La tazzina di caffè - Moby Dick | Associazione

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La tazzina di caffè - Moby Dick | Associazione
La tazzina di caffè.
Tremo tutta… Non riesco a controllare il tremore che mi scuote incessante
dalla testa ai piedi. Stringo spasmodicamente tra le mani il lenzuolo e mi
sforzo di non battere i denti, ma senza alcun risultato.
Con gli occhi sbarrati nel buio, percepisco, ma in modo ovattato, come se
provenissero da mondi lontani, i rumori della corsia: il ronzio intermittente
delle pompe di infusione, il passo leggero degli infermieri nei loro giri di
controllo, gli attutiti conati di vomito provenienti dal bagno.
Sono qui, ricoverata in una corsia del Grande Ospedale della Capitale, al
letto numero 9.
E domani saprò!
Non ho voluto nessun calmante, che un premuroso infermiere mi ha
proposto, trovandomi sveglia e impaurita durante uno dei suoi giri. Forse
voglio dimostrare a me stessa di essere forte, di non aver paura della
malattia, di non essere malata. Sono riuscita persino a confortare mio marito
affranto. Ho scherzato con i miei figli, mascherando dietro un sorriso o le
battute spiritose la pena che sento dentro.
Ma adesso sono sola. Il coraggio che ho ostentato mi viene meno, mentre la
notte mi avvolge, interminabile, eterna.
Poi, verso l’alba, l’ospedale comincia ad animarsi: le luci si accendono nei
corridoi, i carrelli con le terapie si fermano davanti ad ogni stanza del reparto:
vengono distribuite pillole, fatte iniezioni e prelievi: tutta normale routine.
Ed è dalla familiarità dei gesti quotidiani che attingo la forza per affrontare la
giornata. Vado in bagno, faccio un’accurata pulizia, mi trucco leggermente,
poi vado a fare colazione nella stanza comune, per cercare di socializzare un
po’ con gli altri pazienti.
In effetti sono già ricoverata da 3 giorni, con una diagnosi che recita
“Metastasi Ossea da K latente”, 3 giorni in cui sono stata sottoposta a tutti gli
accertamenti del caso, mentre contemporaneamente veniva effettuata la
revisione dei vetrini del mio precedente intervento al seno.
Ma in questi 3 giorni è come se avessi eretto una barriera tra me e gli altri
malati: io non sono come loro, io non ho niente in comune con loro.
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Sicuramente i medici che mi hanno spedita al Grande Ospedale si sono
sbagliati: come si può parlare di metastasi ossee per qualche dolore alla
scapola? Tutti, alla mia età, accusano qualche dolore articolare!
E poi, anche l’aspetto fisico sembra darmi ragione: cosa ho io in comune con
gli altri pazienti che giacciono nei letti attaccati a tubi e macchinari vari, o
sono spinti sulle sedie a rotelle dai familiari falsamente sorridenti, o
camminano per i corridoi tirandosi appresso trespoli con su sacche di vario
colore?
Guardo i loro volti gonfi per il cortisone, gli occhi sporgenti, gli sguardi vitrei,
quasi persi nel vuoto, le teste pelate, pietosamente nascoste da foulards e
cappellini; ascolto le loro conversazioni, per lo più incentrate su terapie, valori
del sangue, effetti collaterali della chemio.
Non voglio, non voglio, non voglio essere uno di loro!
Alle 9 inizia la visita: quest’oggi i medici iniziano dal lato dell’ingresso, per cui
la nostra stanza è l’ultima. Ancora questo stillicidio del tempo: con il cuore in
gola cerco di calcolare quanto tempo impiegheranno i medici ad arrivare al
mio letto, a farmi sapere!
Passa un’eternità. E’ la volta della mia stanza! Entra l’equipe al completo.
Dopo una breve sosta agli altri letti, il mio turno.
Il dottore dagli occhi azzurri, con uno spiccato e simpatico accento
romanesco mi chiede come va, sorride incoraggiante, guarda brevemente la
mia cartella clinica, quasi a voler prendere tempo, poi… mi dice che mi è
stato diagnosticato un “mieloma multiplo”, per cui è necessario che io mi
sottoponga alla chemioterapia. Lo guardo smarrita, guardo gli altri medici che
stanno lì, quasi imbarazzati. Il medico continua a parlare: mi spiega in cosa
consiste la malattia, con quale terapia combatterla, quali effetti collaterali
dovrò affrontare, come contrastarli eccetera. Ma io non odo più nulla, nelle
orecchie mi rimbomba una sola parola: chemio, chemio, chemio.
Non è possibile, mi dico! Dall’incredulità passo alla rabbia, al rifiuto, alla non
accettazione: perché proprio a me? Cosa ho fatto per meritare tutto questo?
Non sono stata una buona madre o una buona moglie? Sono stata di animo
cattivo? E così vivo il tumore come un castigo che mi viene inflitto per le mie
manchevolezze e mi colpevolizzo di tutto.
Poi inizia la chemioterapia, anzi il periodo allucinante della chemioterapia. Gli
“eventuali” effetti collaterali li ho tutti: spossatezza, dolori alle ossa, piaghe
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alla bocca, diarrea e stitichezza, leucopenia, febbre, caduta di capelli e via
dicendo.
E’ tutto talmente pesante da sopportare che si affaccia in me l’idea della
rinuncia alla lotta e le domande più ricorrenti sono: “E’ vita questa?” “Perché
combattere una battaglia così difficile se non si è sicuri del risultato?” “Perché
continuare a leggere negli occhi di familiari e amici la pena e la compassione
per come sono ridotta?”
Malgrado ciò, continuo ad andare avanti con la terapia, stimolata e
supportata da un contesto familiare e amicale molto sollecito ed affettuoso.
Purtroppo, ahimè, gli effetti collaterali della chemio continuano, e fra tutti i più
invalidanti sono senz’altro la nausea e il vomito, che non mi danno tregua,
facendosi gioco degli appositi medicinali che prendo per contrastarli. La
mattina è terribile: basta un innocuo odore a provocarmi terribili conati di
vomito. L’odore del caffè, che di solito appena alzata mi riconciliava col
mondo, adesso mi diventa insopportabile: lo percepisco anche a grande
distanza o nell’alito di coloro che mi stanno vicino e non riesco a vincere la
nausea.
E dire che ho sempre amato il caffè: il rito mattutino della tazzina bollente
sembrava mi riconciliasse con il mondo e senz’altro mi metteva in grado di
affrontare la giornata.
Per anni, tanti anni, ho portato il caffè a letto a mio marito, perché per gli
impegni familiari e di lavoro mi alzavo prima di lui. Mi sedevo sulla sua
sponda del letto e lo sorbivamo insieme, mentre ci scambiavamo le prime
parole, programmavamo gli impegni giornalieri da affrontare, felici di quei
pochi momenti di tranquillità, prima di svegliare i bambini.
Due volte all’anno, invece, il giorno della festa degli innamorati e quello del
mio compleanno, era mio marito che si alzava prima di me, per potermi
portare il caffè a letto: in genere arrivava tiepido e troppo zuccherato, ma non
gliel’ho mai detto, grata di quel suo gesto affettuoso e gentile.
Anche a scuola, prima che dal suono della campanella, la ricreazione era
annunciata dall’aroma del caffè, preparato dalla bidella con la moka: si
spandeva nel corridoio ed era il segnale per noi insegnanti di quei 10 minuti
di intervallo.
Da quando sono sotto terapia, però, l’odore del caffè mi causa una nausea
terribile: lo percepisco anche a grande distanza o nell’alito di coloro che mi
stanno vicino e spesso non riesco a frenare i conati di vomito. A casa, perciò,
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hanno drasticamente ridotto l’uso di questa bevanda: sembra che nessuno ne
abbia più voglia, si preferisce l’anglosassone the.
Sono già venti giorni che ho finito i sei cicli di chemio, ma gli effetti collaterali
continuano a tormentarmi
Poi, inaspettatamente, una mattina...
Sono sveglia ma ancora a letto: non riesco a trovare la forza di alzarmi né la
motivazione per farlo. Sono stanca, tanto stanca. Perché alzarmi? Perché
affrontare tante ore vuote e inutili? E’ questo che vado ripetendomi. Capisco
che sono in una fase di negatività. E capisco pure che devo superarla, se non
voglio essere ulteriormente di peso a me stessa e ai miei familiari.
Sento un cauto tramestio in cucina: di certo è mio figlio che si sta preparando
qualcosa prima di uscire.
Tiro le gambe fuori dalle coperte e mi metto seduta: voglio accompagnarlo
alla porta quando esce, voglio dargli l’impressione che tutto vada bene.
Indugio ancora un po’: mettersi in piedi costa tanta fatica! Mentre mi trovo in
questa fase vengo raggiunta da un delizioso odore di caffè: annuso, ancora
incredula. E’ proprio odore, come non lo sentivo da tanti mesi. E insieme
all’odore un’acuta voglia di riassaggiarlo.
Chiamo: “Roberto, hai preparato il caffè?”.
Mi risponde contrito: “Scusa, mamma, mi sono distratto e non ho chiuso la
porta della cucina. Cerca di resistere che adesso spalanco tutto e cerco di
eliminare l’odore”.
“No, ti prego, è così profumato…! Ne voglio una tazzina”.
Convinto di non aver capito bene, Roberto si affaccia alla porta della mia
camera e mi chiede cosa ho detto. Gli ripeto che non ho più nausea, anzi ho
voglia di una tazzina di caffè bollente. Allora, con le lacrime agli occhi, mi si
avvicina, mi abbraccia, mi fa alzare dal letto, comincia a ballare insieme a
me, mi copre di baci e di carezze la testa pelata ripetendo: “Brava mamma,
brava… Ce l’hai fatta, ce l’hai fatta!… Sei forte!”
E’ un momento molto intenso.
Capisco che ha ragione, mi sto buttando alle spalle il periodo allucinante della
chemioterapia.
Ora è solo questione di tempo: fra poco passeranno le altre nausee, le
piaghe alla bocca, la stipsi, il prurito…
Fra poco ricresceranno i capelli.
Fra poco ritornerò ad essere una persona normale.
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Ed è così, infatti! E non solo ritorno normale, ma ci ritorno con una marcia in
più: con una grande voglia di vivere e di assaporare tutti quei momenti che la
vita mi regala e ai quali finora non avevo dato importanza perché li
consideravo scontati, quasi fossero un mio diritto.
Mi sento felice per una giornata di sole, o quando sento la pioggia battere sui
vetri della mia camera, o se guardo le cime innevate delle mie montagne.
Ma soprattutto mi sento felice per il calore e l’affetto che sento attorno a me,
da parte di tutti, di un intero paese che mi si è stretto attorno, che ha lottato
con me, facendomi sentire necessaria o addirittura indispensabile.
Certo, sperimento ancora delle sensazioni negative, quali il senso di
provvisorietà e di precarietà, ma ho imparato ad esorcizzare queste negatività
con un imperativo categorico: io voglio vivere, e voglio vivere perché ho
ancora tante cose da dare a me stessa e agli altri! Voglio continuare a
progettare, a programmare, a sperare, ad avere dei sogni e a lottare affinché
si realizzino!
“Talvolta le disavventure possono trasformarsi in formidabili occasioni”,
scriveva O. Wilde. Ed è quello che è successo a me: la malattia mi ha
causato tanta sofferenza e dolore, ma mi ha nel contempo arricchita dentro,
facendomi vivere momenti straordinari, meravigliosi, indimenticabili.
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