che Paolo Manuzio nutriva stima e profondo affetto sia per l’uno che per l’altro. Non possiamo essere certi, però, che i fratelli Macario fossero di Squillace. Nel caso specifico di Vincenzo, infatti, che egli insegnasse in tale città o che Paolo Manuzio gli spedisse qui una lettera responsiva non significa che il primo dei due fosse squillacese. Insegnare e abitare a Squillace è una cosa, esservi nato è un’altra. Era indubbiamente squillacese, invece, un certo Geronda (= Gironda), e ciò si desume dall’espressione latina “amo […] Gerondae mei patriam”, da cui risulta pure che il Manuzio amava la città del suo amico. Sarebbe davvero interessante saperne di più, oltre che sui fratelli Macario, su Gironda, con il quale l’editore veneziano avrebbe voluto godere <<dei medesimi studi>>, nonché <<del medesimo genere di vita>>, e sulla cui nascita a Squillace, come ho posto in risalto, non ci sono dubbi. È possibile, tuttavia, che questo squillacese fosse un antenato di Andrea Gironda, gesuita ed insigne filosofo, che vide la luce a Squillace nella prima metà del XVII secolo3. Lorenzo Viscido 1. Cfr. G. NAMIA, Lettere di Paolo Manuzio a due letterati vibonesi, in “Rogerius” 13, 1 (2010), pp. 113-117. 2. Cfr. P. MANUTII Epistularum libri XII eiusdem quae praefationes appellantur. Opera postrema hac editione diligentius recognita et a multis mendis, quibus priores editiones scatebant, vindicata. Lugduni 1582, p. 286. 3. Notizie relative ad Andrea Gironda e alle origini del suo casato sono contenute in B. CANDIDA GONZAGA, Memorie delle famiglie nobili delle province meridionali d’Italia, VI, Napoli 1882, p. 98. *** Una postilla da parte del direttore di questo giornale. La nobile famiglia calabrese Gironda evidentemente ha nel suo DNA l’amore per le lettere e dintorni. Ricordo infatti che negli Anni Sessanta, quando giovanissimo lavoravo nella redazione del “Messaggero” di Roma, il responsabile dell’altrettanto nobilissima “terza pagina” – quella dai toni sempre alti ed ora quasi sparita dai quotidiani - era il giornalista e scrittore Giuseppe Gironda, nato a Catanzaro nel 1920 ed autore di alcuni romanzi (“Il balcone” 1943; “Clotilde Rodio” 1953, “Una stagione all’inferno” 1961). (D.P.) CORTALE Amore e morte alla “Fossa del Lupo” Pasquale venne accusato ingiustamente dell’uccisione di un rivale. La punizione inflittagli fece nascere la sua leggenda “Fossa del lupo” è un’espressione con la quale si indica una località nei pressi di Cortale. La mezza frase, formata da due parole, una seguita dall’altra con funzione dichiarativa, oggi suggerisce, specialmente alle nuove generazioni che sul posto c’è un albergo dove si alloggia e si mangia, anziché rievocare una storia del passato, sconcertante e tragica, di cui è bene invece conservare la memoria. La Fossa è l’altopiano delle Serre, il Lupo è il soprannome dato dalla gente del passato ad un certo Pasquale, accusato allora ingiustamente di aver commesso un delitto. A dare origine alla vicenda è una storia d’amore e di morte. Pasquale, innamoratosi di una donna già promessa a un altro, venne accusato dell’uccisione di questi . Egli, per sfuggire alle minacce dei fratelli della donna e alla ingiusta “condanna” per il fatto, si diede alla macchia, sperando che un giorno lo avrebbero riconosciuto innocente. Fu ricercato più volte inutilmente dai gendarmi. Lui, abile a nascondersi, riusciva ogni volta ad evitare d’essere catturato. Vagava di bosco in bosco, nelle più disagiate località delle Serre. Mangiava quel che gli capita- va, anche bacche e verze. Condusse una vita da selvaggio. Negli ultimi tempi, una donna, pietosa di lui,riuscì a rintracciarlo. Lottarono insieme per la sopravvivenza. Fra i due si fece strada il sentimento dell’amore. Si incoraggiavano reciprocamente con la speranza di potersi un giorno unirsi in matrimonio, formare una famiglia .Ma ormai Pasquale era diventato una larva d’uomo. Gli anni di latitanza, il dormire in cavità naturali umide, l’andare di qua e di là tra boschi e sottoboschi e la mancanza di un’alimentazione appropriata gli avevano rovinato la salute. La gente, che sapeva qualcosa sulla vita del fuggiasco, gli appioppò il nomignolo di Lupo. Una mattina nebbiosa, i gendarmi, andando per l’ennesima volta nei boschi delle Serre alla ricerca dell’errabondo, lo sorpresero con la donna e li uccisero senza pietà. Scavarono di nascosto una fossa e ve li seppellirono, facendo perdere per sempre ogni traccia della loro presenza. Con il passare del tempo, la verità venne a galla: non era stato il povero Pasquale a commettere il delitto. Chi capita, per qualche motivo, nella località delle Serre, cono- scendo la triste vicenda, non dimentica di deporre, qua o là nel bosco, un fiore che ha portato con sé per i due innocenti. Si dice che alcuni viandanti , attraversando la zona, abbiano percepito la voce di innocenza di Pasquale, mescolata con lo stormire degli alberi. Antonio Zaccone ARCHEOLOGIA La torre di Satriano Il Gruppo archeoologico “ Paolo Orsi “ di Soverato, ha deciso all’unanimità di promuovere il recupero della “ Torre Ravaschiera “ di Satriano, unica torre del 1500 ancora in piedi ma in pessimo stato di conservazione. Al monumento sono annessi un mulino e un frantoio di notevole interesse per l’archeologia industriale. Mèntiti cu i mìagghiu tua e paga i spisi! È il primo libro di Giuseppe Olivadoti, nato ad Amaroni nel ‘47 . Il quale Olivadoti – come leggo nella scheda in ultima di copertina- “all’età di 15 anni, come molti giovani dell’epoca, non avendo la possibilità di studiare come avrebbe desiderato, è emigrato in Svizzera dove ha iniziato a lavorare nel settore alberghiero facendo una brillante carriera” e “dopo alcuni anni ha intrapreso l’attività di imprenditore, divenendo proprietario di diversi ristoranti a Ginevra” ma “nel 2001, all’apice della carriera nella ristorazione, ha voluto affrontare nuove sfide cimentandosi con successo nel settore immobiliare”. Ma ora “dopo questo primo romanzo” (nella prefazione Olivadoti lo definisce più giustamente“racconto”), “che sicuramente appassionerà i lettori, nuove avventure sono già in preparazione”. Le pagine stampate dalle GraficheLAB di Amaroni- hanno per protagonista Agostino Olivadoti, bisnonno del Nostro, e alcuni altri personaggi dell’Ottocento che si incastrano in quell’interessante ma anche poco conosciuto periodo della nostra storia a cavallo tra il regno borbonico delle Due Sicilie e poi quello – unitario – dei Savoia, per ‘u morzìadu alle nove del mattino “a base di cacio pecorino e soppressate”. Ma il racconto -quasi sempre di facile lettura: talvolta può sembrare barboso il soffermarsi su particolari non necessari - si basa principalmente sul difficile passaggio dal regno borbonico a quello dei Savoia, con ampia sottolineatura dello sfruttamento perpetrato ai danni del Sud dai piemontesi, sfruttamento che indusse molti a darsi al brigantaggio. Ma nel libro c’è anche dell’altro. Nel complesso una storia di famiglia, simile però a tante altre, magari sconosciute, registrate in quel difficile passaggio da un’Italia divisa in staterelli all’Italia con GIUSEPPE OLIVADOTI capitale Roma. Processo unitario ta di vino a fiumi, e la musica con che ora è divenuto di moda conchitarre e mandolini. “Altre cose testare. Non sempre a torto. D.P. belle del mio bisavo erano la gentilezza, il modo schietto di parlaIN CALABRIA re e raccontare le cose, nonché la sua cultura; doti, queste, che gli avevano procurato l’amicizia e il rispetto di famiglie influenti di Amaroni e dintorni”. La storia raccontata è “locale” – con qualche pizzico di filosofia sui desti- Due nuovi collegamenti aerei -dalni dell’uomo – ma proprio per lo scorso agosto- tra la Calabria ed questo molto interessante. Tro- altre regioni italiane. In particolare, verete episodi riguardanti le previsti sei voli settimanali con Vemalelingue, i vari “signori” di al- nezia, in giorni diversi: tre da Reggio lora, battute di caccia, con soste Calabria e tre da Lamezia Terme. grazie all’avventura garibaldina. Agostino “contribuiva a dare lavoro a molti braccianti, ma amava anche la bella tavola, inonda- Due nuovi collegamenti aerei PITTORI NOSTRI A Francesco Guerrieri il “Limen Arte” di Vibo Il prestigioso Premio Internazionale “LimenArte” conferito per il 2009 al maestro Francesco Guerrieri. Cerimonia presso il complesso monumentale ValentianumaViboValentia.Guerrieri, insiemeallacompagnadivitaLiaDrei, è stato l’apologeta della geometria nell’ambito d’una linea di ricerca molto praticata negliAnni Sessanta e che andava sotto il nome di arte program- mata. Calabrese d’origine (è nato a Borgia in provincia di Catanzaro), Francesco Guerrieri risiede a Roma dalla fine degliAnni Trenta. MUSA POETICA RELIGIOSA La Chiesa di Campo La porta è stata chiusa per un anno, ora Concetta l’apre cigolando pulisce il pavimento di mattoni e stende la tovaglia sull’altare. Nel quadro appeso alla parete bianca Maria vola sopra gli apostoli verso la luce di un mondo lontano: vuoto è il suo letto e coperto di rose. Arrivano le donne dal paese per il viottolo che scende sino al fiume portano fiori cresciuti sui balconi. Si è sciolto il sole in polvere d’oro sparsa sulle colline tra gli ulivi; una civetta dalla finestrella guarda stupita le candele accese. Voci di Magna Grecia antiche e forti cantano: Madre di noi non scordarti, Tu che vai di stelle a coronarti. Salvatore Mongiardo Novembre 1989 Salvatore Mongiardo ci segnala questa bella poesia dedicata alla Vergine da un suo grande maestro, Don Ciccio Laugelli. Eccola. (D.P.) Alla Madonna Maria Immacolata, ch’eccelsa levi al cielo la tua fronte stellata ed il candido velo, s’alzi il grido profondo del tuo amore materno in quest’orrido inferno scatenato nel mondo. Dacci giorni di pace! Dio giammai si dinega al tuo cuore che prega al tuo labbro che tace. Nella gelida spoglia dell’inverno che torna sii la rosa che foglia e l’aurora che aggiorna. Don Ciccio Laugelli Novembre 1975 SALVATORE MONGIARDO con il Bue di Pane al Sissizio di S. Luca, patria di Corrado Alvaro Anno IV - N° 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2010 POETI NOSTRI Vecchio casale agreste (Ovvero San Fantino a Borgia) Ti sei distrutto come la mia vita, vecchio casale agreste. Tu che hai veduto in un lontano giorno i miei passi di bimbo, la mia infanzia. Ti rivedo così già diroccato, che vai offrendo all’immenso muri inerti, pieni di crepe e di sassi sconnessi. Nidifica la rondine e la passera ancora forse, ma non c’è la gioia degli strilli, dei canti di fanciullo che ti offrivo contento. Le tegole son rotte e nell’ingresso la porta di castagno è consumata. Si è consumata come la mia vita, vecchio casale agreste. I venti dell’inverno e le tempeste di neve, di calore nell’estate t’han ridotto così pieno di crepe. Crepe come le rughe sul mio volto, vecchio casale agreste, che tanti giorni hai visto consumare e tante vite hai visto rinverdire con la ricerca di canti d’amore. Vorrei vederti con il tetto intero pieno di contadini e di pastori, vorrei sentirti risuonare ancora dei canti delle donne perle olive. Vorrei godere quella tua calura quando tutta la gente andava al grano e i suoni della gaia mietitura arrivavano allegri nel cortile. Ti chiedo di mostrarti in primavera, con le finestre chiuse o aperte al sole, col volo delle passere sui nidi, con il sorriso della mamma all’alba; con la camicia appesa di mio padre che col sudore ci portava il vitto. E poi, sull’aia, fammi rivedere quella trebbia e la pressa col trattore; usciva il grano e tutti quanti insieme cantavano le donne ed i coloni. Vorrei vederti con le rondinelle che giravano allegre sul cortile. Vorrei vederti pieno di speranze, le mie, della lontana fanciullezza, vecchio casale agreste. Rosario Tavano (Dal libro di poesie “Foglie nel vento” del prof. RosarioTavano, pubblicato dalle “Grafiche Falcone-Squillace”-giugno 2008) – “Vecchio casale agreste”, ovvero San Fantino. Corriere di San Floro e della Calabria SAN FLORO ARCHEOLOGIA Castellìtini, Castellitìni (e infine Castellìtoni) Non ci piace tornare sull’argomento. Però appare semplicemente ridicolo che un presentatore - lo stesso dell’anno scorso- nel condurre a San Floro lo spettacolo “V° Festival internazionale della fisarmonica e dell’organetto diatonico” si sia ancora una volta riferito all’ “Associazione Castellitìni”, accentando cioè la seconda “i”anziché la prima. Passi l’errore, la sera precedente, da parte del maestro del gruppo folk di Lamezia, che ha pronunciato quel toponimo alla stessa maniera; ma almeno, egli, non era venuto qui l’anno scorso (anche se non si capisce come mai non si sia informato in tempo sull’esatta pronuncia di quel nome). Alla base di tutto c’è un imperdonabile errore di chi ha dato vita all’Associazione culturale e al quale - se ce lo permette - vorremmo ricordare, come già sottolineato in passato, che il toponimo esatto sarebbe Casteddhìtuni e non Casteddhìtini, poi italianizzato addirittura in Castellitini, anziché in Castellitoni. Ma una volta sbagliato il nome, sbagliarne anche l’accento è francamente un po’ troppo. Ci dispiace sottolinearlo; soprattutto perché il “patron” Tonino Bressi ha obiettivamente creato o rispolverato manifestazioni popolari che si stanno rivelando molto interessanti e quindi graditissime. SAN FLORO Le nostre strade (quasi) senza nome È una segnalazione che avevamo fatto su questo stesso giornale già alcuni anni fa: nel nostro paese –San Floro – le tabelle viarie sono pressoché illeggibili o addirittura cancellate dal tempo. Sono in pratica quelle che, se ben ricordiamo, negli Anni Cinquanta “dipinse” Micheluzzu Marinaro. Chi scrive, per esempio, ritiene di avere l’abitazione sanflorese in via IV Novembre n. 2, ma sia il numero civico che la tabella viaria sono solo frutto della memoria. Quando questa si sarà indebolita con l’età potrebbe accadere che né il sottoscritto né forse altri se non il Comu- ne -sperando che esista almeno una mappa in quegli uffici - potranno dire dove si trova l’edificio del sig. X. Battute a parte, basterebbe che il signor Sindaco si facesse una passeggiata per tutte le vie del paese per rendersi conto di persona che San Floro ha ormai tante strade senza nome o con dei rimasugli di nome. Evidentemente ridare un nome alle strade di San Floro è operazione difficile visto che tutte le ultime amministrazioni comunali non si sono decise a mettere mano all’operazione riordino. (D.P.) SAN FLORO Un lampione al Timpone Ancora una volta segnaliamo all’Amministrazione comunale di San Floro la necessità di un lampione Enel in località “Timpone”. Lì, com’è noto, c’è il contenitore delle immondizie; ed ogni sera chi abita alla ruga del Pizzo vi si deve recare per depositarvi le buste rifiuti. Non è solo questione di non vedere chiaramente la strada e quindi di inciampare e cade- 5 re, con richiesta di danni proprio all’Amministrazione comunale; ma anche di un minimo di sicurezza personale, soprattutto per signore e signorine. Altre volte abbiamo segnalato questa necessità, considerando anche che al “Timpone” vi è già un palo Enel al quale, crediamo, non sarebbe proprio difficile collegare un lampione. ‘U Timpunìaddhu de i Spartacumpari Sono in tanti a chiedermi come raggiungere ‘U Timpunìaddhu de i Spartacumpàri, di cui più volte si è occupato il direttore di questo giornale che lo ritiene, con ogni probabilità, un antico “tumulo”, cioè una tomba. Ebbene, ‘U Timpunìaddhu si trova in comune di Borgia, a due passi dalla sponda destra del fiume Corace, ed esattamente in località Barrèa. Per raggiungere questa località (privata), tra gli ulivi, venendo da San Floro ed arrivati sul rettifilo della Roccelletta, all’altezza della nuova rotatoria girare a sinistra e delle due strade imboccare quella con l’indicazione Strada Provinciale 47, tenendo conto che la chilometrica ha inizio dalla parte opposta. E dunque, imboccata questa strada, un centinaio di metri prima di arrivare al km 6 (ben indicato sulla tabella, che si trova all’altezza del casino Massara, imboccare a destra una strada di campagna, che ci risulta sempre aperta e senza alcuna indicazione di proprietà privata (probabilmente è una strada “vicinale”, cioè che serve le varie proprietà; ma potrebbe anche essere una “strada agraria” o di esclusiva proprietà di un privato e quindi bisogna avere da questi il permesso). In fondo a questa carrareccia, che attraversa la pianura (a sinistra un grande uliveto, a destra una piana coltivata a foraggio), si erge una collina seminascosta dalla vegetazione, che si può ben vedere dalla stessa “vicinale”. È finalmente la collinetta di cui sopra. Quasi tutta la piana intorno -in un raggio di alcuni chilometrisecondo varie fonti locali, sarebbe ricca di reperti archeologici greci. APPUNTI DI STORIA Il potere e la tecnica L’imperatore persiano Dario stazionò con il suo esercito sulla sponda asiatica del Bosforo (nei pressi dell’attuale Istanbul, già Bisanzio e poi Costantinopoli).In attesa che un architetto apprestasse un imponente ponte di barche per invadere la Scizia (regione euro-asiatica dominata da un popolo guerriero), si recò su un promontorio per ammirare lo spettacolo del mare e delle terre di Europa ed Asia che si fronteggiavano. Poi … “…fece innalzare sulla riva due colonne di marmo bianco e vi fece incidere, su una in caratteri assiri, sull’altra in lettere greche, il nome di tutti i popoli che conduceva con sé; e conduceva tutti quelli che erano sotto il suo dominio. La somma di questi contingenti era di settecentomila uomini , compresi i cavalieri; esclusa, invece, la gente di mare; e le navi raccolte risultavano seicento (…) Dopo aver fatto questo, Dario, molto soddisfatto per il ponte di barche, fece dono all’architetto che l’aveva costruito, Mandrocle di Samo, della de- cima parte di ogni introito. Come primizia di questi doni, Mandrocle fece dipingere un quadro in cui era rappresentato tutto il lavoro compiuto per gettare il ponte sul Bosforo e il re Dario assiso su di un trono, mentre il suo esercito era in atto di attraversare il ponte; e, dopo averlo fatto dipingere, lo consacrò al tempio di Era con questa iscrizione: Avendo aggiogato le rive del Bosforo pescoso, Mandrocle consacrò a Era un ricordo del ponte di barche, avendo procurato a se stesso una corona e ai Sami gloria, per aver portato a compimento quanto era nell’animo di re Dario (Erodoto –Le Storie- A cura di Luigi Annibaletto-vol. IOscar Mondadori- 1982) PER VERSAMENTI C/C POSTALE 54078100 DOMENICO PARAVATI L’Estate Sanflorese SAN FLORO - Sopra: Tarantella con l’organetto di Simone Vivino. Sotto: Salvatore Guerrieri insegna a ballare la tarantella ad una signora romena. SAN FLORO - Stefano Maiuolo nella serata musicale del 7 agosto SAN FLORO - Tiro alla fune FOTOSERVIZIO ESTATE SANFLORESE REALIZZATO DA FELICIANO PARAVATI 6 Corriere di San Floro e della Calabria LA POESIA IN VERNACOLO (DI VIBO VALENTIA) Anno IV - N° 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2010 L’Estate Sanflorese La Pippa (Fotoservizio di Feliciano Paravati) di Vincenzo Ammirà (1821 - 1898) Cara, fidata cumpagna mia, affommicàta pippa di crita, tu di chist’anima gioia, allegria, tu sai la storia di la mia vita. E nuju, nuju megghiu di tia pe quant’e’ longa, quant’e’ pulita. Tu m’ajutavi quannu la musa facìa lu ‘ngnòcculu, trovava scusa. Oh quantu voti, quandu ‘ncignaru li patimenti, mi cumportasti! Tu ‘ntra lu càrciaru pensùsu, amaru, tu pe lu sìliu mi secutasti. Si tutti l’àutri s’alluntanaru pecchì tingiùtu di brutti ‘mprasti, sula mi fusti fidìli e pia, e cunzigghièra, pippùna mia. De dùdici anni ‘mbucca ti misi. Mi piacisti, ti spissijai. Di journu a juornu, di misi a misi, cchiu’ ti gustava, cchiu’ mi ‘ncarnài. Tantu, chi dintra, pe lu pajisij eu di fumari non ti dassài. E cinquant’anni passàru ‘ntantu comu ‘nu sonnu, comu ‘nu ‘ncantu. Verzu la sira, quandu assulàtu sentìa sonàri l’adimarìa, e ogni ricordu di lu passatu s’apprisentava davanti a mia; e chistu pòvaru cori ‘ncantàtu s’inchìa di tènnera malinconia, e ruppìa a chiantu, mi l’asciucàvi cu lu toi fumu tantu suàvi. (…………) O segretaria, cara cumpagna di la mia vita, di li prim’anni, si a rimitoriu, villa o campagna sugnu, si ‘ncella cu Petru e Gianni, si miserabili, si ‘ncappa magna, dintra li gioji, dintra l’affanni, comu mi fusti, cara mi stai, e t’amu sempri cchiù’ ca t’amài. E vota e gira, sempri fumandu, e dassa e pigghia, vogghiu e non vogghiu, jìa notti e juornu erramijandu, gridava pàtrima mu mi ricogghiu. E jeu na petra! Spassi, cantandu, ed a lu spissu quarc’àutru ‘mbrogghiu. E ‘mpini catti, m’annamurai. Oh, chija brunda non scùordu mai! Pannizzijava, ciangìa lu ventu, cùcuji, lampi, acqua, tronava. E ‘ncapputtàtu mi stava attentu cumu ‘nu lepru s’ija affacciava. Parìa ‘nu séculu ogni muméntu, ogni minutu chi mai passava. E ‘mpissicchiàtu fermu a lu muru, sempre fumandu dintra a lu scuru. E doppu tantu friddu assaggiàtu, sentia ‘nu “pissi” chi mi chiamava. Sbattìa lu cori, non avìa hjiatu, e mu rispundu non mi fidava. Mi sentìa propriu cumu ‘ncantàtu. Poi timidùsu mi ‘mbicinava. E pecchì tandu non nc’era luna fumava forti mu si nd’ addùna. Tu li paroli di meli e latti, li juramenti tutti sentisti. L’appuntamenti, stari a li patti, mi tenìa dìsculu, cca tu ciangisti, mentri facivi l’urtimi trattidi la vrigògna pe mia ch’avìsti: Era jeu disculu? Beijzza mia, cu’ mai scordàri si po’ di tia? Chijnu d’amùri dintra a lu lettu non potia dòrmari nuja mujica, non nc’era modu pemmu rigèttu, parìa ca sugnu subbra a l’ardìca. Lu bruttu sonnu pe mio dispettu non volìa scìndari mu mi dà’ prica. T’inchìa a la curma, t’appiccicava, e accussi’ subitu m’addormentava. Prima mu sona lu matutìnu, comu lu sòlitu, mi rivigghiàva. Rocìa la testa cumu mulinu, penzava cosi chi mi scialava: cani, viaggi, soni, festinu, palazzi, amùri, ricchizzi a lava; E lu toi fumu, pippa anticaria, li mei portava castej’ ‘n aria. Tu senza fumu, senza tabaccu. E jeu restava mestu e cumpùsu. ’Mpunta di l’anima sentìa lu smaccu pecchi’ filava sempri a ‘nu fusu. Mi vestìa subitu, sbattìa lu taccu e ti dassava tuttu stizzusu. Ti cercu scusa, cu manca appara, pippa mia bona, cumpagna cara. S’avìa di bàzzari china la testa mi li facivi ‘mprima spumàri cu lu toi tàrtaru cuntra la pesta, autru ca hajavuru d’erba di mari, c’avìvi dintra, comu ‘na bresta, e sentìa frìjari, ciangiuliàri mentri pippava. Chi fumu duci! Pemmu lu lodu non haju vuci! LA BELLA E L’ORGANETTO Venendu a mòrari dintra la fossa ti vogghiu accantu di mia curcàta. E accussi’ queti saranno st’ossa chi sbàttiu tantu fortuna ‘ngrata’ ‘ntra la tempesta cchiu’ scura e grossa, senza rigettu di ‘na jornata. Pàssanu l’anni, chiusu, scordàtu, dormu cuntentu, dormu mbijàtu. Poi quandu sona cu gran spaventu l’ùrtima vota la ritirata,e tutti cùrrunu a ‘nu mumentu, òmani e fìmmani a la Vajàta, finca li morti, chi riggimentu! cu’ porta ‘n’anca, cu’ ‘na costata… Jeu cu tia ‘mbucca cumpàru tandu, ne’ mi lamentu, ne’ riccumandu. Cadi lu suli, cadi la luna, li stiji càdinu, penza fracassu! L’acèji cìanginu, l’acqua sbajùna, li minuti jùntanu, sassu cu sassu ‘nzemi si pìstanu, e ad una ad una li cerzi stìmpanu; si fa ‘nu massu; sbampa lu focu, tuttu cunzùma. Cu’ nd’eppi nd’eppi, cchiu’ non si fuma. Canzone a dispetto (Veniva cantata, a San Floro, accompagnandola con l’organetto e con tono aggressivo, sotto le finestre della donna amata che invece non… UN SOGNO: MISS ITALIA amava più) Cara signora mia, mi cumpatìti ca non sapìa li vostri nobiltàti. Mo chi lu sàcciu ca nòbbila siti non bbùagghiu ca pe mmia vi ribassàti. Ma cìnnara a lu foculàru no ‘ndavìti ca puru li tizzùni su’ astutàti. Tenìti caru st’amànti chi avìti ca vena jùarnu mu vi ripentìti: ‘st’alma mu goda e bbui mu penijàti. ROCCELLETTA DI BORGIA Stessa spiaggia stesso mare Emigrati e residenti del paese sulla collina, come sempre si sono “alloggiati” al mare sulla spiaggia del “Cammello Grigio”, alla Roccelletta. Il camping, che quest’anno si è un po’,come dire?, risvegliato sul piano organizzativo, ha tenuto compa- gnia ai sanfloresi vacanzieri da spiaggia con lunghi nastri musicali e “lezioni” in acqua di musica e ginnastica. I sanfloresi hanno apprezzato molto ed hanno ora un motivo in più per frequentare anche il prossimo anno… stessa spiaggia stesso mare. GIANNI GULLÌ, OVVERO LA VOCE Corriere di San Floro e della Calabria Anno IV - N° 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2010 SAN FLORO Ricordo di Jolanduzza cordata tu quella signorina minuta che, sempre compunta, con tanta serietà, prendendo quel suo lavoro come cosa quasi sacra, insegnava soprattutto alle bambine a diventare donne di casa, cioè a cucire, rammendare, insomma ad essere spose modello; situazioni che adesso non si ritrovano quasi più, con le nostre giovanissime dedite quasi esclusivamente a passare la notte in discoteca, a stare sulle spalle dei genitori, a crescere senza nulla capire della loro futura responsabilità. Che, quando e se verrà (i matrimoni ormai sono così pochi perché i maschi non si fidano più…), le vedrà davanti a compiti difficili, pressoché sconosciuti. Per cui il fallimento dell’unione in tanti casi è alle porte già a pochi anni dal matrimonio. La signorina Jolanduzza io la vedevo, da bambino, pressoché Intanto, caro Rauti., l’hai ri- tutti i giorni perché mio padre Grazie, Domenico e Feliciano . Ho ricevuto il Corriere stamattina con grande entusiasmo. L’ho letto tutto. Vorrei chiedervi di scrivere un pezzo sulla signorina Rocca Iolanda, detta Jolanduzza, che svolgeva una specie di doposcuola raccogliendo nella sua casa parecchi bambini di qualsiasi età. Mia moglie, nel vedere la foto di Pino Nobile , scomparso troppo prematuramente, si ricordava quando erano tutti da Jolanduzza. Io non sono andato, però ricordo benissimo quella donnina piccolina che accudiva i bambini senza chiedere nulla in cambio. Naturalmente la gente le dava quello che poteva: qualche litro d’olio, oppure prodotti della campagna. Penso che faccia piacere a tanti sanfloresi ricordare quella figura minuta ma di grande umanità. Antonio Rauti voleva che stessi con lui, in ufficio, quando era aiutante alla Posta (e mi insegnò anche a trasmettere telegrammi con l’alfabeto Morse…). Nelle pause che mi permetteva me ne andavo in giro nei dintorni, soprattutto a fare la “scivolarella” sul cemento sotto gli archi del palazzo di “don” Mario Costa; ma poi, essendo già grandicello, mi concedevo anche qualche passeggiata di altro genere; e allora arrivavo davanti alla casa di Jolanduzza e mi beavo a guardare tutte quelle belle ragazzine che stavano intorno a lei, che faceva la maestra di cucito o di ricamo. Ce ne erano veramente tante, tutte chine e serie sul lavoro affidato. E lei, la Jolanduzza, donna microscopica, magari le rimbrottava, ma sempre con dolcezza e pazienza infinite. (d.p.) Agendina LUTTI - A Genova, il 12 agosto, è deceduto, a soli 51 anni, Francesco Comità. Ne danno il triste annuncio gli zii Floro Palaia, Concetta e Flora Comità a cura di Feliciano Paravati - A San Floro è deceduto, a 79 anni, Domenico (“Mastro Toto”) Nobile. I funerali si sono svolti niella chiesa parrocchiale nel pomeriggio del 14 agosto. Anche Paolo Pilò, di 90 anni, è deceduto il 4 agosto u.s. - A Roccelletta di Borgia è deceduto Agazio Monterosso, di anni 46, il 30 giugno u.s. Ai parenti tutti le nostre condoglianze. Momenti di festa nostrana fermati dall’obiettivo di Feliciano La lunga Estate Sanflorese (Ha sfilato anche una sposa arbreshe) - Il 5 agosto, sera, sfilata sotto il Municipio di ragazze , una ventina, in abiti da sposa, antichi e recenti. Molto applaudito, e veramente originale per la platea, un abito arbreshe, cioè albanese, della vicina Caraffa, degli Anni Sessanta, tanto bello nello stile, forse anche perchè colorato quasi al completo; al contrario dei nostri classici abiti bianchi. L’organizzazione è stata dell’associazione “La Ginestra”. -Sabato 7 agosto, serata musicale a cura della Pro Loco “Tommaso Scarcella” e, a tavola, Sutta l’Urmu, le penne ai funghi preparati da Angelo Caccavari del Bar Castello. Sul palco, Stefanino Maiuolo,con un’esibizione per la verità un po’ deludente. Tante le canzoni “famose” da lui reinterpretate; con toni però forse non a tutti graditi. Stravolgere i motivi passati alla storia musicale nazionale è un bel rischio. Può venir fuori qualcosa di accettabile o addirittura migliore rispetto all’originale. Ma il gio- co è pur sempre pericoloso. Le orecchie sono abituate a certe sonorità e quindi il “nuovo” rispetto all’originale deve risultare ugualmente gradito, non risultare lontano mille miglia. Daremmo un consiglio al giovane Stefanino, che di qualità indubbiamente ne ha parecchie: rifletta bene su ciò che presenta; e se presenta qualcosa creato da lui faccia vari saggi di ascolto; ma non si fermi ai ragazzi pronti a battere le mani. Si rivolga a gruppi critici, pregandoli di essere sinceri sulla produzione. Altrimenti, a lungo andare, Stefanino si dovrà rassegnare al flop. E non c’è Maria Defilippi che tenga (il caso del sardo Carta dovrebbe insegnare). Cioè Stefanino deve mettere da parte quella sua esperienza e pensare ad una nuova e più autentica ed originale affermazione. -Anche quest’anno l’Associazione culturale “Castellitini” ha dato una buona dimostrazione della sua capacità di organizzare belle feste. Il 19 agosto è stata la SFILANO GLI SPOSI DEL TEMPO CHE FU A SAN FLORO... volta di un gruppo folk molto noto in Calabria ed anche all’estero, i Calabruzi , di Lamezia (quelli di “Quant’era bella Rusìna miachi nàtichi tundi –chi minni chi avìa…”), con un’ampia partecipazione del pubblico alle tarantelle. Il giorno successivo, la nuova edizione del 5° Festival internazionale della fisarmonica e dell’organetto diatonico. Molti gli applausi, anche quando la sera del 20 si è ripetuto “ ‘U Ballu d’ ‘o ciucciu”, il ballo dell’asino, una tradizione soprattutto sanflorese (ricordate i fratelli Barbuto?), anche se in altre parti della Calabria, come nel Vibonese, si fa in estate, da tanti anni, qualcosa di simile con il “Cavallo pirotecnico”. -La Pro Loco “Tommaso Scarcella” si è data da fare anche con ottime iniziative mangerecce. Sembra che quest’anno gli introiti abbiano superato ogni più rosea previsione. Segno del gradimento del pubblico. Complimenti a tutto lo staff dirigenziale. ...MA SORPRESA! ANCHE UNA SPOSA ARBRESHE (DI CARAFFA) ...E poi un’oretta in cantina, cantando allegramente I “frittuli” della Pro Loco presentati da Giannino 7 Salvatore, prima dell’abbuffata, con gli occhi che godono... 8 Corriere di San Floro e della Calabria TRA STORIA E FANTASIA La leggenda di Teodorico Dal “calabro confine” sorge la figura di Severino Boezio, fatto uccidere dal re goto che viene inghiottito dal vulcano delle Eolie Su 'l castello di Verona batte il sole a mezzogiorno, da la Chiusa al pian rintrona solitario un suon di corno, mormorando per l'aprico verde il grande Adige va; ed il re Teodorico vecchio e triste al bagno sta. ma non corsi mai cosí. Teodorico di Verona, dove vai tanto di fretta? Tornerem, sacra corona, a la casa che ci aspetta? - Mala bestia è questa mia, mal cavallo mi toccò: sol la Vergine Maria Pensa il dí che a Tulna ei venne sa quand'io ritornerò.di Crimilde nel conspetto Altre cure su nel cielo e il cozzar di mille antenne ha la Vergine Maria: ne la sala del banchetto, sotto il grande azzurro velo quando il ferro d'Ildebrando su la donna si calò e dal funere nefando egli solo ritornò. Guarda il sole sfolgorante e il chiaro Adige che corre, guarda un falco roteante sovra i merli de la torre; guarda i monti da cui scese la sua forte gioventú, ed il bel verde paese che da lui conquiso fu. Il gridar d'un damigello risonò fuor de la chiostra: - Sire, un cervo mai sí bello non si vide a l'età nostra. egli ha i pié d'acciaro a smalto, ha le corna tutte d'òr. - Fuor de l'acque diede un salto il vegliardo cacciator. - I miei cani, il mio morello, il mio spiedo - egli chiedea; e il lenzuol quasi un mantello a le membra si avvolgea. i donzelli ivano. In tanto il bel cervo disparí, e d'un tratto al re da canto un corsier nero nitrí. Nero come un corbo vecchio, e ne gli occhi avea carboni. era pronto l'apparecchio, ed il re balzò in arcioni. Ma i suoi veltri ebber timore e si misero a guair, e guardarono il signore e no 'l vollero seguir. In quel mezzo il caval nero spiccò via come uno strale e lontan d'ogni sentiero ora scende e ora sale: via e via e via e via, valli e monti esso varcò. Il re scendere vorría, ma staccar non se ne può. Il più vecchio ed il più fido lo seguía de' suoi scudieri, e mettea d'angoscia un grido per gl'incogniti sentieri: - O gentil re de gli Amali, ti seguii ne' tuoi be' dí, ti seguii tra lance e strali, Il filosofo Severino Boezio, ricordato qui da Carducci. Fu fatto uccidere da Teodorico dopo una parvenza di processo con l’accusa di tramare per la restaurazione dell’impero romano. La Chiesa lo dichiarò santo e martire. Ella i martiri covría, Ella i martiri accoglieva de la patria e de la fé; e terribile scendeva Dio su 'l capo al goto re. Via e via su balzi e grotte va il cavallo al fren ribelle: ei s'immerge ne la notte, ei s'aderge in vèr' le stelle. Ecco, il dorso d'Appennino fra le tenebre scompar, e nel pallido mattino mugghia a basso il tosco mar. Ecco Lipari, la reggia di Vulcano ardua che fuma e tra i bòmbiti lampeggia de l'ardor che la consuma: quivi giunto il caval nero contro il ciel forte springò annitrendo; e il cavaliero nel cratere inabissò. Ma dal calabro confine che mai sorge in vetta al monte? Non è il sole, è un bianco crine; non è il sole, è un'ampia fronte sanguinosa, in un sorriso di martirio e di splendor: di Boezio è il santo viso, del romano senator. (Giosuè Carducci) E-MAIL Quando ti prende la nostalgia... Gentilissimo sig. Paravati, sono Sara Catanese, la “riggitana” che lavora al museo del Sodalizio Facchini di S. Rosa, a Viterbo. È stato davvero gentile a spedirmi i suoi libri e ho apprezzato moltissimo anche le sue dediche... Ho iniziato a sfogliare le pagine e devo dire che mi è venuta un po’ di nostalgia....Nostalgia di luoghi, odori, parole che, nonostante porto sempre con me, in effetti non fanno parte della mia vita quotidiana. E il vocabolario sul dialetto del suo paese!! Interessante davvero! Quanti termini che non conoscevo ho scoperto, e quanti che invece non ricordavo ho rispolverato. Insomma, quando mi vien voglia di sentirmi a casa do un’occhiata alle sue pagine e mi rendo conto che quando i miei amici per scherzare dicono che sono “selvaggia”....hanno proprio ragione!...Mi sento così come il paese da cui provengo, ricco di speranza e nostalgia, in cui il nuovo si mischia con il vecchio; un mondo chiuso, duro, primitivo, che ha tuttavia una sua bellezza, le sue segrete dolcezze...Allora mi ha fatto tanto piacere incontrarla e la ringrazio per avermi ricordato di non dimenticare le mie origini. Sara Catanese Anno IV - N° 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2010 OPINIONI Dio è amore. Anzi emozione di Salvatore Mongiardo ho riso e dove ho organizzato storiche burle, dove ho anche stretto amicizie tra le più solide e affettuose, e il mio pensiero va al fraterno amico don Peppino Scopacasa, arciprete di Mongiana in Calabria, l’uomo più allegro della terra. È vero, il seminario era pure, con tutti i suoi limiti, scuola di apprendimento delle lettere e delle scienze, nonché sede di mistiche atmosfere tanto consone all’arcana bellezza della Calabria. Di tutto questo sono ben cosciente, eppure non riesco a pensare al seminario se non come a un periodo triste e sconsolato della mia vita, una punizione per non so quale peccato. Forse, poiché davanti a Dio non esiste passato e futuro, Lui mi ha punito agli albori della vita per un crimine che dovrò ancora comIl mare della Calabria a primavera mettere. Ma dovrà essere un pecè come canta il grande Domenico cato veramente mostruoso, una Cunsolo: specie di UBRIS, l’oltraggio dei greci contro la divinità se, a distanza di Vieni, andiamo insieme al mare, oltre trent’ anni, il tempo trascorso a vedere la bellezza che ci dà, in seminario è impresso nella mia il mare che fa parte dell’amore mente come una dolorosissima e l’amore è profondo come il marchiatura a fuoco. mar! Quello che accadde dopo il nostro Sull’ultimo numero di Elpis il com- colloquio, e che Lei ovviamente ignomento di Don Edoardo al mio Chi è ra, mi sembra talmente importante che Dio termina dicendo che San Gio- merita di essere scritto con la massivanni ha capito l’essenza di Dio, che ma cura. A malincuore lasciai la è amore. È esattamente quello che canonica, sapendo che la Sua giorio sostengo: Dio è emozione in nata era piena di mille impegni, menquanto l’amore è emozione. Nel rior- tre la mia pencolava nel vuoto. Un paldinare le mie vecchie carte ho tro- lido sole novembrino rischiarava la vato due lettere che mi sembrano facciata della chiesetta attaccata alla valide nello spiegare lo sviluppo del canonica; la porta era aperta ed entrai mio pensiero. Eccone una. a cercarvi un attimo di serenità. Vidi a sinistra l’affresco di scuola leonardesca del battesimo di Gesù e, Lettera a don Giovanni (parroco di a destra, l’urna con le ossa del martire San Bovio, presso Milano) San Bovio. Mi sedetti e appoggiai la testa sullo schienale del banco di fronMilano, 20 febbraio 1994 te, con un gesto a me ben noto in gioCaro don Giovanni, ventù. Chiusi gli occhi e mi rividi nella ho lasciato passare tre mesi dal no- cattedrale di Squillace, durante i vestro incontro del 20 novembre 1993 spri in onore di Sant’Agazio, martire prima di scriverle la presente. Per di Cappadocia, patrono della città e di alcune coincidenze, che solo ades- tutta la diocesi. La gran chiesa sfavilso mi appaiono chiare, quel giorno lava di luci, il vescovo Fares sembrarappresenta una tappa importante va veramente il faro alto e fiammegdella mia vita. Il comune amico giante raffigurato nel suo stemma Ernesto Le aveva dato il manoscrit- episcopale, tanto brillavano pastorato del mio Ritorno in Calabria. Lei le e mitria, anello e croce pettorale. Il l’aveva letto durante l’estate e ave- vecchio sacrestano girava la manova espresso il desiderio di incontrar- vella del mantice dell’organo e il demi, cosa che ho fatto molto volen- crepito canonico Fulciniti riusciva a tieri perché nulla è per me più piace- stento a premere i tasti con le dita menvole che discutere del mio libro. tre cantavamo in coro: Mentre Lei mi preparava il caffè, guardavo le sedie in velluto rosso, i O ter quaterque et amplius quadri dei santi alle pareti, il lindo beata semper arcula decoro di tutta la canonica. Senti- quae tanti sacra militis vo anche le scampanellate alla por- ossa recordis gremio. ta di persone che La cercavano per mille motivi. E riflettevo alla mia so- (O tre, quattro e più volte litudine nella quale vivo male, ma alla sempre beata urna quale sono costretto a rientrare non che di un sì gran soldato appena cerco di uscirne. Da qual- le ossa racchiudi in seno). che tempo l’incontro con altri mi arreca qualcosa di brutto, di sgradevole, di cattivo. Da solo sto male, Era il maggio odoroso e i nostri ma con gli altri sto peggio. volti giovanili ardevano di fede e preghiera. Allora io ero certo, cerDurante il nostro colloquio Lei mi tissimo che, come fra poco sarebbe faceva notare che eravamo pratica- scoppiata l’estate in Calabria, così mente coetanei, Lei del Nord e io del la chiesa era prefigurazione della Sud, entrambi educati nei seminari, gioia infinita alla quale Dio ci chiama con storie personali che poi di- mava nel cielo. Fu durante quei vevergevano. E mi sottolineò che pro- spri solenni che don Ciccio Laugelli, vava dispiacere perché dal mio li- il quale sedeva in rossa mozzetta bro traspariva dolore in ogni mio ap- arcipretale negli stalli dietro di me, proccio verso la chiesa. Lei voleva disse rivolto a don Paolo Sorrenti, aiutarmi a superare questa lacera- perennemente pallido e teso:”Lo zione, forte della Sua esperienza di vedi Sant’Agazio con la palma del sacerdote felice nella vita e nella martirio e le ossa in bella mostra nelfede. Inoltre mi faceva osservare l’urna? Si è fatto uccidere perché ha che dal mio libro il seminario appa- rifiutato di bruciare un po’ d’incenriva unicamente come un luogo di so agli dei dell’Olimpo. Adesso il oppressione. Non faccio fatica a vescovo Fares lo incensa quante darLe ragione su questo punto. Il volte vuole e tutti in coro gli cantiaseminario era anche un luogo dove mo una bella ninna nanna in latino!” Dallo scrittore Salvatore Mongiardo (www.salvatoremongiardo.com) riceviamo, queste considerazioni che ci sembrano molto interessanti (almeno per noi, sul piano giornalistico) in quanto esprimono un’opinione difficile da esternare, per molti non condivisibile e addirittura scandalosa per i cattolici praticanti; che pubblichiamo però in omaggio alla libertà di pensiero e al nostro principio di dare sempre spazio alle diverse “verità”, quali esse siano, purchè rispettose delle “verità” degli altri. Questo testo doveva uscire nel numero di giugno del nostro giornale, ma non vi abbiamo trovato lo spazio. (dopar) Allora, avevo quattordici anni, l’espressione di don Ciccio Laugelli mi sembrò blasfema. Dopo tanti anni, guardando le ossa di San Bovio nella Sua chiesetta, mi resi conto che don Ciccio aveva il dono della comprensione profonda delle cose. Perché tanto sangue e ossa di morti attorno a Gesù che si proclama vita lui stesso? Perché in ogni altare, sul quale si ricorda, o si rinnova secondo voi, il sacrificio della croce, c’è la pietra sacrale, quel tassello al centro del marmo che racchiude le ossa dei martiri? Lasciai la chiesetta e a piedi me ne tornai a casa nella vicina San Felice. Era l’una e mi misi a tavola mentre il telegiornale trasmetteva che papa Giovanni Paolo II riconfermava il divieto alla contraccezione durante un’udienza nella quale Luc Montagne, lo scienziato dell’Istituto Pasteur di Parigi, lo aveva inutilmente supplicato di liberalizzare l’uso del profilattico. Pochi anni prima lo stesso papa in terra d’Africa aveva severamente proibito il profilattico, mentre attorno le persone morivano diAIDS come le mosche. Poi il telegiornale passò a un’altra notizia. Il gran capo della mafia Totò Riina, imputato di numerosi omicidi, si rifiutava di parlare con il pentito Tommaso Buscetta perché quest’ultimo per Riina era un uomo senza morale: era andato con più donne! In un istante compresi che il papa e Riina affermavano la stessa cosa. Per loro contava soprattutto il comportamento sessuale: i morti, le vittime, erano solo una triste necessità per raggiungere un fine. Per Riina il fine era l’arricchimento; per il papa l’osservanza di una legge che lui proclama divina e della quale si professa massimo custode. Ora più che mai sono convinto di quanto ho scritto nel Ritorno in Calabria: la chiesa ha perso nel Rinascimento la battaglia contro la scienza e perderà adesso la battaglia contro il sesso perché sta ricoprendo la terra di morte e contraddizione, cioè di ipocrisia. Con quale faccia il papa permette il sesso, a chi non vuole figli, solo quando la donna è infeconda? Se lo scopo è identico, che cioè non ci sia frutto, che differenza fa se uno getta la semente nel ruscello o se la sparge sul terreno arido dove non può germogliare? Chi può affermare che l’un comportamento è contrario alla legge di Dio e l’altro conforme? In verità la passione carnale è come un vento di primavera che strappa via i fiori dall’albero. Ma per quanti ne strappi, ne rimangono ancora molti per dare frutti. I fiori sono numerosi proprio perché il vento possa strapparne senza danno: Dio ha dato la vita e l’ha data in abbondanza. Ma tutto questo è poca cosa di fronte all’orrore dell’aborto, contro il quale la chiesa tuona da tutti i pulpiti e del quale è invece la causa primaria. Tucidide scriveva che chi può evitare un male e non lo fa, quello è il vero responsabile. E cosa fa la chiesa se non rimanere insensibile di fronte al saccheggio giornaliero degli uteri, alla carneficina incessante dei non nati? In ogni malattia o disastro la buona regola è prevenire: in base a quale logica, a quale precetto evangelico, la chiesa proibisce la prevenzione dell’aborto, cioè la contraccezione? Ho scritto e lo ripeto, e vorrei che tutti i vocabolari di tutte le lingue della terra, vive e morte, torcessero le loro alfabetiche budella e sputassero fuori le parole più forti, più tremende, più orribili, per esprimere il mio sdegno e la mia condanna. Nei libri di storia il massacro dei non nati peserà sulla chiesa come la più grande infamia di tutti i tempi. Un’ultima cosa voglio dirle, caro don Giovanni. Alla chiesa non saranno dati altri secoli per scusarsi di questa carneficina, come ha recentemente fatto con la farsa della riabilitazione di Galileo. La storia, justus judex ultionis, giusto giudice di vendetta, presto romperà il maledetto trinomio di sacerdote, sacrificio e vittima. Dalla finestra del mio studio vedo il bel campanile della Sua chiesa e sento l’orologio che suona le ore. Fino a poco fa ero triste e invidiavo la Sua vita. Ora non più. So che non entrerò più nella Sua chiesa e in nessun’altra, anche se mi dispiace e mi rendo conto che la mia lacerazione è insanabile. Starò lontano dalla chiesa di Roma per un motivo molto semplice: il mio onore. Solo persone senza onore possono sopportare la mattanza dell’aborto e rimanere in quella chiesa rendendosi complici di questo scandalo: l’omertà di mafia al confronto è poca cosa! CarodonGiovanni,iohofinitolamia amara riflessione e La lascio con l’augurio che la storia possa consumare il cuore di pietra di tanti sacerdoti, così come il mare scava anche il basalto più duro. Salvatore Mongiardo *** Spero tanto, io non credente, che Salvatore Mongiardo consideri della Chiesa le cose buone, tantissime, e non guardi solo alle cattive, che pure sono parecchie, come dice da qualche tempo chiaro e tondo lo stesso Papa Benedetto XVI. (D.P.) Onomastico e compleanno il 1° novembre per il giornalista Sante Casella di Rende (CS)