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Seediscussions,stats,andauthorprofilesforthispublicationat:
https://www.researchgate.net/publication/286025042
Terapeuticpropertiesofcannabinoids:
State-of-the-artandresearch
perspectives
ARTICLE·MARCH2003
READS
10
2AUTHORS:
MatteoPacini
IcroMaremmani
InstituteofBehavioralScience/Priva…
AziendaOspedaliero-UniversitariaPis…
122PUBLICATIONS1,227CITATIONS
263PUBLICATIONS3,101CITATIONS
SEEPROFILE
SEEPROFILE
Availablefrom:IcroMaremmani
Retrievedon:08April2016
ITAL J PSYCHOPATHOL 2003; 9(1): 58-70
ARTICOLO DI AGGIORNAMENTO
UP-DATE ARTICLE
Proprietà terapeutiche dei cannabinoidi: stato
dell’arte e implicazioni per la ricerca
Terapeutic properties of cannabinoids: State-of-the-art and research
perspectives
M. PACINI* **
I. MAREMMANI* ** ***
*
PISA-SIA (Study and Intervention on
Addictions) Group, Ospedale Universitario
«Santa Chiara», Dipartimento di Psichiatria
NFB, Università di Pisa; ** Istituto di Scienze
del Comportamento «G. De Lisio», CarraraPisa; *** Associazione per l’Utilizzo delle
Conoscenze Neuroscientifiche a fini Sociali,
AU-CNS onlus, Pietrasanta, Lucca
Key words
Cannabis • Cannabinoids • Endogenous
cannabinoid system (endocannabinoids) •
Therapeutic potential
Correspondence: Dr. Matteo Pacini, Clinica Psichiatrica, Università di Pisa - Tel.
+39 50 992657 - Fax +39 50 992656
E-mail: [email protected]
Summary
In the latest years, the interest into the biological properties of cannabinoids
has met a new lease of life, in the trail of recent acknowledgements about the
endogenous cannabinoid systems. Nevertheless, research effort has been mostly
addressed either at psychotoxic effects of cannabis (amotivational sindrome)
or at the role of cannabis abuse in the genesis of some psychiatric disorders
(e.g. chronic psychoses). However, clinical investigations on the possible therapeutic use of cannabis and its active components has led to new perspectives
for research.
Scientific evidence for a possibile therapeutical use of cannabinoids, agonists
and antagonists, shows how the political controversy upon the issue of cannabis
legalization, beyond specific sides, ended up to hamper scientific efforts: thus,
research into the toxic effects of smoked cannabis has proceeded with no
parallel increase in the knowledge about possible therapeutical profiles of
cannabinoids compounds. We recommend that clinical and neurobiological
research on both the negative and positive effects of cannabinoids meet a
reprise, with no prohibitionist implication, so as to allow scientific knowledge
to improve. This article deals with the evidence of cannabinoids’ effects and
their therapeutic potential in a variety of medical conditions, of general
(emesis, loss of appetite, glaucoma, asthma, neoplastic growth) and neuropsychiatric (spasms, pain, epilepsy, neuronal overstimulation, craving for heroin)
Introduzione
La questione della liberalizzazione delle «droghe
leggere» costituisce un argomento di squisita pertinenza politica. È infatti competenza del legislatore
interpretare i dati obiettivi relativi ad un qualsiasi
problema in base al contesto socio-culturale nel quale opera. Tuttavia, l’argomento è così ricco di suggestioni da dividere anche il mondo scientifico, nonostante la rilevanza dei dati sperimentali e clinici esistenti. Il contenzioso sulla liberalizzazione delle
«droghe leggere» si restringe di fatto alla liberalizzazione dell’uso della cannabis o marijuana e dei suoi
derivati. Nel mondo scientifico non dovrebbero esistere posizioni ideologiche o preconcette a favore o
contro questa eventualità; ma è frequente che, a seconda del contesto nel quale è espresso, il punto di
vista del tecnico si presti a interpretazioni di parte.
Non esiste un effetto negativo della marijuana che,
ancorché grave per chi lo presenta, sia generalizzabile a chiunque ne faccia uso sia cronico che saltuario.
L’immensa variabilità interindividuale alla base di
questo fenomeno diviene un’arma efficacissima nell’attenuare il valore di deterrente di qualsiasi dato
sulla tossicità di questa sostanza. Per questi motivi,
in un confronto dialettico, un esperto in farmaci di
abuso potrebbe sostenere con eguale probabilità di
successo sia il punto di vista della liberalizzazione
che quello del proibizionismo. In passato, la subordinazione dell’attività scientifica al piano politico ha
avuto ripercussioni nel limitare l’approfondimento
della ricerca sui cannabinoidi, e l’atteggiamento di
allarme per gli effetti dannosi tuttora prevale sull’opportunità di approfondirne le documentate proprietà
terapeutiche. Attualmente, come già è avvenuto per i
farmaci oppiacei, esiste il rischio che la politica della ricerca sia quella di promuovere lo sviluppo di farmaci antagonisti, e di ignorare o demonizzare l’ipo-
58
PROPRIETÀ TERAPEUTICHE DEI CANNABINOIDI
tesi dell’intervento terapeutico con agonisti, quale
compromesso tra l’interesse derivato dalle nuove acquisizioni e la persistenza di un atteggiamento di diffidenza nella cultura dominante. In questo lavoro saranno passati in rivista le conoscenze attuali sul potenziale terapeutico dei cannabinoidi nell’ambito della medicina generale e neuropsichiatrico, nella speranza di suscitare interesse da parte dei ricercatori e
ricondurre in sedi qualificate e competenti un dibattito che spesso ha risentito solo di pregiudizi e impostazioni culturali differenti.
Impiego clinico dei cannabinoidi in
medicina interna
CANNABINOIDI COME ANTIEMETICI
La proprietà anti-emetica del ∆9-THC è stata inizialmente sospettata sulla base dell’osservazione
che nei fumatori di cannabis in trattamento chemioterapico per neoplasia la nausea e vomito presentano minore gravità 124. La conferma di tale sospetto è
in seguito emersa da uno studio controllato vs. placebo 124 ed il ∆9-THC ha trovato applicazione clinica nella soppressione della nausea e del vomito indotti dagli agenti chemioterapici nei pazienti neoplastici 92. Il ∆9-THC sintetico per os (dronabinolo)
e un analogo del ∆9-THC, il nabilone, sono registrati come antiemetici negli Stati Uniti 92. Negli anni ‘70 sono stati compiuti studi comparativi sull’efficacia antiemetica dei cannabinoidi disponibili
(∆9-THC, nabilone e levonantradolo) rispetto a
quella degli antiemetici antistaminici. Il confronto
tra proclorperazina e ∆9-THC 41 123 ha evidenziato
una minore tollerabilità per il THC.
L’efficacia del THC (5-10 mg/m2 per 24 h a partire da
1-2 h prima della seduta) è stata dimostrata contro
l’emesi da metotrexato ad alte dosi e dall’associazione doxorubicina-fluorouracile-ciclofosfamide; la sua
efficacia è invece trascurabile su regimi contenenti
cisplatino 146, nitrosuree o nitromostarde 110 111 e mercloretamina 111. L’associazione doxorubicina-cytoxan, utilizzata nella terapia adiuvante dei sarcomi
dei tessuti molli, induce nausea e vomito che il THC
non ha mostrato di controllare 11 12. L’efficacia antiemetica del THC tenderebbe a ridursi col tempo, per
motivi non noti 12.
Uno dei principali limiti per l’utilizzo del THC è rappresentato dalla scarsa tollerabilità 41 113, in particolare quando si raggiungono dosaggi elevati (ad esempio di 15 mg/m2) 83. I risultati non migliorano anche
provando ad associare alle alte dosi di THC un antistaminico fenotiazinico 42. In particolare, sono stati
documentati effetti psichici sgradevoli quali ridotta
capacità di concentrazione, ridotta interazione sociale, abulia 41 123, mentre altri studi hanno evidenziato
59
l’elevata frequenza di disforia con il THC 136 146. Sono documentati 6 casi di ansia parossistica dopo la
somministrazione di ∆9-THC per os in pazienti oncologici 10 76. In uno studio di confronto con la proclorperazina, il sottogruppo di pazienti che manifestava il sospetto di aver ricevuto THC piuttosto che
non proclorperazina, si caratterizzava per una migliore tolleranza al farmaco 143 nonostante la presenza di alcuni effetti collaterali con entrambi i farmaci.
I pazienti dichiaravano in cieco la preferenza per i cicli terapeutici in cui veniva loro somministrato THC.
In un altro studio, nonostante l’efficacia sovrapponibile del ∆9-THC e della marijuana, la valutazione
soggettiva forniva responsi migliori per il ∆9-THC 76.
La tollerabilità globale sembrava così condizionata
dalla qualità degli effetti psicotropi. Risultati sperimentali hanno confermato questa impressione 136. La
variabilità della risposta soggettiva alla cannabis è
peraltro già nota in ambito psichiatrico; tuttavia, tale
risposta non è al momento prevedibile in base a definiti criteri clinici che consentano di distinguere i pazienti tolleranti da quelli non tolleranti. In futuro, la
possibilità di identificare pazienti con caratteristiche
cliniche predittive di risposta positiva al THC potrebbe consentire l’ottimizzazione dell’impiego di tale farmaco.
Il levonantradolo, rivelatosi equivalente alla clorpromazina (0,5 mg vs. 26 mg, risp.) in termini di efficacia antiemetica e tollerabilità 84, non presenta comunque vantaggi rispetto agli altri cannabinoidi: effetti
collaterali quali xerostomia, sonnolenza, disforia possono comparire già a basse dosi, e a dosi più alte, pari a 4 mg, può svilupparsi ritenzione urinaria 26 47 82 133.
I meccanismi alla base dell’azione antiemetica del
THC non sono chiari, né è stato stabilito se il livello
di azione dei cannabinoidi sui meccanismi del vomito sia centrale o periferico. L’ipotesi di un’azione antidopaminergica sembra da scartare vista la mancata
efficacia del THC nell’antagonizzare il vomito da
apomorfina 130. Alcuni cannabinoidi, tra cui il ∆9THC, il ∆11-THC e il nabilone (ma non, ad esempio
il CBD) hanno rivelato un’azione antiperistaltica in
modelli animali, che consiste in un rallentamento
della propulsione gastrointestinale a livello dello stomaco e del piccolo intestino, senza effetto sul tono
parietale 132. A livello periferico, è stato inoltre dimostrato un effetto inibitore dei cannabinoidi sul rilascio di acetilcolina nel plesso di Auerbach. Il meccanismo coinvolgerebbe un recettore CB1-presinaptico
sulle terminazioni colinergiche. Il meccanismo antiemetico potrebbe coinvolgere il metabolismo dell’acido arachidonico, e in particolare la produzione di
prostaglandine, che i cannabinoidi sono in grado di
inibire 6.
Il nabilone, è stato registrato nel 1982 con l’indicazione per la nausea e il vomito indotti da chemioterapia e refrattari agli altri trattamenti, a seguito di
M. PACINI, I. MAREMMANI
una dimostrata efficacia antiemetica 92 a dosi di 1-2
mg prima del trattamento chemioterapico. Globalmente, il nabilone è risultato superiore alla proclorperazina 65 101. Nel vomito da cisplatino la sua efficacia è tuttavia relativa alla dose di cisplatino: nessuna differenza di efficacia è emersa tra nabilone e
proclorperazina contro il vomito cisplatino ad alte
dosi 135, mentre per dosi medio-basse di cisplatino il
nabilone si è dimostrato migliore 101 135. Gli effetti
collaterali del nabilone comprendono xerostomia,
incoordinazione motoria, difficoltà di concentrazione, visione confusa, ipotensione e vertigini 135. Il
confronto con farmaci dopaminoantagonisti periferici quali la metoclopramide, il domperidone e l’alizapride, ha fornito risultati contrastanti, relativi tuttavia a contesti clinici non equiparabili 29 77. L’uso
del farmaco sarebbe limitato dall’elevata incidenza
di effetti collaterali di ordine psichico 30 117. L’opportunità di associare il nabilone ad altri antiemetici
è suggerita da uno studio che confronta l’efficacia
antiemetica del desametasone con o senza il nabilone 106. L’associazione desametasone e metoclopramide per via endovenosa si è dimostrata complessivamente preferibile a quella di nabilone e proclorperazina 29. Lo spettro di efficacia del nabilone comprende il metotrexato ad alte dosi, la politerapia
doxorubicina-fluorouracile-ciclofosfamide 146 e i regimi contenenti cisplatino, sui quali invece il THC
non dimostra efficacia soddisfacente. Comunque,
altri agenti antiemetici disponibili, quali i dopaminoagonisti, risultano paragonabili ai cannabinoidi in
quanto a efficacia sul vomito da cisplatino e peraltro
meglio tollerati.
La più recente introduzione di antiemetici quali gli
antagonisti 5HT3, che possono essere somministrati
sia per os che endovena, e hanno un’efficacia antiemetica del 90% in ambito oncologico, ha probabilmente costituito un limite allo sviluppo di cannabinoidi con proprietà antiemetiche. Sperimentazioni
cliniche comparative dell’efficacia dei cannabinoidi
rispetto agli antagonisti della serotonina non sono
state compiute, ma la superiorità dei secondi può essere estrapolata dal confronto con gli altri antiemetici (es. antistaminici). La ricerca sull’efficacia antiemetica dei cannabinoidi è così proseguita in popolazioni di pazienti refrattari; in questi campioni è stata
inoltre operata una valutazione comparativa del ∆9THC per os rispetto alla marijuana per via inalatoria.
Tali studi indicano l’efficacia (90%) dei cannabinoidi sull’emesi refrattaria ai comuni agenti antiemetici,
e indicano una migliore tollerabilità psichica per la
marijuana 76. È auspicabile che l’opportunità di proseguire la ricerca sull’efficacia antiemetica dei cannabinoidi sia riconsiderata, in rapporto alla disponibilità di nuovi cannabinoidi sintetici e alle conoscenze acquisite sul sistema dei cannabinoidi endogeni. Il
∆8-THC, ad esempio, meglio tollerato per assenza di
attività psicotropa, è stato recentemente impiegato
come antiemetico su un piccolo gruppo di pazienti
pediatrici in ambito oncoematologico, nei quali ha
prodotto una copertura antiemetica persistente e
completa 1. D’altro canto, esiste la dimostrazione dell’attività antagonista del THC sui recettori 5HT3 del
ratto, che suggerisce l’esistenza di un meccanismo
antiemetico a comune con i farmaci 5HT3-antagonisti 32.
CANNABINOIDI COME ANTIIPORESSICO NEI MALATI
DI AIDS
L’ipotesi di un impiego dei cannabinoidi nell’AIDS
comprende diversi aspetti: da un lato l’azione antinausea e antivomito già dimostrata in ambito oncologico, che può essere utilizzata nel controllo degli stessi sintomi su base tossico-infettiva nel contesto dell’AIDS. Il nabilone, per esempio, si é dimostrato efficace contro l’emesi tossica da infezioni batteriche 54;
e il dronabinolo è risultato utile anche come antiemetico in pazienti con sindromi AIDS-correlate 3. D’altro canto, la proprietà di stimolazione dell’appetito e
il conseguente miglioramento dello stato nutrizionale
rappresenta un obiettivo terapeutico di rilievo nelle
sindromi cachettiche associate alle malattie neoplastiche e all’AIDS. Per quanto concerne l’AIDS, in particolare, la cachessia è descritta a parte con il termine
di AIDS wasting syndrome: essa si definisce per una
perdita di peso di oltre il 10%, associata a diarrea o
febbre di origine non determinata. Un decremento
ponderale superiore al 5%, già corrisponde ad una ridotta aspettativa di vita; nessun soggetto cha ha subito una perdita superiore al 30% sopravvive a breve
termine. Va precisato che la perdita di peso può avere
due meccanismi patogenetici, l’ipoalimentazione e il
dismetabolismo, spesso legato alla tossiemia, allo stato infiammatorio sistemico, o al malassorbimento. La
terapia anti-anoressica è ovviamente utile solo se la
causa del calo ponderale è rappresentata dalla ridotta
nutrizione, e, anche in questo caso, quando la ridotta
nutrizione non sia secondaria o comunque associata a
nausea e/o vomito.
In soggetti normali, l’assunzione di cannabis è seguita, a distanza di circa tre ore, da un incremento
dell’appetito 58 90 139, in modo particolare per i cibi
dolci 68. In studi clinici controllati su pazienti con
sindromi AIDS-correlate, il dronabinolo, oltre ad
aver dimostrato un effetto antiemetico, ha prevenuto
un ulteriore calo ponderale e migliorato il tono dell’umore 3 44 54 57. Simili risultati sono stati ottenuti
con il THC anche in pazienti con cachessia neoplastica 45 46 102 e associata a demenza di Alzheimer 147. È
ipotizzabile che l’azione terapeutica dei cannabinoidi nella cachessia associata all’AIDS si articoli in
una componente direttamente antiemetica, che consente la prevenzione della disidratazione, degli squilibri idroelettrolitici e il miglioramento della nutri60
PROPRIETÀ TERAPEUTICHE DEI CANNABINOIDI
zione; una componente anti-iporessica, che incrementa l’appetito in maniera autonoma, e infine una
componente psicotropa di tipo ansiolitico/antidepressivo che aumenta la spinta vitale dell’individuo.
Tuttavia, il principale ostacolo all’uso dei cannabinoidi in condizioni di immunosoppressione è rappresentato dai numerosi dati circa l’azione immunosoppressiva dei cannabinoidi. Gli effetti del THC sul sistema immunitario comprendono la riduzione della
produzione di TNF-alfa (e quindi l’apoptosi mediata
da questo fattore), la produzione di IL-1 e IFN-gamma; la riduzione del 33% dell’attività linfocitaria e
del 66% di quella del cAMP leucocitario. Il THC
inoltre inibisce la ciclossigenasi, e quindi induce la
formazione e l’accumulo di prodotti di degradazione
dell’ARA, che hanno effetto istamino-simile sui vasi
e sui bronchi 89. Nella scimmia, il fumo di marijuana
produce deficit funzionale dei macrofagi e dei linfociti Th1 8 75, con incremento delle citochine immunoinibitorie dei Th2. L’immunosoppressione mediata
dal THC è presente ad alte dosi 39 40 75 e, relativamente al difetto di sintesi anticorpale, la riduzione della
produzione di IFN e l’ipotrofismo splenico, anche a
dosi medie 39. Ciononostante, lo studio della condizione immunitaria di 12 soggetti sani durante 64
giorni di consumo quotidiano di marijuana non ha rivelato variazioni in senso immunosoppressivo. In
particolare, il numero dei linfociti B è risultato nella
norma e quello dei T ha mostrato una tendenza all’aumento, come numero assoluto e in percentuale; la
funzione linfocitaria non ha subito compromissione;
i livelli di IgE sono aumentati, senza corrispondenza
clinica 121.
Nonostante i dati sull’azione immunosoppressiva dei
cannabinoidi siano evidentemente discordi tra clinica
e laboratorio, è stata avanzata l’ipotesi che l’uso di
marijuana possa facilitare il passaggio dallo stadio di
sieropositività asintomatica a quello di malattia da
immunosoppressione. A tal proposito, uno studio su
354 maschi sieropositivi ha invece rilevato un tasso
ridotto di progressione verso l’AIDS negli utilizzatori di marijuana. Il dato peraltro non risultava significativo, tenendo conto che gli utilizzatori di marijuana avevano uno stato di salute mediamente migliore
all’inizio dello studio 74.
CANNABINOIDI COME IPOTENSIVI OCULARI
(GLAUCOMA AD ANGOLO APERTO)
I cannabinoidi posseggono proprietà di regolazione
sulla pressione endoculare, sia nell’animale che nell’uomo 48 49 64. Sia in soggetti sani che in glaucomatosi, alcuni cannabinoidi producono una riduzione
della pressione endoculare, mediamente del 25%: si
tratta del THC (inalazione del fumo di una sigaretta
di marijuana contenente THC al 2%, o dose di 10-40
mg per os), il nabilone o l’agonista BW146Y; inefficace invece il BW29Y 103 142. Prove di somministra61
zione endovenosa hanno dimostrato l’efficacia di
∆8-THC, ∆9-THC, 11-OH-THC e documentato l’inefficacia di CBN, CBD e ß-OH-THC 23 113. L’efficacia del THC è maggiore nei casi di glaucoma non
compensato dalle terapie in corso, e nel glaucoma
associato a ipertensione arteriosa 25 97. I cannabinoidi
attivi sono equivalenti tra di loro e rispetto agli altri
farmaci antiglaucomatosi in uso nel ridurre la pressione endoculare; il THC per os tende a indurre un
effetto ritardato, più duraturo e comunque meno prevedibile in quanto a entità e andamento. Il limite è
rappresentato dalla transitorietà dell’effetto, dal momento che la pressione endoculare ritorna ai valori
iniziali entro 3-5 ore 49 50. È inoltre presente un tetto
di efficacia: con una sola sigaretta di marijuana (20
mg di THC) già si raggiunge l’effetto massimo 63.
Nel tempo, non sembra svilupparsi tolleranza oculare al THC 50 51.
In monoterapia il ∆9-THC per os si è dimostrato incostantemente efficace, mentre la sua efficacia risultava quasi costante e più rilevante in add-on a terapie
parzialmente efficaci 56 quali pilocarpina e acetazolamide; in questi casi l’ipotensione risultava almeno il
15% in 6 degli 8 pazienti trattati 27. L’applicazione topica di soluzione contenente THC in gocce è stata
proposta in modo da ottenere concentrazioni soddisfacenti a livello oculare senza effetti sistemici clinicamente rilevanti 48. Questa strada si è però rivelata
problematica: a dosi non irritanti, infatti, buona parte
del principio attivo passa in circolo, ed è quindi diluito 50; in preparazioni non irritanti l’effetto non compare 53 70. Analogamente il nabilone, gravato da minori effetti sistemici, e parimenti efficace nel ridurre la
pressione endoculare (del 35% dopo 0,5 mg per os), è
irritante nella preparazione topica 103. Il meccanismo
con cui la pressione oculare si riduce potrebbe riconoscere due distinti meccanismi. Da una parte 6, potrebbe esservi un’azione simpatergica a livello del
corpo ciliare, forse mediata da una modulazione della
sintesi prostaglandinica; ma la denervazione simpatica e parasimpatica è inefficace sull’effetto del THC 16.
In alternativa, il meccanismo potrebbe essere di tipo
cannabinoidergico e locale, come suggerito dal fatto
che l’mRNA del recettore CB-1 è fortemente espresso nel corpo ciliare del ratto 118. Nel gatto è del resto
accertato che il THC induce una riduzione della pressione endoculare attraverso un incremento del drenaggio dell’umor acqueo 16. D’altra parte, la riduzione della pressione sistemica contribuisce alla riduzione di quella distrettuale, anche se l’effetto sulla pressione endoculare risulta indipendente dall’ipotensione 52. Peraltro, il confronto tra l’effetto oculare del
THC su glaucomatosi ipertesi e normotesi ha rivelato
un beneficio maggiore in acuto sul glaucoma 25 95 96.
Tuttavia, se in acuto la riduzione della pressione endoculare rappresenta l’obiettivo essenziale, in cronico
è necessario mantenere quest’effetto attraverso un
M. PACINI, I. MAREMMANI
meccanismo che non comporti riduzione dell’apporto
ematico alla retina e alle strutture oculari, poiché l’ischemia cronica peggiora l’evoluzione del quadro 98.
Comunque, non sembra che questo rischio sussista
nel caso di esposizione cronica a cannabis, visto che
le alterazioni cardiovascolari tendono a regredire dopo qualche giorno di uso continuato 4. È stata segnalata l’associazione tra effetto ipotensivo oculare e
sensazione soggettiva di high 38, in accordo con la dimostrata efficacia dei composti psicotropi quali il
THC o i THC-simili, e l’inefficacia dei composti non
psicotropi quali il CBD.
CANNABINOIDI COME ANTIASMATICI
Il THC (∆9 o ∆8) è in grado di produce broncodilatazione, un effetto che peraltro non è significativo
quando si somministra miscelato ad altri cannabinoidi (CBN, CBD) 43. La conoscenza dell’effetto broncodilatante ha condotto all’impiego sperimentale del
THC nel trattamento dell’asma bronchiale 140 141 149,
mentre non è stato giudicato opportuno l’impiego del
fumo di marijuana, dal momento che in soggetti
asmatici ha prevedibilmente effetto irritante 140. Peraltro, la reattività bronchiale, valutata con test di
broncoprovocazione istaminica, risulta uguale in
soggetti sani fumatori e non fumatori di cannabis 66.
In cronico, il fumo di cannabis produce alterazioni
ventilatorie simili a quelle del fumo di tabacco, indipendentemente dalla coesistenza di asma bronchiale.
Tuttavia, benché il fumo di cannabis abbia un contenuto di catrame maggiore rispetto al fumo di tabacco,
e l’inalazione più profonda ne faccia depositare di
più negli spazi aerei distali, il rischio di BPCO risulta significativo solo per un consumo pluriquotidiano
protratto per almeno 30 anni. Il fumo di cannabis può
quindi considerarsi equivalente a un fumo «intensivo» di tabacco; ma, a fronte di una maggiore lesività,
la minore dose cumulativa di inalato per la cannabis
giustificherebbe la minore latenza per lo svilupparsi
di alterazioni respiratorie clinicamente rilevanti.
D’altro canto, la via inalatoria non si rende necessaria per l’effetto broncodilatante: il ∆9-THC orale è
efficace nel produrre broncodilatazione come quello
inalato. Per via inalatoria l’effetto si ha a dosaggi
compresi fra 0,2 mg e 0,5 mg 144 149 e vi è la tendenza
a raggiungere un plateau: 5 mg di THC per via inalatoria producono un effetto pari all’80% di 20 mg.
Impiego clinico dei cannabinoidi in
Neuropsichiatria
CANNABINOIDI COME SPASMOLITICI NELLE LESIONI
DEL SISTEMA PIRAMIDALE (MOTONEURONALE)
Nel modello animale del topo adulto è stato dimostrato l’effetto spasmolitico del ∆9-THC, dopo espo-
sizione cronica, sulle contrazioni del gastrocnemio
indotte da stimolazione sovramassimale del nervo
ischiatico 112. Inducendo nel topo una malattia simile alla Sclerosi Multipla (l’encefalomielite sperimentale autoimmune), basse dosi di cannabinoidi
(R(+)-WIN 55,212, ∆9-THC, methanandamide e
JWH-133) alleviano il tremore muscolare sviluppato da questi animali. Al contrario, l’antagonismo dei
recettori CB1 e CB2, rispettivamente con
SR141716A e SR144528 produce un peggioramento
dei sintomi indotti. Nell’uomo, in diversi casi di paresi spastica da lesione del secondo motoneurone è
riferita una riduzione delle mioclonie e della spasticità dopo assunzione di marijuana 61 85 91 115 116. Un effetto soggettivo positivo sulla spasticità emerge anche per la Sclerosi Multipla 55 94 e curiosamente l’effetto è riferito come positivo anche quando l’assunzione di cannabinoide ha determinato atassia 55. Infine, l’efficacia del THC per os è risultata maggiore di
quella della codeina 61. È stato stimato che oltre l’1%
dei pazienti con sclerosi multipla usi cannabis: effetti benefici sono riferiti in oltre il 90% dei casi sul dolore 19, sulla sintomatologia di tipo neuromuscolare
(spasticità ricorrente, incontinenza urinaria da spasmi vescicali, miastenia, tremore). Queste osservazioni sono state confermate da diverse sperimentazioni (complessivamente 41 soggetti), in cui è documentata l’efficacia della cannabis su spasmi, il dolore ad essi associato, il tremore ed il controllo della
motilità vescicale 2 15 55 94.
CANNABINOIDI COME ANTIDISTONICI NELLE
SINDROMI EXTRAPIRAMIDALI
In accordo con la concentrazione del recettore CB1 a
livello dei gangli della base, nel modello animale la
stimolazione dello striato dorsale determina, insieme
alla liberazione striatale di dopamina, un incremento
consistente della concentrazione di anandamide. Il
ruolo del sistema cannabinoide sarebbe quello di limitare l’attivazione dopaminergica, come confermato dal fatto che, bloccando con un antagonista i recettori CB1, la stimolazione dello striato, atta a produrre rilascio di dopamina, è seguita da una ipercinesia più spiccata. A riprova di ciò, l’anandamide ha efficacia antidistonica nei ratti coreici, in cui l’ouput
dopaminergico dallo striato è aumentato. La trasmissione cannabinoidergica coinvolge anche stazioni
sottocorticali quali il nucleo subtalamico di Luys e la
substantia nigra: in particolare, gli agonisti CB1 inibiscono l’attività delle vie subtalamico-pallidale e
subtalamico-nigra, implicate nella patogenesi di alcune discinesie e della bradicinesia parkinsoniana 17
20 99 127-129 152
. Gli studi sul CBD, che non si lega al
CB1, ma è dotato di proprietà anticonvulsivante,
hanno fornito risultati contraddittori, difficilmente
giudicabili per l’eterogeneità dei modelli di patologia
considerati 18 20 125 126. Il dato più interessante riguardo
62
PROPRIETÀ TERAPEUTICHE DEI CANNABINOIDI
al CBD è forse l’effetto aloperidolo-simile sul comportamento in un modello animale di psicosi, che
suggerisce un’interferenza sulla trasmissione dopaminergica correlata al tropismo motorio 152. Del resto, la scarsa o nulla efficacia del CBD sulle discinesie coreiche è documentata per gruppi di pazienti selezionati in base alla refrattarietà ai neurolettici. Se
tale azione fosse legata ad un’attività a livello prefrontale, come lascia supporre la presenza in tal sede
di recettori per i cannabinoidi, la modulazione cannabinoidergica potrebbe avere un ruolo nella terapia
delle alterazioni psicomotorie e cognitive delle psicosi croniche.
CANNABINOIDI COME ANTIDOLORIFICI
Studi su animali dimostrano come la somministrazione di ∆9-THC produca un innalzamento della soglia algica e l’attenuazione della risposta di fuga agli
stimoli algogeni standard 86. Infatti, la modulazione
della percezione dolorifica da parte dei cannabinoidi
si articola verosimilmente tra il centro e la periferia.
La somministrazione di un agonista dei recettori per
i cannabinoidi nel nucleo ventroposterolaterale del
talamo riduce l’attività dei neuroni talamici in risposta a stimoli nocicettivi 88; i cannabinoidi sono peraltro attivi anche a livello del grigio periduttale 79,
dal momento che la sezione spinale riduce la loro efficacia analgesica dopo somministrazione per via sistemica 81. A livello spinale, l’azione dei cannabinoidi sembra concentrarsi vicino alle corna posteriori
del metamero corrispondente alla regione analgesizzata 81. L’antagonismo completo dell’effetto analgesico si ottiene con il blocco del recettore CB1: l’analgesia indotta con l’acido ajulemico (derivato non
psicotropo del THC) è abolita dal pretrattamento con
l’antagonista specifico SR141716A. Tuttavia, al di
là dell’esistenza di recettori specifici, altri sistemi
neurotrasmettitoriali sembrano coinvolti negli effetti dei cannabinoidi. L’iniezione intratecale di yohimbina (alfa-2-agonista) riduce l’analgesia da cannabinoidi, mentre il metisergide (5HT-antagonista) non
mostra questa proprietà 80. L’interazione del sistema
serotoninergico, anch’esso rappresentato a livello
del grigio periduttale e del grigio midollare posteriore, non sarebbe quindi importante per la mediazione
dell’analgesia da cannabinoidi. La dinorfina (A1-8),
∂-agonista, aumenta l’antinocicezione da cannabinoidi, a meno che non se ne inibisca la conversione
enzimatica nella forma attiva (leu5-encefalina) o si
utilizzi l’antisiero anti-dinorfina 120. Allo stesso modo, l’uso di un oligonucleotide antisenso per il recettore k blocca l’azione analgesica del THC, così
come quella di un oppioide kappa-agonista 119. L’attivazione oppioidergica è, in questo senso, sinergica
con il sistema dei cannabinoidi, e la potenza analgesica di questi ultimi è infatti aggiuntiva a quella della morfina. Il ruolo degli oppioidi è stato dimostrato
63
anche per l’analgesia mediata dai cannabinoidi stessi. Infatti, mentre il naloxone o l’ICI174864 (∂-antagonista) non contrastano l’effetto analgesico, questo
accade utilizzando la norbinaltorfimina (k-antagonista), per via intratecale 86 100 145. Il sistema CB1 (sensibile al THC) e il sistema k-oppioidergico sembrano funzionare con una modalità di interdipendenza
che corrisponde ad un rapporto di cross-tolleranza.
Per quanto riguarda la potenza, quella del THC è,
nei modelli animali, uguale o superiore a quella della morfina. I cannabinoidi endogeni hanno anch’essi
rivelato proprietà analgesiche: il meccanismo sembra coinvolgere entrambi i sottotipi recettoriali, visto che sia l’anandamide (CB1-agonista) che il PEA
(CB2-agonista) possiedono tale proprietà. La combinazione dei due produce un’interazione di tipo sinergico, che corrisponde alla situazione «in vivo», in
cui i due composti sono prodotti e rilasciati contemporaneamente a partire dallo stesso precursore lipidico di membrana.
I sistemi dopaminergici e noradrenergici potrebbero
essere coinvolti nella mediazione dell’analgesia da
cannabinoidi: da un lato è noto che i cannabinoidi
esercitano un’azione di interferenza sulla trasmissione dopaminergica. In particolare, una sostanza neurotossica, la 6-OH-dopamina, che induce la degenerazione dei terminali catecolaminergici, abolisce l’effetto analgesico del THC 36. D’altra parte, l’aumento
della formazione di ossido nitrico indotto dal THC si
associa al rilascio presinaptico di dopamina 138.
Nell’uomo, la somministrazione di cannabis in doppio-cieco ha confermato la proprietà analgesica: soggetti trattati con 12 mg di ∆9-THC per via inalatoria
avevano una soglia algica più elevata rispetto al
gruppo placebo e una meno intensa risposta al dolore da stimolazione elettrica transdermica 67. In uno
studio 122 su soggetti che avevano subito l’asportazione del terzo molare, anestetizzati con lidocaina, la
soglia di percezione di uno stimolo transdermico come doloroso, valutata a 24 h di distanza, risultava più
elevata con ∆9-THC (0,44 ma non 0,22 mg/kg) che
con diazepam (0,157 mg/kg) o placebo. La soglia di
tolleranza al dolore (oltre cui il dolore era definito insopportabile) risultava invece più bassa. Al contrario,
in volontari sottoposti a stimolazioni dolorifiche cutanee e periostali il ∆9-THC non ha rivelato proprietà
analgesica, alle dosi di 1,5 o 3 mg endovena 86 rispetto a 10 mg di diazepam o placebo. Il levonantradolo (i.m.) è stato valutato versus placebo per il controllo del dolore postoperatorio, ma non è chiaro se
l’efficacia analgesica rilevata sia uniformemente distribuita o se esista un gruppo di non-responders 69.
Diversi altri studi, che hanno valutato l’effetto della
marijuana sulla sensibilità nocicettiva, non hanno
fornito risultati interpretabili a causa dell’assenza di
controllo o per ambiguità derivanti dal metodo di indagine 14 67 78.
M. PACINI, I. MAREMMANI
In ambito clinico è emersa comunque una proprietà
analgesica sia per il THC che per il cannabinoide sintetico nabilone 107. Tuttavia, l’intensità dell’effetto
analgesico è stata modesta e il farmaco era tollerato
al dosaggio basso (5-10 mg) 108 109 ed invece efficace
alle dosi alte (15-20 mg). Del resto, in un altro caso,
lo stesso ∆9-THC in dosi di 0,15 o 0,3 mg/kg non è
risultato superiore al placebo 7. La discordanza dei
dati può forse essere spiegata con il fatto che la proprietà analgesica non è dovuta direttamente al THC,
ma al suo metabolita 11-idrossile 150, la cui concentrazione non è stata considerata nei diversi contesti.
In accordo con l’ipotesi che i cannabinoidi 11-idrossilici abbiano proprietà analgesica più spiccata 151 è
stato sperimentato un cannabinoide idrossilico di sintesi, il 9-nor-9-idrossi-esaidrocannabinolo: l’efficacia analgesica è risultata paragonabile a quella della
morfina 62 e della codeina (60 mg eq. 10 mg di THC;
120 mg eq. 20 mg di THC 109. In ultimo, un nitroderivato del THC è risultato equivalente alla codeina
(50 mg) e superiore al secobarbital (50 mg) 134.
CANNABINOIDI COME ANTI-EPILETTICI
L’esposizione al fumo di cannabis, pur non essendo
una causa frequente di episodi convulsivi, può essere
responsabile dell’insorgenza di convulsioni in soggetti con anamnesi negativa per epilessia 5 104, e di fenomeni ad espressione psichica, come ansia parossistica, che richiamano, a livello neurobiologico, i fenomeni epilettici classici.
Diversi cannabinoidi quali 11-OH-∆9- e ∆8-THC,
SP111-A, CBN rivelano, in modelli animali, effetti
convulsivanti 34 35, che possono comparire (almeno
per il THC), già a basse dosi (0,05 mg/kg 87 o con una
singola dose orale di 5 mg 35). L’esposizione ripetuta
al ∆9-THC induce la comparsa di tolleranza all’effetto epilettogeno, che si manifesta nuovamente alla riesposizione dopo un periodo di sospensione di almeno
4 giorni 87. Alcuni isomeri del THC, quali ∆8 e ∆9THC, hanno invece rivelato, in modelli animali, proprietà di profilassi antiepilettica per le convulsioni da
kindling amigdaloideo 21 22 24 71; anche in questo caso,
l’esposizione continuata produce tolleranza nei confronti dell’effetto 24 72.
Il CBD, cannabinoide naturale, non ha rivelato proprietà epilettogene 87 in modelli animali, ma è invece
risultato dotato di proprietà antiepilettica 72 73, così
come alcuni suoi derivati sintetici (6-ossi-CBD acetato) 93. Al contrario dei composti THC-like, non si
sviluppa tolleranza a breve termine per l’effetto antiepilettico 24 72 93. È comunque riportato un caso di un
soggetto epilettico in cui, dopo somministrazione endovenosa di una dose relativamente elevata di CBD,
si è osservata la comparsa di un tracciato elettroencefalografico epilettiforme, pur senza corrispondenza clinica 114. Peraltro, nei modelli animali utilizzati,
le dosi di CBD atte a prevenire l’attività epilettica da
kindling erano relativamente basse 72 73. In ambito clinico, il CBD è stato valutato in soggetti con epilessia
temporale con generalizzazione secondaria refrattari
alla terapia in corso, mediante add-on del cannabinoide a un dosaggio di 200-300 mg/die 9 28. Degli otto pazienti trattati, 3 hanno presentato risposta completa, 4 parziale e 1 non ha risposto. Nel gruppo di
controllo (8 pazienti) l’aggiunta di placebo alla terapia in corso ha indotto la remissione clinica in un solo caso. L’effetto collaterale principale del CBD in
questo contesto è risultato la sedazione.
CANNABINOIDI COME NEUROPROTETTORI
Le proprietà neuroprotettive dei cannabinoidi (THC
e CBD) sono state prima evidenziate su modelli animali 13 59: sia il CBD che il ∆8- e ∆9-THC possiedono proprietà antiossidanti e il meccanismo è, almeno
in parte, non recettoriale, dal momento che il potere
protettivo nei confronti della morte ossidativa non dipende dall’affinità per i recettori specifici 13. Lo sviluppo dei cannabinoidi ha riguardato prevalentemente il CBD, preferito per l’assenza di effetti psicotropi, la rapida azione e la minore tossicità rispetto al
THC, che ne consente la somministrazione a dosaggi
elevati. Dal confronto con antiossidanti sicuri e tradizionali come la vitamina C e la E, il CBD è risultato
superiore nel prevenire il danno ossidativo indotto da
sovraesposizione a glutammato dei neuroni 13 59. L’effetto antiglutammatergico sarebbe legato ad una inibizione presinaptica del rilascio di glutammato 131
mentre nessun effetto potenziante sulla trasmissione
gabaergica è stato documentato, per lo meno a livello sinaptico. Nell’uomo, un analogo del CBD senza
affinità per il recettore CB1, il dexanabinolo (HU211), ha ridotto la pressione endocranica e la mortalità in pazienti 59 60 con trauma cranico di grado severo. Lo stesso farmaco è stato sperimentato con successo per il trattamento tempestivo dell’intossicazione cerebrale da gas nervino: in questo contesto la
somministrazione tempestiva di dexanabinolo dopo
l’inizio delle convulsioni da intossicazione previene
il danno cerebrale 37. Il dexanabinolo ha infine dimostrato proprietà preventive nei riguardi del danno
conseguente a certi tipi di fenomeni epilettici ricorrenti 59 60. Un ruolo neuroprotettivo è stato ipotizzato
per i cannabinoidi endogeni, in particolare per quelli
a struttura acil-etanolamidica (come il PEA), visto
che la loro produzione risulta aumentata in sede di
danno neuronale.
CANNABINOIDI COME ANTICRAVING (EROINOPATIA)
Studi su modelli animali rivelano che, in comune con
varie sostanze d’abuso (eroina, cocaina, nicotina e
amfetamine), il THC provoca il rilascio di dopamina
nei centri cerebrali la cui sensibilizzazione si associa
ai comportamenti appetitivi. Tale proprietà è considerata fondamentale per la capacità di queste sostan64
PROPRIETÀ TERAPEUTICHE DEI CANNABINOIDI
ze di indurre dipendenza, nel senso di addiction. I diversi sistemi stimolati dalle sostanze con potere di
rinforzo sul comportamento, che convergono sui centri «della gratificazione», sembrano influenzarsi con
un rapporto di interdipendenza proprio a questo livello. Ad esempio, è accertata la presenza di una connessione fra il sistema cannabinoide dell’encefalo ed
il sistema oppioide. La capacità del THC di provocare la liberazione di dopamina nel cervello del ratto
può essere bloccata dalla previa somministrazione di
naloxone, che abolisce selettivamente gli effetti degli
oppiacei a livello encefalico. Questo suggerisce che
alcuni degli effetti psicotropi del THC e di altri cannabinoidi possano essere indirettamente mediati dalla loro capacità di attivare il sistema oppioide, come
risulta dal dato che la liberazione di dopamina a seguito della somministrazione di THC fa seguito all’attivazione dello stesso recettore a cui si lega l’eroina 137. Anche il potere analgesico del THC risente
negativamente del blocco k-oppiodergico, e viceversa risulta potenziato dall’attivazione del sistema oppioide. Reciprocamente, la somministrazione di THC
nell’animale potenzia gli effetti antidolorifici della
morfina e degli oppiacei ad essa affini. L’interdipendenza tra i due sistemi coinvolge anche il fenomeno
della tolleranza: la somministrazione di naloxone
(l’antagonista degli oppiacei) ad animali resi tolleranti al THC ha evocato segni fisici di astinenza; viceversa, la somministrazione di un antagonista dei
cannabinoidi ad animali già eroino-dipendenti ha
provocato alcuni sintomi (ma non tutti) di astinenza
da oppiacei. Per quanto riguarda l’aspetto più interessante, dal punto di vista psichiatrico, dell’interazione tra i due sistemi, è dimostrato che, l’antagonismo del recettore CB1 (che lega il THC della cannabis) blocca l’autosomministrazione sia di cannabinoidi che di eroina; allo stesso modo, l’antagonismo
µ-oppioidergico è efficace nel bloccare l’autosomministrazione di entrambe le sostanze. A livello genetico è confermata l’importanza del tono cannabinoide
nel determinare lo svilupparsi di rinforzo attraverso il
sistema oppioide: i topi knockout per il gene del CB1
non tendono a sviluppare appetizione per la morfina
fino all’autosomministrazione, al contrario dei loro
consimili CB1-positivi 33.
CANNABINOIDI COME ANTIMITOTICI
Al pari del fumo di tabacco, il fumo abituale di marijuana è correlato ad un aumentato rischio per neoplasia maligna, in particolare carcinomi squamocellulari di testa e collo, lingua e laringe. Relazioni di
minore rilievo sono state riportate per il carcinoma
polmonare, l’astrocitoma e la leucemia linfatica acuta 10. Il campione valutato comprendeva soggetti sani
di età inferiore ai 40 anni, fumatori pluriquotidiani di
cannabis. Nel caso dei tumori squamocellulari di testa e collo, la relazione di rischio è risultata dose-di65
pendente. Numerosi case-reports, inoltre, suggeriscono il consumo di cannabis come fattore associato
a carcinomi squamocellulari nelle stesse sedi sopra
indicate 20 105.
Oltre all’azione mutagena già nota degli idrocarburi aromatici policiclici, che originano dalla combustion, l’oncogenesi può essere mediata dallo stesso
THC, che è in grado di produrre alterazione degli
acidi nucleici, ma questo stesso effetto potrebbe
fondarne l’utilità come antiblastico. In modelli cellulari, l’effetto di vari cannabinoidi (∆8- e ∆9-THC,
1-OH-pentil-THC, 1-∆8-THC e CBN) su colture
neoplastiche (carcinoma polmonare di Lewis, leucemia L120, carcinomi midollari) è quello di ridurre la sintesi di DNA, attraverso la riduzione della
captazione di 3H-timidina e 14C-citidina 148. In colture di neuroblastoma-glioma il cannabinoide sperimentale WIN55,212-2 riduce l’ingresso di calcio attraverso canali di membrana collegati ad una proteina G, indipendente dal cAMP. Il cannabinoide endogeno anandamide ha rivelato proprietà di inibizione della crescita tumorale in cellule di carcinoma
mammario 31. In vivo, l’azione antineoplastica è stata dimostrata per CBN, ∆9 e ∆8-THC su tumori impiantati nel topo, ma non per il CBD. Nei modelli
animali di tumore immunosensibile, ovvero i tumori polmonari trapiantati nel topo (carincoma di
Lewis e alveolare linea 1), il trattamento produceva
una più rapida crescita della neoplasia associata ad
un abbassamento dell’attività immunitaria Th1-mediata, come testimoniato dalla riduzione delle Th1citochine (IL1, IL2 e IFN e dall’aumento delle Th2citochine (IL4, IL10 e TGF).
Conclusioni
A presente, la prospettiva di ricerca clinica sui cannabinoidi come agenti terapeutici appare incoraggiata da
numerose evidenze sperimentali. In particolare, le conoscenze sul sistema degli endocannabinoidi, la sua
caratterizzazione recettoriale e la definizione dello
spettro di attività dei diversi composti hanno consentito il superamento di un contesto iniziale, che vedeva
la cannabis e il THC come unici oggetti di ricerca, e
reso possibile lo studio di cannabinoidi non psicotropi (CBD). Nonostante che per alcune patologie come
il vomito chemiotossico, il glaucoma cronico semplice e l’asma allergico esistano ad oggi terapie efficaci
e preferibili ai «vecchi» cannabinoidi, la ripresa della
ricerca su questi ultimi appare comunque indicata,
poiché, nel frattempo, anche le possibilità di manipolazione del sistema cannabinoide sono aumentate.
Non possono essere ignorati, d’altra parte, i risultati
delle pur limitate esperienze cliniche sull’epilessia
temporale e la neuroprotezione, ambiti in cui invece
non esistono ancora terapie soddisfacenti. Infine, a
M. PACINI, I. MAREMMANI
fronte di effetti dannosi come l’immunosoppressione,
che peraltro alle dosi anti-iporessiche non interferisce
con il decorso dell’AIDS, si profilano applicazioni clinicamente utili quali la terapia delle patologie autoimmuni. Le ipotesi d’impiego dei farmaci cannabinoidi
comprendono la stimolazione dell’appetito, in ambito
oncologico, infettivologico e psichiatrico, la terapia
antiflogistica e antiatopica, la terapia dei disturbi piramidali ed extrapiramidali del movimento e la terapia
del dolore. Per il cannabidiolo in particolare si profilano possibili utilizzi nelle terapia dell’epilessia temporale e delle sindromi distoniche, nella prevenzione
dell’eccitotossicità neuronale, e infine nel trattamento
dei sintomi negativi delle psicosi croniche. Proprio in
relazione a quest’ultima prospettiva, è curioso come a
fronte dell’interesse, pur giustificato, per patologie
psichiatriche «emergenti» quali la dipendenza da cannabis e la psicosi cronica da cannabis si profili invece
un ruolo terapeutico sulle stesse patologie, così come
è accaduto per gli agonisti degli oppioidi.
In linea con quanto indicato, si auspica che lo sviluppo di composti con potenziale terapeutico non sia indirizzato soltanto verso gli antagonisti, ma anche e
soprattutto verso la messa a punto di composti ad
agonismo tonico, che consentano la stimolazione del
sistema cannabinoide con modalità non tossica e senza potenziale di addiction, analogamente a quanto
avviene per gli agonisti oppioidi, quali il metadone e
la buprenorfina. Gli agonisti dei cannabinoidi potrebbero trovare impiego nella terapia di condizioni in
cui il sistema endocannabinoide è primitivamente
ipofunzionante o secondariamente ipofunzionante a
seguito di iperstimolazione, come nel caso dell’uso
cronico di cannabis; o ancora nella soppressione del
craving per la cannabis, attualmente non trattabile
con farmaci specifici.
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