2 Corriere di San Floro e della Calabria

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2 Corriere di San Floro e della Calabria
Corriere di San Floro
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e
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Calabria
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Editore-Proprietà-Dir.ne-Red.ne: Domenico Paravati - V.le Trieste 19 - 00068 Rignano Flaminio (RM)
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RIFLESSIONI
Il Santo Patrono
e il vile denaro
Il 25 agosto, “Ottavario” della festa di San Floro, processione con
la statua del Patrono e fiaccolata. Al
termine, il tradizionale bacio della
reliquia.
In precedenza, il parroco don Giuseppe aveva fatto il bilancio della
raccolta in denaro per la festa. E così
abbiamo appreso che gli introiti - tra
offerte dei fedeli, degli sponsor, della
Provincia e della Regione, ecc.sono stati di poco superiori ai 20mila
euro, le spese sono state intorno ai
19mila euro (non ricordiamo le cifre
esatte, perché non avevamo a disposizione carta e penna). Quindi
un attivo dichiarato intorno ai 1200
euro. Don Giuseppe lo ha messo in
evidenza, più o meno con queste
parole: “Se vi fossero state solo le
offerte dei fedeli non si sarebbe riusciti a pagare le spese della festa per
il Patrono”.
Don Giuseppe, a nostro parere, ha
purtroppo dimenticato che il popolo - composto non solo di fedeli “auD.P.
(segue a pag. 3)
Gli angioletti
e il Santo
Martedì 17 agosto 2010, ore
20.20, chiesa parrocchiale di San
Nicola, in San Floro, vigilia della
festa dell’omonimo Patrono. Il
parroco don Giuseppe, davanti ad
una folla di fedeli che ha appena
assistito alla cerimonia preparatoria per il giorno successivo, se ne
esce con queste parole:
“Una raccomandazione, soprattutto a chi viene da fuori, a
chi rimane qui solo per una settimana, dieci giorni, un mese: Fate
caso a ciò che avete trovato in
più in questa chiesa rispetto all’anno scorso, non a ciò che non
c’è.”:
Capisco le preoccupazioni di
don Giuseppe, che ha ben diritto
ad essere giudicato soprattutto
per le belle cose che fa da quando governa questa comunità cristiana, certamente parecchie. Ma
è bene che anche egli capisca i
turbamenti di coloro che “vengono da fuori”, cioè noialtri emigrati
(che però diamo linfa vitale proprio alle iniziative festaiole locali). Coloro che “vengono da fuori”, se non tutti, buona parte (ma
credo di aver capito anche una
parte non indifferente di quelli
che rimangono qui tutto l’anno),
continuano a chiedersi perché gli
antichi quattro angioletti in legno
D.P.
(segue a pag. 3)
A CHISSA RUGA…
A chissa ruga ‘nc’è’na bella rosa:
nessunu mu la tocca ch’è la mia!
Si ‘nc’esta ‘ncùnu chi pretenda cosa
cacciàra si la po’ la hantasìa.
Sinnò la testa a li pìadi li posa,
lu sangu fa lu hjùma pe lla via!
PERSONAGGI
Fortuna vitrea est.
Tum cum splendit,
frangitur
Publilio Siro,
I° sec. a.C.
“Sententiae”
Anno IV - N° 3
Luglio - Agosto - Settembre 2010
PERSONAGGI
Mariana Rocca ricorda Paparazzo
Salvatore Citraro
Era lo “zio d’America” della bambina -ora scrittrice- adottata negli Anni
Quaranta da una famiglia sanflorese. “Mi regalò il vestito più bello della mia
vita” - “Sempre pulito e profumato, sento ancora l’odore del suo sapone da
barba, delle sue sigarette bianche e lunghe, il sapore delle prime gomme da
masticare che avevano il disegno del ponte di Brooklyn”
Ha dedicato la vita alla scuola in varie
località della provincia
Mariana Rocca, che ha vissuto i primi difficili anni della sua
infanzia nel nostro paese sotto
altro cognome -quello del padre
adottivo- è diventata scrittrice
MARIANA ROCCA durante la
presentazione dei suoi libri a
San Floro
proprio mettendo nero su bianco i ricordi tremendi della sua
vita. Ha pubblicato due libri di
questi ricordi, di cui leggerete in
altra parte del giornale. Nei due
volumi non figura però questo
ritratto -stavolta molto positivodi un personaggio che a San
Floro ha lasciato una simpatica
traccia, Giuseppe Paparazzo, un
emigrato in America nei primi
anni del secolo. Mariana Rocca
ce ne fa regalo e noi siamo lieti
di pubblicarlo in apertura di questo numero del Corriere. Anche
perché ci viene un dubbio: chissà che il nome di questo
Paparazzo non abbia ispirato a
Fellini quello appioppato
al re dei fotoreporters romani nella “Dolce Vita”;
chissà, cioè, che il famoso regista, recandosi negli States, non abbia incontrato lo stesso protagonista di questa nostra
storia e quindi non abbia
deciso di soprannominare “Paparazzo” il personaggio che nel film dava
la caccia con la macchina fotografica ad attori ed
attrici in via Veneto; per
cui da allora sono diventati “paparazzi” tutti i
fotoreporters.
***
Ho un bellissimo ricordo dello
zio d’America, Giuseppe
Paparazzo. Il mio primo ed unico
vestitino nuovo, che ho avuto da
ragazzina verso i nove anni, me
l’ha fatto fare su misura proprio lui
da una brava sarta di Catanzaro,
lui che era diventato negli Stati
Uniti un sarto-stilista rinomato perché vestiva gli attori del cinema e i
più grandi personaggi del governo, con i suoi vestiti tagliati, cuciti
e rifiniti tutti a mano. Ma aveva mi raccontavano - anche un’altra
passione: quella di fotografo e giornalista. Era famoso per la sua iro-
OPINIONI
Gli anziani di Borgia
e le badanti straniere
Un dubbio grave mi tormenta da
qualche tempo. Sto cercando di capire la reale situazione in cui vivono tanti anziani nel nostro paese,
Borgia. Mi chiedo: ma è possibile
che ci sia tanta cecità? O peggio
ancora: è possibile che la famiglia
non esista più? Questo è il dubbio.
Seguitemi, sarò breve.
Cosa spinge oggi tanti figli a consegnare i propri genitori anziani e
bisognosi di affetto alle badanti arrivate in massa dall’Est europeo?
Niente razzismo, ovviamente, solo
ragionamento.
Queste donne hanno le basi per
fare le badanti?
Per poter assistere i bisognosi
sono richieste competenze minime,
in campo medico, in quello psicologico e, soprattutto, in quello umano.
A ben vedere, mancano completamente queste qualità. L’assistenza non è assolutamente buona.
Spesso si tratta di donne venute in
Italia per trovare una sistemazione
e, sicuramente, la loro intenzione
non è quella di fare le badanti a vita.
Queste donne ammirano il nostro
stile di vita, che vorrebbero emula-
re. Quindi, il loro lavoro di badante
non è consono a quanto da loro
sognato. Tanto più che spesso
sono anche sottopagate ed in nero,
in barba all’Inps.
Si dà pieno mandato a queste donne di dare le medicine ai nostri genitori, a farli mangiare, a fargli compagnia. Si è delegata loro la vita dei
nostri cari.
Si vedono, e sono sotto gli occhi
di chi vuol vedere seriamente, i visi
spenti di questi anziani, smarriti e
senza affetto. Spesso sono talmente ripieni di medicine che dormono
in continuazione. Fanno pena questi anziani, seduti tutto il giorno, con
la mente assente. Ma che vita è?
Che pena sentire dire: “Gli abbiamo messo una donna”. È come se
con questa frase ci si sia liberati di
un peso. Non così per la coscienza,
però.
Risposta al mio dubbio: quello che
manca a queste persone è l’affetto,
quello vero, quello che è amore sincero che solo un figlio può dare,
non certamente un estraneo. Non è
soltanto il piatto di pasta o la tv, ma
è proprio l’amore che manca.
dom. proc.
nia pungente.
Era primo cugino del mio papà
adottivo, perché erano figli di
due sorelle. A me raccontava che
avevano quasi la stessa età. Erano partiti per l’America a diciotto anni per fare fortuna insieme
con tanti altri giovani, ancora prima della prima Guerra Mondiale
del 1915-18. Mio padre dopo pochi anni è tornato al paese e si è
sposato, mentre suo cugino era
rimasto lì formandosi una famiglia e imparando il mestiere di
sarto .
Aveva lasciato l’unica sorella
(dieci anni più di lui) che gli aveva permesso di partire perché
erano orfani. Lei gli aveva fatto
da mamma e da papà, lavorando
come governante al servizio di
una ricca famiglia di Girifalco.
Non si era mai sposata e aveva
cresciuto i quattro figli dei padroni come se fossero i suoi: un maschio, che era diventato avvocato, e tre femmine molto belle, che
io ho conosciuto molto bene, insieme con la loro mamma che faceva finta di essere sorda; e suo
figlio, l’avvocato, l’abbracciava
ridendo e le diceva vicino all’orecchio: “Mamma , tu non senti quello che non vuoi sentire, ma
Mariana Rocca
(segue a pag. 2)
Il valore
del “Corriere”
È da qualche mese che i tagli della
finanziaria hanno decretato l’abolizione delle tariffe agevolate per gli editori. Il taglio ha costretto gli editori a
chiedere ai loro abbonati un supplemento di prezzo al fine di coprire le
spese postali. Questo aumento dei
costi ha inciso irrimediabilmente sui
prezzi degli abbonamenti, che, nella
migliore delle ipotesi hanno subìto
un aumento del 15%, gravante sulle
tasche degli abbonati. Il Corriere di
San Floro e della Calabria non ha
risentito delle modifiche alle tariffe
postali poiché da anni le spedizioni
del giornale avvengono a tariffa intera, quella che ora dovranno pagare editori di periodici a diffusione nazionale, senza usufruire di alcun beneficio statale.
Negli anni il nostro Corriere è vissuto grazie alle quote di abbonamento sottoscritte da tanti lettori
lungimiranti che vedono nel giornale un ponte di collegamento tra la
cultura locale e quella nazionale. Per
anni i nostri lettori hanno potuto leggere, apprendere e conoscere tante
realtà di cui non si trova traccia nei
quotidiani locali. Si è saggiata la dedizione dei collaboratori alla nostra
terra e si è letto quello che tutti vorrebbero dire. Insomma, una perla
data a chiunque, nella speranza che
ne sia riconosciuto il valore.
Domenico Procopio
Salvatore Citraro (Borgia, 19342002).
Una personalità attiva, particolarmente connessa alla struttura sociale. Ha operato con umiltà per il prossimo e per la comunità nella quale
viveva, senza pretese, tranne provare, via via, la gioia che suscita nell’animo il bene fatto. Il suo è stato un
impegno sociale coerente per tutto il
SALVATORE CITRARO
tempo dell’esistenza. Una vita vissuta fra la gente, tra gli amici (ne aveva tanti!), con i quali gli piaceva intrattenersi, dialogare, ma soprattutto sentire i bisogni degli altri con partecipata sensibilità.
Ha dedicato massimamente il suo
“lavoro” alla scuola dove ha istruito
ed educato più generazioni di alunni. Conosceva bene l’“arte di fare
scuola”, che praticava nel rispetto
delle norme e delle indicazioni contenute nei programmi ministeriali e
alla luce delle sue conoscenze
psicopedagogiche.
Nella scuola statale ha prestato servizio per quasi 40 anni - dal 1958 al
1997 - alcuni dei quali in varie località
della Provincia.ABorgiacentro(nella
primaria“A.Pitaro”)dal1968al1997,
dove, oltre all’insegnamento, ha esercitato la funzione di Vicedirettore, dal
1976 sino all’anno in cui è stato dispensato dal lavoro per motivi di
salute.
In aggiunta, ha impartito, per decenni, nel suo studio, l’insegnamento della matematica a un crescente
numero di alunni e studenti borgesi
che hanno seguito con interesse e
profitto le sue lezioni private.
Si è interessato anche di politica.
Apprezzato collaboratore tra i numerosi iscritti alle locale sezione del PSI.
Negli Anni Settanta, candidato alle
elezioni amministrative di Borgia, veniva eletto Consigliere comunale e poi
scelto a fare parte della Giunta (Assessore al personale dal 1970 al 1974).
Dal matrimonio d’amore da lui contratto nel 1960 con la gentile e virtuosa Paola Vatrano sono nati due figli:
Leonardo (oggi, avvocato) e
Concetta (infermiera professionale).
I suoi hobbies preferiti: giocare a
carte con gli amici; andare in campagna (attratto dalla vita semplice
dei campi); raccogliere , nei boschi
vicini, nella stagione favorevole,
qualche fungo mangereccio; occuparsi del buon andamento della
squadra di calcio locale; tifare per la
squadra del Milan.
Antonio Zaccone
COSE NOSTRE
Cari lettori, regolatevi
Cari Lettori,
repetita iuvant ed inoltre ci piace l’estrema chiarezza. Questo
giornale campa alla giornata. Ed
anche questo numero nasce
dopo molti dubbi. Gli ostacoli
non sono superati, ma è possibile che riusciremo a coprire i costi
di stampa di questo numero con
l’arrivo di tutti gli abbonamenti
scaduti. E di qualche nuovo acquisto.
A proposito: vogliamo ripetere
- come già scritto in altre parti del
giornale - che la parola abbonamento per noi non significa impegno assoluto a far uscire il
giornale per il prossimo o i prossimi numeri, ma è riferita solo ad
un contributo a fondo perduto
da parte vostra. Quindi nessuno
vi assicura che, pur versando
una qualsiasi somma, voi riceverete il numero di dicembre
del”Corriere”. Dovrete, per forza,
anche voi campare di speranza:
la speranza che il giornale possa
continuare ad uscire con l’impegno concreto di tutti (e quello
nostro è piuttosto rilevante, del
tutto gratuito e con rischio di
pesanti perdite in moneta per il
semplice amore del loco natìo).
Per cui, regolatevi. Dateci speranza di vita finchè potete.
Quando vi sarete stancati, molleremo anche noi.
La Direzione
Quando imparai
a nuotare
Quando mio padre mi ha
insegnato a nuotare, teneva
la sua mano sotto la mia
pancia ed io mi sentivo felice e protetto. Ma fu quando
tolse la mano che imparai a
nuotare.
d.proc.
Corriere di San Floro e della Calabria
Direttore responsabile: Domenico Paravati
Vice Direttori (ad honorem):
Feliciano Paravati (per i servizi fotografici)
Antonio Zaccone (per Borgia e Catanzaro)
Angiolino Guzzo (per i servizi tecnologici)
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Corriere di San Floro e della Calabria
Anno IV - N° 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2010
DALLA PRIMA PAGINA
Mariana Rocca ricorda Giuseppe Paparazzo, lo “Zio d’America”
senti benissimo quando ti conviene!”. E lei rideva e faceva ridere
tutti noi che eravamo presenti a
quelle scenette simpatiche.
Mio padre era rimasto sempre
in contatto con lei, che era la sua
unica cugina carnale e si volevano molto bene, ma anche con suo
fratello, che per tutte le feste gli
scriveva lettere per gli auguri e
gli raccomandava di andare a trovare sua sorella.
Ogni volta che in quel paese
c’erano le fiere, per cose o animali, io andavo con mio padre a
piedi per più di 15 o 20 chilometri. Andavamo a casa di quella
bella famiglia, che mi voleva bene
e mi coccolava come una vera
nipotina, che loro ancora non
avevano perché nessuno di loro
si era ancora sposato. Tante volte restavo a dormire da loro per
una settimana. Per me era una
festa perché mi ero affezionata a
tutti loro, specie alla zia Concetta
Paparazzo. Lei mi parlava sempre
di quel suo tanto amato fratello
che era partito per l’America ancora ragazzo e non era più tornato. Era rimasta in contatto con lui
solo per lettera ma non aveva mai
perso la speranza di rivederlo prima di morire.
Aveva quasi ottant’anni ma,
anche se piccola e curva su se
stessa, era una donna in gamba,
con una mente lucidissima, che
continuava a fare il suo lavoro e
governare quella famiglia che era
diventata la sua, alla quale ave-
va dedicato tutta la sua vita, le
sue forze e il suo amore materno
e allo stesso modo era ricambiata e rispettata da tutti loro che la
chiamavano mamma Concetta.
Anche io le volevo molto bene e
la chiamavo zia.
Un bel giorno d’agosto - era
quasi vicina la ricorrenza del Santo Patrono San Floro - con grande gioia si avverò il suo desiderio di rivedere l’amato fratello,
che chiamava Peppinuzzu.
Così anche io conobbi il famoso zio d’America.Erano passati
più di cinquant’anni, c’erano state due guerre mondiali, le bombe
su Hiroshima; il mondo era cambiato da quando era partito, ma
lui parlava ancora il dialetto del
suo paese di nascita. E per tutte
le persone della sua stessa età
era come fosse tornato un fratello.
Io ho subito incominciato a
chiamarlo zio perché per me era
una persona speciale. Quando
veniva al paese era sempre nostro gradito ospite, sia a mangiare che a dormire. Al mattino seguivo con curiosità tutto il rito
per la sua pulizia personale: sento ancora il profumo del suo sapone da barba, della sua colonia
che portava dall’America, delle
sue sigarette bianche e lunghe,
il sapore delle prime gomme da
masticare che avevano il disegno del ponte di Broocklyn e che
ancora nessuno aveva mai visto.
Io forse sono stata la prima al
paese a masticare le gomme americane.
Assistevo alla sua prima colazione con caffè, pane tostato e
due uova fresche quasi crude: le
voleva appena scaldate nell’acqua calda; poi faceva un piccolo
buco sopra e sotto e le succhiava. Io non riuscivo a capire come
facesse a svuotare l’uovo senza
rompere il guscio, che restava
intero, e lo dava a me per romperlo: si divertiva un mondo
guardando la mia innocente incredulità. A volte mi faceva degli
scherzi un po’ antipatici per farmi arrabbiare. Come quando, il
giorno della festa, mi regalò un
palloncino gonfiato a forma di
cavalluccio. Poi mi fece andare
vicino a lui. Eravamo davanti alla
porta della chiesa, in mezzo a tanta gente perché era la festa del
Santo Patrono. Aveva la sigaretta nascosta dietro la schiena. All’improvviso toccò il mio palloncino, che scoppiò come un petardo facendomi piangere per lo
spavento. Lo zio, ridendo come
un bambino, si affrettò a comprarmi un altro palloncino.
Io lo guardavo con ammirazione perché sempre pulito e profumato, molto elegante nei suoi
abiti tagliati e cuciti da lui stesso, con delle bellissime stoffe di
lino e seta, le sue camicie bianche e azzurre, le sue cravatte
adatte all’abito indossato. Mi
piaceva guardarlo quando, davanti allo specchio, si faceva il
nodo in modo perfetto che io da
sola cercavo di copiare senza riuscirci. Le scarpe erano di pelle
lavorata e cuoio sempre lucide,
fatte a mano. Era proprio un signore distinto e simpatico.
Un giorno sono andata con lui
fino al bivio del paese, dove c’era
il “casello” della posta e dove si
fermava anche la corriera (al paese allora gli autobus non potevano salire perché la strada non
era adatta neanche per le macchine). Lo zio doveva prendere la
corriera, che allora chiamavano
“Il postale”, per andare da sua
sorella a Girifalco. Mentre eravamo in attesa, lo zio fu attirato dalla
curiosità per un formicaio a forma di piccolo monte, con un
buco al centro, dove le formiche
con le ali entravano ed uscivano. Lo zio tirò fuori dalla tasca un
foglio di carta e un fiammifero e
lo buttò nel formicaio, uccidendo tante povere formiche.
.Dopo quel primo anno è venuto ancora tre volte, sempre in
agosto, per un mese. La seconda volta mi portò in regalo il primo bambolotto di plastica morbida che potevo smontare tutto.
È stato il primo ed unico giocattolo che ho ricevuto nella vita.
Lui era felice di vedermi crescere
bella, sana, intelligente, scoprire
la mia passione di studiare, imparare tante storie che ero felice
di raccontargli. Lui cominciò a
descrivermi la sua vita in America, i suoi lunghi viaggi con le
navi, i suoi sbarchi nello stretto
di Gibilterra quando veniva in Italia.
Forse è stato proprio lui che mi
ha inculcato la voglia di viaggiare alla scoperta di paesi e terre
vicine e lontane ma mi ha fatto
anche capire che puoi girare tutto il mondo, ammirare i posti più
belli che esistono sulla terra; ma
l’amore per il proprio luogo di
nascita, bello o brutto che sia, te
lo porti sempre nel cuore per tutta la vita.
La terza volta che tornò io ero
già una bella ragazza di nove
anni, anche se ne dimostravo di
più. Voleva vedermi vestita finalmente con un bel vestitino nuovo, su misura per me e per la mia
bellezza in fiore, come era orgoglioso di scattarmi le prime fotografie ogni anno che tornava.
Quella volta arrivò con un misurino da sarta, mi prese le misure
giuste per farmi confezionare un
vestito per la festa del Patrono.
Una mattina partì per Catanzaro
per comprare la stoffa e trovare
la sarta. Non riesco a descrivere
la gioia che provai alla vista di
quella meraviglia. Avevo quasi
paura di indossare quel vestito
per paura di romperlo, ma mi stava a pennello. Era di una stoffa
di moda in quel periodo, una stoffa che chiamavano bouclé. Aveva tutto il fondo rosa mattone
con tanti mazzolini di fiorellini
scuri, il colletto rotondo, le maniche corte a palloncino, la gon-
na svasata. Io non avevo mai visto un modellino come quello neanche sui libri o sulle riviste. Per
me è stato il vestito più bello della mia vita. Il giorno della festa
ero la più bella di tutte ed ero
molto orgogliosa del mio vestito
rosa di bouclè. Quando ormai
non riuscivo più ad entrarci perché ero diventata grande, ho tolto le maniche e la gonna e mi
sono fatta una camicetta senza
maniche.
È stato il regalo più bello che
abbia ricevuto nella vita perché
ricevuto da uno zio americano
che mi ha voluto bene, anche se
tra me e lui e sua sorella non esisteva alcun legame di sangue. Mi
dispiace di non avere più nessuna delle belle fotografie che mi
aveva fatto, anche con quel
vestitino che mi aveva fatto tanto felice.
Dopo qualche anno è arrivata
una lettera dall’America con la
notizia della sua morte con dei
ritagli di giornali che parlavano
di lui come di un grande sarto,
ma anche di un bravo giornalista
e valente fotografo, calabrese di
nascita ma cittadino americano
da una vita: il grande Giuseppe
Paparazzo. Sua sorella è morta
due anni dopo; ma, almeno nell’ultimo periodo della sua vita,
aveva avuto la gioia di rivedere
l’amato fratello Peppinuzzu.
Mariana Rocca
Lavagna, 25 aprile 2010
I due libri di Mariana, un documento eccezionale sul nostro passato
A San Floro, nel mese di agosto, il sindaco Procopio ha presentato al pubblico i due libri
pubblicati da Mariana Rocca,
una nostra compaesana, emigrata da tempo nel nord Italia. I volumi sono Nata per vivere-Autobiografia di Mariana e Una donna così-Note di viaggio , entrambi stampati da Pubblisfera Edizioni – San Giovanni in Fiore
(tel.0984993932)-rispettivamente nel 2008 e 2010. I libri sono
stati presentati anche in varie altre località sia della Calabria che
di altre regioni e se ne è parlato
in tv. In proposito una nota del
direttore di questo giornale.
Devo dire che i libri di Mariana
Rocca mi hanno letteralmente
scioccato. Personalmente ho
avuto un’infanzia abbastanza felice e serenamente impegnata. Di
questo ho trasmesso qualcosa
nei due volumi che anch’io ho
scritto, anche se di argomento
completamente diverso perché
ho colto il lato bello della vita di
paese, con il suo folklore, le tradizioni, la vita “pubblica” di tutti
i giorni…. Lei invece afferma di
avere trascorso una fanciullezza
- e non solo - molto triste, nello
stesso nostro paese, San Floro.
Soprattutto Nata per vivere –
Autobiografia di Mariana - una
spaventosa confessione sulla
sua difficile vita - è stata dunque
per me l’autentica scoperta di
una realtà che avevo sì, immaginato, ma non con i colori così bui;
come quando si pensa a qualcosa che è lontano da noi e di cui
non si conoscono i particolari. I
libri di Mariana- l’altro si intitola
Una donna così-Note di viaggio
– mi hanno inferto un duro col-
po. A San Floro, dunque, c’era
chi soffriva veramente tanto nell’ambito familiare, come certamente soffrivano (o soffrono ancora?) tante persone in altri posti soprattutto del Sud del mondo.
A Mariana -ma a San Floro
era Maria, Mariettina,
Marietteddha, ecc.- invidio il coraggio che ha avuto nel pubblicare queste sue amare riflessioni, oltretutto chiamando tutto con
il proprio nome. Ma bisogna dire
che questo suo merito ha anche
un aspetto negativo. Certe ferite
non si rimarginano facilmente,
non solo dentro di lei ma anche
nei lettori del nostro paese, San
Floro; in quei lettori che in queste pagine hanno avuto chiara la
percezione di riferimenti a parenti o amici o semplici conoscenti. E certo non è bello sco-
prire che il Tale – che tu consideravi persona del tutto normale
e tranquilla, e magari era stato un
tuo compagno di scuola - avesse
quei brutti difetti, sempre se la
realtà descritta corrisponde alla
pura verità. Sarebbe stato meglio,
forse, che Mariana descrivesse i
suoi affanni di bambina e poi di
adulta sostituendo i nomi reali di persona e di luogo - con altri
di fantasia. Avrebbe evitato qualche dolore a chi è venuto su questo mondo dopo di lei oppure a
chi i protagonisti o quei protagonisti se li ricorda bene, pur non
avendoli mai conosciuti nel profondo così come raccontato dalla
nostra formidabile scrittrice. La
quale, se i suoi testi fossero stati
maggiormente curati, avrebbe
potuto legittimamente aspirare a
pubblicarli presso un editore più
importante. L’argomento che of-
friva era veramente interessante
e la cronaca è sempre meglio
dell’affabulazione di tanti nostri
scrittori (vedi il successo di
Gomorra di Saviano, che ha solo
raccontato fatti e non fantasie).
Ma a chi ha proceduto alla stampa di questi due preziosi volumi preziosi per la testimonianza che
offrono su quella che era molto
spesso la vita nei nostri paesi- va
dato comunque il grande merito
di aver preso sul serio una donna
che ne ha visti di tutti i colori, aveva solo pensato ad un diario, ma
poi ha deciso, come si dice ora,
di fare outing, cioè di confessare
a tutti, - quasi un’autoanalisi quella che era stata la sua vita per
alcuni decenni in un piccolo centro del profondo Sud a partire
dagli Anni Quaranta.
E comunque, per i piccoli errori che si rilevano nei suoi libri,
una giustificazione c’è e il lettore attento è pronto a perdonare.
La Mariana afferma che fin da
piccola aveva sete di apprendimento ed avrebbe desiderato studiare oltre le elementari piuttosto che andare in campagna con
i genitori adottivi, ma ciò non le
sarebbe stato consentito; per cui
solo molto più tardi ha potuto
fare un salto in avanti. Ma proprio per questo i suoi libri -che
vi consiglio vivamente di leggere- sono un eccezionale documento di sofferenza fisica e morale, che forse proprio ora
Mariana riesce ad alleggerire
grazie alla sua attuale grande famiglia -cinque figli che hanno già
altri figli- che le vuole tanto bene,
ricambiandola di quanto sofferto in passato e dove lei ora è “la
nonna scrittrice”.
Domenico Paravati
Unatelettera
di Mariana: Così ricordo alcuni miei vicini di casa
fotografica che potrei raccon- ho capito che era quasi uguale case dei tuoi parenti, nella casa era un mito, perché veniva dal tutti loro.
Carissimo Domenico,
sono stata felice di poter parlare con te al telefono, ma molto più
di aver rivisto insieme te e tuo
fratello Feliciano, dopo più di cinquant’anni. Sembra ieri quando
ero ancora una bambina e tu eri
il fratello maggiore delle mie compagne di gioco e di scuola - Elisabetta (Bebè) e Maria Pia - e di
Floro (Fofò) che ti adoravano e
ti chiamavano Mimì. Anche io
avevo imparato a chiamarti in
questo modo.
Poi vi siete trasferiti a
Miglierina e per un po’ non ci siamo più visti perché ero andata via
dal “Pizzo” a tredici anni e voi
non eravate ancora tornati al paese. Poi mi sono sposata e al “Pizzo” non ci sono più venuta,
finchè non ho cominciato a portare il mio primo figlio all’asilo al
“Timpone”. Ma i ricordi che ho
della vostra famiglia sono tanti,
sono così impressi nella mia men-
tarvi tanti episodi, come se fosse ieri, come il ricordo che ho
scritto nel secondo libro.
Come avrai capito, era il tuo
papà che mi ha tolto il vetro dal
tallone; e dove nessuno c’era riuscito, lui ce l’ha fatta. Ho il ricordo della tua mamma quando è
venuta al paese (forse per le ferie estive) ed io l’ho vista con il
pancione per la prima volta. Mi
sembrava una cosa strana, ma
era in attesa di Feliciano. Era
come se si sentisse a disagio perché aveva già quattro figli. Ma
quando è venuta con il bambino
la prima volta tutti eravamo felici
e contenti. Insieme con i grandi
c’ero anche io che, curiosa, ho
chiesto:
“Come
si
chiama?”.Quando mi hanno risposto: “Feliciano” io sono rimasta un po’ confusa perché quel
nome mi ricordava qualcosa ma
non riuscivo a capire cosa. Poi
al nome della mia vera mamma,
che si chiamava Felicina, ma era
un nome che tutti pronunciavano in mia presenza con disprezzo verso di lei, ed io cercavo di
dimenticarlo, ma non ci riuscivo;
e bastava un altro nome quasi
uguale per riaprire la ferita mai rimarginata del mio piccolo cuore
di bambina lasciata ad altri dalla
sua mamma.
Io ho conosciuto bene i tuoi
nonni materni ed i tuoi zii
Micuzzu e Polituzza, perché andavo sempre in casa loro, proprio
in quella che adesso è tua. A me
allora sembrava bellissima. Mi
piaceva affacciarmi dai
balconcini, ero sempre a pestare
l’uva scalza nel palmento e tuo
zio era sempre lì con il suo bastone a controllare che tutto filasse liscio con il torchio a cui
teneva moltissimo.
Io sono cresciuta quasi nelle
in cui abitava Don Celestino, al
“Pizzo”, e le sue nipoti ancora
giovanissime, Giovanna e Rosetta. Poi è arrivata la bellissima signora Bonina (Amalia mi pare
fosse il suo vero nome), cioè la
moglie di tuo zio Salvatore, che
veniva da Catanzaro; e già per me
posto dove abitava la mia mamma. Ho visto quasi nascere tutti
i suoi bellissimi figli perché da tua
zia Teresina andavo ad imparare
il cucito. Ho visto tuo nonno e
tua nonna negli ultimi anni della
loro vita e spesso sogno di essere ancora in quella casa con
Era per tua zia Teresa, che io
ancora non conoscevo nemmeno, che ho rischiato di annegare
nel mare per recuperare il suo
zoccolo che lei non riusciva a
prendere. Era con lei che andavo
in campagna nel vostro vigneto
quando voi non eravate al paese, per aiutarla a dare il verderame, ed era sempre con lei che
andavo a raccogliere erba per i
suoi conigli, come avrai letto nella prima parte della mia autobiografia.
Quando tuo padre è ritornato
in paese per prendere il posto di
ufficiale postale, perché l’anziano ufficiale era andato in pensione, io ero già sposata. Un giorno
l’ho visto arrivare trafelato a casa
di mia suocera, a “Li Cezulli”,
dove abitavo, per avvisarmi di
andare all’ufficio postale entro
AMALIA “BONINA” PARENDELLA E SALVATORE DE
Mariana Rocca
NARDO
(segue a pag. 3)
Anno IV - N° 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2010
Corriere di San Floro e della Calabria
BORGIA
SEGUE DALLA PRIMA E DALLA SECONDA
San Fantino in un articolo di Don Antonio Severini
Antonio Zaccone ci segnala
questo testo sull’antico monastero di San Fantino, nelle campagne di Borgia, scritto da Don Antonio Severini e tratto da “Il Mosaico”, periodico borgese di informazioni della A.S.C. “Auriga”,
numero del novembre 2000.
Quando da ragazzo andavo
lungo il fiume Ghetterello a giocare con i miei compagni facendo tuffare in acqua le rane, saltando da una pietra ad un’altra e
schizzandoci acqua, improvviso
in lontananza appariva un agglomerato di case, nella mia fantasia
un luogo incantato: San Fantino.
Il nome evocava alla mia mente
di ragazzo un mondo fascinoso,
avrei voluto vedere di persona
cosa ci fosse; ma, ai miei tempi,
era troppo per un ragazzo. Quando andai a scuola raccontai al mio
maestro l’avventura del fiume e
delle case viste in lontananza e
con molta gioia, con aria quasi
ispirata, egli cominciò a parlare.
“Molto e molto tempo fa, intorno al VII secolo avanti Cristo, i
primi coloni greci, con grande entusiasmo e molte speranze, lasciarono la Grecia e, solcando il
mare, approdarono alle spiagge
della nostra regione, dove, per
incanto, sorgono delle bellissime
3
città: Reggio, Locri, Caulonia,
Scillezio, Crotone, Sibari. La feconda primavera ellenica rende le
nostre terre fertili di storia, di poesia, d’arte e la Calabria diventa
gran parte della Magna Grecia.
Poi, ad una ad una ,come le foglie d’autunno, le gloriose repubbliche decadono, le belle città
scompaiono e solo i maestosi
ruderi rimangono a testimoniare
la passata grandezza; anzi, molti
di questi, sotto l’infuriare delle
intemperie, vengono sepolti da
detriti e una coltre di oblio si stende su questa parte così importante della Magna Grecia.
Nella seconda metà del secolo
VII dopo Cristo, sotto l’incalzare
delle orde musulmane, e per l’infuriare della persecuzione
iconoclasta poi, ancora dall’Oriente, monaci siro-melkiti,
copti, basiliani approdano in
Calabria. La nostra regione diviene una Tebaide e il Mercurion,
Reggio, San Giovanni Teresti, il
Patirion a Rossano, S. Adriano a
San Demetrio Corone, Seminara
divengono non solo centri di
fede ma anche di arte.
In un lontano mattino di novembre un’imbarcazione approdò
presso la foce del fiume Alessi. Ne
scesero dei monaci che, appena
toccarono terra, la baciarono e si
avviarono all’interno. Incontrarono gente impegnata nel lavoro dei
campi, intenta, in particolare, alla
semina. Il loro sguardo si posò a
contemplare l’antica Squillace che
sorgeva maestosa su una collina,
ricca di uliveti. Poi si separarono
dirigendosi chi verso la sede
vescovile chi verso le colline che
ondeggiando portavano all’interno.
I luoghi erano incantevoli: il
primo sole novembrino mandava i suoi raggi attraverso i rami
spogli degli alberi e, raggiungendo gli oliveti e le vigne, tappezzava la costa di un verde velluto
o di un manto di porpora. I folti
boschi e la quiete solitudine esercitarono un fascino irresistibile
su quegli uomini di Dio, i quali
decisero di fermarsi per dare vita
ad un modesto cenobio. La presenza del beato Fantino, la liberalità dei signori del luogo e la
lungimirante intuizione pastorale fecero sì che il piccolo cenobio
s’ingrandisse e, divenuto monastero, fosse centro di spiritualità
e di cultura. I monaci accoglievano con amore tutti coloro che
bussavano alla porta del monastero e per tutti c’era una parola
di conforto, un piatto di minestra,
un aiuto per l’apprendimento di
un mestiere e una migliore colti-
vazione dei campi. In seguito una
grande fiera richiamò a San
Fantino un gran numero di commercianti sicchè divenne anche
un centro commerciale importante. Poi a poco a poco, come per
tutte le cose, incominciò la decadenza: i monaci abbandonarono
il monastero, e una coltre di oblio
coprì quel luogo che per lungo
tempo era stato un punto di riferimento per tanti uomini”.
Qui il maestro, con gli occhi
quasi velati di lacrime, interruppe il suo dire. Fu un momento di
commozione per tutti noi. Poi,
con grande slancio ed entusiasmo, riprese a parlare. “Domani
faremo un’escursione a San
Fantino”.
Sui nostri volti si leggeva una
grande gioia. Partimmo con tanto
entusiasmo. Lungo la strada cantavamo per rendere meno faticoso il cammino e quando giungemmo restammo sorpresi nel vedere
la grande costruzione, la chiesa,
un frantoio. Il maestro ci spiegò
che dopo che i monaci erano andati via, la costruzione subì svariate modifiche secondo le esigenze dei nuovi proprietari. Rimanemmo un paio d’ore e la visitammo
con calma ed interesse. Alla fine,
contenti, ritornammo a casa.
Don Antonio Severini
Il Patrono e il vile denaro
tentici” ma anche di semplici persone legate alla tradizione - ha bisogno di segni esteriori ai quali rimane attaccato per tutta la vita. Purtroppo - ma non solo a San Floro certi “segni” sono stati soppressi,
come l’offerta diretta in denaro al
passaggio della statua del Santo;
offerta che avveniva addirittura con
la vile moneta attaccata ai nastri di
stoffa pencolanti .
Sappiamo che la fede è cosa seria,
ma il popolo ha estremo bisogno di
gesti esteriori, certamente poco in
linea con l’insegnamento cristiano
più profondo. Ma così è, da sempre e in tutte le religioni. Venendo a
mancare questi segni, o una parte
di essi (aggiungiamo che ora sono
spariti dalla statua anche i meravigliosi, artistici angioletti in legno dipinto), la partecipazione “in denaro” del popolo alle celebrazioni è
destinata a diminuire sempre di più.
Con buona pace di don Giuseppe e
di tutti coloro che sognano la perfezione ma dimenticano che essa
non è di questo mondo. E che anzi
talvolta può far pensare all’ipocrisia. Riflettete bene: perché il denaro
appeso alla statua del santo è scandaloso per la manifestazione della
fede autentica e invece poi in chiesa il parroco fa i conti di quanto incassato in vile denaro, addirittura
quasi rimproverando i fedeli?
Don Giuseppe è troppo giovane
o comunque non dà prova di essere
un buon psicologo, come dovrebbe essere ogni sacerdote. O forse
sono un po’ ipocrite possibili
direttive in questo senso degli organi ecclesiastici (ma esistono queste
direttive?). Esempio: se a fine Novecento il signor X versava 100.000 lire
attaccandole alla statua di San Floro
e il suo nome figurava, con la suddetta cifra, su una sorta di registro
tenuto da un componente della commissione ad hoc, ora egli sa che nessuno può accertare se ha “infilato”
o no nell’urna la busta anonima. E
allora, primo: potrebbe decidere di
non preparare alcuna busta; secondo: potrebbe infilare una busta ma
con soli 10 euro dentro anzichè 50 o
100. Tanto, il vicino non potrà mai
pensare che egli non abbia “partecipato” come doveva alla festa del Patrono. Piccinerie. Ma ovvia la conseguenza: la raccolta in denaro non
potrà che risultare, anno per anno,
sempre più inferiore fino a crollare magari definitivamente. Cosa che non
auguriamo né a don Giuseppe né ai
parroci che verranno dopo di lui; né
al nostro stesso paese, che ama tanto le tradizioni.
E, proprio qui in fondo, un’annotazione logica: con il sistema “aperto” delle offerte il popolino della
tradizione aveva la certezza del
conto finale, perché la vile moneta
e il donatore erano annotati scrupolosamente su un registro, casa
per casa. Il signor X ha dato 100; il
signor Y ha dato 30.Con il sistema
della busta infilata nella cassetta (in
chiesa e in vari giorni, e, si ritiene, in
forma anonima) la certezza non c’è.
E il dubbio - anche se assolutamente infondato – della manipolazione
è sempre lì pronto a nascere, data la
natura umana.
Perché un conto è una cifra con
accanto il nome del donatore, altra
cosa è l’offerta anonima e quindi
incontrollabile. Pur essendo la commissione parrocchiale ad hoc formata da persone al di sopra di ogni
sospetto.
D.P.
Gli angioletti e il Santo
BORGIA - Il monastero di San Fantino - Disegno del pittore SAN FLORO - La processione del Patrono il 18 agosto u.s.
Domenico Cefaly (1996)
(FOTO F. PARAVATI)
Il monachesimo basiliano in Calabria
La storia della Calabria passa
anche attraverso il periodo in cui
si insediarono i monaci basiliani.
In particolare, a Borgia la prova
della presenza di questi uomini
di preghiera si ha nel complesso
della laura di San Fantino, più
comunemente detta Saffantino.
I primi arrivi in Calabria dei
basiliani, detti anche monaci
orientali o italo-greci, si registrano nel VI secolo. Di origine
bulgara, greca o di altri paesi
orientali, questi emigrarono nel
sud d’Italia in seguito alle guerre gotiche, quando era imperatore Giustiniano.
A questa prima ondata, ne seguì una seconda e più massiccia
avvenuta nell’VIII secolo in seguito alle lotte iconoclaste di Leone III Isaurico, imperatore romano d’oriente. Egli emanò un editto che ordinava la distruzione di
tutte le immagini sacre, ritenute
mezzo di commercio e superstizione. Così iniziarono anche le persecuzioni a danno dei monaci, i
quali in gran parte furono costretti
a fuggire trovando scampo sulle
coste dell’Italia meridionale, soprattutto in Calabria.
I basiliani presero il nome dal
loro fondatore, San Basilio il greco, arcivescovo cattolico di
Cesarea, che combattè l’eresia
dei vescovi ariani. La regola da
lui creata era semplice e prevedeva una continua ascesi sostenuta dal lavoro e dalla preghiera.
I monaci ben presto crearono
numerosi insediamenti in
Calabria, lasciando un segno importante nella popolazione. La
loro presenza è stata notevole
non solo per ragioni spirituali, ma
anche sotto il profilo sociale. Essi
trasmisero alle popolazioni contadine i primi rudimenti delle tecniche di coltivazione e di irrigazione. Costruirono molte chiese e
monasteri, tuttora presenti in tutta la Calabria. La più importante
di queste chiese è la Cattolica di
Stilo. Diedero molto impulso al
culto della Vergine. Un esempio
tuttora evidente è a Capocolonna,
vicino a Crotone.
I basiliani, come detto, amavano la vita contemplativa. Trascorrevano le loro giornate in cavità
naturali o create artificialmente. Il
loro antico ordine ebbe vari travagli; ma in tempi più vicini a noi
è stato ricostituito da papa Leone XIII ed è tuttora presente in
Italia.
A Borgia, la presenza dei monaci basiliani è testimoniata dalla cappella, in disuso, di San
Fantino, annessa alla laura. Gli
affreschi della laura di Borgia non
sono più visibili perché della costruzione rimane ben poco. Dall’analisi dei resti si evince che
essa non doveva essere grande
e avrebbe potuto ospitare solo
pochi monaci. È ancora presente
qualche resto dell’altare. Semplice è il pozzo, con struttura quasi
intatta.
Nonostante le scarse fonti storiche, la presenza dei monaci
basiliani a Borgia ha costituito
quasi sicuramente un momento
importante anche per le popola-
zioni vicine, che hanno potuto
attingere alla conoscenza e alla
sapienza di questi umili uomini di
preghiera, dotti ed ingegnosi,
venuti dall’oriente.
Domenico Procopio
Il colore
di un sogno
lontano
Cantilena
natalizia
Spense la luce
ed il sogno si fece brillante
di un nuovo vigore,
tra il giallo assonante di un
sorriso pacato
ed il rosso di una sgargiante risata.
Continua il suo passo
nella penombra staccata dal suono
delle ore
e replica mai stanco
il suo canto ribelle di quel colore
di un sogno lontano.
Domenico Procopio
A chissa ruga
Sant’Andrìa porta la nova
A li quattru Varvàra
a li sìa Nicola
a li ottu Maria
a li tridici Lucia
‘U vinticincu ‘u veru Mìssìa
(Sant’Andrea -il 30 novembre- porta la notizia dell’imminente arrivo del
Natale. Il 4 dicembre arriva Santa
Barbara, il 6 è San Nicola, l’8 è l’Immacolata, il 13 è Santa Lucia. E infine, il 25 è il giorno della nascita del
vero Messia, Gesù)
Ogni
scarafagghiaddu...
A chissa ruga nc’è ‘na rindineddha
chi se lu prèja assai lu sua volàra.
Nc’è ‘nu rindùna cu
Un proverbio:
tri ciancianèddha
chi la rotija e si la po’ pigghjàra.
Ogni scarafagghiaddu
Sai chi ti dicu, rindineddha beddha?
a màmmasa li para biaddhu
Nommu ti priaji assai lu tua volàra,
ca si ti pigghjiu pe ll’ala cchiù beddha (Ogni piccolo scarafaggio - a sua
non cchiù pe ll’aria ti hazzu volàra!’ madre sembra bello!)
lavorato e dipinto, che accompagnavano, sulla base di sostegno,
la statua del Patrono, hanno perso il diritto di essere lì collocati e
di andare in giro per il paese il 18
di agosto, come avveniva da decine, forse qualche centinaio di
anni.
È un perchè al quale finora non
è stata data una risposta che attendiamo noi che stiamo”fuori
paese” e che qui veniamo “per
una settimana, dieci giorni, un
mese”..
Noialtri “forestieri” saremmo
ben lieti di apprendere una volta
per tutte perchè quegli angioletti
sono assenti. Causano forse
scandalo? C’è una direttiva del
Vaticano o dell’Arcivescovado?
O è una decisione personale del
Parroco, che pure - sappiamo
bene - ha il potere di “governo”
della chiesa a lui affidata? E a che
fini è indirizzata questa eventuale sua autonoma decisione? O
cos’altro c’è di così misterioso?
In fondo, la Chiesa - Papa, Vescovi, Parroci - esiste in quanto ci
sono i fedeli che ne fanno parte.
Di conseguenza i fedeli hanno il
pieno diritto di sapere perchè gli
angioletti di San Floro non accompagnano più la statua del
Santo Patrono. E se questa risposta c’è già stata e noi, che viviamo lontano, non siamo stati in
grado di prenderne atto, non casca il mondo se il bravo e buono
don Giuseppe si deciderà a ripeterla ai sordi. L’umiltà, da quel po’
che sappiamo, è uno dei pilastri
della fede cristiana.
D.P.
Una lettera di Mariana
mezz’ora perché c’era una telefonata per me da parte di mia sorella, che era a Genova da anni. Io
mi sono spaventata, anche perché non avevo mai parlato al telefono, quella era la prima volta e
non sapevo neanche come e
dove dovevo parlare. Lui, quasi
ridendo, divertendosi, mi fece
entrare nella cabina e mi fece rispondere alla sua chiamata dal
centralino, facendomi uno scherzo; ma in quel modo mi ha fatto
capire come si doveva parlare al
telefono. Lo ringrazio ancora
PER VERSAMENTI
C/C POSTALE
54078100
DOMENICO PARAVATI
adesso per la sua lezione pratica, per quel vetro che mi ha tolto
dal piede e per la sua simpatia.
Sono proprio felice di avervi rivisti. Tu, Mimì, sei diventato una
persona importante, come tuo
fratello Feliciano, ma ne manca
ancora uno ai miei conti: l’altro
tuo fratello Florino (Fofò). Dov’è? Io ricordo un bel ragazzo sui
quattordici anni, molto timido e
studioso. Vorrei incontrare anche
lui, se sarà possibile vederci almeno nella nostra seconda giovinezza.
Cordiali saluti a tua moglie, a
tuo figlio Alessandro ed a
Feliciano e famiglia, a tutti i tuoi
parenti. A te un saluto speciale
da una vecchia amica ancora
bambina, che ti chiamerà sempre
Mimì.
Mariana Rocca
Settembre 2010
4
Corriere di San Floro e della Calabria
ARCHIVIO CALABRESE
Anno IV - N° 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2010
SCRITTORI NOSTRI
Una lettera responsiva (del 1567)
Giuseppe Olivadoti, “emigrato”
a Vincenzo Macario, insegnante a Squillace debutta con “Una storia dimenticata”
In un suo recente articolo apparso in “Rogerius” e riguardante due lettere responsive inviate
dall’editore veneziano Paolo
Manuzio (1512-1574) a due illustri
personaggi vibonesi, Giacinto
Namia 1 ha fatto notare che
nell’epistolario di quell’editore c’è
pure una lettera da lui indirizzata
a un certo “Vincenzo Macario di
Squillace”.
Preso dal desiderio di sapere
qualcosa su quest’ultimo, mi
sono affrettato a consultare
l’epistolario del Manuzio, in cui
ho trovato quella lettera2. Si tratta di una missiva scritta in latino,
la VI del libro VIII, della quale riporto qui di seguito una mia traduzione in italiano.
A Vincenzo Macario SquillaceEssendo stretto dalla morsa
degli impegni, non posso dilungarmi nel rispondere alla tua
lettera scritta in maniera assai
gentile ed elegante. In qualche
modo, tuttavia, debbo dar riscontro ad essa, visto che è vergognoso non rispondere quando si è in dovere di fare ciò.
Che tu abbia a Squillace
l’oneroso compito di erudire i
giovani è per me motivo di grande gioia. Amo, infatti, la patria
del mio Geronda (sic), la cui
memoria nessun giorno cancellerà dal mio animo. Se egli vivesse, sarebbe senza dubbio con
me ed insieme godremmo dei
medesimi studi e del medesimo
genere di vita.
Ci fa particolarmente piacere
che tuo fratello Francesco si ricordi di noi. Siccome noto che
sia tu che lui eccellete negli studi letterari e nei buoni costumi,
nutro per entrambi voi tanto affetto che, se io potessi far qual-
cosa e per vostro onore e per
vostra utilità, desidererei perseguire tal fine con ogni cura, fatica e diligenza.
Quanto al mutato modo di
scrivere, ti toglierà questa preoccupazione il libro di mio figlio
sull’ortografia, pubblicato lo
scorso anno.
Saluti.
Ho scritto queste cose in fretta, ma col pensiero rivolto altrove. Vorrei che tu mi scusassi di
ciò.
Roma, 14 giugno 1567.
Dalla lettura di questa missiva
emerge, in primo luogo, che Vincenzo Macario era certamente un
insegnante e che, assieme al fratello Francesco, eccelleva negli
studi letterari e nei buoni costumi.
Dalla medesima lettera emerge
anche che Paolo Manuzio nutriva stima e profondo affetto sia per
l’uno che per l’altro. Non possiamo essere certi, però, che i fratelli
Macario fossero di Squillace. Nel
caso specifico di Vincenzo, infatti, che egli insegnasse in tale città
o che Paolo Manuzio gli spedisse qui una lettera responsiva non
significa che il primo dei due fosse squillacese. Insegnare e abitare a Squillace è una cosa, esservi
nato è un’altra. Era indubbiamente squillacese, invece, un certo
Geronda (= Gironda), e ciò si
desume dall’espressione latina
“amo […] Gerondae mei patriam”,
da cui risulta pure che il Manuzio
amava la città del suo amico.
Sarebbe davvero interessante
saperne di più, oltre che sui fratelli Macario, su Gironda, con il
quale l’editore veneziano avrebbe voluto godere <<dei medesimi studi>>, nonché <<del medesimo genere di vita>>, e sulla cui
nascita a Squillace, come ho posto in risalto, non ci sono dubbi.
È possibile, tuttavia, che questo
squillacese fosse un antenato di
Andrea Gironda, gesuita ed insigne filosofo, che vide la luce a
Squillace nella prima metà del
XVII secolo3.
Lorenzo Viscido
1. Cfr. G. NAMIA, Lettere di Paolo Manuzio a due letterati
vibonesi, in “Rogerius” 13, 1
(2010), pp. 113-117.
2. Cfr. P. MANUTII Epistularum
libri XII eiusdem quae praefationes
appellantur. Opera postrema hac
editione diligentius recognita et a
multis mendis, quibus priores
editiones scatebant, vindicata.
Lugduni 1582, p. 286.
3. Notizie relative ad Andrea
Gironda e alle origini del suo casato sono contenute in B. CANDIDA GONZAGA, Memorie
delle famiglie nobili delle province meridionali d’Italia, VI,
Napoli 1882, p. 98.
***
Una postilla da parte del direttore di questo giornale. La
nobile famiglia calabrese
Gironda evidentemente ha nel
suo DNA l’amore per le lettere e
dintorni. Ricordo infatti che negli Anni Sessanta, quando giovanissimo lavoravo nella redazione del “Messaggero” di
Roma, il responsabile dell’altrettanto nobilissima “terza pagina” – quella dai toni sempre
alti ed ora quasi sparita dai
quotidiani - era il giornalista e
scrittore Giuseppe Gironda,
nato a Catanzaro nel 1920 ed
autore di alcuni romanzi (“Il
balcone” 1943; “Clotilde
Rodio” 1953, “Una stagione all’inferno” 1961).
(D.P.)
CORTALE
Amore e morte alla “Fossa del Lupo”
Pasquale venne accusato ingiustamente dell’uccisione di un rivale.
La punizione inflittagli fece nascere la sua leggenda
“Fossa del lupo” è un’espressione con la quale si indica una località nei pressi di Cortale. La
mezza frase, formata da due parole, una seguita dall’altra con
funzione dichiarativa, oggi suggerisce, specialmente alle nuove
generazioni che sul posto c’è un
albergo dove si alloggia e si mangia, anziché rievocare una storia
del passato, sconcertante e tragica, di cui è bene invece conservare la memoria.
La Fossa è l’altopiano delle
Serre, il Lupo è il soprannome
dato dalla gente del passato ad
un certo Pasquale, accusato allora ingiustamente di aver commesso un delitto.
A dare origine alla vicenda è
una storia d’amore e di morte.
Pasquale, innamoratosi di una
donna già promessa a un altro,
venne accusato dell’uccisione di
questi . Egli, per sfuggire alle minacce dei fratelli della donna e
alla ingiusta “condanna” per il
fatto, si diede alla macchia, sperando che un giorno lo avrebbero riconosciuto innocente. Fu ricercato più volte inutilmente dai
gendarmi. Lui, abile a nascondersi, riusciva ogni volta ad evitare
d’essere catturato.
Vagava di bosco in bosco, nelle più disagiate località delle Serre. Mangiava quel che gli capita-
va, anche bacche e verze. Condusse una vita da selvaggio.
Negli ultimi tempi, una donna,
pietosa di lui,riuscì a rintracciarlo. Lottarono insieme per la sopravvivenza. Fra i due si fece
strada il sentimento dell’amore.
Si incoraggiavano reciprocamente con la speranza di potersi un
giorno unirsi in matrimonio, formare una famiglia .Ma ormai Pasquale era diventato una larva
d’uomo. Gli anni di latitanza, il
dormire in cavità naturali umide,
l’andare di qua e di là tra boschi
e sottoboschi e la mancanza di
un’alimentazione appropriata gli
avevano rovinato la salute.
La gente, che sapeva qualcosa
sulla vita del fuggiasco, gli
appioppò il nomignolo di Lupo.
Una mattina nebbiosa, i
gendarmi, andando per l’ennesima volta nei boschi delle Serre
alla ricerca dell’errabondo, lo sorpresero con la donna e li uccisero senza pietà. Scavarono di nascosto una fossa e ve li seppellirono, facendo perdere per sempre ogni traccia della loro presenza.
Con il passare del tempo, la
verità venne a galla: non era stato il povero Pasquale a commettere il delitto.
Chi capita, per qualche motivo,
nella località delle Serre, cono-
scendo la triste vicenda, non dimentica di deporre, qua o là nel
bosco, un fiore che ha portato
con sé per i due innocenti.
Si dice che alcuni viandanti ,
attraversando la zona, abbiano
percepito la voce di innocenza di
Pasquale, mescolata con lo stormire degli alberi.
Antonio Zaccone
ARCHEOLOGIA
La torre
di Satriano
Il Gruppo archeoologico “ Paolo
Orsi “ di Soverato, ha deciso all’unanimità di promuovere il
recupero della “ Torre Ravaschiera
“ di Satriano, unica torre del 1500
ancora in piedi ma in pessimo stato di conservazione.
Al monumento sono annessi un
mulino e un frantoio di notevole
interesse per l’archeologia industriale.
Mèntiti cu
i mìagghiu tua
e paga i spisi!
È il primo libro di Giuseppe
Olivadoti, nato ad Amaroni nel
‘47 . Il quale Olivadoti – come
leggo nella scheda in ultima di
copertina- “all’età di 15 anni,
come molti giovani dell’epoca,
non avendo la possibilità di studiare come avrebbe desiderato,
è emigrato in Svizzera dove ha
iniziato a lavorare nel settore alberghiero facendo una brillante
carriera” e “dopo alcuni anni ha
intrapreso l’attività di imprenditore, divenendo proprietario di
diversi ristoranti a Ginevra” ma
“nel 2001, all’apice della carriera
nella ristorazione, ha voluto affrontare nuove sfide cimentandosi con successo nel settore
immobiliare”. Ma ora “dopo questo primo romanzo” (nella prefazione Olivadoti lo definisce
più giustamente“racconto”),
“che sicuramente appassionerà
i lettori, nuove avventure sono
già in preparazione”.
Le pagine stampate dalle
GraficheLAB di Amaroni- hanno
per protagonista Agostino
Olivadoti, bisnonno del Nostro,
e alcuni altri personaggi dell’Ottocento che si incastrano in quell’interessante ma anche poco
conosciuto periodo della nostra
storia a cavallo tra il regno borbonico delle Due Sicilie e poi
quello – unitario – dei Savoia,
per ‘u morzìadu alle nove del
mattino “a base di cacio pecorino e soppressate”. Ma il racconto -quasi sempre di facile lettura:
talvolta può sembrare barboso il
soffermarsi su particolari non
necessari - si basa principalmente sul difficile passaggio dal regno borbonico a quello dei Savoia, con ampia sottolineatura
dello sfruttamento perpetrato ai
danni del Sud dai piemontesi,
sfruttamento che indusse molti a
darsi al brigantaggio. Ma nel libro c’è anche dell’altro.
Nel complesso una storia di famiglia, simile però a tante altre,
magari sconosciute, registrate in
quel difficile passaggio da un’Italia divisa in staterelli all’Italia con
GIUSEPPE OLIVADOTI
capitale Roma. Processo unitario
ta di vino a fiumi, e la musica con che ora è divenuto di moda conchitarre e mandolini. “Altre cose testare. Non sempre a torto.
D.P.
belle del mio bisavo erano la gentilezza, il modo schietto di parlaIN CALABRIA
re e raccontare le cose, nonché
la sua cultura; doti, queste, che
gli avevano procurato l’amicizia
e il rispetto di famiglie influenti
di Amaroni e dintorni”. La storia
raccontata è “locale” – con qualche pizzico di filosofia sui desti- Due nuovi collegamenti aerei -dalni dell’uomo – ma proprio per lo scorso agosto- tra la Calabria ed
questo molto interessante. Tro- altre regioni italiane. In particolare,
verete episodi riguardanti le previsti sei voli settimanali con Vemalelingue, i vari “signori” di al- nezia, in giorni diversi: tre da Reggio
lora, battute di caccia, con soste Calabria e tre da Lamezia Terme.
grazie all’avventura garibaldina.
Agostino “contribuiva a dare lavoro a molti braccianti, ma amava anche la bella tavola, inonda-
Due nuovi
collegamenti
aerei
PITTORI NOSTRI
A Francesco Guerrieri il “Limen Arte” di Vibo
Il prestigioso Premio Internazionale
“LimenArte” conferito per il 2009 al
maestro Francesco Guerrieri. Cerimonia presso il complesso monumentale
ValentianumaViboValentia.Guerrieri,
insiemeallacompagnadivitaLiaDrei,
è stato l’apologeta della geometria
nell’ambito d’una linea di ricerca molto praticata negliAnni Sessanta e che
andava sotto il nome di arte program-
mata.
Calabrese d’origine (è nato a Borgia
in provincia di Catanzaro), Francesco
Guerrieri risiede a Roma dalla fine degliAnni Trenta.
MUSA POETICA RELIGIOSA
La Chiesa di Campo
La porta è stata chiusa per un anno,
ora Concetta l’apre cigolando
pulisce il pavimento di mattoni
e stende la tovaglia sull’altare.
Nel quadro appeso alla parete bianca
Maria vola sopra gli apostoli
verso la luce di un mondo lontano:
vuoto è il suo letto e coperto di rose.
Arrivano le donne dal paese
per il viottolo che scende sino al fiume
portano fiori cresciuti sui balconi.
Si è sciolto il sole in polvere d’oro
sparsa sulle colline tra gli ulivi;
una civetta dalla finestrella
guarda stupita le candele accese.
Voci di Magna Grecia antiche e forti
cantano: Madre di noi non scordarti,
Tu che vai di stelle a coronarti.
Salvatore Mongiardo
Novembre 1989
Salvatore Mongiardo ci segnala questa bella poesia dedicata
alla Vergine da un suo grande
maestro, Don Ciccio Laugelli.
Eccola.
(D.P.)
Alla Madonna
Maria Immacolata,
ch’eccelsa levi al cielo
la tua fronte stellata
ed il candido velo,
s’alzi il grido profondo
del tuo amore materno
in quest’orrido inferno
scatenato nel mondo.
Dacci giorni di pace!
Dio giammai si dinega
al tuo cuore che prega
al tuo labbro che tace.
Nella gelida spoglia
dell’inverno che torna
sii la rosa che foglia
e l’aurora che aggiorna.
Don Ciccio Laugelli
Novembre 1975
SALVATORE MONGIARDO con il Bue di Pane al Sissizio
di S. Luca, patria di Corrado Alvaro
Anno IV - N° 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2010
POETI NOSTRI
Vecchio casale agreste
(Ovvero San Fantino a Borgia)
Ti sei distrutto come la mia vita,
vecchio casale agreste.
Tu che hai veduto in un lontano giorno
i miei passi di bimbo,
la mia infanzia.
Ti rivedo così già diroccato,
che vai offrendo all’immenso
muri inerti,
pieni di crepe e di sassi sconnessi.
Nidifica la rondine e la passera
ancora forse,
ma non c’è la gioia
degli strilli, dei canti di fanciullo
che ti offrivo contento.
Le tegole son rotte
e nell’ingresso
la porta di castagno è consumata.
Si è consumata come la mia vita,
vecchio casale agreste.
I venti dell’inverno e le tempeste
di neve, di calore nell’estate
t’han ridotto così
pieno di crepe.
Crepe come le rughe sul mio volto,
vecchio casale agreste,
che tanti giorni hai visto consumare
e tante vite hai visto rinverdire
con la ricerca di canti d’amore.
Vorrei vederti con il tetto intero
pieno di contadini e di pastori,
vorrei sentirti risuonare ancora
dei canti delle donne perle olive.
Vorrei godere quella tua calura
quando tutta la gente andava al grano
e i suoni della gaia mietitura
arrivavano allegri nel cortile.
Ti chiedo di mostrarti in primavera,
con le finestre chiuse o aperte al sole,
col volo delle passere sui nidi,
con il sorriso della mamma all’alba;
con la camicia appesa di mio padre
che col sudore ci portava il vitto.
E poi, sull’aia, fammi rivedere
quella trebbia e la pressa col trattore;
usciva il grano e tutti quanti insieme
cantavano le donne ed i coloni.
Vorrei vederti con le rondinelle
che giravano allegre sul cortile.
Vorrei vederti pieno di speranze,
le mie, della lontana fanciullezza,
vecchio casale agreste.
Rosario Tavano
(Dal libro di poesie “Foglie nel vento” del prof.
RosarioTavano, pubblicato dalle “Grafiche Falcone-Squillace”-giugno 2008) – “Vecchio casale
agreste”, ovvero San Fantino.
Corriere di San Floro e della Calabria
SAN FLORO
ARCHEOLOGIA
Castellìtini, Castellitìni
(e infine Castellìtoni)
Non ci piace tornare sull’argomento. Però appare semplicemente ridicolo che un presentatore - lo stesso dell’anno scorso- nel condurre a San Floro lo
spettacolo “V° Festival internazionale della fisarmonica e dell’organetto diatonico” si sia ancora una volta riferito all’ “Associazione Castellitìni”, accentando
cioè la seconda “i”anziché la prima. Passi l’errore, la sera precedente, da parte del maestro del
gruppo folk di Lamezia, che ha
pronunciato quel toponimo alla
stessa maniera; ma almeno, egli,
non era venuto qui l’anno scorso (anche se non si capisce come
mai non si sia informato in tempo sull’esatta pronuncia di quel
nome).
Alla base di tutto c’è un imperdonabile errore di chi ha dato vita
all’Associazione culturale e al quale - se ce lo permette - vorremmo
ricordare, come già sottolineato in
passato, che il toponimo esatto
sarebbe Casteddhìtuni e non
Casteddhìtini, poi italianizzato addirittura in Castellitini, anziché in
Castellitoni. Ma una volta sbagliato il nome, sbagliarne anche l’accento è francamente un po’ troppo. Ci dispiace sottolinearlo; soprattutto perché il “patron” Tonino Bressi ha obiettivamente creato o rispolverato manifestazioni
popolari che si stanno rivelando
molto interessanti e quindi graditissime.
SAN FLORO
Le nostre strade
(quasi) senza nome
È una segnalazione che avevamo fatto su questo stesso giornale già alcuni anni fa: nel nostro
paese –San Floro – le tabelle
viarie sono pressoché illeggibili
o addirittura cancellate dal tempo. Sono in pratica quelle che, se
ben ricordiamo, negli Anni Cinquanta “dipinse” Micheluzzu
Marinaro. Chi scrive, per esempio, ritiene di avere l’abitazione
sanflorese in via IV Novembre n.
2, ma sia il numero civico che la
tabella viaria sono solo frutto
della memoria. Quando questa si
sarà indebolita con l’età potrebbe accadere che né il sottoscritto né forse altri se non il Comu-
ne -sperando che esista almeno
una mappa in quegli uffici - potranno dire dove si trova l’edificio del sig. X.
Battute a parte, basterebbe che
il signor Sindaco si facesse una
passeggiata per tutte le vie del
paese per rendersi conto di persona che San Floro ha ormai tante strade senza nome o con dei
rimasugli di nome.
Evidentemente ridare un nome
alle strade di San Floro è operazione difficile visto che tutte le
ultime amministrazioni comunali
non si sono decise a mettere
mano all’operazione riordino.
(D.P.)
SAN FLORO
Un lampione al Timpone
Ancora una volta segnaliamo
all’Amministrazione comunale di
San Floro la necessità di un lampione Enel in località “Timpone”.
Lì, com’è noto, c’è il contenitore
delle immondizie; ed ogni sera chi
abita alla ruga del Pizzo vi si deve
recare per depositarvi le buste
rifiuti. Non è solo questione di
non vedere chiaramente la strada e quindi di inciampare e cade-
5
re, con richiesta di danni proprio
all’Amministrazione comunale;
ma anche di un minimo di sicurezza personale, soprattutto per
signore e signorine. Altre volte
abbiamo segnalato questa necessità, considerando anche che
al “Timpone” vi è già un palo
Enel al quale, crediamo, non sarebbe proprio difficile collegare
un lampione.
‘U Timpunìaddhu
de i Spartacumpari
Sono in tanti a chiedermi come
raggiungere ‘U Timpunìaddhu
de i Spartacumpàri, di cui più
volte si è occupato il direttore di
questo giornale che lo ritiene,
con ogni probabilità, un antico
“tumulo”, cioè una tomba. Ebbene, ‘U Timpunìaddhu si trova in
comune di Borgia, a due passi
dalla sponda destra del fiume
Corace, ed esattamente in località Barrèa. Per raggiungere questa località (privata), tra gli ulivi,
venendo da San Floro ed arrivati
sul rettifilo della Roccelletta, all’altezza della nuova rotatoria girare a sinistra e delle due strade
imboccare quella con l’indicazione Strada Provinciale 47, tenendo conto che la chilometrica ha
inizio dalla parte opposta. E dunque, imboccata questa strada, un
centinaio di metri prima di arrivare al km 6 (ben indicato sulla
tabella, che si trova all’altezza del
casino Massara, imboccare a destra una strada di campagna, che
ci risulta sempre aperta e senza
alcuna indicazione di proprietà
privata (probabilmente è una
strada “vicinale”, cioè che serve
le varie proprietà; ma potrebbe
anche essere una “strada agraria” o di esclusiva proprietà di un
privato e quindi bisogna avere da
questi il permesso). In fondo a
questa carrareccia, che attraversa la pianura (a sinistra un grande uliveto, a destra una piana
coltivata a foraggio), si erge una
collina seminascosta dalla vegetazione, che si può ben vedere
dalla stessa “vicinale”. È
finalmente la collinetta di cui sopra.
Quasi tutta la piana intorno -in
un raggio di alcuni chilometrisecondo varie fonti locali, sarebbe ricca di reperti archeologici
greci.
APPUNTI DI STORIA
Il potere e la tecnica
L’imperatore persiano Dario stazionò con il suo esercito sulla
sponda asiatica del Bosforo (nei
pressi dell’attuale Istanbul, già
Bisanzio e poi Costantinopoli).In
attesa che un architetto apprestasse un imponente ponte di barche per invadere la Scizia (regione euro-asiatica dominata da un
popolo guerriero), si recò su un
promontorio per ammirare lo
spettacolo del mare e delle terre
di Europa ed Asia che si fronteggiavano. Poi …
“…fece innalzare sulla riva due
colonne di marmo bianco e vi
fece incidere, su una in caratteri
assiri, sull’altra in lettere greche,
il nome di tutti i popoli che conduceva con sé; e conduceva tutti
quelli che erano sotto il suo dominio. La somma di questi contingenti era di settecentomila
uomini , compresi i cavalieri;
esclusa, invece, la gente di mare;
e le navi raccolte risultavano seicento (…) Dopo aver fatto questo, Dario, molto soddisfatto per
il ponte di barche, fece dono all’architetto che l’aveva costruito, Mandrocle di Samo, della de-
cima parte di ogni introito. Come
primizia di questi doni,
Mandrocle fece dipingere un
quadro in cui era rappresentato
tutto il lavoro compiuto per gettare il ponte sul Bosforo e il re
Dario assiso su di un trono, mentre il suo esercito era in atto di
attraversare il ponte; e, dopo
averlo fatto dipingere, lo consacrò al tempio di Era con questa
iscrizione: Avendo aggiogato le
rive del Bosforo pescoso,
Mandrocle consacrò a Era un
ricordo del ponte di barche,
avendo procurato a se stesso
una corona e ai Sami gloria, per
aver portato a compimento
quanto era nell’animo di re
Dario (Erodoto –Le Storie- A
cura di Luigi Annibaletto-vol. IOscar Mondadori- 1982)
PER VERSAMENTI
C/C POSTALE
54078100
DOMENICO PARAVATI
L’Estate Sanflorese
SAN FLORO - Sopra: Tarantella con l’organetto di Simone
Vivino. Sotto: Salvatore Guerrieri insegna a ballare la
tarantella ad una signora romena.
SAN FLORO - Stefano Maiuolo nella serata musicale del 7
agosto
SAN FLORO - Tiro alla fune
FOTOSERVIZIO
ESTATE SANFLORESE
REALIZZATO DA
FELICIANO PARAVATI
6
Corriere di San Floro e della Calabria
LA POESIA IN VERNACOLO (DI VIBO VALENTIA)
Anno IV - N° 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2010
L’Estate Sanflorese
La Pippa
(Fotoservizio di Feliciano Paravati)
di Vincenzo Ammirà (1821 - 1898)
Cara, fidata cumpagna mia, affommicàta
pippa di crita, tu di chist’anima gioia, allegria, tu sai la storia di la mia vita. E nuju,
nuju megghiu di tia pe quant’e’ longa, quant’e’ pulita. Tu m’ajutavi quannu la musa facìa
lu ‘ngnòcculu, trovava scusa.
Oh quantu voti, quandu ‘ncignaru li
patimenti, mi cumportasti! Tu ‘ntra lu
càrciaru pensùsu, amaru, tu pe lu sìliu mi
secutasti. Si tutti l’àutri s’alluntanaru pecchì
tingiùtu di brutti ‘mprasti, sula mi fusti fidìli
e pia, e cunzigghièra, pippùna mia.
De dùdici anni ‘mbucca ti misi. Mi piacisti,
ti spissijai. Di journu a juornu, di misi a
misi, cchiu’ ti gustava, cchiu’ mi ‘ncarnài.
Tantu, chi dintra, pe lu pajisij eu di fumari
non ti dassài. E cinquant’anni passàru
‘ntantu comu ‘nu sonnu, comu ‘nu ‘ncantu.
Verzu la sira, quandu assulàtu sentìa
sonàri l’adimarìa, e ogni ricordu di lu
passatu s’apprisentava davanti a mia; e
chistu pòvaru cori ‘ncantàtu s’inchìa di
tènnera malinconia, e ruppìa a chiantu,
mi l’asciucàvi cu lu toi fumu tantu suàvi.
(…………)
O segretaria, cara cumpagna di la mia vita,
di li prim’anni, si a rimitoriu, villa o campagna sugnu, si ‘ncella cu Petru e Gianni, si
miserabili, si ‘ncappa magna, dintra li gioji,
dintra l’affanni, comu mi fusti, cara mi stai,
e t’amu sempri cchiù’ ca t’amài.
E vota e gira, sempri fumandu, e dassa e
pigghia, vogghiu e non vogghiu, jìa notti e
juornu erramijandu, gridava pàtrima mu mi
ricogghiu. E jeu na petra! Spassi, cantandu,
ed a lu spissu quarc’àutru ‘mbrogghiu. E
‘mpini catti, m’annamurai. Oh, chija brunda
non scùordu mai!
Pannizzijava, ciangìa lu ventu, cùcuji, lampi, acqua, tronava. E ‘ncapputtàtu mi stava attentu cumu ‘nu lepru s’ija affacciava.
Parìa ‘nu séculu ogni muméntu, ogni
minutu chi mai passava. E ‘mpissicchiàtu
fermu a lu muru, sempre fumandu dintra a
lu scuru.
E doppu tantu friddu assaggiàtu, sentia ‘nu
“pissi” chi mi chiamava. Sbattìa lu cori, non
avìa hjiatu, e mu rispundu non mi fidava.
Mi sentìa propriu cumu ‘ncantàtu. Poi
timidùsu mi ‘mbicinava. E pecchì tandu non
nc’era luna fumava forti mu si nd’ addùna.
Tu li paroli di meli e latti, li juramenti tutti
sentisti. L’appuntamenti, stari a li patti, mi
tenìa dìsculu, cca tu ciangisti, mentri facivi
l’urtimi trattidi la vrigògna pe mia ch’avìsti:
Era jeu disculu? Beijzza mia, cu’ mai
scordàri si po’ di tia?
Chijnu d’amùri dintra a lu lettu non potia
dòrmari nuja mujica, non nc’era modu
pemmu rigèttu, parìa ca sugnu subbra a
l’ardìca. Lu bruttu sonnu pe mio dispettu
non volìa scìndari mu mi dà’ prica.
T’inchìa a la curma, t’appiccicava, e accussi’
subitu m’addormentava.
Prima mu sona lu matutìnu, comu lu sòlitu,
mi rivigghiàva. Rocìa la testa cumu mulinu,
penzava cosi chi mi scialava: cani, viaggi,
soni, festinu, palazzi, amùri, ricchizzi a lava;
E lu toi fumu, pippa anticaria, li mei portava castej’ ‘n aria.
Tu senza fumu, senza tabaccu. E jeu restava mestu e cumpùsu. ’Mpunta di l’anima sentìa lu smaccu pecchi’ filava sempri
a ‘nu fusu. Mi vestìa subitu, sbattìa lu taccu
e ti dassava tuttu stizzusu. Ti cercu scusa,
cu manca appara, pippa mia bona,
cumpagna cara.
S’avìa di bàzzari china la testa mi li facivi
‘mprima spumàri cu lu toi tàrtaru cuntra la
pesta, autru ca hajavuru d’erba di mari,
c’avìvi dintra, comu ‘na bresta, e sentìa
frìjari, ciangiuliàri mentri pippava. Chi fumu
duci! Pemmu lu lodu non haju vuci!
LA BELLA E L’ORGANETTO
Venendu a mòrari dintra la fossa ti vogghiu
accantu di mia curcàta. E accussi’ queti
saranno st’ossa chi sbàttiu tantu fortuna
‘ngrata’ ‘ntra la tempesta cchiu’ scura e
grossa, senza rigettu di ‘na jornata.
Pàssanu l’anni, chiusu, scordàtu, dormu
cuntentu, dormu mbijàtu.
Poi quandu sona cu gran spaventu l’ùrtima
vota la ritirata,e tutti cùrrunu a ‘nu
mumentu, òmani e fìmmani a la Vajàta,
finca li morti, chi riggimentu! cu’ porta ‘n’anca, cu’ ‘na costata… Jeu cu tia ‘mbucca
cumpàru tandu, ne’ mi lamentu, ne’
riccumandu.
Cadi lu suli, cadi la luna, li stiji càdinu,
penza fracassu! L’acèji cìanginu, l’acqua
sbajùna, li minuti jùntanu, sassu cu sassu
‘nzemi si pìstanu, e ad una ad una li cerzi
stìmpanu; si fa ‘nu massu; sbampa lu focu,
tuttu cunzùma. Cu’ nd’eppi nd’eppi, cchiu’
non si fuma.
Canzone a dispetto
(Veniva cantata, a San Floro, accompagnandola
con l’organetto e con tono aggressivo, sotto le
finestre della donna amata che invece non… UN SOGNO: MISS ITALIA
amava più)
Cara signora mia, mi cumpatìti
ca non sapìa li vostri nobiltàti.
Mo chi lu sàcciu ca nòbbila siti
non bbùagghiu ca pe mmia vi ribassàti.
Ma cìnnara a lu foculàru no ‘ndavìti
ca puru li tizzùni su’ astutàti.
Tenìti caru st’amànti chi avìti
ca vena jùarnu mu vi ripentìti:
‘st’alma mu goda e bbui mu penijàti.
ROCCELLETTA DI BORGIA
Stessa spiaggia stesso mare
Emigrati e residenti del paese
sulla collina, come sempre si
sono “alloggiati” al mare sulla
spiaggia del “Cammello Grigio”,
alla Roccelletta. Il camping, che
quest’anno si è un po’,come
dire?, risvegliato sul piano
organizzativo, ha tenuto compa-
gnia ai sanfloresi vacanzieri da
spiaggia con lunghi nastri musicali e “lezioni” in acqua di musica e ginnastica. I sanfloresi hanno apprezzato molto ed hanno
ora un motivo in più per frequentare anche il prossimo anno…
stessa spiaggia stesso mare.
GIANNI GULLÌ, OVVERO LA VOCE
Corriere di San Floro e della Calabria
Anno IV - N° 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2010
SAN FLORO
Ricordo di Jolanduzza
cordata tu quella signorina minuta che, sempre compunta, con
tanta serietà, prendendo quel
suo lavoro come cosa quasi sacra, insegnava soprattutto alle
bambine a diventare donne di
casa, cioè a cucire, rammendare, insomma ad essere spose modello; situazioni che adesso non
si ritrovano quasi più, con le nostre giovanissime dedite quasi
esclusivamente a passare la notte in discoteca, a stare sulle
spalle dei genitori, a crescere
senza nulla capire della loro futura responsabilità. Che, quando e se verrà (i matrimoni ormai
sono così pochi perché i maschi
non si fidano più…), le vedrà
davanti a compiti difficili, pressoché sconosciuti. Per cui il fallimento dell’unione in tanti casi
è alle porte già a pochi anni dal
matrimonio.
La signorina Jolanduzza io la
vedevo, da bambino, pressoché
Intanto, caro Rauti., l’hai ri- tutti i giorni perché mio padre
Grazie, Domenico e Feliciano .
Ho ricevuto il Corriere stamattina con grande entusiasmo. L’ho
letto tutto. Vorrei chiedervi di
scrivere un pezzo sulla signorina Rocca Iolanda, detta
Jolanduzza, che svolgeva una
specie di doposcuola raccogliendo nella sua casa parecchi bambini di qualsiasi età. Mia moglie,
nel vedere la foto di Pino Nobile , scomparso troppo prematuramente, si ricordava quando erano tutti da Jolanduzza. Io non
sono andato, però ricordo benissimo quella donnina piccolina
che accudiva i bambini senza
chiedere nulla in cambio. Naturalmente la gente le dava quello
che poteva: qualche litro d’olio,
oppure prodotti della campagna.
Penso che faccia piacere a tanti
sanfloresi ricordare quella figura
minuta ma di grande umanità.
Antonio Rauti
voleva che stessi con lui, in ufficio, quando era aiutante alla
Posta (e mi insegnò anche a
trasmettere telegrammi con
l’alfabeto Morse…). Nelle pause che mi permetteva me ne andavo in giro nei dintorni, soprattutto
a
fare
la
“scivolarella” sul cemento sotto gli archi del palazzo di
“don” Mario Costa; ma poi, essendo già grandicello, mi concedevo anche qualche passeggiata di altro genere; e allora
arrivavo davanti alla casa di
Jolanduzza e mi beavo a guardare tutte quelle belle ragazzine che stavano intorno a lei,
che faceva la maestra di cucito
o di ricamo. Ce ne erano veramente tante, tutte chine e serie
sul lavoro affidato. E lei, la
Jolanduzza, donna microscopica, magari le rimbrottava, ma
sempre con dolcezza e pazienza infinite.
(d.p.)
Agendina
LUTTI
- A Genova, il 12 agosto, è deceduto, a soli 51 anni, Francesco
Comità. Ne danno il triste annuncio gli zii Floro Palaia, Concetta e
Flora Comità
a cura di Feliciano Paravati
- A San Floro è deceduto, a 79
anni, Domenico (“Mastro Toto”)
Nobile. I funerali si sono svolti
niella chiesa parrocchiale nel pomeriggio del 14 agosto.
Anche Paolo Pilò, di 90 anni, è
deceduto il 4 agosto u.s.
- A Roccelletta di Borgia è deceduto Agazio Monterosso, di
anni 46, il 30 giugno u.s.
Ai parenti tutti le nostre condoglianze.
Momenti di festa nostrana fermati dall’obiettivo di Feliciano
La lunga Estate Sanflorese
(Ha sfilato anche una sposa arbreshe)
- Il 5 agosto, sera, sfilata sotto
il Municipio di ragazze , una ventina, in abiti da sposa, antichi e
recenti. Molto applaudito, e veramente originale per la platea,
un abito arbreshe, cioè albanese,
della vicina Caraffa, degli Anni
Sessanta, tanto bello nello stile,
forse anche perchè colorato quasi al completo; al contrario dei
nostri classici abiti bianchi. L’organizzazione è stata dell’associazione “La Ginestra”.
-Sabato 7 agosto, serata musicale a cura della Pro Loco
“Tommaso Scarcella” e, a tavola, Sutta l’Urmu, le penne ai funghi preparati da Angelo
Caccavari del Bar Castello. Sul
palco, Stefanino Maiuolo,con
un’esibizione per la verità un po’
deludente. Tante le canzoni “famose” da lui reinterpretate; con
toni però forse non a tutti graditi. Stravolgere i motivi passati alla
storia musicale nazionale è un bel
rischio. Può venir fuori qualcosa
di accettabile o addirittura migliore rispetto all’originale. Ma il gio-
co è pur sempre pericoloso. Le
orecchie sono abituate a certe
sonorità e quindi il “nuovo” rispetto all’originale deve risultare ugualmente gradito, non risultare lontano mille miglia. Daremmo un consiglio al giovane
Stefanino, che di qualità indubbiamente ne ha parecchie: rifletta bene su ciò che presenta; e se
presenta qualcosa creato da lui
faccia vari saggi di ascolto; ma
non si fermi ai ragazzi pronti a
battere le mani. Si rivolga a gruppi critici, pregandoli di essere sinceri sulla produzione. Altrimenti,
a lungo andare, Stefanino si dovrà rassegnare al flop. E non c’è
Maria Defilippi che tenga (il caso
del sardo Carta dovrebbe insegnare). Cioè Stefanino deve mettere da parte quella sua esperienza e pensare ad una nuova e più
autentica ed originale affermazione.
-Anche quest’anno l’Associazione culturale “Castellitini” ha
dato una buona dimostrazione
della sua capacità di organizzare
belle feste. Il 19 agosto è stata la SFILANO GLI SPOSI DEL TEMPO CHE FU A SAN FLORO...
volta di un gruppo folk molto
noto in Calabria ed anche all’estero, i Calabruzi , di Lamezia (quelli
di “Quant’era bella Rusìna miachi nàtichi tundi –chi minni chi
avìa…”), con un’ampia partecipazione del pubblico alle tarantelle.
Il giorno successivo, la nuova
edizione del 5° Festival internazionale della fisarmonica e dell’organetto diatonico. Molti gli applausi, anche quando la sera del
20 si è ripetuto “ ‘U Ballu d’ ‘o
ciucciu”, il ballo dell’asino, una
tradizione soprattutto sanflorese
(ricordate i fratelli Barbuto?), anche se in altre parti della Calabria,
come nel Vibonese, si fa in estate,
da tanti anni, qualcosa di simile
con il “Cavallo pirotecnico”.
-La Pro Loco “Tommaso
Scarcella” si è data da fare anche con ottime iniziative mangerecce. Sembra che quest’anno gli
introiti abbiano superato ogni
più rosea previsione. Segno del
gradimento del pubblico. Complimenti a tutto lo staff dirigenziale.
...MA SORPRESA! ANCHE UNA SPOSA ARBRESHE (DI CARAFFA)
...E poi un’oretta in cantina, cantando allegramente
I “frittuli” della Pro Loco presentati da Giannino
7
Salvatore, prima dell’abbuffata, con gli occhi che godono...
8
Corriere di San Floro e della Calabria
TRA STORIA E FANTASIA
La leggenda di Teodorico
Dal “calabro confine” sorge la figura
di Severino Boezio, fatto uccidere dal re goto
che viene inghiottito dal vulcano delle Eolie
Su 'l castello di Verona
batte il sole a mezzogiorno,
da la Chiusa al pian rintrona
solitario un suon di corno,
mormorando per l'aprico
verde il grande Adige va;
ed il re Teodorico
vecchio e triste al bagno sta.
ma non corsi mai cosí.
Teodorico di Verona,
dove vai tanto di fretta?
Tornerem, sacra corona,
a la casa che ci aspetta? - Mala bestia è questa mia,
mal cavallo mi toccò:
sol la Vergine Maria
Pensa il dí che a Tulna ei venne sa quand'io ritornerò.di Crimilde nel conspetto
Altre cure su nel cielo
e il cozzar di mille antenne
ha la Vergine Maria:
ne la sala del banchetto,
sotto il grande azzurro velo
quando il ferro d'Ildebrando
su la donna si calò
e dal funere nefando
egli solo ritornò.
Guarda il sole sfolgorante
e il chiaro Adige che corre,
guarda un falco roteante
sovra i merli de la torre;
guarda i monti da cui scese
la sua forte gioventú,
ed il bel verde paese
che da lui conquiso fu.
Il gridar d'un damigello
risonò fuor de la chiostra:
- Sire, un cervo mai sí bello
non si vide a l'età nostra.
egli ha i pié d'acciaro a smalto,
ha le corna tutte d'òr.
- Fuor de l'acque diede un salto
il vegliardo cacciator.
- I miei cani, il mio morello,
il mio spiedo - egli chiedea;
e il lenzuol quasi un mantello
a le membra si avvolgea.
i donzelli ivano. In tanto
il bel cervo disparí,
e d'un tratto al re da canto
un corsier nero nitrí.
Nero come un corbo vecchio,
e ne gli occhi avea carboni.
era pronto l'apparecchio,
ed il re balzò in arcioni.
Ma i suoi veltri ebber timore
e si misero a guair,
e guardarono il signore
e no 'l vollero seguir.
In quel mezzo il caval nero
spiccò via come uno strale
e lontan d'ogni sentiero
ora scende e ora sale:
via e via e via e via,
valli e monti esso varcò.
Il re scendere vorría,
ma staccar non se ne può.
Il più vecchio ed il più fido
lo seguía de' suoi scudieri,
e mettea d'angoscia un grido
per gl'incogniti sentieri:
- O gentil re de gli Amali,
ti seguii ne' tuoi be' dí,
ti seguii tra lance e strali,
Il filosofo Severino Boezio, ricordato qui da Carducci. Fu
fatto uccidere da Teodorico
dopo una parvenza di processo con l’accusa di tramare per
la restaurazione dell’impero
romano. La Chiesa lo dichiarò santo e martire.
Ella i martiri covría,
Ella i martiri accoglieva
de la patria e de la fé;
e terribile scendeva
Dio su 'l capo al goto re.
Via e via su balzi e grotte
va il cavallo al fren ribelle:
ei s'immerge ne la notte,
ei s'aderge in vèr' le stelle.
Ecco, il dorso d'Appennino
fra le tenebre scompar,
e nel pallido mattino
mugghia a basso il tosco mar.
Ecco Lipari, la reggia
di Vulcano ardua che fuma
e tra i bòmbiti lampeggia
de l'ardor che la consuma:
quivi giunto il caval nero
contro il ciel forte springò
annitrendo; e il cavaliero
nel cratere inabissò.
Ma dal calabro confine
che mai sorge in vetta al monte?
Non è il sole, è un bianco crine;
non è il sole, è un'ampia fronte
sanguinosa, in un sorriso
di martirio e di splendor:
di Boezio è il santo viso,
del romano senator.
(Giosuè Carducci)
E-MAIL
Quando ti prende la nostalgia...
Gentilissimo sig. Paravati,
sono Sara Catanese, la “riggitana”
che lavora al museo del Sodalizio
Facchini di S. Rosa, a Viterbo. È
stato davvero gentile a spedirmi i
suoi libri e ho apprezzato moltissimo anche le sue dediche... Ho iniziato a sfogliare le pagine e devo
dire che mi è venuta un po’ di
nostalgia....Nostalgia di luoghi, odori, parole che, nonostante porto sempre con me, in effetti non fanno parte
della mia vita quotidiana. E il vocabolario sul dialetto del suo paese!!
Interessante davvero! Quanti termini che non conoscevo ho scoperto,
e quanti che invece non ricordavo
ho rispolverato. Insomma, quando
mi vien voglia di sentirmi a casa do
un’occhiata alle sue pagine e mi
rendo conto che quando i miei amici
per scherzare dicono che sono
“selvaggia”....hanno proprio
ragione!...Mi sento così come il
paese da cui provengo, ricco di speranza e nostalgia, in cui il nuovo
si mischia con il vecchio; un mondo chiuso, duro, primitivo, che ha
tuttavia una sua bellezza, le sue segrete dolcezze...Allora mi ha fatto
tanto piacere incontrarla e la ringrazio per avermi ricordato di non dimenticare le mie origini.
Sara Catanese
Anno IV - N° 3 - Luglio - Agosto - Settembre 2010
OPINIONI
Dio è amore. Anzi emozione
di Salvatore Mongiardo
ho riso e dove ho organizzato storiche burle, dove ho anche stretto
amicizie tra le più solide e affettuose, e il mio pensiero va al fraterno
amico don Peppino Scopacasa,
arciprete di Mongiana in Calabria,
l’uomo più allegro della terra. È vero,
il seminario era pure, con tutti i suoi
limiti, scuola di apprendimento delle lettere e delle scienze, nonché
sede di mistiche atmosfere tanto
consone all’arcana bellezza della
Calabria. Di tutto questo sono ben
cosciente, eppure non riesco a pensare al seminario se non come a un
periodo triste e sconsolato della mia
vita, una punizione per non so quale
peccato. Forse, poiché davanti a
Dio non esiste passato e futuro, Lui
mi ha punito agli albori della vita per
un crimine che dovrò ancora comIl mare della Calabria a primavera mettere. Ma dovrà essere un pecè come canta il grande Domenico cato veramente mostruoso, una
Cunsolo:
specie di UBRIS, l’oltraggio dei greci contro la divinità se, a distanza di
Vieni, andiamo insieme al mare, oltre trent’ anni, il tempo trascorso
a vedere la bellezza che ci dà,
in seminario è impresso nella mia
il mare che fa parte dell’amore
mente come una dolorosissima
e l’amore è profondo come il
marchiatura a fuoco.
mar!
Quello che accadde dopo il nostro
Sull’ultimo numero di Elpis il com- colloquio, e che Lei ovviamente ignomento di Don Edoardo al mio Chi è ra, mi sembra talmente importante che
Dio termina dicendo che San Gio- merita di essere scritto con la massivanni ha capito l’essenza di Dio, che ma cura. A malincuore lasciai la
è amore. È esattamente quello che canonica, sapendo che la Sua giorio sostengo: Dio è emozione in nata era piena di mille impegni, menquanto l’amore è emozione. Nel rior- tre la mia pencolava nel vuoto. Un paldinare le mie vecchie carte ho tro- lido sole novembrino rischiarava la
vato due lettere che mi sembrano facciata della chiesetta attaccata alla
valide nello spiegare lo sviluppo del canonica; la porta era aperta ed entrai
mio pensiero. Eccone una.
a cercarvi un attimo di serenità. Vidi a
sinistra l’affresco di scuola
leonardesca del battesimo di Gesù e,
Lettera a don Giovanni (parroco di a destra, l’urna con le ossa del martire
San Bovio, presso Milano)
San Bovio. Mi sedetti e appoggiai la
testa sullo schienale del banco di fronMilano, 20 febbraio 1994
te, con un gesto a me ben noto in gioCaro don Giovanni,
ventù. Chiusi gli occhi e mi rividi nella
ho lasciato passare tre mesi dal no- cattedrale di Squillace, durante i vestro incontro del 20 novembre 1993 spri in onore di Sant’Agazio, martire
prima di scriverle la presente. Per di Cappadocia, patrono della città e di
alcune coincidenze, che solo ades- tutta la diocesi. La gran chiesa sfavilso mi appaiono chiare, quel giorno lava di luci, il vescovo Fares sembrarappresenta una tappa importante va veramente il faro alto e fiammegdella mia vita. Il comune amico giante raffigurato nel suo stemma
Ernesto Le aveva dato il manoscrit- episcopale, tanto brillavano pastorato del mio Ritorno in Calabria. Lei le e mitria, anello e croce pettorale. Il
l’aveva letto durante l’estate e ave- vecchio sacrestano girava la manova espresso il desiderio di incontrar- vella del mantice dell’organo e il demi, cosa che ho fatto molto volen- crepito canonico Fulciniti riusciva a
tieri perché nulla è per me più piace- stento a premere i tasti con le dita menvole che discutere del mio libro. tre cantavamo in coro:
Mentre Lei mi preparava il caffè,
guardavo le sedie in velluto rosso, i O ter quaterque et amplius
quadri dei santi alle pareti, il lindo beata semper arcula
decoro di tutta la canonica. Senti- quae tanti sacra militis
vo anche le scampanellate alla por- ossa recordis gremio.
ta di persone che La cercavano per
mille motivi. E riflettevo alla mia so- (O tre, quattro e più volte
litudine nella quale vivo male, ma alla sempre beata urna
quale sono costretto a rientrare non che di un sì gran soldato
appena cerco di uscirne. Da qual- le ossa racchiudi in seno).
che tempo l’incontro con altri mi arreca qualcosa di brutto, di sgradevole, di cattivo. Da solo sto male,
Era il maggio odoroso e i nostri
ma con gli altri sto peggio.
volti giovanili ardevano di fede e
preghiera. Allora io ero certo, cerDurante il nostro colloquio Lei mi tissimo che, come fra poco sarebbe
faceva notare che eravamo pratica- scoppiata l’estate in Calabria, così
mente coetanei, Lei del Nord e io del la chiesa era prefigurazione della
Sud, entrambi educati nei seminari, gioia infinita alla quale Dio ci chiama con storie personali che poi di- mava nel cielo. Fu durante quei vevergevano. E mi sottolineò che pro- spri solenni che don Ciccio Laugelli,
vava dispiacere perché dal mio li- il quale sedeva in rossa mozzetta
bro traspariva dolore in ogni mio ap- arcipretale negli stalli dietro di me,
proccio verso la chiesa. Lei voleva disse rivolto a don Paolo Sorrenti,
aiutarmi a superare questa lacera- perennemente pallido e teso:”Lo
zione, forte della Sua esperienza di vedi Sant’Agazio con la palma del
sacerdote felice nella vita e nella martirio e le ossa in bella mostra nelfede. Inoltre mi faceva osservare l’urna? Si è fatto uccidere perché ha
che dal mio libro il seminario appa- rifiutato di bruciare un po’ d’incenriva unicamente come un luogo di so agli dei dell’Olimpo. Adesso il
oppressione. Non faccio fatica a vescovo Fares lo incensa quante
darLe ragione su questo punto. Il volte vuole e tutti in coro gli cantiaseminario era anche un luogo dove mo una bella ninna nanna in latino!”
Dallo scrittore Salvatore
Mongiardo
(www.salvatoremongiardo.com)
riceviamo, queste considerazioni
che ci sembrano molto interessanti
(almeno per noi, sul piano giornalistico) in quanto esprimono
un’opinione difficile da esternare,
per molti non condivisibile e addirittura scandalosa per i cattolici
praticanti; che pubblichiamo però
in omaggio alla libertà di pensiero
e al nostro principio di dare sempre spazio alle diverse “verità”,
quali esse siano, purchè rispettose
delle “verità” degli altri. Questo testo doveva uscire nel numero di giugno del nostro giornale, ma non vi
abbiamo trovato lo spazio.
(dopar)
Allora, avevo quattordici anni,
l’espressione di don Ciccio Laugelli
mi sembrò blasfema. Dopo tanti
anni, guardando le ossa di San
Bovio nella Sua chiesetta, mi resi
conto che don Ciccio aveva il dono
della comprensione profonda delle
cose. Perché tanto sangue e ossa
di morti attorno a Gesù che si proclama vita lui stesso? Perché in ogni
altare, sul quale si ricorda, o si rinnova secondo voi, il sacrificio della
croce, c’è la pietra sacrale, quel tassello al centro del marmo che racchiude le ossa dei martiri?
Lasciai la chiesetta e a piedi me ne
tornai a casa nella vicina San Felice. Era l’una e mi misi a tavola mentre il telegiornale trasmetteva che
papa Giovanni Paolo II
riconfermava il divieto alla contraccezione durante un’udienza nella
quale Luc Montagne, lo scienziato
dell’Istituto Pasteur di Parigi, lo aveva inutilmente supplicato di liberalizzare l’uso del profilattico. Pochi
anni prima lo stesso papa in terra
d’Africa aveva severamente proibito il profilattico, mentre attorno le
persone morivano diAIDS come le
mosche. Poi il telegiornale passò a
un’altra notizia. Il gran capo della
mafia Totò Riina, imputato di numerosi omicidi, si rifiutava di parlare
con il pentito Tommaso Buscetta
perché quest’ultimo per Riina era un
uomo senza morale: era andato con
più donne! In un istante compresi
che il papa e Riina affermavano la
stessa cosa. Per loro contava soprattutto il comportamento sessuale: i morti, le vittime, erano solo una
triste necessità per raggiungere un
fine. Per Riina il fine era l’arricchimento; per il papa l’osservanza di
una legge che lui proclama divina e
della quale si professa massimo custode. Ora più che mai sono convinto di quanto ho scritto nel Ritorno in Calabria: la chiesa ha perso nel Rinascimento la battaglia
contro la scienza e perderà adesso
la battaglia contro il sesso perché
sta ricoprendo la terra di morte e
contraddizione, cioè di ipocrisia.
Con quale faccia il papa permette il
sesso, a chi non vuole figli, solo
quando la donna è infeconda? Se
lo scopo è identico, che cioè non ci
sia frutto, che differenza fa se uno
getta la semente nel ruscello o se la
sparge sul terreno arido dove non
può germogliare? Chi può affermare che l’un comportamento è contrario alla legge di Dio e l’altro conforme? In verità la passione carnale
è come un vento di primavera che
strappa via i fiori dall’albero. Ma per
quanti ne strappi, ne rimangono
ancora molti per dare frutti. I fiori
sono numerosi proprio perché il
vento possa strapparne senza danno: Dio ha dato la vita e l’ha data in
abbondanza.
Ma tutto questo è poca cosa di
fronte all’orrore dell’aborto, contro il
quale la chiesa tuona da tutti i pulpiti
e del quale è invece la causa primaria. Tucidide scriveva che chi può
evitare un male e non lo fa, quello è il
vero responsabile. E cosa fa la chiesa se non rimanere insensibile di fronte al saccheggio giornaliero degli uteri, alla carneficina incessante dei non
nati? In ogni malattia o disastro la
buona regola è prevenire: in base a
quale logica, a quale precetto evangelico, la chiesa proibisce la prevenzione dell’aborto, cioè la contraccezione? Ho scritto e lo ripeto, e vorrei
che tutti i vocabolari di tutte le lingue della terra, vive e morte, torcessero le loro alfabetiche budella e sputassero fuori le parole più forti, più
tremende, più orribili, per esprimere il
mio sdegno e la mia condanna. Nei
libri di storia il massacro dei non nati
peserà sulla chiesa come la più grande infamia di tutti i tempi. Un’ultima
cosa voglio dirle, caro don Giovanni. Alla chiesa non saranno dati altri
secoli per scusarsi di questa carneficina, come ha recentemente fatto con
la farsa della riabilitazione di Galileo.
La storia, justus judex ultionis, giusto giudice di vendetta, presto romperà il maledetto trinomio di sacerdote, sacrificio e vittima.
Dalla finestra del mio studio vedo il
bel campanile della Sua chiesa e sento l’orologio che suona le ore. Fino a
poco fa ero triste e invidiavo la Sua
vita. Ora non più. So che non entrerò
più nella Sua chiesa e in nessun’altra,
anche se mi dispiace e mi rendo conto che la mia lacerazione è insanabile.
Starò lontano dalla chiesa di Roma per
un motivo molto semplice: il mio onore. Solo persone senza onore possono sopportare la mattanza dell’aborto e rimanere in quella chiesa rendendosi complici di questo scandalo:
l’omertà di mafia al confronto è poca
cosa!
CarodonGiovanni,iohofinitolamia
amara riflessione e La lascio con l’augurio che la storia possa consumare
il cuore di pietra di tanti sacerdoti, così
come il mare scava anche il basalto
più duro.
Salvatore Mongiardo
***
Spero tanto, io non credente, che
Salvatore Mongiardo consideri
della Chiesa le cose buone, tantissime, e non guardi solo alle cattive,
che pure sono parecchie, come dice
da qualche tempo chiaro e tondo lo
stesso Papa Benedetto XVI.
(D.P.)
Onomastico e compleanno il 1° novembre per il giornalista
Sante Casella di Rende (CS)