Lo scorso 23 settembre, durante il Congresso del

Transcript

Lo scorso 23 settembre, durante il Congresso del
1
East Journal è una testata registrata presso il Tribunale di Torino, n° 4351/11, del 27
giugno 2011. Direttore responsabile Matteo Zola. Caporedattori centrali Gabriele
Merlini (Firenze), Filip Stefanović (Milano), Gaetano Veninata (Roma). Redazione Silvia
Biasutti (Udine), Davide Denti (Bruxelles), Massimiliano Ferraro (Torino), Claudia
Leporatti, (Budapest), Silvia Padrini (Torino), Pietro Acquistapace (Londra).
Collaboratori: Aron Coceancig (Budapest), Giorgio Fruscione, (Jajce) Alessandro
Mazzaro (Salerno), Valentina Di Cesare (Pescara), Gabriella Cioce (Siena), Murat Cinar
(Torino), Clara Mitola (Bucarest), Damiano Benzoni (Bucarest), Eitan Yao (Firenze), Geri
Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi
(Mosca), Jasmina Tesanovic (Los Angeles), Christian Eccher (Novi Sad), Vittorio Filippi
(Venezia), Giovanni Catelli (Praga), Giuseppe Mancini(Istanbul) Nume tutelare Petrica
Kerempuh con le sue ballate Indirizzo [email protected]
Tutti i contenuti sono concessi con licenza creative commons, citando autore e fonte.
Foto di copertina: Bolucevschi
EaST Journal - Magazine
chiuso in redazione il 15 marzo 2012
2
INDICE
#1 – Studies
«Hier ist kein warum»
Quando il mito della guerra è un elogio allo sterminio
pag. 4
di Emanuela Mercuri
#2 – Bosnia
Identità in guerra: sedici anni fa in Bosnia
pag. 14
di Emanuela Mercuri
Un referendum per la secessione dei serbi di Bosnia
pag. 17
di Valentina Di Cesare
Architettura, memoria e identità. Il caso bosniaco
pag. 19
di Matteo Zola
#3 – Energia
Gazpromenade, ovvero come si conquista l'Europa
pag. 23
di Matteo Zola
Ex Urss, il regno dei mercanti dell’apocalisse
pag. 27
di Massimiliano Ferraro
Cipro, va in scena la guerra del gas
pag. 33
di Matteo Zola
Mafia atomica, cosa c'è dietro la costruzione della centrale di Belene
pag. 36
di Matteo Zola
#4 – Elezioni in Russia
L’arrocco di Putin, tra modernizastya e restaurazione
pag. 41
di Matteo Zola
Le “confidenze” di Putin dopo la vittoria elettorale
di Giovanni Bensi
3
pag. 45
#5 – Dossier Romania
La Romania di Ceausescu e i giorni della rivoluzione romena
pag. 50
di Mauro Proni
Mineriada: 13-15 giugno 1990. Realtà di un potere neocomunista
pag.58
di Mihnea Berindei, Ariadna Combes, Anne Planche
Traduzione di Clara Mitola
Piața Universității, dove la Romania si specchia.
Dalla rivoluzione del 1989 alla rivolta degli indignati del 2012
pag. 63
di Damiano Benzoni
A est di Bucarest, un'esegesi tragicomica della rivoluzione romena
di Silvia Biasutti
4
pag. 70
5
«Hier ist kein warum1»
Quando il mito della guerra è un elogio allo sterminio
di Emanuela Mercuri
La guerra non è solo un evento infausto che deterge la normalità dell’uomo, sostituendola
con l’abisso della paura ma è anche uno degli elementi costituenti delle Istituzioni. Da
Hegel si apprende che come «Il movimento dei venti preserva il mare dalla putredine, nella
quale sarebbe ridotto da una quiete durevole 2», cosi la guerra preserva i popoli dalla
stagnazione di una pace perenne. Al contrario del connazionale Immanuel Kant che in
Zum ewigen Frieden suggeriva alcuni articoli preliminari e definitivi al fine della
costruzione e del mantenimento della pace perpetua, Hegel dichiara che non esiste alcun
organismo superiore capace di regolare né i rapporti tra stati, né di risolvere i conflitti.
L’unico giudice è Madama Storia e questa ci ha insegnato che un secolo dopo, non solo gli
stati hanno eletto loro arbitro un organismo sovranazionale, ma che tuttavia hanno tentato
di interdire la guerra tra le mura del Tribunale Militare Internazionale di Norimberga.
Tralasciando le giuste critiche al paradigma giuridico e politico di Norimberga, sorge
spontaneo esclamare «Eureka» e sostenere la virtù di Kant piuttosto che le osservazioni di
Hegel. È vero che è stato creato un sistema sovranazionale, tuttavia è pur vero, che quando
Kant sostiene:«Gli eserciti permanenti (miles perpetuus) devono col tempo del tutto
cessare» e «Nessuno stato deve interferire con la forza nella costituzione e nel governo di
un altro stato3», lascia il monopolio della ragione alla Storia di Hegel, un divenire storico
razionale nel quale i protagonisti sono i popoli stessi come espressione reale di uno Spirito
che si oggettivizza e di uno stato che è plasmato dalla guerra. È doveroso contestualizzare
le opere dei grandi filosofi e comprendere i sentimenti che in particolari situazioni hanno
spinto gli occhi degli uomini dotti a guardare oltre, specialmente quando parliamo di
guerra. Ebbene, Kant scrive Per la pace perpetua nel 1795, l’opera di Hegel è stata
pubblicata nel 1831, postuma. Ambedue hanno osservato gli sconvolgimenti della vicina
Francia4 e la guerra della Prima Coalizione contro la stessa tra il 1792 e il 17975. Il 1795 è
caratterizzato dal Trattato di pace di Basel, tra Prussia e Francia, seguiti, poi, dalla Spagna,
ma anche dall’assedio francese di Magonza (Palatinato) e della conquista di Mannheim
(Baden). Hegel, dal canto suo considerava la Rivoluzione Francese come l’introduzione
della libertà politica individuale e solo dopo la recrudescenza della violenza, si può
ipotizzare, alla luce del progresso della storia, uno Stato Costituzionale di liberi cittadini.
La necessità di comprendere quel particolare periodo storico, al fine dell’analisi, ruota
intorno a quello che lo storico britannico John Horne6 (2002) ha definito il modello del
popolo in armi che ha concepito una politicizzazione della guerra: la dottrina della
Sovranità nazionale recluta ogni cittadino in una leva di massa che sconvolge la propria
identità e persino quella del nemico. La guerra è un evento sociale, politico e religioso
«Qui non c’è un perché» in Levi Primo,(1958), Se questo è un uomo, Torino, Einaudi.
Friedrich Hegel, (2010), Lezioni sulla filosofia della storia, Bari – Roma, Laterza.
3
Immanuel Kant, (2005), Per la pace perpetua, Roma, Editori Riuniti.
4
La Rivoluzione Francese o Prima Rivoluzione Francese, distinguendola dalla Rivoluzione Francese del 1848, fu un
periodo di grande sconvolgimento politico e sociale intercorso tra il 1789 e il 1799.
5
La Prima Coalizione vedeva i seguenti schieramenti: Sacro Romano Impero Germanico, Prussia, Impero
Ottomano, Repubblica Batava, Gran Bretagna, Regno di Napoli, Regno di Sardegna, Regno di Spagna, Regno del
Portogallo, Monarchia e Realisti Francesi contro la Francia Rivoluzionaria.
1
2
John Horne, (2002) Populations civile set violences de guerre, in Revue internationale des sciences sociales,
n.174.
6
6
vissuto dagli uomini per gli uomini e il fine della Pace perpetua di Kant cosi come
l’oggettivizzazione dello Spirito in Hegel non fa altro che delineare un nuovo orizzonte di
convivenza umana. Un’utopia se lasciando il mondo delle lettere, si guarda al complesso
d’immagini reali dei conflitti dopo la Seconda Guerra Mondiale. Immagini, perché prima
che la dinamica bellica abbia inizio, oltre a una preparazione economica e strategica,
l’immaginario ha un’evoluzione spesso paranoide (la Prima Coalizione temeva l’evento
Rivoluzione, in quanto la presa di coscienza del popolo francese poteva giungere a fondarsi
come modello per i popoli europei, una reazione a catena che poteva minare il potere delle
Monarchie. Lo stato minacciato deve tener stretto il monopolio della violenza e difendere il
potere legittimo. Molti sono gli studi di carattere antropologico, sociologico e politologico
che occupandosi di conflitti hanno evidenziato la naturalezza della guerra in “zone di
confine” tra quelle che furono province dei grandi imperi europei e a seguito del
disfacimento di questi ultimi, il loro divenire Stati-Nazione. Un civilizzarsi che va di pari
passo con la decivilizzazione? Secondo Norbert Elias è cosi). Reale, perché il passaggio
all’atto bellico si fonda su una struttura razionale/irrazionale (Ideologia/Propaganda),
mobilitazione degli organi di difesa statali e parastatali (esercito/polizia/milizie popolari),
controllo dei Media, incremento della produzione dell’industria pesante. Chiunque viva in
una nazione in pace non può comprendere fino in fondo cosa vuol dire guerra, né forse
leggere i primi segni di disfatta della pacifica convivenza. Guerra, dall’alto tedesco antico7
gwarra , mischia, è un evento che potrebbe essere identificato con una spirale. Parte da un
nucleo centrale e si snoda nel suo divenire fino all’estremo atto di forza. Che cosa è questo
nucleo centrale? Contrariamente alla visione comune che vede solo due o più contendenti
in lotta, il conflitto si sviluppa inizialmente nella struttura sociale. Come accennato in
precedenza, la Rivoluzione Francese ha mostrato una nuova prospettiva delle ostilità, che
vede parimenti allo sviluppo dello Stato-Nazione, il nascere di un nuovo “esercito”, il
popolo. Prima di arrivare ad approfondire questo nucleo, è importante definire almeno
quattro stadi del fenomeno guerra:
- Stadio preistorico: la guerra è condotta per riequilibrare le risorse e tra i gruppi di
cacciatori – raccoglitori è intesa come simbolo di virilità. La “mischia” è caratterizzata da
scorrerie contro i gruppi vicini ed è raro l’omicidio. Fra le società violente, la guerra
assume il carattere del rito, con usi e costumi che tendevano a limitare la perdita di esseri
umani. Gli studi sui Boscimani, nei quali per esempio, la guerra è ignorata, hanno condotto
gli antropologi a non comprendere esattamente quale modello prevalesse nella società
preistorica8.
- Stadio antico: le guerre storiche iniziano con il costituirsi di eserciti permanenti nell’età
del bronzo (Mesopotamia). La guerra è legata allo sviluppo delle prime città stato e in
seguito degli imperi. Lo sviluppo e la specializzazione agricola concessero ai guerrieri di
emergere e costituirsi in vere e proprie élite. Dalle testimonianze storiche greche e romane,
(si veda l’opera, la Guerra del Peloponneso di Tucidide e l’Agricola di Tacito) notiamo che
la differenza della guerra antica rispetto a quella preistorica, non è sola tecnica, ma
soprattutto organizzativa e ideologica. Gli eserciti non erano solo dei difensori della terra
considerata legittima, ma avevano il compito di espandere i propri confini. Quanto allo
sviluppo tecnico/tattico si potrebbe fare un esempio. I carri da guerra rappresentavano un
problema economico, giacché il loro mantenimento costava ai guerrieri il necessario ausilio
di esperti artigiani. Perciò, spesso, i carri erano di proprietà privata. Questo implica che i
Althochdeutsch. L’alto tedesco antico è la più antica forma scritta di tedesco a noi giunta, sviluppatasi nella
Germania Meridionale.
8
Jean Guilaine, Jean Zammit, 2005, The Origins of War: Violence in Prehistory, Hoboken, Wiley-Blackwell.
7
7
guerrieri muniti di carro, non solo appartenevano alla classe più ricca della popolazione,
ma anche che all’interno della società vi era una vera e propria forma di feudalesimo.
- Stadio medievale: la società è divisa in bellantores, oratores e laborantes. L’esercito è
caratterizzato dalla cavalleria pesante e i bellantores hanno l’obbligo di seguire i mores
belli, giacché la guerra è moderata e cortese. Si afferma il carattere eroico del milite.
- Stadio moderno: dalla Rivoluzione Francese si afferma il “popolo in armi” e ciò ha
supposto lo spostamento del conflitto dalle divise dei soldati ai cittadini, minando il
tessuto economico e politico. Questo tipo di guerra mobilita la nazione e disumanizza e il
combattente e il nemico che diventa un semplice bersaglio contro il quale tendere la
propria arma. L’apice e l’evoluzione di quest’archetipo di guerra sono rappresentati dalle
due guerre mondiali. La Prima Guerra Mondiale disegna una guerra che può essere
definita semi-totale, poiché ancora distingue il fronte dalla società civile. La Seconda
Guerra Mondiale, al contrario, è una guerra totale e assoluta. Essa coinvolge tutti gli
aspetti dello stato e della nazione9.
Il guerriero acquista due identità che si contrappongono. Il termine militarismo diventa
spregiativo e questo poiché le macchine sostituiscono in parte l’azione dell’uomo nella
forza esplosiva e gli impediscono quegli atti di eroismo tipici delle guerre antiche,
eliminando gran parte del protagonismo dell’uomo. I reduci si riconoscono felici, in
quanto, da una parte essi rivedono la casa natia e ritornano alla famiglia d’origine e
dall’altra hanno combattuto per una causa comune che li ha resi accettati e legittimati da
un potere superiore. La seconda identità: l’uomo che diviene macchina per uccidere
indiscriminatamente e non solo sui campi di battaglia e per farlo ha bisogno che
“qualcuno” lo legittimi. L’uomo perde il suo eroismo, un eroismo che lo rendeva un
tutt’uno con l’arma che imbracciava e che rispettava. Per fare un esempio, la spada aveva
un valore anche sacro. Essa era utilizzata per investire l’individuo di un particolare titolo o
come oggetto religioso in particolari momenti di sconforto o ispirazione divina. La spada
nella roccia di San Galgano ne è un esempio, o ancora, per citare un’investitura seppur
voluta dal Caso/Dio, l’epica incentrata sulla figura di Re Artù. L’altra identità è un uomo
qualunque, un individuo moderno che assiste ai mutamenti del mondo a volte inerme a
volte con manie di protagonismo che lo spingono alla sublimazione dell’aggressività in
nuovi idoli, quali gli sport violenti o tendenti a imitare l’evento bellico (softair, per citarne
qualcuno). Partendo dalla figura dei reduci, è fondamentale l’analisi di George Lachmann
Mosse10 (2005). Lo storico chiama brutalizzazione dei rapporti sociali il diffondersi senza
limiti della violenza tra le masse, come conseguenza della Grande Guerra. Di quale
brutalizzazione stava parlando? Il risentimento che si è esteso sino al più piccolo nucleo
della società tedesca a seguito del Trattato di Versailles interpretato come una sconfitta.
Adolf Hitler ha saputo ben cogliere la palla al balzo, e il “noi” del popolo salvatore,
dell’onnipotenza tedesca che si erano macchiati di sconfitta, ha subito una trasmutazione
di valori incarnata nella potenza esistenziale della razza ariana. Esistenziale è un concetto
opposto alla semplice teoria. Esistenziale oppone un carattere oggettivo a ciò che è
puramente astratto. Siegfried ha lasciato i miti norreni e le sinfonie di Wagner e ha scelto
Il Distinguo tra Stato e Nazione in questo frangente è doveroso, giacché oltre a seguire il pensiero di Ernest
Gellner, secondo il quale “la nazione è un’invenzione dei nazionalismi”, nella IIWW, la Nazione diventa il baluardo
della razza e la giustificazione per i grandi massacri del Novecento. È giusto un rimando al “diritto di
autoaffermazione dei popoli” di Woodrow Wilson. Secondo tale principio i confini degli stati dovevano essere
tracciati per etnia. È utile tener presente questo concetto cosi da comprendere sin dove la politica e il diritto possono
spingersi e dove si fermano: l’uomo.
10
George Mosse L., (2005) Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, Bari – Roma, Laterza.
9
8
come sua casa la cancelleria di Berlino. La comunità degli ariani era chiamata a governare
l’Europa. Il secondo paradigma si snoda tra vittime e carnefici e nel nuovo paradigma dei
guerrieri ideologici11. Nella Seconda Guerra Mondiale la porpora degli eroi si rimanifesta
immanente, nonostante lo sviluppo tecnologico ma insieme con essa, l’aggressione
maligna12in ingegnose elaborazioni di uccisione, tortura e purificazione. In questo
frangente, l’abilità degli intelletti nel trasformare l’angoscia in paura si dimostra essere un
terreno fertile per l’elaborazione e la catarsi dei miti. L’angoscia è un sentimento non
diretto verso un qualcosa in particolare. Il termine angoscia è stato utilizzato per la prima
volta in termini filosofici da Søren Kierkegaard13 (1844) con il quale il pensatore danese
identificò la condizione che emergeva quando l'uomo si poneva davanti a una scelta. Non a
caso diciamo: “sono angosciato per”. L’uomo è conscio che una scelta positiva significhi
milioni di scelte negative. L'angoscia è definitiva come il sentimento della possibilità. La
paura, invece, è indirizzata verso qualcosa di reale o supposto e a differenza dell’angoscia,
l’uomo agisce attivamente o passivamente. La scelta si presenta possibile, ignorando anche
le proprie responsabilità. Esempio, “ho paura dei cani, evito di prendere un cane, o fuggo
alla vista dei cani”. Nuovi eroi e paura. Fromm viene in aiuto per comprendere
l’aggressività umana e il suo slittamento al massacro. E allora, l’uomo ha bisogno di avere
uno schema di orientamento e un oggetto di devozione; bisogno di mettere radici
attraverso dei legami con gli altri; bisogno di essere efficace; bisogno di stimolazione ed
eccitazione; bisogno di creare unità con il mondo esterno e soprattutto con se stesso;
bisogno di esistere. Questi parametri e la volontà o necessità di esistenza devono volgere
esclusivamente al massacro? Perché la guerra può essere sentita nel o dal tessuto sociale
come propria? Pessimum facinus auderent pauci, plures vellent, omnes paterentur,(il
peggior crimine fu osato da pochi, molti lo vogliono, tutti lasceranno che avvenga), tuonava
Tacito14. Pochi, i leader stessi possono definire e far esplodere il conflitto. Molti, i leader
hanno bisogno di mitopoiesi e della propagazione dei miti scientifici tra le masse, ergo, il
sostegno delle religioni e degli intellettuali sembra di vitale importanza. Tutti, il popolo
assimila, grazie all’ausilio della propaganda, il conflitto. Come? Il “noi” si differenzia dal
“loro”, l’ego dall’alter. Semplici e pure differenze. È normale allora chiedersi: i tedeschi
volevano eliminare gli ebrei? L’argomento appare scontrarsi sul piano della coscienza e
l’ideologia mescolata alle difficoltà in cui versavano i tedeschi dopo la crisi del 1929 paiono
essere molto più plausibili, di un semplice delirio orgiastico. L’incarnarsi della violenza
segue uno sviluppo di abitudine e anche, quindi, di socializzazione con la violenza, come se
la medesima fosse una pratica normale, oltre che un dovere o un diritto. Come riferimento
al primo, si ritorna all’importanza della legittimazione da parte di chi è ritenuto il
detentore di un potere superiore che incarna il sacro. Il 12 ottobre 1941, non avendo potuto
uccidere il numero predestinato di ebrei, Friedrich Wilhelm Krüger, Comandante
superiore delle SS e della Polizia per il Governatorato Generale, disse: «Chi è ancora vivo
può tornare a casa, il Führer vi ha fatto dono della vostra vita»15. Questa frase spingerebbe
chiunque abbia un minimo di senno a sostenere che il carnefice si concepisca come un Dio
e nella logica del partito nazista, il Führer era lo stato e lo spirito del partito. In quest’ottica
messianica, dove il fanatismo vestiva ambiguamente di un’aura di setta il gruppo e
Si vedano per approfondimenti, i lavori di Dieter Pohl. Consiglio alcuni siti: http://www.ifz-muenchen.de;
https://portal.d-nb.de.
12
Erich Fromm, (1983), Anatomia della distruttività umana, Milano, Mondadori.
11
13
14
Sören Kierkegaard, (2007), Il concetto dell’angoscia, Milano, SE.
Tacito Publio Cornelio, (2005), Le storie, Milano, Garzanti.
15
9
Dominique Vidal, (2002), Les historiens allemands relisent la Shoah, Paris, Éditions Complexe.
vampirizzava lo stato nella soluzione finale, la frase: «Ho obbedito agli ordini!» non solo
evidenzia un individuo rispettoso della gerarchia, ma nel caso di specie, la guerra, vi è una
manipolazione della personalità. Di là di ogni giudizio personale e morale, si deve riflettere
sul ruolo di un soldato qualunque. Il suo ruolo è obbedire agli ordini dei superiori,
garantire la difesa e portare avanti il programma prefissato. Si può semplificare per
comodità il tutto. Si noti come egli stia facendo il suo lavoro, cosi come un qualsiasi
sottoposto in un ufficio amministrativo, oppure in un supermarket. S’immagini che in uno
dei peggiori mondi possibili, all’interno di una catena di supermarket, un uomo d’affari
qualunque decida di vendere armi e che a causa del prezzo elevato o per via di un cliente
che ha differenti principi etici si manifesti disordine, con malcontento iniziale
caratterizzato da lamentele, manifestazioni prima pacifiche e poi violente. Tra i sottoposti
vi sono tre soggetti: A favorevole alla vendita, B che risponde negativamente, ma che tiene
al suo posto o che non ha semplicemente fegato per ribellarsi e infine il soggetto C che
insorge, qualsiasi sia il prezzo da pagare. In questo gioco, moltiplicato per il totale degli
impiegati, vediamo A e B mantenere il proprio posto di lavoro. C sarà licenziato. A e B
mostrano un carattere comune: giustificano le loro azioni con la “propaganda” del fare il
proprio mestiere, attribuendo alla vendita una scelta personale, giustificata e dall’abitudine
a quel mestiere (si socializza con il clima lavorativo sul versante orizzontale, tra colleghi e
tra impiegati e clienti) e dal rispetto verso chi remunera il loro lavoro (interiorizzazione
dell’ordine impartito dall’alto. Il sistema regola i rapporti tra se stesso e i suoi membri).
Che cosa accade dal momento in cui acconsentono a vendere, nonostante il gran disordine
che si crea nella clientela (massa)? Non c’è solamente un tempo antecedente alla decisione
e un dopo che è la pratica della vendita, ma il tutto si trasforma e muta la psiche stessa del
venditore. In che modo? Razionalizzando ciò che il superiore ordina poiché è giustificato o
dal credere realmente in quello che si sta facendo (soggetto A) o dalla volontà di mantenere
il proprio posto di lavoro (soggetto B). Insieme essi sono portati a lavorare per la causa
finale, la vendita, non importa cosa pensano, (smettono di pensare?) e la retribuzione
(premio), altra faccia della vendita, è la legittimazione al loro lavoro. È possibile? Hannah
Arendt, nel testo Le origini del Totalitarismo ci dice di si e nella Banalità del male ci invita
a riflettere sul caso Eichmann come una inability to think. Sconvolti da ciò che succede, i
clienti possono adeguarsi o “abbandonare il gioco”. In questi tre casi, A, B e clienti si
manifesta un annientamento della propria coscienza. Come? Attraverso la zona grigia. Il
termine è stato introdotto da Primo Levi per definire quel dispositivo che spinge tutti quelli
che in differenti modi collaborano al funzionamento dell’industria del potere. «È una zona
grigia, dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e
dei servi. Possiede una struttura interna incredibilmente complicata, e alberga in sé quanto
basta per confondere il nostro bisogno di giudicare.»16 Con una nota di amarezza, gli occhi
umani vedono che in tale sistema, vittima e carnefice, secondo il grado di responsabilità
dell’ultimo, tendono a identificarsi nell’ispido terreno dello schema proposto. Il soggetto C,
colui che insorge, può rappresentare da un lato colui che facente parte del sistema decide
di tirarsene fuori agendo all’interno di esso e giudicandolo come negativo per sé e per la
collettività. Il prezzo da pagare è uscire dal gioco con una punizione (la perdita del lavoro),
giacché egli non gioca secondo le regole e incrina l’ordine precostituito, divenendo, forse,
istigazione per chi cova la ribellione. Dall’altro egli può rappresentare l’opinione pubblica
esterna al supermarket, osservatori che possono decidere di ignorare, ritenendo assurdo e
irreale ciò che accade in quel dato sistema, oppure prendere coscienza e realizzare
attraverso prove tangibili ciò che accade, giudicando e muovendosi con i mezzi a loro
disposizione. Ora, questo gioco può essere di riflesso sul campo di battaglia, immaginando
16
10
Primo Levi, (2007), I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi.
il soldato e le masse che vivono il conflitto, visualizzando vittime e carnefici. Gli esecutori
degli ordini superiori si sbizzarriranno nel ristrutturare le rappresentazioni della realtà per
trovare una condotta idonea che possa da un lato mostrare eccellenza e quindi, rendere il
superiore fiero e dall’altro giustificare le loro azioni. Tornando al mondo delle streghe dei
soldati e della società nazista, gli individui si trovavano dapprima in uno stadio di
fantasiosa improvvisazione per far contento il Führer, agendo dunque di propria iniziativa.
Dopo l’invasione della Polonia nel 1939, i soldati tedeschi erano dediti a continue scorrerie
che lasciavano dietro oltre che vittime, un’onta sulla Wehrmacht. Il Maresciallo Georg von
Küchler comunicò questa condotta a Hitler, ma egli amnistiò tutti, tanto da estendere
“legalmente” un clima d’impunità per tutti quelli che purificavano il popolo dal virus
giudeo-bolscevico, permettendo automaticamente la creazione e l’espansione dello spazio
vitale. Allora, ritroviamo qui alcuni caratteri:
- L’ideologia è stata interiorizzata e resa idea personale (i soldati sono convinti di servire
una giusta causa e la causa è esplicata nella propaganda);
- A seguito della comprensione dell’idea alla quale sono chiamati, improvvisano gli ordini
del superiore, cercando egoisticamente i suoi favori;
- Eseguire gli ordini deresponsabilizza;
- Il superiore legittima i loro atti, estendendo il campo ideologico con l’impunità. Ergo, i
soldati comprendono che ciò che stanno facendo è moralmente giusto.
- Si specializzano nell’azione psicologicamente. Nell’evoluzione del conflitto, le ragioni
date prima (il prima dei sottoposti del supermarket) non valgono più nell’estensione
dell’atto. C’è differenza tra il pensare di uccidere e farlo realmente. Dapprima ci sono
disgusto e disprezzo, sensi di colpa forse. Poi, l’incontro con l’altro, umanizza il carnefice e
disumanizza la vittima. A non considera B un essere umano (l’ausilio di termini spregiativi
nei conflitti è conosciuto, nel caso nazista, ratti, pulci) e sente con mano la vita dell’altro
che scorre attraverso l’arma. L’aggressore è onnipotente perché può decidere di dare e
prendere la vita altrui e nello stesso tempo egli è un essere animato, rispetto alla vittima
che poiché inferiore, attraverso la tortura diviene sostanza inanimata.
- Si specializzano nell’azione tecnicamente. Possono ricorrere all’ausilio di droghe o
sostanze alcoliche per sopportare e supportare l’atto. Il modus operandi si sviluppa per
errori e via via diviene sempre più preciso. Nelle fucilazioni è imposto alla vittima di
voltarsi oppure ricoprono il capo con un cappuccio, o semplicemente gli occhi con una
benda, cosi che il carnefice non possa intravedere un barlume di umanità nei loro occhi. Le
vittime sono raccolte in massa, come bestiame, cosi da annullare la loro individualità,
divenendo numeri e quantità indefinite (gli ebrei destinati ai campi di sterminio erano
definiti “unità” e/o “carico”). I carnefici possono scaricare su altri i loro compiti. Un
esempio sono i Sonderkommandos, unità speciali, costituite da deportati ebrei e non,
obbligati a lavorare fianco a fianco con le unità delle SS nei campi di sterminio. I detenuti
distruggevano loro stessi17. La struttura industriale creata per lo sterminio mostra una
dinamica interessante che si ricollega improvvisamente con la responsabilità dei carnefici.
L’individuo che compie la strage passa dal premere il grilletto al gas e alla gestione dei
Per un approfondimento, non solo didattico, ma anche umano, vorrei citare il film di Tim Blake Nelson, (2001)
La zona grigia, basato sulle memorie di Miklos Nyiszli, "Auschwitz: A doctor's eyewitness account". Per le
versioni in lingua italiana, Miklos Nyiszli, (2008) Sono stato l’assistente del dottor Mengele, Lecce, Zane.
17
11
mezzi di trasporto e dei campi. Questi ultimi rappresentavano un vero e proprio organismo
industriale, dove i deportati lavoravano (in condizioni disumane) e trattati come scarti (i
campi di concentramento, contrariamente a quanto si pensi, non erano tutti dedicati allo
sterminio di massa, in altre parole, si rileva, per non incorrere in maldestre definizioni e
incomprensioni, i lager erano specializzati per detenuti e per funzione economica. Si
consideri, per semplicità, i Krankenlager, campi dove erano rinchiusi i malati e lasciati
morire di fame e freddo. Bergen-Belsen, per esempio. Il tristemente famoso Auschwitz era
un campo dedicato alla distruzione degli internati. Nella maggior parte dei campi, i
detenuti politici, individui considerati deviati, quali omosessuali, artisti, zingari etc. erano
obbligati a lavori degradanti e inutili, spesso ripetuti più volte al giorno col fine di piegare
lo stato psichico. Le condizioni climatiche, igienico - sanitarie e la fame facevano il resto.
Gli individui considerati forti e abili al lavoro erano impiegati nell’industria pesante e/o
nell’industria di lavorazione e trasformazione dei prodotti di attività primarie o ancora
sulle navi. Il processo a Doenitz a Norimberga è illuminante.) Lo stato e la sua ideologia
divengono un’impresa dedita alla distruzione. Questa descrizione spinge a riflettere sulle
responsabilità dei carnefici. Come in precedenza, il guerriero si riconosce nella propria
arma che gli permette di difendersi ma anche di compiere gesta eroiche. Con l’evoluzione
degli armamenti si assiste a un’esecuzione seriale che provoca l’astrazione dell’atto. Chi
accoltella, utilizza il proprio corpo nello sferrare il colpo fatale e più spinge, più sente la
vita dell’altro scorrere. In termini di responsabilità, questa procedura può causare una vera
e propria dissociazione mentale, giacché, dai pentimenti, che si possono ricercare nei
manuali o nelle testimonianze delle procedure penali, da parte di assassini seriali, o dei
“boia”dei tribunali ad hoc per l’ex Jugoslavia e per il Ruanda, si leggono segni di
confusione tra la prima identità (uomo comune, per esempio un padre di famiglia), la
seconda (assassino, ed è pronunciata la domanda: che cosa ho dovuto fare? Interessante
nel definire l’atto come obbligo, solo se vi è un ordine legittimo) e la terza (detenuto,
impossibilitato nel comprendere il perché). Tuttavia, non tutti gli assassini vivono questo
sconvolgimento psichico. Il progresso tecnico in ambito bellico (e non solo) è partito dalla
polvere da sparo ed è terminato con le guerre tecnologiche del ‘900 e la Pax atomica. La
paura di conflitti atomici ha limitato le guerre e gli stermini? No, si è semplicemente
passati a una nuova forma di conflitto, definita umanitaria. Madama Storia ha insegnato
che gli uomini sono capaci di atti di grande bontà commisti ad azioni di estrema violenza.
Ingenti quantità di papiri e carta si sono dedicate al tema della guerra, descrivendola
tatticamente e umanamente, quando esaltandola, quando deplorandola. La guerra colpisce
ogni aspetto della vita e dell’immaginario collettivo. Le guerre del ‘900 hanno invece
mostrato come la prosecuzione della politica18 abbia abbandonato i campi di battaglia e sia
divenuta realmente una guerra di tutti contro tutti. Generalmente le guerre erano
precedute da una Dichiarazione. Le alleanze militari fra Stati obbligavano i firmatari a
entrare nel conflitto e se una nazione violava la neutralità e l'integrità territoriale, i patti di
mutua assistenza militare propagavano rapidamente le dimensioni dei conflitti. Il conflitto
doveva partire da uno specifico evento, il casus belli ma periodi di tensione e crisi nella
struttura sociale e nell’incompatibilità di obiettivi non risolvibili con la diplomazia tra i
contendenti, ne costituivano le fondamenta. Un esempio, l’attentato all’arciduca Francesco
Ferdinando a Sarajevo, che giustificò la dichiarazione di guerra dell’Austria alla Serbia,
18
Karl von Clausewitz, (2007) Della guerra, Torino, Einaudi. Il teorico militare sostiene nella sua opera:
«La guerra non è che la prosecuzione della politica con altri mezzi. La guerra non è dunque, solamente un atto
politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri
mezzi».
12
scatenò la Grande Guerra. La IIWW ha annunciato la possibilità di uno Stato che
possedendo il monopolio della violenza può scegliere il democidio e lo sterminio dei gruppi
considerati nemici. La guerra cortese combattuta e decantata nei poemi dell’antichità ha
assunto il volto del massacro e della disumanizzazione, procedendo nell’impossibilità di
concepire una generale responsabilità di fronte alle vittime. La guerra mitica è stata
sostituita dalla lotta dei sopravvissuti ai grandi massacri ai quali rimane solo la memoria e
la necessità di ricostruzione si mescola inevitabilmente con gli orchi della zona grigia. I
Tribunali Internazionali elaborano nuovi dati al pari degli intellettuali ai quali spetta
l’ardire di comprendere “perché” scavando nella mente dei protagonisti. Si può tentare di
disegnare sotto molti profili una risposta, passando dallo strategico, scientifico e
tecnologico a quello religioso, mistico-sacrale. Vi può essere una risposta univoca e
soprattutto umana che dia una regola di debellatio a quell’infido gioco che è lo sterminio?
Ne sono la prova, la paranoia crescente dopo l’attentato alle Twin Towers e le difficoltà in
cui tuttora versano la Bosnia Erzegovina, il Kosovo, il Ruanda e molti altri Stati.
Menzionarli tutti ha solo importanza al fine dell’elencazione, poiché è doveroso che gli
esseri umani conoscano le condizioni in cui versa parte di loro. I signori della guerra hanno
imbastito bene delle idee che ciclicamente si ripresentano, una cancrena che forse,
neanche l’auspicata pace perpetua del filosofo di Königsberg può guarire. E allora, se la
volontà di prevenire è svanita nel nulla, che cosa possiamo fare? Proteggere? La volontà di
proteggere le masse inermi è forse finita prima di partire, con la nuova concezione di
guerra umanitaria. La pace non è compresa e non è attuabile solo con un trattato. La
differenza tra pace e guerra, intese in senso lato, vige proprio nella regolazione e nel
piacere della seconda rispetto alla prima. La pace è solamente una mancanza di ostilità.
Claude Levi-Strauss19 (1997) sosteneva che «il barbaro è colui che ama la barbarie» e allora
forse Eros non è altro che un’altra faccia di Thanatos e viceversa e il bisogno dell’uomo di
essere efficace ed esistere sulle altre creature animate vince sull’Io. Nikolaas Tinbergen,
Premio Nobel per la Fisiologia e la Medicina, disse dell’uomo: «Da un lato, l’uomo è affine
a diverse specie animali, poiché combatte i propri simili. Ma dall’altro, egli, fra le migliaia
di specie in lotta, è l’unico che combatta per distruggere. La specie umana è l’unica che
pratichi l’omicidio di massa, pesce fuor d’acqua all’interno della propria società»20. In
questo quadro “naturale” si specchia l’esperienza storica dei massacri. In natura sussiste e
persiste la legge del più forte, a fronte della necessità dell’autoconservazione della specie.
Si manifesta un interrogativo pedagogico e filosofico: l’uomo deve imparare adesso a
“disobbedire”? Un uomo italiano, proveniente da Torino, il cui cognome richiamava le
origini ebraiche, è deportato e inviato in un lager. Giunto a destinazione, nell’osservare le
sfortunate condizioni nelle quali versavano i suoi colleghi, chiede quale senso abbia
sfruttarli, considerando che il fine era l’epurazione. Lucido nella domanda, in una fredda e
abissale razionalità, nell’attesa del suo turno, chiedeva una spiegazione. La risposta
sarebbe potuta essere un richiamo frettoloso all’ideologia? Un ordine superiore? Semplice
odio? Un soldato tedesco, senza remore, rispose: «Hier ist kein warum!», qui non c’è un
perché.
–
Emanuela Mercuri ha conseguito la Laurea in Studi Internazionali, Facoltà di Scienze Politiche con la tesi
“Norimberga: coscienza storico internazionale dei crimini di guerra, contro la pace e contro l’umanità”. Ha
proseguito la formazione indirizzata agli studi classici e politici, con particolare interesse verso l'analisi
storico - sociale delle guerre e dei crimini. Tra le varie esperienze lavorative, ha gestito le relazioni esterne
dell'Associazione Italia - Bosnia Erzegovina. è prossima alla Laurea Magistrale in Scienze del Governo e
dell'Amministrazione.
19
20
13
Claude Levi-Strauss (1997), Razza e storia e altri studi di antropologia, Torino, Einaudi.
Erich Fromm, (1983), Anatomia della distruttività umana, Milano, Mondadori.
14
Identità in guerra: sedici anni fa in Bosnia
di Emanuela Mercuri
Il ventesimo secolo è stato un tempo in cui
l’immaginario di distruttività ha trovato un
terreno fertile dove far germogliare gli
effetti devastanti di alcune ideologie. A tale
proposito, vorrei citare il pensatore
britannico Eric J. Hobsbawm: «Il Secolo
breve è stato un'epoca di guerre religiose,
anche se le religioni più militanti e assetate
di sangue sono state le ideologie laiche
affermatesi nell'Ottocento, cioè il socialismo
e il nazionalismo, i cui idoli erano astrazioni
oppure uomini politici venerati come
divinità.» Hobsbawn utilizza il concetto di
Secolo Breve per definire il Novecento come
un “momento” di enormi cambiamenti e
nelle Scienze e nella condizione del genere
umano. È da questi profondi cambiamenti,
che paiono regolati paradossalmente dal
disordine scaturito dall’impotenza della
ragione che parte la mia riflessione.
Memore delle immagini onnipotenti dello
scenario bellico che le tv nazionali e
internazionali mostravano dei Balcani e
delle testimonianze della gente comune,
l’identità
sembra
essere
legata
misticamente al sacrificio. Massacro,
genocidio e pulizia etnica, i termini usati
per attribuire un nome a una lezione
cruenta che abbiamo lasciato ai libri di
Storia Contemporanea e di Diritto
Internazionale. La storia della Bosnia non
finisce, tuttavia, riponendo un libro nel
cassetto.
Il
26
marzo
2010,
l’International
Commission on Missing Persons (ICMP) ha
comunicato l’identificazione di 6414 vittime
in un range di 13.000 Dna del solo
massacro di Srebrenica. Altre salme
esumate attendono di essere identificate.
Nel 1995, le forze serbo-bosniache guidate
dal Generale Ratko Mladic uccisero migliaia
di uomini e ragazzi musulmani bosniaci
(bosgnacchi). Il 31 marzo 2010 la Serbia
chiede perdono per non aver fatto
abbastanza nel prevenire il massacro.
15
Jacques Semelin ci ricorda che nel
Medioevo il termine era usato per definire
la messa a morte di animali destinati a
divenire cibo e il termine Olocausto
definisce il sacrificio di animali caro agli dei
nell’antica religione greca ed ebraica. Che
cosa continuano a mostrare le salme senza
nome, le informazioni che ci giungono? Che
cosa possono spiegarci gli occhi dei Balcani
sui conflitti che negli ultimi mesi
osserviamo impotenti? L’anima di un
popolo è sconvolta, offesa, disorientata
nella propria identità.
Il concetto d’identità pare essere definito
dall’esistenza di un altro termine con il
quale l’uno si pone in relazione con l’altro e
dal quale percepiamo ciò che ci rende unici
e puri: le differenze. Non è dunque
percepibile in termini generali come nome,
cognome, età. Non solo. Dagli antichi culti
misterici, sino ad arrivare alle analisi svolte
da alcuni antropologi, dei quali cito il lavoro
eminente di Mary Douglas, Purity and
Danger, la contaminazione del corpo
individuale è la metafora dell’inquinamento
della struttura sociale. Tornano subito in
mente, allora, le leggi razziali del Terzo
Reich. Tuttavia, se per i nazisti la
concezione della purezza della propria
identità d’Ariani era incarnata dalla
perfezione organica e dalla conformità
ideologica, le quali non concedevano via di
scampo a tutti quelli che erano corrotti nella
salute e deviati psicologicamente o
intellettualmente, nell’ex - Iugoslavia
s’intravede qualcosa di mitico: la purezza
dell’Ethnos. L’etnologo Ivan Čolović rileva
che i miti politici serbi invitano a tornare
“all’identico sangue eterno” la cui culla si
troverebbe nella terra sacra del Kosovo, ove
il 15 giugno 1389 del calendario giuliano (28
giugno calendario gregoriano) la battaglia
della Piana dei Merli decretò la fine della
libertà del Regno di Serbia, con
l’asservimento degli apparati militari e
l’annessione, infine, all’Impero Ottomano
cento anni dopo.
Questo risentimento per una comune
identità, proiettata sulla paura e l’angoscia
delle masse, è diventata politica? Il secolo
breve ci insegna che lo è stato. Per costruire
l’impalcatura del discorso politico non
occorrono solo uomini dei quali il grande
carisma li ha resi profeti agli occhi del
popolo, occorrono in particolar modo le
bocche della conoscenza, in altre parole gli
intellettuali. In quale modo menti raffinate
dalla cultura possono supportare il
fanatismo ideologico? Sono forse delle
menti disturbate? Quante volte, abbiamo
sentito dalla voce dei nostri nonni che
ribellarsi al dittatore significava morte
certa? Quante volte, guardando la
televisione, leggendo i giornali, sbirciando
notizie qui e là, dai Balcani al Medio –
Oriente, dalle dichiarazioni di alcuni nostri
stessi politici, pronunciamo con sconcerto:
“è paranoico!” certo, un Freud avrebbe
annuito. Gli stati sono governati da pazzi? Il
popolo è un gregge che accetta
pacificamente il macello? Il processo
d’innesto
di
un’identità
attraverso
l’ideologia è molto complesso. In Iugoslavia,
un ruolo chiave è svolto dal “Tolstoj serbo”,
Dobrica Ćosić.
Nei romanzi che l’hanno reso celebre,
racconta le tribolazioni dei serbi durante le
due guerre mondiali. E ancora, creatore del
Comitato per la libertà di pensiero e di
espressione, si batté per difendere tutti
quelli che fossero perseguiti per delitti di
opinione. Lo scrittore sembra essere una
figura tanto espressiva quanto complicata
della lotta al totalitarismo. Al suo ingresso
all’Accademia delle Scienze e delle Arti di
Belgrado, si pronunciò a difesa del popolo
serbo, con le celebri parole: “I Serbi hanno
sempre vinto la guerra e perduto la pace.”
Dall’Accademia delle Scienze partì il triste
Memorandum
che
divenne
guida
d’orientamento per Slobodan Milošević e
Radovan Karadžić Nel 1993, come
Presidente della Repubblica Federale
16
Iugoslava, Dobrica apparve sulle tv serbe,
comunicando la richiesta da parte dei
governi occidentali di porre fine al conflitto.
La sua posizione, così come cita il Time
Magazine dell’epoca (25 gennaio 1993) fu:
“Se non accettiamo, saremo messi in campi
di concentramento e attaccati dagli eserciti
più forti del mondo. Queste forze esterne
sono determinate a subordinare il popolo
serbo all’egemonia musulmana”. Milošević
dal canto suo, dopo aver sostenuto
militarmente i serbi di Bosnia nella
sanguinosa guerra civile, trovatosi sempre
più isolato dalla comunità internazionale,
decise di negoziare le trattative di pace per
mantenere le conquiste territoriali acquisite
negli anni della guerra. Con il mandato del
Governo Iugoslavo, fu protagonista delle
trattative di pace di Dayton che decretarono
la fine delle ostilità in Bosnia Erzegovina,
per poi essere, nel 2001, arrestato a
Belgrado. Nel 2000, il mentore della Serbia
celeste, si unì all’Otpor, un’organizzazione
anti – Milošević e ancora nel 2010 le sue
dichiarazioni erano inclini a supportare le
azioni dei serbo-bosniaci guidati da Mladic.
Come osserva Jean Hatzfeld, l’istruzione
non rende l’uomo migliore, lo rende
semplicemente efficace. Chi vuole ispirare il
male o il bene sarà avvantaggiato perché
conosce le manie dell’uomo, la sua morale e
se il suo cuore è pieno di odio o
risentimento, allora diverrà pericoloso.
Forse, non dovremmo meravigliarci se la
barbarie del genocidio sia potuta scaturire
come un fiume in piena, ma ben
organizzato nel proprio letto, in Germania o
nei Balcani. A sedici anni da Srebrenica,
ritornano gli stessi interrogativi, che a mio
parere sono assimilabili agli eventi, dei
quali siamo spettatori spesso incoscienti,
sulla Striscia di Gaza: Chi siamo? Chi è
l’altro? I sentimenti di diffidenza si
mescolano troppo spesso al desiderio di
dominazione e d’insicurezza. I miti e le
favole ci insegnano che tali sentimenti
spesso sono avvisaglie di eventi futuri che
sono guidati, oltre che da risentimenti e
dalla fedeltà agli antenati e alla propria
storia, da menti lucide che coordinano
l’angoscia dei popoli. In questo frangente
entra in gioco il “nostro” essere spettatori,
terzo termine più necessario di quello che
pensiamo. Alcuni giornalisti e militanti
denunciarono le strutture per i detenuti in
Bosnia,
definendoli
campi
di
concentramento. Molti giornalisti e attivisti
per i diritti dell’uomo nel profondo Est
dell’Europa (non occorre una lista e non
occorre espandere l’analisi di quei fatti, che
magari saranno trattati più in là) a seguito
delle loro analisi e denunce, sparirono
nell’ombra oppure morirono e solo poche
volte e sempre da parte dei loro colleghi, si
è parlato di omicidio. Un mese fa, è stato
assassinato l’attivista Vittorio Arrigoni.
Alcuni testimoni al processo di Norimberga
sostennero di aver saputo dell’esistenza e
dello scopo reale dei lager nazisti. Il ruolo
del terzo è importante nella relazione
carnefice/vittima.
Come?
Il
terzo,
17
mostrandosi solidale, diventa ambasciatore
di fratellanza e di coscienza, nella
costruzione di una nuova opinione pubblica
e questa può divenire il freno allo sviluppo
della violenza. L’identità dell’uomo in
guerra è un processo complesso che non
riguarda solo la legge, bensì il diritto umano
all’obiezione di coscienza e alla resistenza. E
dal secolo breve, il Novecento, si trae la
conclusione che l’uomo è passato da uno
stato di obbedienza assoluta a un risveglio
necessario della propria responsabilità. E
questa responsabilità, incline a voler
difendere i diritti dei nostri vicini, sarà più
forte del nostro istinto di morte? Sarà più
forte dell’insicurezza politica, economica,
spirituale?
Rimando all’anima del pensiero di Don
Luigi Sturzo: l’individuo deve scegliere da
sé se seguire la propria coscienza da
cittadino o da credente.
Un referendum per la secessione dei serbi di Bosnia
di Valentina Di Cesare
Alla metà di febbraio le autorità della
Repubblica Serba di Bosnia Erzegovina,
hanno approvato una controversa legge che
potrebbe aprire la strada ad un referendum
sulla secessione dal resto dello stato. La
Repubblica serba di Bosnia insieme alla
Federazione di Bosnia Erzegovina e al
distretto di Brcko sono parte dello stato
federale bosniaco, ma le tre unità
presentano alcune differenze di carattere
amministrativo, e sono inoltre almeno nei
primi due casi l'espressione delle etnie
maggioritarie: quella bosgnacca e quella
serba. L'annuncio del possibile referendum
ha allarmato la Comunità Internazionale.
Per molti anni il Presidente della
Repubblica Srpska, Milorad Dodik, non ha
nascosto l'intenzione di iniziare un processo
di separazione dalla Federazione Bosniaca e
secondo molti gli alti Rappresentanti per
l'Unione Europea succedutisi in Bosnia
dopo il conflitto avrebbero assunto un
atteggiamento troppo distante e quasi
indifferente rispetto alle mire di Dodik. Il
primo ministro ha sostenuto di aver
promosso
un
referendum
legittimo,
trattandosi di un argomento molto
importante per i serbi di Bosnia e
aggiungendo
inoltre
che
molte
consultazioni elettorali europee vengono
promosse
per motivi anche meno
importanti, riferendosi ad esempio al
referendum sui minareti in Svizzera. Prima
della guerra del '92-'95 la Bosnia
Erzegovina era uno piccolo stato unitario,
con un solo accesso sul mare nella città di
Neum. Gli era riconosciuto dall'allora
Federazione Jugoslava il merito di
accogliere al suo interno una grande varietà
di etnie con consistente maggioranza di
bosgnacchi,
i
musulmani
bosniaci
riconosciuti dallo stato come etnia
maggioritaria nel 1961. L'islamismo,
d'altronde, per note motivazioni storiche (la
conversione della setta cristiana dei
Bogomili all'Islam durante l'invasione turca
18
del 1500) è da considerarsi un elemento
imprescindibile della cultura bosniaca, da
non tenere a mente soltanto in un'ottica
religiosa.
Numericamente ai bosgnacchi seguivano i
serbi (ortodossi), dunque i croati (cattolici),
seguiti a loro volta da piccole minoranze
come quelle italiana, austriaca ed ebraica.
Le opinioni sulla convivenza delle varie
componenti etnico-religiose prima dello
scoppio
del
conflitto
sono
molto
controverse. Taluni descrivono quella
longeva convivenza quasi come fosse stata
l'archetipo di uno stato ideale e multietnico;
nonostante i musulmani bosniaci fossero la
maggioranza, il numero dei matrimoni
misti era assai elevato (si stima circa al 25
%) e i maggiori gruppi etnici convivevano
senza grosse difficoltà. Altri invece
sostengono che specialmente dai tempi di
Tito, nonostante l'ideologia avesse portato
ad un progressivo indebolimento delle
componenti religiose, gli attriti tra le
diverse etnie fossero sempre allerta, sopiti
sì ma mai davvero superati. La convivenza
però c'è stata, e seppure a detta di molti
non fosse così pacifica, era un dato di fatto.
Certo è che la Bosnia di oggi incarna
perfettamente l'etimologia della parola
Balcani (terra del miele e del sangue) specie
alla luce degli scenari di guerra accanitisi
sui territori che ne fanno parte.
L'area dell'attuale Repubblica Srpska
durante la guerra del 92-95, fu gestita
interamente dalle milizie serbe colpevoli
per l'Aja di aver effettuato la nota pulizia
etnica materializzatasi simbolicamente con
la strage di Srebrenica, che per l'appunto è
oggi una città della Repubblica Serba di
Bosnia. Se davvero la Repubblica Srpska
anche grazie all'appoggio di Belgrado
riuscisse nell'intento divisorio la questione
Srebrenica non sarebbe facile da risolvere.
E' vero anche però, che Srebrenica è punto
cruciale della storia jugoslava e come tale
non può essere liquidata nell'assoluto male
serbo, essendo stata la Bosnia già teatro di
grosse atrocità in precedenza, come ad
esempio la pulizia etnica ad opera dei croati
contro serbi e musulmani nella Bosnia
occidentale e pressoché ignorata dai media
occidentali. Questa puntualizzazione non
intende giustificare nessun genocidio, nè da
una parte nè dall'altra, bensì vuole fornire
nuovi spunti per una conoscenza più
accurata dei fatti.
La decisione del
presidente Dodik di procedere ad un
referendum per la separazione della
repubblica Srpska è stata silentemente
appoggiata dal governo di Belgrado, questo
secondo
la
federazione
di
Bosnia
Herzegovina. L'opinione pubblica bosniaca
in
maggioranza
musulmana,
teme
fortemente la ripresa di mire nazionaliste
ad opera di serbi e croati. Seppure la Bosnia
Erzegovina abbia una struttura complessa e
un'amministrazione spesso farraginosa e
piena di problematiche interne, gli
osservatori internazionali, secondo i
bosniaci, non dovrebbero rimanere inermi
ad osservare la legittimazione di certi
tentativi, sull'onda di un'Europa in piena
febbre da referendum.
19
Valentina Di Cesare, nata nel 1982 a Sulmona,
nel 2007 si laurea in Lettere e Filosofia
all’Università di Chieti con una tesi sul poeta
livornese Giorgio Caproni. Collaboratrice sin
dagli anni universitari per testate locali on line su
cultura e attualità, da sempre appassionata di
culture balcaniche e caucasiche, trascorre il 2009 a
Siena dove frequenta il Master Universitario in
Didattica dell’Italiano a Stranieri con una tesi
sulla metafora e la similitudine negli immaginari
degli apprendenti. Si iscrive al Master in
Management
della
Cooperazione
Internazionale allo Sviluppo all’Università di
Pescara e svolge uno stage formativo presso una
ONG che si occupa di diritti delle donne,
concludendo il corso di studi con una tesi sugli
approvvigionamenti idrici nelle zone desertiche
dell’Africa Settentrionale. Sin dal 2003 si
interessa
al
Movimento
delle
Donne
Democratiche Iraniane e collabora nella
diffusione delle attività dell’Associazione Donne
Iraniane. Nel 2010 intraprende il progetto
giornalistico di “Ministerici Italiani” un blog di
attualità, cultura, politica e ambiente sull’onda del
giornalismo
partecipativo. Lavora
come
mediatrice culturale per una Cooperativa
sociale abruzzese e copre interventi di carattere
educativo e sociale, per l’integrazione degli
immigrati nelle scuole, negli Enti, e nel mondo del
lavoro. Nel 2011 partecipa come operatrice a
progetti europei di mediazione culturale lavorando
a stretto contatto con immigrati provenienti
dall’est Europa; nello stesso anno frequenta il
Corso di Perfezionamento in mediazione con
l’Area Balcanico – Danubiana organizzato
dalla Facoltà di Lingue dell’Università di Pescara.
Architettura, memoria e identità. Il caso bosniaco
di Matteo Zola
Il 23 ottobre 1992 le truppe croate
entrarono
a
Prozor,
segnando
l'intensificarsi del conflitto bosniaco.
Prozor, “la finestra” in serbo-croato, è stata
fatta in macerie, seppellendo tra le rovine le
grida dello stupro etnico e il passato
multiculturale della Bosnia Erzegovina.
Peter Handke, drammaturgo tedesco noto
per aver scritto con Wim Wenders la
sceneggiatura de "Il cielo sopra Berlino", tra
il 1995 e il '96 viaggiò per Slovenia, Croazia,
Bosnia e Serbia. Le guerre jugoslave
avevano appena lasciato lo scenario
bosniaco in direzione di quello kosovaro. Le
macerie testimoniavano il passaggio della
tragedia ed Handke annotò sul suo diario:
"prima località dopo il confine: Dobrun. Ma
del villaggio, oltre al nome, esistevano
ancora quasi solo muri di case privi di tetti,
porte e davanzali. Case saccheggiate? Le
case in quanto case, le case come tali
davano l'impressione del saccheggio, e
questo sembrava qualcosa di ancor peggio
di una distruzione pur così totale; come se
tramite un simile metodo di saccheggio non
fosse stata annientata di volta in volta
semplicemente una singola casa, quella
determinata casa, ma per così dire la casa in
sè, la casa "casa", l'essenza della casa,
essenza che diventava tangibile proprio in
quella specifica forma di distruzione."1
La distruzione, le rovine, sono il segno della
memoria viva che nei Balcani occidentali si
uniscono alla ricostruzione che, in quanto
tale, è rimozione delle macerie e del ricordo,
rimozione della cultura che sotto le macerie
giace a favore di una ri-strutturazione del
paesaggio, della memoria e non da ultimo
dell'identità. Il caso bosniaco è, in questo
senso, esemplare. Analizzando le due città
simbolo del Paese, Sarajevo e Mostar, si
comprende anzitutto come la memoria viva
di una città non vada cercata nei
1
20
Tratto dal sito di Francesco Mazzucchelli, Balkan
Scapes
monumenti, nei musei, o nei posti
progettati con l'intento esplicito di
conservare una memoria, ma nelle zone e
nelle parti di essa dove essa "si produce"
autonomamente,
in
maniera
incontrollabile, spontanea. Le rovine sono i
luoghi di produzione di una memoria che
non perde il rapporto con il passato. La
ricostruzione dell'identità si associa invece
con una ricostruzione edilizia e una
architettura che hanno lo scopo preciso di
produrre una nuova memoria, funzionale al
presente e utile al futuro.
Come ricorda Francesco Mazzucchelli,
autore del libro Urbicidio, attualmente
ricercatore presso l'Università di Bologna,
per chi atterra a Sarajevo all'areoporto di
Butmir, uno dei simboli del conflitto, il
paesaggio della città è una distesa di
palazzoni in stile socialista crivellati dai
colpi di kalashnikov e poi, d'un tratto, nel
mezzo di Novo Sarajevo, ecco svettare la
moderna e maestosa moschea di Re Fahd,
costruita nel 1997 con soldi provenienti
dall'Arabia Saudita. Proseguendo verso il
centro altre enormi moschee post-belliche
affermano l'identità eminentemente e
radicalmente musulmana della città. Solo
raggiungendo la città vecchia, nella
baščaršia d'epoca ottomana, il dedalo delle
piccole strade svela il racconto antico della
città: le antiche moschee Ferhadjia e Gazi
Husrev, la madrasa, si inseriscono
mimetizzandosi
tra
le
eterogenee
architetture religiose della città (cattedrali
cattoliche, chiese ortodosse, templi giudaici,
chiese evangeliste). Come acutamente
sottolinea Mazzucchelli, tutto è privo di
sfarzo, funzionale, misurato, discreto,
persino nascosto nell'omogeneo tessuto
architettonico di una città senza strappi,
senza muri culturali, specchio della
mentalità cosmopolita e lontana dai
fanatismi. Il centro città, di segno
musulmano, è il luogo in cui meno si
afferma l'identità islamica. Un'identità
risorta durante il conflitto e radicalizzatasi
quando nell'ottobre del 1992 comincia
l'offensiva croata su larga scala. L'offensiva
spezza definitivamente i già logori fili che
tenevano insieme le rappresentanze
politiche delle varie comunità. In quel
contesto
il
partito
musulmano
di
Izetbegovic si radicalizza, estromettendo le
opposizioni serbo-croate, e sancendo la
svolta
“nazionalista
islamica”
della
leadership bosniaca.
Oggi, oltre alle monumentali moschee della
periferia, si possono vedere numerosi
cartelli pubblicitari che inneggiano alle
radici ottomane, con tanto di stendardi e
bandiere della Sublime Porta appese ai
minareti. Accanto crescono grattacieli,
come l'Avaz, costruito tra il 2006 e il 2008 è
il più alto dei Balcani, simbolo della nuova
identità
consumistico-mediatica
della
Bosnia, sede del quotidiano Dveni Avaz di
proprietà del tycoon Fahrudin Radončić, un
magnate dell'editoria recentemente “sceso
in campo” nella politica bosniaca.
Il
contrasto architettonico evidente tra
l'antichità ottomana, il razionalismo
socialista e le turrite megastrutture
moderne è il segno di un'identità
frantumata e ricostruita sotto il segno
dell'oblio: il grattacielo Avaz, che si staglia
verso il cielo, è il simbolo del futuro, della
modernità e del benessere promessi
dall'indipendenza. Una promessa costata
quasi centomila morti solo tra i bosniaci
musulmani.
L'identità, nel contesto dei nazionalismi
balcanici, è l'oggetto di ricostruzione più
diffuso. Il nazionalismo stesso, realizzato
concretamente con gli accordi di Dayton, è
la
costruzione
di
una
frontiera
intrabosniaca che non si cura del territorio.
«L'idea della suddivisione di un territorio
su base etnica sorvola disinvoltamente
sull'identificazione che una popolazione puà
avere con il territorio stesso» scrive Luca
Rastello in La guerra in casa (Einaudi
1998). I costruttori della frontiera hanno
infatti tracciato una linea che divide in parti
21
etnicamente
omogenee
le
comunità
dimenticando le economie reali e i rapporti
sociali concreti. Ronakd Wixman, citando
ancora il libro di Rastello, si chiede sulle
colonne di Internazionale del 5 settembre
1997: «quali sarebbero state le linee della
mappa bosniaca se questa gente fosse stata
autorizzata a dire “noi siamo bosniaci?”»
invece che musulmani, ortodossi o cattolici.
L'architettura sociale preesistente viene così
rasa al suolo dai bulldozer della diplomazia
internazionale e un muro invisibile taglia
davvero in due le stanze delle case
bosniache in cui, fino al 1991, il 40% dei
bambini nati aveva almeno un genitore di
etnia serba o croata.
Mostar, col suo celebre ponte Stari Most, è
l'altro
simbolo
(citando
ancora
Mazzucchelli) dell'urbicidio che la guerra ha
prodotto. La distruzione di questo ponte fu
un gravissimo colpo per il morale dei
bosniaci musulmani, più dell'eccidio che
pochi giorni prima le truppe croate dell'Hvo
perpetrarono nella vicina Stupni Do. Ciò
conferma, ancora una volta, come
archiettettura, vita, memoria e identità
siano strettamente legate: “là [a Stupni Do]
sono stati uccisi alcuni dei nostri. Qui [a
Mostar] siano stati uccisi tutti” scrisse
Hasan Nuhanović, traduttore bosniaco
sopravvissuto a Srebrenica, autore di Under
the UN Flag. La distruzione del ponte di
Mostar, come la casa descritta da Handke,
sono un interludio muto tra la precedente
narrazione collettiva e le cicatrici di un
nuovo racconto, il racconto tangibile di una
società violata. Uno stupro che, nella
ricostruzione, si palesa. Il ponte di Mostar è
infatti stato ricostruito identico a com'era,
utilizzando
addirittura
(per
quanto
possibile) le stesse pietre, ma quel ponte,
che per secoli ha unito i quartieri croati a
quelli musulmani della città, che per secoli è
stato luogo di transito, di passaggio, di
comunicazione, sembra aver incorporato
un'invisibile barriera. Da soglia tra due
anime della stessa città, il nuovo Stari Most
diventa un limite invalicabile, e mentre
prima si transitava senza nessun problema
da un quartiere all'altro, negli anni
successivi alla guerra ognuno resta
rintanato nel suo quartiere. Una cesura che
si respira ancora oggi a Mostar grattando
appena dietro la superficie di ristorantini e
negozietti per turisti.
Anche di fronte ad un ripristino integrale e
filologicamente
fedele,
la
memoria
condivisa, il "senso comune" di quel luogo è
definitivamente mutato. Il risultato è un bel
manufatto, espressione dei finanziatori
della Banca Mondiale, delle potenze
straniere per le quali la Bosnia è un mercato
dove ritagliarsi uno spazio di ricostruzione.
Lo ha spiegato bene Gilles Péqueux, che ne
avviò i lavori per poi dimettersi perché
"l'etica" del ponte non era garantita. L'etica
del ponte, opera che non nasce dalla
collettività locale ma da una squadra di
tagliapietre turchi preferiti a quelli bosniaci
per ragioni di costi. Non è il simbolo di una
riconciliazione ma di una pacificazione
coercita, calata dall'alto su un lutto non
elaborato. Come ebbe a spiegare bene Paolo
Rumiz, "oggi il ponte è un innesto
incompatibile, a forte rischio di crisi di
rigetto".
22
Matteo Zola nato a Casale Monferrato il 18 luglio
1981. E’ giornalista professionista da marzo
2011, lavora a Narcomafie, mensile legato a
Libera e Gruppo Abele, che si occupa di criminalità
organizzata e narcotraffico internazionale. Per
Narcomafie ha pubblicato nel settembre 2011
l'inchiesta su mafia e banche “La cupola nel caveau”
e nel novembre 2011, per Flare, “Atomic mafia”.
Collabora con Glob 011, mensile d’informazione
migrante. Ha collaborato con Mixa, magazine
dell’Italia
multietnica,
Peacereporter,
Cafébabel, e con Cronaca Qui, quotidiano locale
torinese. Nel marzo 2010 fonda il blog
partecipativo EaST Journal, oggi testata on-line
d’informazione sui Paesi dell’Europa orientale.
Scrive di critica letteraria su alcune riviste di
settore: Italian Review of Poetry, rivista del
Dipartimento di italianistica della Columbia
University. Palazzo Sanvitale, quadrimestrale di
letteratura» della Monte Università di Parma,
L’immaginazione, La Mosca di Milano, La
Clessidra. Nel 2008 ha partecipato al Convegno:
“Poesia e Scienza: un dialogo?” in seno alla
Fiera dell’Editoria di Poesia tenutasi a Pozzolo
Formigaro (AL) presentando un intervento dal
titolo: «Pier Luigi Bacchini: poesia della natura,
poesia della morte». Poi in «Atti del Convegno»,
Puntoacapo Editore, Novi Ligure, 2008. Fino al
novembre 2008 è stato professore di Italiano e
Storia.
23
Gazpromenade, ovvero come si conquista l'Europa
di Matteo Zola
Introduzione. L’esportazione di idrocarburi è il settore chiave della geopolitica russa ma
ancora molti sono i problemi, il pragmatismo dell’attuale amministrazione del
Cremlino intende risolverli senza troppo badare al sottile, puntando al controllo delle
repubbliche ex-sovietiche anche con malcelati ricatti energetici limitando l’espansione
della Nato in un’area che è ritenuta esclusiva sfera d’influenza di Mosca.
Le metà delle entrate complessive del bilancio statale russo deriva dal comparto
delpetrolio e del gas. Le forniture di idrocarburi all’estero rappresentano da sole ben il 60%
delle esportazioni. La Russia è dunque il soggetto geopolitico più dinamico e rilevante nella
sfera delle forniture energetiche ed è evidente che non può rinunciare ad assicurarsi le
migliori condizioni e le rotte più vantaggiose per il trasporto di idrocarburi. La
ridefinizione geopolitica dell’area ex-sovietica è tanto più importante poichè buona parte
dei giacimenti e delle condutture principali è sita al di fuori dei confini russi, occorre
dunque controllare più o meno direttamente i Paesi limitrofi.
Vediamo dunque quali sono le rotte di idrocarburi principali russe, quali quelle
antagoniste e quali le alternative, e che Paesi sono coinvolti e in che modo.
Anzitutto le repubbliche ex-sovietiche hanno ereditato una rete di condotte inadeguata a
sostenere grandi volumi di esportazione. La Russia si è dunque vista costretta a finanziare
l’ammodernamento delle pipelines, di sua proprietà, in Ucraina, in Bielorussia, nel Baltico,
rifornendo quegli stessi Paesi a prezzi molto bassi. Il potere contrattuale più forte era
dunque nelle mani di quegli Stati che, pur grandemente impoveriti, potevano controllare il
transito del gas e del petrolio russo facendo pagare a Mosca pesanti tasse di transito.
Allo stesso tempo però le ex-repubbliche sovietiche si sono trovate a dipendere dalle
condotte russe e ciò ha reso difficile un loro affrancamento dalla tutela russa. A caro prezzo
infatti la Georgia ha tentato di entrare nella Nato per liberarsi dalla soffocante influenza
russa (una guerra, la cui origine è ancora controversa) e una situazione di conflitto è stata
prossima a verificarsi anche in Ucraina, mentre il Kirghizistan ha deciso, nel febbraio
2009, di chiudere la base americana presente sul suo territorio in cambio di molti milioni
di dollari utili a saldare il debito estero del Paese, invero quasi tutto nei confronti della
Russia. Una situazione che ha portato il Kirghizistan pericolosamente vicino al Cremlino
scatenando una rivolta culminata nel 2010 con la cacciata dell'autocrate Kurmanbek
Salievič Bakiev nella cosiddetta Rivoluzione dei tulipani.
La Russia, dunque, deve quasi il 50% delle sue entrate annuali complessive al gas. Questo
la rende un soggetto forte e debole allo stesso tempo, poiché invece di imporre la sua
politica energetica all’Europa (come di fatto avviene) potrebbe subirla. Ma l’Europa è
divisa e Italia, Germania e Francia fanno affari con Gazprom, il colosso energetico statale
russo. I Paesi che si mettono di mezzo vengono aggirati o presi “per freddo”. La Polonia, ad
esempio, è stata tagliata fuori dalle rotte delle nuovepipelines poiché politicamente (e
storicamente) avversa al Cremlino. Il gasdotto North Stream aggira paesi baltici e Polonia
per arrivare in Germania. Questa condizione di isolamento energetico è durata per tutto il
ventennio succesivo alla caduta del Muro e si è acuita con la politica antirussa dei gemelli
Kaczynski. Solo la morte, in un incidente aereo a Smolensk, del presidente della
repubblica Kaczynski ha inaugurato un nuovo corso di relazioni, anche energetiche, tra
Polonia e Russia. L’Ucraina, che con la rivoluzione arancione ha cercato di affrancarsi
dall’influenza russa tentando la via dell’Unione Europea e della Nato, è stata accerchiata in
una crisi economica prodotta dalla Russia, principale partner commerciale di Kiev, che ha
24
chiuso i suoi mercati alle merci ucraine. Inoltre sono stati chiusi i rubinetti del gas verso
l’Ucraina e si è cercato di destabilizzare il Paese con la rivendicazione russa dellaCrimea. Il
governo arancione, chiuso nella morsa russa, non ha retto e una “restaurazione” filorussa è
in corso nel Paese.
Polonia, Ucraina, Georgia, paesi baltici. Ma non solo: anche Francia, Germania e
soprattutto Italia. La strategia energetica russa punta sul divide et impera blandendo i
governi degli Stati europei più forti in modo da spaccare, di fatto, la fragilissima unità
europea e rendere il vecchio continente un suo “vassallo” energetico.
Aggirare gli ostacoli. Il problema principale per la geopolitica della Russia uscita dal
tracollo del socialismo reale è stato quello d creare rotte alternative per il trasporto di
idrocarburi. Ai tempi dell’Unione Sovietica la rete di condotte era diretta ai soli stati
satelliti, non rivolta al commercio con l’Occidente. Ora quei Paesi non sono inclini a
favorire gli interessi russi e alcuni di essi, come la Polonia, sono animati da un profondo
sentimento di rivalsa. I Paesi dell’Europa orientale hanno elevato le tariffe di transito degli
idrocarburi sfruttando la rendita derivante dalla loro mutata posizione cercando in tal
modo di risolvere i loro problemi economici. Particolarmenteintransigente in tal senso è
stato il governo di Varsavia.
C’è poi l’Ucraina che controlla da sola i tre quarti del transito di idrocarburi ed è stata più
volte accusata di praticare il furto di gas. Nell’inverno 2008 la crisi tra Mosca e Kiev si è
acuita al punto che la Russia ha chiuso i rubinetti lasciando al freddo non solo l’Ucraina ma
buona parte dell’Europa orientale. Malgrado l’ambiguità tenuta dai media occidentali,
specialmente italiani, divisi tra il sostegno al partner energetico russo e quello a un
possibile futuro membro Nato (appoggiato dagli USA all’epoca di Bush Jr. e Yushenko)
la responsabilità della crisi è da ricondursi alla cattiva gestione economica del governo
ucraino (vedi il dossier: L’Ucraina e la crisi del gas, nella categoria Ucraina). La situazione
si è infatti fatta più complessa col progressivo avvicinamento di Kiev alla Nato e all’Unione
Europea. Così Washington, abbandonati progetti di scudi spaziali e allargamento a est
della Nato, è tornata a una politica delle sfere d’influenza che ha di fatto consegnato
l’Ucraina alla Russia.
La Russia -che da sempre soffre della sindrome di accerchiamento- ha in ogni caso deciso
di creare rotte alternative attenendosi a due fondamentali principi: 1) anzitutto le rotte
devono concludersi nei porti russi oppure, aggirando gli intermediari ritenuti inaffidabili,
garantire lo sbocco ai Paesi solvibili. 2) Se ciò è impossibile le condotte devono attraversare
Paesi tradizionalmente amici della Russia, quali ad esempio la Serbia, la Bulgaria, la Grecia
evitando gli stati baltici e l’ostile Polonia.
Nel 2000 Gazprom ha inaugurato il gasdotto Blue Stream (Goluboj Potok) in cooperazione
con la Turchia. A nord invece è previsto che il gas arrivi al porto baltico di Vyborg e da lì
attraverso il mare fino in Germania, aggirando così Polonia e Paesi baltici.
Quest’ultima pipeline, detta North Stream (Severnyj Potok), è in fase di costruzione ed è
previsto anche un braccio diretto verso la Svezia. I lavori sarevvero dovuti terminare nel
2010. Gli idrocarburi russi non possono però superare gli stretti fra Danimarca e Norvegia,
il flusso di petroliere è limitato dai fondali bassi. Allo stesso modo il petrolio russo incontra
ostacoli nell’uscita del Mar Nero presso i giàcongestionati stretti del Bosforo e Dardanelli,
qui le compagnie russe lamentano tempi d’attesa per ottenere il permesso di transito che
fanno loro perdere enormi somme di denaro.
Anche a sud si è trovato il modo di aggirare i Paesi intermediari, Ucraina in testa, con la
costruzione del South Stream (gasdotto) e dell’oleodotto Burgas-Alexandroupolis dopo un
accordo nel 2007 con Grecia e Bulgaria. L’oleodotto sarà controllato dalla Russia, benchè
25
in territorio estero, e permetterà di aggirare gli stretti turchi: le petroliere partiranno
infatti da Novorossijsk, sul Mar Nero, per attraccare a Burgas in Bulgaria.
Giacimenti di oro azzurro. L’esportazione di gas russo può contare su immensi
giacimenti di metano. Nella Siberia occidentale, soprattutto, ma anche in quella centrale e
orientale così come nel mar Bianco. Alcuni giacimenti sono anche nel Caucaso e nel Caspio
della regione di Astrakan. Fuori dai confini russi sono pochi gli attori energetici di rilievo e
tutti dipendono dalle infrastrutture russe.
I principali giacimenti di gas naturale fuori dalla Russia sono in Kazakistan, nella regione
di Astrakan, presso la città di Atyrau, sul Mar Caspio, e nella regione di Karachaganak, al
confine settentrionale con la Russia. In Uzbekistan nella regione di Gazli. Ancora in
Kazakistan nella regione di Zhetybay, sul Mar Caspio, al confine col Turkmenistan. Proprio
il Turkmenistan ha giacimenti importantissimi, tutta la regione del Khorog Majsk e quella
del Dauletabad, al confine con l’Iran, sono ricche di gas naturale. Solo recentemente il
Turkmenistan ha aperto i suoi giacimenti all’estrazione di partner anche occidentali: in
prima fila per il gas turkmeno c’è Eni, ma è determinante la presenza di Gazprom. Dal
Turkmenistan muove anche il Tapi, il gasdotto transafgano che porta il gas verso l’India
passando dalla provincia afgana di Herat, sotto controllo delle forze armate italiane del
contingente Nato.
Anche l’Iran presenta numerosi giacimenti ma il paese di Theran è tagliato fuori dalle rotte
di rifornimento verso l’Occidente a causa del divieto americano, gli Stati Uniti infatti
vorrebbero quale partner energetico europeo l’Iraq, la cui stabilità politica tarda però ad
avverarsi.
Le vie per sottrarre l’Europa alle forniture russe, in nome di quell’autonomia energetica
che Washington persegue per i suoi alleati Nato, partono per ora dal solo Azerbaijan,con
tutti i problemi del caso. Le risorse azere infatti non sono destinate a durare poco più di
dieci anni, ciò ha messo al riparo il governo di Baku dalla pressione russa ma non risolve le
necessità europee di aggirare le rotte di Mosca. Il Nabucco è il gasdotto europeo in via di
realizzazione che dovrebbe sottrarre il vecchio continente al monopolio russo. Per
raggiungere questo obiettivo l’Unione Europea è andata ben oltre il patrocinio americano
acquisendo la proprietà totale del progetto. Non solo: i soldi per la realizzazione sono stati
stanziati da Bruxelles e le compagnie coinvolte sono tutte europee.
Le vie del gas. Senza un’adeguata rete di infrastrutture i giacimenti russi resterebbero
inerti. La Russia può contare su una serie dii rotte energetiche capaci di esportare all’estero
grandi volumi di metano. Alternativa alle pipelines russe, al momento, non ce n’è. Il
progetto Nabucco, fortemente voluto dall’Unione Europea per garantirsi l’autonomia
incontra molti problemi. Principalmente politici. Ecco le principali rotte del gas, russe e
non solo.
1) Proprio da Baku parte il ramo Baku-Erzurum (Bte) del gasdotto Nabucco.
Attraverso il territorio dell’Azerbaigian arriva fino in Georgia, passando da Tblisi,
svolta verso sud, in Turchia, dove si collega al Nabucco a Erzurum. Un braccio del
Baku-Erzurum arriva a un terminal sul Mar Nero, in Georgia, presso la città di
Supsa a sud dell’Abkazia.
2) Ad Erzurum arriva anche il ramo Tabriz-Erzurum che porta il gas iraniano fino
al Nabucco, tale fornitura non piace però a Washinton.
3) Il Nabucco vero e proprio parte da Erzurum, passa da Ankara diretto a Istambul e
da lì all’Europa. La parte europea è ancora in fase di realizzazione, il progetto
prevede che passi dalla Bulgaria, dalla Romania, dall’Ungheria fino a Vienna. Un
26
secondo ramo del Nabucco parte da Bursa, in Anatolia, e passa dalla Grecia,
attraversando l’Adriatico, fino all’Italia.
4) Dal Turkmenistan, regione di Dauletabad, parte il gasdotto che attraversa l’Iran fino
a Tabriz. Dallo stesso luogo s’avvia il gasdotto russo-turkmeno che porta il gas fin
nel cuore della Russia, attraverso il Kazakistan, e -con un secondo ramo- fino agli
Urali.
5) Dall’Azerbaigian parte il gasdotto Transcaspico che arriva fino al porto sul Mar
Nero di Novorossiijsk attraversando il Daghestan, la Cecenia, il territorio di
Stavropol. Tutte queste regioni appartengono alla Federazione Russa e dipendono
direttamente da Mosca.
6) Il principale vettore russo è il Sojuz, che porta il gas da Samara, negli Urali
meridionali, fino all’Ucraina. Qui si congiunge con il gas proveniente da JamaloNenec, circoscrizione autonoma della Siberia occidentale.
7) Dalla stessa regione, e dalla Pečora, proviene il gas diretto al Mar Baltico. Qui, per
sottrarsi al ricatto delle repubbliche baltiche, è in progetto il gasdotto North
Stream, che le aggira e attraverso il mare arriva fino alla Germania (è previsto un
ramo verso la Svezia).
8) Dal porto di Novorossijsk, ove si congiungono il Transcaspico e il Sojuz, è in
progetto la rotta che permette l’aggiramento dell’Ucraina, attraverso il Mar Nero: si
tratta del gasdotto South Stream che prevede il passaggio (e quindi la fornitura) nei
paesi tradizionalmente amici di Bulgaria, Serbia, Ungheria fino a Vienna e
addirittura all’Italia.
L’81,6% del gas russo è venduto all’Europa. Ad oggi la gran parte della rete di gasdotti
verso l’Europa passa da Ucraina e Bielorussia. Dall’Ucraina viene poi rifornita la
Slovacchia la Repubblica Ceca, la Germania, la Slovenia, l’Austria, l’Italia, e in misura
minore l’Olanda e la Francia. Questo spiega come la recente crisi del gas tra Kiev e Mosca
abbia coinvolto buona parte d’Europa. Infatti dall’Ucraina, attraverso Moldavia (e
Transdniestria) viene rifornita, la Romania, la Bulgaria, la Grecia, la Macedonia. Dalla
Bielorussia, paese che come l’Ucraina è accusata da Mosca di rubare gas russo, viene
rifornita la sola Polonia. approvvigiona direttamente La Russia la Finlandia e le tre
repubbliche baltiche.
Il nodo del Caspio. Il nodo geopolitico della questione energetica si stringe sul Caspio.
L’Azerbaigian, si è detto, ha risorse per al massimo dieci anni ancora. Se si è investito nel
doppio progetto Nabucco (gas) e Baku-Cheyan (petrolio) è perché ci si attende una
collaborazione da parte del Kazakistan, in tal senso va interpretata la costruzione
dell’oleodotto Transcaspico che collega Baku ad Aktau, in Kazakistan.
Gli equilibri geopolitici sono destinati a spostarsi verso oriente nei prossimi dieci anni, con
il progressivo esaurirsi del petrolio azero. Il Kazakistan è lo snodo centrale delle strategie
geopolitiche del domani, e già la Cina ha realizzato un progetto per un oleodotto che
dovrebbe partire proprio da Aktau.
La Russia conserva però il transito del petrolio kazako tramite il Cpc pareggiando di fatto i
conti con l’Occidente. Un vantaggio l’Europa lo ottenne il 3 aprile 2007 quando fu firmato
l’accordo per il Costanza-Trieste. Nel maggio dello stesso anno si raggiunse un accordo
europeo con il Kazakistan. Ma la Russia pareggiò nuovamente i conti accordandosi con
Bulgaria e Grecia per la costruzione dell’oleodotto Burgas-Alexandroupolis. Controllare il
Caspio significa dunque ottenere il monopolio delle forniture energetiche spostando gli
equilibri geopolitici euroasiatici. La guerra energetica, oltre che posando tubi, si combatte
nelle montagne del Caucaso. E quali poi saranno i destini dell’Ucraina, della Moldavia, del
Turkmenistan e del Kirghikistan?
27
Ex Urss, il regno dei mercanti dell’apocalisse
di Massimiliano Ferraro
Dodicimila testate nucleari, millecinquecento tonnellate di uranio arricchito e
centocinquanta tonnellate di plutonio: è la pesante eredità lasciata dall'Unione Sovietica
dopo la fine della Guerra Fredda. Un immenso arsenale capace di trasformare l’intero
pianeta in un deserto che rischia ancora di finire nelle mani di terroristi e organizzazioni
criminali.
Il traffico di materiale radioattivo proveniente dalla Russia e dalle ex repubbliche socialiste
è una minaccia reale. Non si tratta della trama di un film in cui il destino del mondo viene
messo in pericolo da missili balistici e sommergibili atomici, ma piuttosto della possibilità
concreta di una contaminazione diffusa tramite la detonazione di una “bomba sporca”: un
micidiale mix tra sostanze nucleari ed esplosivo tradizionale.
Un attacco «praticamente certo» secondo Warren Buffet, il miliardario americano che da
anni si dedica alla lotta contro la proliferazione delle armi di distruzione di massa, al punto
che il vero interrogativo «non è più se, ma quando verrà messo in atto». L’affermazione,
basata sull’analisi delle centinaia di casi di furto o circolazione illegale di sostanze
radioattive, è stata confermata recentemente anche da alcuni cablogrammi diffusi da
Wikileaks da cui emergono stralci di intercettazioni telefoniche e trattative sottobanco tra
agenti segreti, trafficanti ed intermediari. Un commercio fuori controllo le cui proporzioni
preoccupano soprattutto la Casa Bianca.
«Non abbiamo idea dell’entità globale del traffico di armi nucleari o di materiale
radioattivo» ha affermato lo scorso anno il sottosegretario di Stato Usa per le armi e il
controllo sulla sicurezza internazionale, Robert Joseph, «ma sappiamo, grazie
all’intelligence, che recentemente è aumentata la richiesta da parte di gruppi terroristici».
In stati come la Russia dove la sicurezza degli arsenali militari rimane ancora
approssimativa, più dei muri spessi e dei soldati di guardia, il pericolo di attentati è stato
scongiurato soltanto dall’abilità dei servizi di sicurezza e, fattore non secondario, dalla
«scarsa determinazione» dei terroristi.
A vent’anni dalla fine dell’Unione Sovietica l’incubo atomico non ha smesso di far paura.
Voci circa il furto e la vendita di armi
Trafficanti e corruzione nella Russia nucleari nella Federazione russa hanno
post-sovietica
cominciato a circolare sempre con maggiore
Fin da primissimi anni ’90 il caos e la crisi insistenza dal 1992, quando uno scienziato
economica seguita al crollo del Muro di russo è stato fermato a Mosca in possesso di
Berlino ha trasformato gli ex paesi un chilo e mezzo di uranio arricchito,
socialisti, in particolare la Russia, in un utilizzabile per la fabbricazione di una
grande discount di materiale radioattivo. bomba atomica. Un anno più tardi nella
Un business straordinariamente redditizio gelida Murmansk, quasi due chili della
che ha rappresentato da allora una nuova stessa sostanza sono stati intercettati dalla
fonte di guadagno per la criminalità polizia dopo essere stati rubati da due
organizzata, infiltrata nei più alti livelli del delinquenti comuni. Ma l’episodio più
potere grazie all’ossequioso silenzio della impressionante rimane il sequestro nel
decaduta nomeklatura comunista, una porto di Kaliningrad del mercantile russo
numerosa schiera di ufficiali e agenti del “Compositore Mussorgski”, avvenuto il 12
Kgb che si aggirava tra le macerie dell’era di dicembre 1993. Stando all’agenzia di
Boris Eltsin, pronta a riciclarsi come stampa Interfax la nave trasportava verso
mercanti della morte atomica.
occidente ben 200 tonnellate di uranio.
28
Nel 1995 un ordigno contenente cesio-137 è
stato trovato in un parco della capitale non
distante dalla piazza Rossa. Ma nemmeno il
ripetersi di episodi come questi ha dissuaso
il
Cremlino
dall’interrompere,
nel
novembre dello stesso anno, gli accordi con
gli Stati Uniti sulla trasparenza dei depositi
militari.
Proprio
la
sicurezza
nell’alloggiamento del materiale nucleare
nelle ex repubbliche sovietiche è tuttora
motivo di preoccupazione per la comunità
internazionale. Buchi nelle recinzioni,
allarmi fuori uso e guardie poco addestrate,
sono solo alcune delle criticità evidenziate
nel corso dalle ispezioni effettuate in
strutture che versano spesso in condizioni
di degrado o abbandono. Come nel caso
della centrale di Siewiersku, uno dei più
importanti impianti per l'arricchimento
dell'uranio e il trattamento del plutonio
della Federazione Russa, che ancora nel
2009 era vigilata da soldati armati di pistole
senza munizioni.
Ma il pericolo numero uno per la sicurezza
continua ad essere la condotta del personale
interno alle strutture nucleari. Scienziati e
ingegneri con salari troppo bassi e quindi
facilmente corruttibili.
A favorire i traffici illeciti dall’ex Urss c’è
poi l'incredibile mancanza di inventari
precisi delle sostanze pericolose possedute.
Quantità sufficienti a produrre 85.500
nuove testate nucleari secondo l’istituto
Sipri di Stoccolma; “solo” 40.000 a parere
del Presidente degli Stati Uniti Barack
Obama. Si tratta comunque di stime
approssimative, perché al contrario di
quanto succede negli inventari dei comuni
magazzini civili, i materiali radioattivi sono
spesso catalogati in modo errato o
addirittura non catalogati. In condizioni del
genere la sottrazione di pochi chilogrammi
di uranio o plutonio potrebbe passare
addirittura inosservata. Un'eventualità che
mette i brividi, ma che potrebbe essersi già
concretizzata.
I dati forniti dal ministero degli Interni
russo parlano di oltre 300 episodi di
commercio di sostanze radioattive negli
anni compresi tra il 1993 e il 2005. Il 30%
29
di essi riguarda il periodo 1993-1995, il
momento più critico della storia della nuova
Russia in cui sarebbero stati contrabbandati
armamenti di tutti i generi.
A questo proposito nel 1997 il generale
Alexander Lebed, uno degli uomini simbolo
dell'Armata Rossa, confidò al mensile Sixty
Minutes che la Russia avrebbe «perso dai
suoi arsenali alcune armi nucleari
miniaturizzate».
Una
circostanza
seccamente smentita dal Cremlino che in
quell'occasione era arrivato ad affermare di
non aver mai prodotto armi del genere.
In compenso nel 2008 arrivarono a
Washington delle foto sconcertanti sulla
vendita di lastre di uranio da 25 chili. Degli
ex generali russi le stavano tranquillamente
commerciando, non è dato sapere a chi,
tramite un anonimo mediatore di nome
Orlando.
Storie di contaminazioni letali
La circolazione illegale di materiale
nucleare riguarda non soltanto ciò che serve
a produrre ordigni, ma anche sostanze
scarsamente radioattive che possono essere
utilizzate come implacabili strumenti di
morte. Nel 1993 la mafia russa decise di
utilizzare un congegno capace di diffondere
raggi gamma per giustiziare un uomo
d’affari moscovita. La contaminazione
avvenne nell’ufficio dell’uomo a sua
insaputa provocandone il decesso in pochi
mesi.
In modo simile morì nel 2004 Roman
Cepov, responsabile della sicurezza del
presidente russo Vladimir Putin. I medici
gli diagnosticarono una malattia causata da
una sostanza radioattiva ingerita durante
l’alimentazione.
Anche Lece Islamov, guerrigliero ceceno, si
ammalò dopo una merenda con tè e tartine
offertagli in carcere dai servizi segreti russi.
Subito cominciò a sentirsi male: gli salì la
febbre, la pelle gli si infiammò e
cominciarono a cadergli i capelli. Morì in
pochi giorni.
Infine nel 2006 l’opinione pubblica
mondiale venne sconvolta dalla morte di
Aleksandr Litvinenko, ex agente del servizio
segreto russo e dissidente. L’uomo venne
contaminato in un sushi-bar di Londra con
una piccola dose di un pericoloso isotopo
radioattivo, il polonio-210. Tracce della
sostanza sono state trovate nei giorni
seguenti anche su un aereo della British
Airways e hanno reso necessario il controllo
di circa 33000 passeggeri.
Anche se in mancanza di una verità
giudiziaria certa, è opinione diffusa che
Litvinenko sia stato ucciso a causa della sua
attività di dissenso al governo russo. Prima
di morire lo stesso ex agente del Kgb accusò
pubblicamente il presidente Vladimir Putin
di averlo condannato a morte: «Avete
mostrato di essere barbaro e spietato come
hanno sostenuto i vostri critici più ostili».
Caucaso: la rotta privilegiata della
spazzatura nucleare
Il contrabbando atomico segue spesso le vie
già tracciate dal traffico di droga e di armi.
È il Caucaso la rotta privilegiata verso
l’Europa e il resto del mondo: ventuno
episodi di traffico illegale di materiale
radioattivo registrati dal 1991 ad oggi.
Negli ultimi dieci anni l’attenzione è salita
oltre i livelli di allarme soprattutto in
Georgia dove esistono territori fuori
controllo. I trafficanti possono facilmente
eludere i controlli facendo passare le
sostanze pericolose attraverso le province
separatiste
dell’Ossezia del Sud e
dell’Abkhazia, o attraverso la frontiera con
la repubblica autonoma russa dell’Ossezia
del Nord.
Nel 2003 a Tbilisi è stato fermato un
contrabbandiere in possesso di 173 grammi
di uranio arricchito nascosto in una scatola
di tè. La merce era attesa da un
intermediario turco per poi essere
rivenduta ad un acquirente musulmano mai
identificato. Tre anni dopo è stato sventato
un altro tentativo di un cittadino
dell’Ossezia del Nord di vendere 100
grammi di uranio per un milione di euro. Il
materiale sarebbe presumibilmente stato
trafugato dall'impianto di trasformazione di
Novosibirsk, in Russia, senza che nessuno
ne avesse denunciato la scomparsa.
30
Il materiale nucleare va e viene dal confine
georgiano anche nel 2008. Un'auto con a
bordo tre armeni riesce a varcare la
frontiera al valico di Sadakhlo, nonostante
sia scattato l’allarme radiazioni. L'auto
viene fermata anche il giorno dopo, durante
il ritorno in Armenia, ma i tre uomini
vengono subito rilasciati. Il motivo:
«nonostante il veicolo sia contaminato da
cesio-137, ormai a bordo non c’è più nulla».
Nel 2009 il governo degli Stati Uniti decide
di fornire alla polizia georgiana decine di
misuratori di radioattività portatili e subito
viene scoperto altro cesio-137 nascosto
sottoterra in una zona poco distante
dall’aeroporto di Kutaisi. Laconica la
reazione del segretario di stato Usa, Hillary
Clinton, informata dell’accaduto: «Non
erano
preparati
ad
un
intervento
tempestivo e non hanno condotto indagini
per capire a chi appartenesse quella
sostanza».
La conferma che il Caucaso sia nel mirino
del terrorismo internazionale arriva
nell’aprile del 2010, quando il presidente
georgiano Saakashvili in persona ha
annunciato nel corso di un vertice tenuto a
Washington di aver sventato un piano per
armare una testata nucleare. L’emissario di
un gruppo islamico si sarebbe mostrato
interessato all’acquisto di una grande
quantità di uranio.
Transnistria, una Tortuga alle porte
d’Europa
L’allarme per l’esistenza di una regione
separatista utilizzata come base dai
trafficanti di materiale nucleare interessa
anche la Moldavia. Sul banco degli imputati
c’è la Transnistria, piccola striscia di terra
moldava, già sede di uno dei più importanti
arsenali
dell’Unione
Sovietica.
Una
repubblica fantasma di stampo comunista
non riconosciuta da nessuno stato del
mondo, ma che da oltre vent’anni è di fatto
indipendente dal governo di Chisinau.
La Transnistria è una specie di Tortuga a
due passi dai confini europei in cui si
commercia di tutto. Da qui sarebbero
sparite nel 2009 alcune batterie di razzi
Alazan con testate ad isotopi radioattivi
schierate per anni a difesa dell’aeroporto
della città di Tiraspol. Missili progettati per
spargere
prodotti
chimici
nell’aria,
riconvertiti dopo la fine della Guerra
Fredda in imprecisi e pericolosissimi
proiettili radioattivi. La loro esistenza in
Transnistria era stata resa nota dal Times
nel 2005 ed aveva spinto il Pentagono a
monitorarne la posizione via satellite. In
questo modo si scoprì che quattro anni
dopo ce n’erano dieci in meno.
Dove sia finito l’uranio e il cesio contenuto
nelle testate di quei missili è ancora un
mistero, ma secondo il giornalista inglese
Robert Boyes le voci che da sempre
associano la piccola repubblica separatista
ai più loschi traffici di materiale radioattivo
potrebbero essere fondate. A confermarlo ci
sarebbero i quasi due chili di uranio-238
trovati in un garage alla periferia della
capitale moldava nel 2010. Boyes non ha
dubbi sulla loro provenienza: la Tortuga dei
pirati nucleari.
Circa nove milioni di euro il ricavato
stimato dalla vendita della sostanza sul
mercato nero, con il forte sospetto che
l’affare fosse finalizzato alla fabbricazione di
una bomba sporca per scopi terroristici.
Ad agosto del 2011 si ripete un episodio
molto simile. Un’operazione della polizia
moldava svolta sotto copertura smaschera
un’altra banda di contrabbandieri nucleari.
Questa
volta
il
buon
fine
della
compravendita con un anonimo paese
africano musulmano viene sfiorata per un
soffio.
Italia: crocevia della mafia dell’atomo
In Italia le tracce
dei mercanti
dell’apocalisse compaiono poco dopo
l’ultima discesa della bandiera rossa dal
pennone del Cremlino. Alcuni fatti, mai del
tutto chiariti, hanno visto come protagonisti
degli insospettabili intermediari e delle
frange deviate dei servizi segreti dell’Est. A
causa della posizione strategica del nostro
Paese, anche la mafia si è interessata fin da
subito al business dell’atomo. Un mercato
molto redditizio e relativamente semplice,
31
utilizzato per pulire il denaro sporco con
operazioni estero su estero in valuta, oro e
diamanti. Proprio come negli anni ’50,
quando
Cosa
Nostra
passò
dal
contrabbando di sigarette al traffico della
droga, anche il commercio di materiale
nucleare è stato per gli uomini d’onore una
vera svolta epocale. Una trasformazione
velocissima iniziata nel 1991 con le prime
voci sulla presenza nel territorio italiano di
testate tattiche con un raggio compreso tra i
trenta e i sessanta chilometri, in vendita al
prezzo di venti milioni di dollari.
L’attenzione dei servizi segreti si concentrò
da allora sulla rapacità della criminalità
organizzata e sulla presunta esistenza di
una misteriosa internazionale in contatto
con le nazioni interessate alla spazzatura
atomica sovietica: Libia, Paesi del Medio
Oriente e Iraq.
Il confine tra la fantasiosa trama di una spystory e la realtà venne definitivamente
varcato nell’ottobre del 1991 quando
nell’ufficio di Romano Dolce, giudice di
Como, si presentarono due uomini in
possesso di quattro grammi di plutonio.
Erano Karl Friederich Federer, cittadino
svizzero, e l’agente dei servizi segreti italiani
che lo convinse a costituirsi prima di
consegnare la sostanza ad un fantomatico
dottor Montini. Era solo un assaggio dei 30
chili di uranio e dei 10 di plutonio che
Federer rivelò essere custoditi in un
nascondiglio in Svizzera, pronti per essere
commerciati tramite un intreccio di oltre
200 società fantasma.
Fu l’inizio di un’operazione chiamata
«Uranio proletario» che il 1 novembre 1991
portò all’arresto di sei persone e al
sequestro a Zurigo dell’intera partita di
uranio.
«È stato quello il passaggio fondamentale»,
raccontò Dolce a La Stampa, «fino a quel
momento avevamo fatto solo delle
supposizioni. Ma il sequestro di Zurigo
dimostrò che il traffico era reale». Gli
inquirenti elvetici invece si mostrarono
scettici e valutarono il caso come
controverso, vista la bassa radioattività
dell’uranio ritrovato che lo rendeva
inutilizzabile
per
fini
militari.
Successivamente le indagini del giudice
Dolce sui traffici nucleari dall’ex Urss
subirono uno stop improvviso, quando il
pm comasco finì sotto inchiesta con l’accusa
di aver finto alcuni ritrovamenti di
esplosivo e armi allo scopo di procurarsi
pubblicità; condannato in primo grado a tre
anni e otto mesi di reclusione, Romano
Dolce venne poi assolto in appello nel 2004
e infine reintegrato dal Consiglio Superiore
della Magistratura.
Nel gennaio 1993 un’altra città lombarda si
scopre improvvisamente al centro di un
traffico di sostanze nucleari. Dopo sette
mesi di indagini a Brescia scoppia il
“plutonio connection”. Vengono arrestati
due cittadini bresciani al di sopra di ogni
sospetto
e
un
ex
agente
del
controspionaggio bulgaro. Gli inquirenti
ipotizzano l’esistenza di un asse RussiaBulgaria-Italia e la possibilità che dietro il
contrabbando ci sia Cosa Nostra. Scatta la
ricerca di 3,2 grammi di plutonio destinato
al Medio Oriente che sarebbe stato
contenuto in una scatoletta color senape
«grande come una confezione di Alka
Seltzer». All’interno una specie di vite
metallica di circa 4 cm sormontata da un
dischetto ricoperto di smalto sarebbe
servita ad impedire la contaminazione dei
corrieri, ma che non è mai stata trovata.
Nel 1994 una dichiarazione shock del
Sottosegretario agli Esteri, Enzo Trantino
ipotizzò che i voli umanitari partiti da
Chernobyl per portare in Italia i bambini
malati di radiazioni potessero essere serviti
a contrabbandare spazzatura atomica,
valuta e narcotici. In seguito, l’operazione
“Cheque to Cheque” condotta dalla procura
di Torre Annunziata svelò l’esistenza di un
traffico di armi, materiale radioattivo, oro e
titoli di credito. Tra gli indagati anche il
leader dei nazionalisti russi Vladimir
Zhirinovski,
accusato
di
aver
contrabbandato mercurio rosso, osmio e
plutonio proveniente dalla Bielorussia.
Nel 2005 Mario Scaramella, consulente
della commissione parlamentare Mitrokin,
denunciò la presenza a Rimini di una
32
valigetta con dieci chili di uranio. Vennero
arrestate quattro persone ma nel procedere
delle
indagini
emersero
elementi
discordanti che non convinsero i giudici.
Scaramella è attualmente sotto processo
con
l’accusa
di
aver
montato
volontariamente il caso per accreditarsi
come persona informata sui fatti relativi a
traffici illeciti dall'ex Unione Sovietica. Una
storia ancora tutta da chiarire.
E il rampollo disse: «Fermi, o sarà la
fine per tutti»
Rimini, agosto 1992. I carabinieri effettuano
una perquisizione in un hotel extralusso:
quello che doveva essere un normale
controllo antidroga nasconde una sorpresa
impensabile. Nella camera di Luigi Baratiri,
agente di commercio abruzzese di buona
famiglia, c’è una valigetta ventiquattrore
che attira l’attenzione degli uomini
dell’Arma. Appena un carabiniere prova ad
aprirla,
il
ragazzo,
visibilmente
preoccupato, gli intima di non farlo:
«Fermi, o sarà la fine per tutti», urla.
Dentro la valigetta, protetti da un
contenitore di piombo, ci sono circa venti
grammi di uranio-235. Ma ancora più
sorprendente della scoperta è la linea
difensiva del giovane. «Sono un agente
provocatore del Servizio Segreto Militare
Italiano»,
dichiara
agli
inquirenti,
affermando inoltre di essere impegnato in
una missione per smascherare trafficanti
internazionali di materiale fossile.
Si pensa a compratori libici, mediorientali o
iracheni, ma in realtà quell’uranio
proveniente dall’Est sarebbe dovuto essere
consegnato ad un tale dottor Campari, che
si scopre essere il falso nome di Aldo
Anghessa: noto personaggio coinvolto in
molteplici vicende legate al traffico di armi,
che si era definito a sua volta un agente
provocatore. Sarebbe stato proprio lui ad
avvertire la procura di Rimini del pericolo,
credendo di aver a che fare con un mercante
di sostanze radioattive. Il risultato è un
pasticcio degno di una commedia comica in
cui gli unici ad essere smascherati sono i
veri o presunti agenti segreti.
Il caso dell’«uranio delle bombe atomiche a
qualche metro dalla spiaggia più affollata
d’Europa» finisce in questo modo sui
giornali. «Ma davvero» si domanda Pier
Luigi Martelli sul Corriere della Sera «si
possono mettere assieme un agente di
commercio di Giulianova, sedicente agente
segreto, la spiaggia di Rimini, il Kgb e la
bomba atomica?»
Intanto arrivano a Rimini i massimi vertici
dell’intelligence e Baratiri, dopo aver
passato una sola notte in carcere, viene
scarcerato. A marzo del 1994 sarà
condannato a 300.000 lire di multa per
aver omesso di registrare il possesso
dell’uranio negli appositi registri.
Misure di contrasto ai traffici
nucleari
Attualmente il più ampio strumento usato
per contrastate la mafia dell’atomo è il
Trattato di non proliferazione della Armi
Nucleari (Treaty on the No-Proliferarion of
Nuclear
Weapon).
Un
accordo
internazionale che prevede l’obbligo di non
ricevere o trasferire armi e altro materiale
radioattivo. L’hanno sottoscritto tutti gli
stati membri dell’Onu ad eccezione di
Israele, India e Pakistan.
Altri accordi bilaterali per limitare questo
genere di contrabbando sono stati firmati
tra Stati Uniti ed altri paesi. Va in questa
direzione anche il progetto Megaports,
studiato dal Dipartimento per l’Energia
Usa, che prevede l’installazione di maxirilevatori di radioattività in 100 porti nel
mondo, tra cui 4 italiani.
Massimiliano Ferraro è nato a Torino nel 1979. Ha vissuto per brevi e lunghi periodi in Europa dell’Est,
Scandinavia, Sud America e nell’italica Roma caput mundi.Ha collaborato con Limes, Narcomafie, Il
Giornale del Friuli, Playboy Magazine e con il quotidiano torinese Pagina. E’ autore del thriller Black
Russian (Sogno ed., Genova 2010) e del saggio L’ultimo assalto all’aurora, dedicato al ribelle spezzino
Renzo Novatore (Arduino Sacco ed., Roma 2011). Per EaST Journal scrive di Russia e
delle russieperiferiche: Bielorussia, Cecenia, Transnistria e Asia Centrale.
33
Cipro, va in scena la guerra del gas
di Matteo Zola
Caccia israeliani pattugliano i cieli di Cipro, una corvetta francese controlla le acque
intorno all’isola dove già sarebbe presente un sottomarino russo al quale, fra qualche
settimana, dovrebbe unirsi nientemeno che una portaerei inviata da Mosca. E poi navi
greche e turche al largo di piattaforme americane che trivellano i fondali. Cosa succede nel
Mediterraneo orientale? Sotto i fondali marini si sono scoperti 122 trilioni di piedi cubi di
gas naturale. Una quantità - secondo il report 2011 'World Energy' della British Petroleum
- di molto superiore agli 86.2 trilioni di piedi cubi che costituiscono oggi le riserve di tutti
Paesi dell'Ue messi insieme. Ecco cosa succede.
Nell’occhio del ciclone è il quadrante 12 (detto ‘Afrodite’) nella Zona Economica Esclusiva
(Zee) della Repubblica di Cipro dove si trova la piattaforma 'Homer Ferrington', della
compagnia texana Energy Noble, la quale ha avviato prospezioni di idrocarburi nelle acque
cipriote su mandato di Nicosia. L’escalation di tensione nel Mediterraneo orientale, che
vede protagoniste Israele, Cipro e Turchia, si deve dunque a questioni energetiche
destinate a mutare gli assetti geopolitici del Medio Oriente, incrinando i rapporti tra
Ankara e Atene e destando la viva preoccupazione di Bruxelles che, nella questione,
parteggia per Nicosia. Per capire meglio la questione occorre fare un passo indietro.
A fine dicembre 2010 la texana Noble Energy, in partnership con le israeliane Delek
Energy e Avner Oil Exploration, avevano confermato l’esistenza di almeno due enormi
giacimenti di gas naturale nelle acque del Mediterraneo orientale. Una notizia destinata a
far fibrillare le cancellerie mediorientali che già da tempo stavano con l’orecchio teso. E’
infatti dal 1998 che la Noble Energy trivella i fondali al largo di Israele ed è proprio nelle
acque israeliane che, in quell’anno, scoprì il giacimento detto Mary-B. I lavori di analisi e
trivellazione sono durati per anni nella convinzione che un grande giacimento di
idrocarburi si estendesse da Israele alla Grecia. Nel gennaio 2009, la società Noble Energy
e suoi partner, Delek Drilling, Avner Oil & Gas Ltd, Isramco, e Gas Dor Exploration, hanno
segnalato la presenza di gas naturale nel giacimento denominato Tamar-1 situato a nord
della costa di Haifa, in Israele. Da quel momento in poi si sono susseguite le scoperte: dopo
Tamar-1, le società hanno portato alla luce il giacimento Dalit e, lo scorso 3 giugno, quello
di Leviathan. La Noble ha annunciato la presenza di 453 miliardi di metri cubi di gas nelle
riserve del giacimento di Leviathan e 228 miliardi in quelle di Tamar-1. I giacimenti di
Leviathan e Tamar si estendono tra le acque tra Cipro, le coste siriane, libanesi ed
ovviamente israeliane. Dal momento della scoperta la tensione è salita alle stelle.
Israele ha dovuto muoversi con rapidità per mettere le mani su giacimenti che potrebbero
non solo garantirle l’autonomia energetica ma farne persino un esportatore di combustibili
di livello regionale. Una regione turbolenta, però. Con Cipro è stato facile: a metà dicembre
2010 è stata concordata la demarcazione del confine marittimo tra i due Paesi e
soprattutto le zone di esplorazione ed estrazione e le zone economiche esclusive. Secondo
la Carta che regola il diritto marittimo (Unclos) ogni Stato può sfruttare le risorse delle
acque internazionali fino a 200 miglia nautiche dalla propria costa. Quindi molto oltre le
acque territoriali. Israele e Cipro però sono distanti tra loro appena 260 miglia. In
34
ottemperanza alle regole internazionali si è reso necessario definire una linea mediana tra
le acque di pertinenza dei due Paesi.
Cipro e Israele hanno presto provveduto a ratificare analoghi accordi con l’Egitto e la
Giordania mentre il governo di Tel Aviv ha fissato unilateralmente una linea con la striscia
di Gaza. Il Libano ha avvertito Israele di non azzardarsi a toccare nemmeno un centimetro
delle acque territoriali libanesi interessate, in misura minore, dalla presenza di giacimenti.
L’osso più duro è stato la Turchia.
Il governo di Ankara sta giocando in politica estera, sotto la guida del ministro Davutoğlu,
una partita su più livelli che ha visto la Turchia recentemente protagonista dell’espulsione
dell’ambasciatore israeliano ad Ankara a seguito dei fatti della Mavi Marmara, del trionfale
tour di Erdogan nei paesi delle “primavere arabe”, nonché della forte campagna
diplomatica per il riconoscimento dello stato palestinese in sede Onu che, al momento, ha
portato all’ingresso nell’Unesco. A questo si devono aggiungere le tensioni con la Siria,
l’invasione dell’Iraq del nord (a caccia delle basi del Pkk curdo) e non da ultimo la
questione cipriota che ha portato alla minaccia di congelamento delle relazioni con l’Ue nel
caso il governo di Nicosia assumesse la guida di turno dell’Unione nel secondo semestre
2012.
La questione cipriota affonda le radici nell’invasione turca del 1974 a seguito del colpo di
Stato ordito dalla Grecia dei Colonnelli. Da allora l’isola è divisa in due parti: quella grecocipriota, oggi membro dell’Unione Europea, e quella turco-cipriota riconosciuta solo da
Ankara. In questo contesto l’avvio delle trivellazioni da parte di Cipro Sud non potevano
che scatenare la reazione turca: Ankara teme l’evidente rischio che Turchia e Cipro Nord
vengano tagliate fuori dai benefici e dai proventi della torta energetica. Una torta che
Israele, Cipro, Grecia ed Egitto hanno già provveduto a spartirsi. La reazione del ministro
Davutoğlu non si è fatta attendere. Il 21 settembre scorso un comunicato del ministero
degli Esteri turco anticipava la sigla di un accordo di delimitazione delle piattaforme
territoriali tra la Turchia e la repubblica di Cipro Nord, stipulato tra Erdoğan ed il
presidente della repubblica di Cipro Nord, Derviş Eroğlu Un atto dovuto “dal momento
che l'Amministrazione greco-cipriota ha iniziato l'attività di perforazione il 19 settembre”
recita il comunicato che conclude: “[l’amministrazione greco-cipriota, ndr] occorre che
sospenda l’attività di perforazione in nome della pace e della riconciliazione invece di
sprecare le proprie energie nel creare tensioni. Sarà così possibile giungere a una soluzione
duratura che possa fare del Mediterraneo orientale uno spazio di cooperazione assicurando
che le risorse naturali di Cipro siano equamente condivise dai due popoli dell’isola”.
Le rivendicazioni turche sono ritenute pretestuose dal governo di Nicosia – ma anche
dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti – poiché Ankara non ha mai voluto ratificare
l’Unclos, la carta che regola il diritto marittimo. Malgrado ciò il presidente greco-ciprota,
Dimistris Christofias, il 22 settembre scorso, si disse pronto a condividere con i turcociprioti i proventi delle attività energetiche. Una posizione che ha suscitato
l’apprezzamento dei turco-ciprioti e che ha valso la promessa della ripresa dei negoziati
bilaterali per la riunificazione dell’isola.
Solo il giorno successivo, come riportato dal quotidiano Hürriet, il primo ministro
Erdogan, partecipando alla cerimonia di consegna della prima nave da guerra
integralmente turca, ha riaffermato con forza il diritto turco a difendere i propri interessi
marittimi, ivi compresi quelli energetici, mentre la motonave esplorativa Piri Reis entrava
35
nelle acque del quadrante 12 a sud di Cipro, ad una sessantina di km da dove i partner
israeliani ed americani dei greco ciprioti stanno trivellando. Non solo, ad accompagnarla
tre sottomarini e tre fregate (la 'Salih Reis', la 'Sokullu Mehmet Pasa' e la 'Oncu') una delle
quali si àncora pochi giorni dopo a sei miglia al largo della costa sud-occidentale di Cipro.
Segno che quello che preme ad Ankara non è tanto la riunificazione di Cipro o i diritti della
popolazione turca dell’isola (che paiono più che altro strumentali), quanto la possibilità di
mettere le mani sui giacimenti. In caso contrario i sogni di Ankara di affermarsi quale
potenza regionale rischierebbero di svanire in un brusco risveglio.
Il gas naturale del Mediterraneo orientale ha ridestato gli appetiti dell’orso. Il gigante russo
dell'energia Gazprom sarebbe interessato ad ottenere i diritti per la ricerca di riserve
sottomarine di gas naturale della zona economica esclusiva di Cipro, al largo della costa
meridionale dell'isola. Secondo quanto reso noto dalla Famagusta Gazette, Gazprom
sarebbe già pronta ad avviare prospezioni in due zone off-shore nei pressi del lotto 12
'Afrodite' mentre il prossimo 19 novembre la portaerei russa 'Ammiraglio Kuznetsov'
salperà le ancore dalla sua base nel mare di Barents insieme con diverse altre unità navali
diretta a Cipro. Secondo il quotidiano, la portaerei trasporta ventiquattro caccia ad ala fissa
e diversi elicotteri.
Il traffico nel Mediterraneo orientale si sta facendo intenso e il numero di mezzi aerei e
navali dispiegati fa salire la tensione per quella che alcuni analisti hanno già ribattezzato la
“guerra fredda di Cipro”. Non a caso Afrodite era amante di Ares, il dio della guerra, che
sulle millenarie acque greche ancora sembra pronto a soffiare il vento della battaglia.
36
Mafia atomica. Cosa c'è dietro la costruzione della centrale di Belene
di Matteo Zola
Una nuova centrale nucleare in Bulgaria proprio mentre l’Unione Europea sembra
guardare a un futuro senza energia atomica, dalle parti di Sofia progettano un impianto da
realizzarsi nella cittadina di Belene, sul Danubio, al confine con la Romania. Fin qui, si
potrebbe dire, niente di male. Non fosse che dietro alla realizzazione della nuova centrale
c’è l’ombra del crimine organizzato. Da anni la Bulgaria è bombardata da una campagna
mediatica che grida all’allarme energetico eppure il Paese è autosufficente, anzi è leader
nell’esportazione di elettricità. A volere la centrale è però una lobby di magnati dal torbido
passato, legati a doppio filo con la mafia, e che trovano nell’attuale governo, guidato da
Boyko Borisov, un’utile sponda. La nuova centrale di Belene è una gallina dalle uova d’oro
per le loro aziende che già si sono spartite la torta di appalti e subappalti. L’Unione
europea, però, non ci sta e i partner occidentali (le banche come Unicredit e Deutsche
Bank, o aziende come la Rwe) si sono ritirate dal progetto che, però, resta in piedi grazie al
supporto russo, facendo della Bulgaria il cavallo di Troia del Cremlino nelle strategie
energetiche europee.
Kozloduj e l’allarme energetico. Una
centrale nucleare in Bulgaria c’è già e si
trova a Kozloduj, piccola località sul
Danubio, a ridosso del confine con la
Romania, poco distante da Craiova e Vidin.
La sua costruzione risale al 1970, in piena
epoca comunista, ed è dotata di sei reattori.
I primi due, costruiti all’inizio degli anni
Settanta, sono stati dismessi nel 2004 a
seguito di un accordo tra il governo bulgaro
e l’Unione Europea, ma già dal 1993
esisteva un’intesa con Bruxelles per la
dismissione dei due reattori più vecchi. Altri
due reattori furono invece costruiti all’inizio
degli anni Ottanta e dismessi nel 2007 con
l’ingresso della Bulgaria nell’Unione
Europea poiché ritenuti non a norma con
gli
standard
comunitari.
Gli ultimi
due reattori sono invece del 1987 e del 1991
e, a seguito di rigorosi controlli compiuti
dall’Iaea (l’agenzia dell’Onu per l’energia
atomica), sono stati dichiarati sicuri. Oggi
producono 2000 MWe.
energetico del Paese. Fino alla vigilia
dell’ingresso nella Ue il 1° gennaio 2007, la
Bulgaria era il Paese leader nel sudest
Europa
nella
produzione
e
nell’
esportazione di energia elettrica. Con la
chiusura dei reattori 3 e 4 della centrale
nucleare di Kozloduj, il 31 dicembre 2006,
le esportazioni di energia elettrica si sono
ridotte. La produzione nel 2008 è stata di
45 TWh (meno 4,2% rispetto al 2007), per il
43,6% da centrali termoelettriche. I
consumi sono stati di 29,9 TWh (+1,9%).
L’11,9% della produzione, pari a 5,4 TWh, è
stato esportato. Questi dati significano una
cosa sola, che malgrado la chiusura dei
reattori di Kozloduj, la Bulgaria è
autosufficiente
dal punto
di vista
energetico tanto
che
quasi
il
12%
dell’energia prodotta è destinata all’export.
Allora perché dal 2003 i cittadini bulgari
sono bombardati da una campagna
mediatica
che
gridava
all’allarme
energetico?
Secondo i dati del ministero italiano allo
Sviluppo economico, aggiornati al 2010, e
realizzati
congiuntamente
alla Camera
italiana di Commercio di Sofia, il carbone e
il combustibile nucleare costituiscono le
fonti predominanti per la produzione di
energia elettrica necessaria al fabbisogno
«Una vera e propria mafia dell’energia ha
tenuto in apprensione i cittadini bulgari con
lo spettro della crisi energetica» ebbe a
dichiarare nel 2006 Guergui Kaschiev,
fisico nucleare ed ex direttore dell’Agenzia
per la Sicurezza Nucleare in Bulgaria, oggi
ricercatore all’Istitute of Risk Research di
37
Vienna. Una “mafia dell’energia” composta
da nomi illustri che si raccolgono attorno al
Bulatom,
un’organizzazione
non
governativa per l’energia atomica, vera e
propria lobby del nucleare.
L’affaire
Atomenergoremont.
Facciamo un passo indietro, quando nel
2003
è
stataprivatizzata la Atomenergoremont,
società bulgara fino ad allora di proprietà
dello Stato (l’unica) che si occupava (e si
occupa) del mantenimento della centrale
nucleare di Kozloduj. Nel giugno di
quell’anno il settimanale bulgaro Kapital
pubblicava un articolo dal titolo suggestivo
di “radiazioni criminali”, e faceva i nomi dei
principali interessati ad accaparrarsi la
Atomenergoremont:
Konstantin
Dimitrov“Samokovetza”, Vasil Bozhkov,
Hristo Kovachki, Bogumil Manchev.
Konstantin Dimitrov “Samokovetza” era un
miliardario
e
leader
del
traffico
internazionale
di
stupefacenti,
ritenuto vicino
al
Vis,
compagnia
di security e di assicurazioni bulgara,
relegata ad associazione criminale dalle
autorità perché sospettata di far parte di un
gruppo dedito a estrosioni, traffico di auto
rubate, narcotraffico. Nel dicembre 2003
Konstantin Dimitrov fu però ucciso ad
Amsterdam da un killer professionista, tutti
suoi beni furono poi sequestrati nel 2008 su
richiesta della Commissione parlamentare
per le proprietà acquisite attraverso il
crimine organizzato. Secondo Kapital era
proprio
Dimitrov
il favorito per
l’acquisizione di Atomenergoremont.
Vasil
Bozhkov,
detto
“il teschio”,
controverso uomo d’affari, si candidò
all’acquisto della Atomenergoremont prima
come attore in proprio, poi insieme a
Bogumil
Manchev,
capo
di
Risk
Engeneering, azienda chiave nel settore
dell’energia atomica bulgara. A spuntarla fu
però Hristo Kovachki, un altro uomo
d’affari dal torbido passato, attualmente in
libertà provvisoria con l’accusa di evasione
38
fiscale. L’acquisto di Atomernegoremont da
parte di Kovachki si concretizzò tra la fine
del 2003 e l’inizio del 2004, in
concomitanza con la morte di Dimitrov.
Bozhkov, criminale organizzato. Vasil
Bozhkov, “il teschio”, è oggi titolare
dellaNove Holding, operante nel settore
delle assicurazioni e del gioco d’azzardo, si è
fatto i soldi con le costruzioni di
infrastrutture, vincendo facili appalti e
stornando i fondi europei per lo sviluppo,
dati
da
Bruxelles
proprio
per
l’ammodernamento delle reti stradali e
ferroviarie. Già presidente della squadra di
calcio della capitale, il Cska Sofia, e
collezionista d’arte antica (su di lui pende
l’accusa di traffico d’arte e scavi
clandestini).
Il cablogramma 08SOFIA631, datato 25
settembre 2008, reso noto nel gennaio 2011
da Wikileaks, proveniente dall’ambasciata
americana
a
Sofia
e
firmato
dall’ambasciatore McEldowney, recita:
«L’ufficio europeo per la lotta antifrode
(Olaf) è determinato a mantenere la sua
linea dura contro la Bulgaria. Quello nei
confronti di Sofia è un impegno a lungo
termine. Lo scopo dell’Olaf in Bulgaria si
sviluppa in due direzioni: 1) recuperare i
fondi comunitari indebitamente spesi in
frodi varie 2) perseguire e, se possibile,
condannare i responsabili di atti criminali
associati con l’uso improprio dei fondi
comunitari. L’intenzione dell’Olaf è puntare
in alto, le indagini portano a un solo uomo:
Vasil Bozhkov, un uomo d’affari molto ricco
e influente con noti legami con il crimine
organizzato e collegamenti a molti politici
di alto livello». Il cablogramma si conclude
dicendo: «Se la Bulgaria abbattesse
Bozhkov, sarebbe un grande progresso».
Mantchev e il Bulatom. Nell’affare
Atomenergoremont, Vasil Bozhkov entra
dapprima come attore in proprio per poi
affiliarsi a Bogumil Mantchev, direttore
di Risk Engineering ma anche presidente
del
Bulatom,
organizzazione
non
governativa per l’energia atomica di cui
fanno parte la Egemona, la Glavbolgarstroy,
la Zavodski stroezhi, la Tita Consult e la
stessa Atomenergoremont, nel frattempo
venduta dallo stato a Hristo Kovachki.
Queste ditte si batterono per la riapertura
dei reattori tre e quattro a Kozloduj quando
nel 2006, alla vigilia dell’arrivo di Putin a
Sofia, il premier bulgaro di allora, Sergey
Stanishev, annunciò che la Bulgaria era in
trattativa con compagnie inglesi e canadesi
per la cessione in leasing dei reattori 3 e 4
della centrale di Kozloduj, in cambio di una
loro operazione di lobbying nei riguardi dei
paesi Ue, che avrebbe dovuto rendere
possibile la riapertura dei reattori stessi.
Stanishev aggiunse che si trattava di
un’operazione complicata, visto che sarebbe
necessaria una rivisitazione degli accordi di
ingresso della Bulgaria da parte degli altri
26 Paesi dell’Unione, dato che la chiusura
dei reattori era parte integrante degli
accordi stessi.
Nonostante l’immediata reazione della
Commissione Europea, che fece subito
sapere di considerare il caso “Kozloduj”
chiuso e non rinegoziabile, il 21
gennaio 2006Stanishev prese parte attiva
nel lancio della nuova campagna,
intitolata “Voglio la luce”, organizzata non
solo dal governo, ma dalle grandi aziende
attive nel campo energetico che si radunano
attorno al Bulatom. La campagna mediatica
a favore dell’energia atomica, costruita
sull’allarmismo del deficit energetico, trovò
in “Voglio la luce” il suo punto più alto. Un
allarmismo giustificato solo dagli interessi
particulari dei magnati dell’energia poiché
– si è visto – fino al 2007 la Bulgaria era
leader nell’esportazione di elettricità.
Belene, il vero affare. Secondo il
settimanale Kapital la campagna “Voglio la
luce”, finalizzata alla riapertura dei reattori
3 e 4 di Kozloduj, era solo un diversivo utile
acondizionare gli
umori
dell’opinione
pubblica. Vero obiettivo era la costruzione
di unanuova centrale a Belene. Non a caso
le aziende che si raccolgono attorno al
39
Bulatom figurano tutte nelle opere di
subappalto per la costruzione della nuova
centrale. I piani per dotare la Bulgaria di
una seconda centrale si trascinano da
decenni, e affondano le radici negli anni del
regime. Nel 2008 l’Unione Europea ha dato
il via libera di principio al progetto Belene,
la decisione prevede però ulteriori studi in
caso di reale inizio dei lavori, anche e
soprattutto sulla pericolosità sismica
dell’area. Il progetto della centrale nucleare
di Belene, inoltre, non versa in buone
condizioni economiche.
Nel 2006 infatti il gruppo Unicredit,
insieme alla Deutsche Bank, ha annunciato
il suo ritiro dal progetto Belene. Anche la
compagnia
energetica
tedesca RWE,
nell’ottobre 2009, si è ritirata dalla
partecipazione al progetto quando Standars
& Poor’s ridusse il giudizio sulla Nek – la
seconda
società
elettrica
bulgara,
impegnata al 51% nel progetto Belene –
proprio a causa della partecipazione alla
costruzione della nuova centrale.
Scorie bulgare. Secondo Ivan Ivanov,
deputato dei Democratici per una Forte
Bulgaria, partito d’opposizione di destra, la
Bulgaria sarà ridotta a cavallo di Troia
nell’invasione russa del mercato energetico
europeo. Ivanov ha ricordato che la Duma
ha approvato una legge che proibisce lo
smaltimento
di
rifiuti
radioattivi
provenienti da altri paesi in Russia dopo il
2020, così che i rifiuti prodotti dalle centrali
di Kozloduj e Belene dovranno restare in
Bulgaria, che non ha nessuno stabilimento
per lo smaltimento delle scorie.
Dalla Russia con calore. Se l’Europa
dice no alla centrale, Sofia guarda alla
Russia. Per ovviare alla perdita di RWE è
stato necessario cercare nuovi partner, così
la Nek ha siglato nel 2010 tre accordi che
prevedono
una
rimodulazione
della
partecipazione
della
russa Atomstroyexport e
stabiliscono
l’ingresso della finlandese Fortum Corp, e
della francese Altran Techonolgies. Queste
ultime due aziende, la finlandese e la
francese, servirebbero ad ammorbidire la
resistenza di Bruxelles ma si tratta di
partecipazioni simboliche pari all’1% circa.
il protocollo siglato prevede la costituzione
di una joint venture per i lavori di
costruzione di una centrale da due reattori
da 1050 il cui partner principale è Rosatom,
l’ente nazionale russo dell’energia atomica,
che entrerebbe con il 47%. Il condizionale è
d’obbligo poiché il protocollo non è
vincolante e già molte resistenze si
sollevano, anzitutto da Bruxelles.
I colloqui con Rosatom (l’ente nazionale
russo dell’energia atomica) hanno avuto
luogo a Mosca nel febbraio 2011. Il
viceministro bulgaro all’energia, Mariy
Kosev, ha dichiarato alla stampa che l’uomo
conosciuto come “l’oligarca bulgaro del
petrolio,” Valentin Zlatev, ha partecipato a
questi colloqui. Zlatev è il proprietario della
“Lukoil Bulgaria” (il braccio bulgaro della
Lukoil, la più grande compagnia petrolifera
russa). Non rappresentava i funzionari
bulgari – ha precisato Kosev – ma il motivo
della sua presenza ai colloqui, d’altro canto
molto riservati, rimane poco chiaro.
Valentin Zlatev è noto anche per essere
vicino al primo ministro Boyko Borisov.
Alla fine degli anni ‘90 la società Ipon, di
proprietà di Borissov, è stata designata a
provvedere alla sicurezza di tutte le pompe
Lukoil in Bulgaria, un importante traguardo
e una fonte di reddito per gli anni a venire.
Per Borissov è forse venuto il tempo di
restituire il favore.
Il cavallo di Troia del Cremlino.
L’ansia di trovare partner da parte della
Nek si può ben spiegare se ne guardiamo la
proprietà: Nek è infatti una controllata
della Società Energia bulgara (Bulgarian
Energy Holding), quella di Hristo Kovachki,
la
stessa
che
acquistò
la
Atomenergoremont. La Società Energia
bulgara tra le sue sussidiarie annovera
colossi come la Bulgartransgas e la
Bulgargaz. Quest’ultima società è partner
del
progetto
Nabucco
(con
una
40
partecipazione del 16,7%) il gasdotto
europeo pensato come alternativa a South
Stream, il progetto del Cremlino. La
Bulgaria, attualmente, riceve gas dalla
Russia e con la visita a Sofia del vice
premier russo, Viktor Zubkov, nel luglio
2010, si è giunti ad un accordo tra
Bulgartransgas e Gazprom in virtù del quale
la società bulgara è entrata nel progetto
South Stream. Così la Bulgaria tiene il piede
in due scarpe, costruendo sia Nabucco che
South Stream grazie all’intraprendenza del
magnate Hristo Kovachki, che controlla le
due agenzie nazionali del gas, oltre che
quella dell’energia atomica.
L’avvicinamento di Sofia a Mosca corre
lungo tutte le rotte energetiche possibili:
dall’oro
azzurro
(Gazprom
e
Bulgartransgas), all’oro nero (il ruolo di
Lukoil resta da definire ma è quantomeno
sospetto), all’atomo (Nek e Rosatom). Ma
quali sono i vantaggi di queste relazioni
privilegiate con il Cremlino? E soprattutto,
perché il governo non pone un freno alle
speculazioni della lobby dell’energia, che
non risponde agli interessi nazionali? Forse
la risposta viene da una nota del U.S.
Congressional Quarterly (CQ), edito
dall’Economist
Group,
prestigioso
bollettino per il Congresso degli Stati Uniti,
che nel 2007 indicò Borisov come “un
partner d’affari nonché ex-socio di alcuni
dei più grandi mafiosi bulgari”.
La Bulgaria degli oligarchi dell’energia sta
spianando la strada agli interessi energetici
russi in Europa: un cavallo di Troia che
potrebbe minare i piani di autonomia
energetica portati avanti da un’ Unione
Europea sempre meno unita.
41
L’arrocco di Putin, tra modernizastya e restaurazione
di Matteo Zola
Il 23 settembre 2010, durante il Congresso del partito di governo, Russia Unita, diecimila
persone hanno applaudito allo scambio di ruoli tra Vladimir e Dimitri. Il presidente
russo Medvedev ha infatti “rinunciato” alla carica chiedendo a Putin di ritornare alla
poltrona del Cremlino. Un “onore”, ha commentato Putin. L’inversione delle cariche
dimostra quindi un accordo di ferro tra i due, come ha ammesso lo stesso Vladimir. Uno
scambio che però fa comodo soprattutto al vecchio Putin che una volta “eletto” presidente,
potrà contare su un mandato allungato da quattro a sei anni e si potrà ricandidare anche
nel 2018, arrivando così al 2024. La notizia ha causato non poche turbolenze dentro e fuori
il partito. Il ministro delle Finanze, Aleksei Kudrin, è stato costretto alle dimissioni dopo
aver criticato la diarchia del Cremlino durante il G2 di novembre. L’oligarca, e leader
dell’opposizione fantoccia, Michail Prokhorov, è stato silurato dal suo stesso partito, Giusta
Causa, per poi indossare le vesti del candidato sfidante di Putin: vesti cucite su misura dal
Cremlino. Serghei Mironov, leader del partito d’opposizione Russia Giusta è stato
esautorato dalla carica di presidente del Senato. Parte della stampa, con in testa la Novaia
Gazeta del focoso oligarca Alexander Lebedev, ha gridato alla restaurazione autoritaria. Ma
“Putin l’eterno” segnerà davvero, come molti paventano, un destino totalitario e cupo per
la Russia? E quali saranno le ripercussioni diplomatiche del suo ritorno al Cremlino, specie
nei confronti della vecchia Europa?
E’ con l’arrivo di Putin che, nel 2000, la
Russia si è ripresa dal default del
1998 anche grazie allo sfruttamento
delle risorse energetiche (petrolio e gas)
che hanno ridato fiato all’economia. Lo
Stato nell’era Putin si è consolidato, ha
ricominciato a pagare stipendi e pensioni,
ritrovando una centralità nel panorama
internazionale attraverso una politica
estera
muscolare
e
ad
accordi
commerciali rilevantissimi, in particolare
con l’Europa.
L’attività politica ed economica del new
deal putiniano ha portato alla formazione
di una middle class sconosciuta in Russia
negli anni Novanta e che sotto l’imperio
di Vladimir Vladimorovic è cresciuta e si è
allargata
in
modo
esponenziale
raggiungendo
oggi,
nelle
aree
metropolitane occidentali (Mosca e
Pietroburgo in testa), punte del 30%
destinate a salire nel prossimo decennio.
Accanto allo sviluppo economico c’è stato
però un rafforzamento in senso verticale
42
del potere di cui “l’arrocco”
Medevedev è solo l’ultimo atto.
con
Il rafforzamento verticale del potere russo
si deve alla mente di Vladislav Sukrov.
Vladislav è uno degli uomini più vicini a
Putin, l’ideologo di Russia Unita e della
“democrazia sovrana”. Lui è la mente
dell’ingegneria politica russa: un sistema
di democrazia controllata, un simulacro
di libertà individuale stretto in lacci
autoritari, dove le libere elezioni non sono
altro che un plebiscito al leader e al suo
grande partito, Russia Unita, contro cui
vengono messe in scena una serie di
opposizioni imbelli e macchiettistiche: da
un lato i veterocomunisti di Ghennadi
Zjuganov con falci, martelli e sosia di
Lenin, e dall’altra gli ultranazionalisti di
Vladimir Zhirinovski che strizzano
l’occhio al clero ortodosso e menano
cazzotti agli immigrati caucasici. E’
Sukrov che, comprendendo le esigenze
della nuova middle class, immagina un
sistema bipolare, pur fittizio. Il primo
passo in questa direzione si può
individuare nella comparsa, nel 2008,
sulla scena politica di Dimitri Medvedev.
E’ lui a canalizzare le aspettative della
nuova classe media liberale ed europeista
(ma con juicio) pur sensibile al
nazionalismo ma allergica alla burocrazia
soviet-style e ancor di più alla corruzione.
Era Medvedev, insomma, a incarnare la
modernizzazione della Russia. Con la sua
abdicazione forzata è dunque tutto finito?
Come ricordato da Serena Giusti, in
Russia’s modernising alliance with the
Eu (Ispi studies, settembre 2011),
malgrado la crisi globale, il Pil si attesterà
al 4% nel biennio 2010-2011: un risultato
incoraggiante ma insufficiente a sostenere
il processo di modernizzazione russo. La
crescita sociale ed economica hanno
intanto prodotto una trasformazione nella
società e
quindi
nelle
aspettative
dell’elettorato.
Aspettative
che
s’incarnano oggi nel dissenso di Aleksei
Kudrin, il dimissionato ministro delle
Finanze che ha guidato il miracolo russo,
ma anche di molta stampa (semi) libera e
di quella middle class che ringrazia Putin
del lavoro svolto ma al Cremlino preferiva
vederci Medvedev. La modernizastya
resta però un imperativo per la Russia.
L’idea di modernizzazione attraversa
come un fil-rouge la storia russa, e si è
evoluta nella contrapposizione tra
“occidentalisti” e “slavofili”. La stessa
Unione Sovietica è una sintesi del
pensiero politico occidentale declinato al
mondo rurale e conservatore russo.Come
scrive ancora la Giusti, dopo gli anni di
El’cin il ritorno a una Russia quale polo di
potere nel sistema internazionale è stato
possibile grazie a una crescita economica
- di molto superiore a quella europea ed
americana - fondata sui dogmi del
mercato, del liberismo, della concorrenza.
La strategia economica russa ha molto
puntato sulla partnership europea: essere
presentabili agli occhi del vecchio
continente, attrarre investimenti, è stato
possibile solo con un’apertura al sistema
43
valoriale
europeo.
E
il
valore
fondamentale della vecchia Europa è,
senza retoriche, la democrazia. Nel
gennaio 2011, al World economic forum
di Davos, l’allora presidente Dimitri
Medvedev fece un discorso memorabile:
«La Russia è spesso criticata, talvolta
meritatamente, per la corruzione del
sistema giudiziario, per la difficoltà nel
costruire uno Stato di diritto, per la lenta
modernizzazione
dell’economia.
Noi
siamo impegnati su questi fronti e li
vogliamo coniugare alla crescita della
qualità della vita in Russia. […] Sono
convinto che la crescita della democrazia
possa contribuire alla modernizzazione
economica».
La
possibilità
di
partecipazione dell’Europa nel processo
di democratizzazione russo è tutto qui.
Serghei Lavrov, ministro degli Esteri, sul
Russian Newsweek del 10 febbraio 2010
ha dichiarato: «[con L’Europa] vogliamo
costruire un rapporto di interdipendenza
e reciproca penetrazione economica e
culturale». Tradotto in soldoni si tratta di
87 mld di euro di esportazioni dall’Europa
(6,5% del totale) e 155 mld di
importazioni (10,4% del totale). In questo
contesto, nel maggio 2010 a Rostov sul
Don, Russia ed Unione Europea lanciano
una “partnership di modernizzazione”. Il
patto è semplice: energia (russa) in
cambio di tecnologia (europea). Con
l’obiettivo malcelato di Bruxelles di
influenzare il percorso democratico russo.
Un percorso su cui la Russia sembra
intenzionata a procedere pur con
gradualità e controllo. Una democrazia
dall’alto, insomma. Una democrazia
“controllata”.
La “crescita della democrazia” auspicata
da Medvedev si scontra oggi con le poco
incoraggianti previsioni sullo sviluppo
economico russo nel prossimo decennio.
Le prospettive di crescita economica sono
infatti meno rosee del previsto: il Pil
russo è sceso del 7,9% tra il 2008 e il
2009 (il dato peggiore del G20). Un dato
che, come ricorda Philip Hanson in The
economic development of Russia:
between state control and liberalisation
(ricerca del 2010 finanziata dal Ministero
degli Esteri italiano) non si deve alla crisi
del petrolio poiché altri Paesi che sono
importanti esportatori di oro nero hanno
subito un declino molto modesto. La
ripresa è stata finora timida, solo un 4%
di crescita del Pil nel 2010 con un outlook
del Fmi che prevede il 3,2% medio annuo
fino al 2020. In questo contesto
“l’arrocco” sembra essere l’estremo
tentativo di riportare il timone a barra:
ma se sviluppo economico e concessioni
democratiche andavano di pari passo, al
contrario la crisi sembra andare a
braccetto con la “restaurazione”putiniana.
La stretta di Putin sui “dissidenti”
(Kudrin, Prokhorov, Mironov) testimonia
come le possibilità di sviluppo di una
società realmente plurale siano minime
considerando anche la sclerosi cui i
regimi autoritari vanno incontro durante
la parabola discendente del loro potere.
Una parabola discendente che, conti alla
mano, durerà almeno dieci anni, e che
s’avvia proprio nell’arrocco del 23
settembre mettendo altresì in discussione
l’impianto bipolare della politica interna
russa progettato da Sukrov. Il partito
Giusta Causa, guidato dall’oligarca
Michail Prokhorov, sembrava destinato
ad
assolvere
l’arduo
compito
dell’oppositore fittizio ma è stato il primo
a cadere sotto la scure di Vladimir.
Prokhorov è il secondo uomo più ricco
della Russia con una fortuna stimata da
Forbes nel 2010 in 17,4 miliardi di dollari.
Quando nel 2011 gli viene affidata la
guida di Giusta Causa, Prokhorov
dichiara di volerne fare “il secondo partito
russo”. Non il primo, ciò significherebbe
attentare alla leadership del Cremlino. La
“discesa in campo” di un oligarca non è
cosa di tutti i giorni. Dopo i tempi di
El’cin non tira buona aria per i tycoon
russi e l’ultimo che si oppose a Putin fu
nientemeno che Mikhail Khodorkovsky.
44
Visti i precedenti l’engagement di
Prokhorov ha stupito: un coraggioso
campione della democrazia? un oligarca
che vede minacciati i suoi interessi? una
creatura del Cremlino? Quest’ultima
sembra l’ipotesi più verosimile. Così.
Dopo che l'8 settembr 2011 viene silurato
dagli iscritti del suo stesso partito durante
un convegno in vista delle elezioni
parlamentari, Prokhorov stizzito definisce
Giusta Causa un «partito fantoccio nelle
mani del Cremlino gestito da un
burattinaio che risponde al nome di
Vladislav Surkov». Un partito fantoccio di
cui lui è stato alla guida da consapevole
marionetta. Tanto più consapevole dopo
che
le
elezioni
parlamentari,
confermando la vittoria di Putin, aprivano
a quest'ultimo la via della presidenza. Ma
chi poteva sfidare (e quindi legittimare)
Putin?
E' il Cremlino, si è detto, che decide
contro cui concorrere. L'esistenza di
un'opposizione legittima la vittoria –
scontata – del candidato prescelto (cioè
Putin) mentre i leader avversari vengono
ricompensati con incarichi istituzionali di
alto livello. Prokhorov torna così utile alle
intenzioni del Cremlino che ne fa, in
sostanza, l'unico avversario: l'homo novus
da vendere alla middle class stanca delle
cariatidi Zjuganov e Zhirinovski.
L’atto di forza che segna il ritorno di
Putin al Cremlino è il segno di una
debolezza: la recessione potrebbe causare
contraccolpi sociali e politici che
richiederebbero risposte autoritarie, e
una Russia indebolita all’interno si
troverebbe poi a retrocedere in politica
estera. Le proteste che hanno scaldato il
gelido inverno russo, portando in piazza
centinaia di migliaia di persone a
contestare il risultato (evidentemente
truccato) delle elezioni parlamentari, è
stato interpretato da alcuni osservatori
come una crepa profonda nel potere di
Putin.
Le manifestazioni che hanno portato in
piazza, a Mosca, Pietroburgo, e altre
grandi città russe (russe, si badi, niente
che vada al di là degli Urali) centinaia di
migliaia di persone sono state rese
possibili proprio dalla debolezza “interna”
di Putin, attaccato politicamente su più
fronti e costretto a “dimissionare” persino
il fedelissimo ministro delle Finanze,
Aleksei Kudrin, troppo critico verso il
putinismo. Le manifestazioni del 10 e del
24 dicembre hanno portato sulla piazza
Rossa di Mosca più di centomila
manifestanti. Non una grande cifra, in
verità, per una città di sette milioni di
abitanti. Giovanni Bensi, corrispondente
a Mosca per Avvenire, spiega come sia
«sempre difficile portare i russi in piazza,
se si riescono a mobilitare cento persone
in Russia è già un grande successo. Ciò si
spiega con una sopravvivenza della
mentalità
sovietica.
Nell'Urss
di
dimostrazioni se ne facevano molte ma si
trattava sempre di dimostrazioni di
regime. La gente ha sviluppato una sorta
di idiosincrasia verso le manifestazioni,
dietro le quali viene sempre visto lo
zampino del potere e della cui inutilità
sono tutti convinti».
Le recenti manifestazioni sono quindi il
segno di qualcosa che sta cambiando:
«dice un proverbio russo “i pulcini si
contano in autunno”: tireremo le somme
far un anno» conclude Bensi.
45
Vladimir Putin, ansioso di rifarsi il makeup in vista delle presidenziali, ha persino
abbandonato Russia Unita, partito di cui
è sempre stato candidato senza però farne
mai ufficialmente parte, per resuscitare il
Fronte Popolare Pan-russo, movimento
politico “vergine” dal cui scranno potrà
accusare l'establishment di Russia Unita
delle mancanze di cui è lui solo
responsabile. Un buon modo per fare
pulizia degli oppositori interni. E
Medvedev?
Forse
diverrà,
come
d'accordo, primo ministro mantenendo in
vita un'alleanza che, allora, sarebbe
davvero di ferro.
Al momento quel che appare evidente è
che il processo di modernizzazione andrà
avanti comunque in quanto essenza stessa
del
putinismo.
Esso
sarà
però
maggiormente esposto al fallimento e non
porterà con sé mutamenti socio-politici di
stampo democratico poiché, malgrado
quanto sostenuto da Medvedev a Davos,
non sempre liberismo è sinonimo di
libertà.
Una storia che si ripete. La Russia, infatti,
insegue la “modernizzazione” da secoli:
Pietro il Grande, il conte Witte, persino
Josip Stalin l’hanno perseguita senza
successo. La Russia è cambiata ma la sua
economia non è mai stata al passo con la
modernità. Quella di Putin è dunque
anche una sfida con la Storia che, ancora
una volta, sembra lungi dall’esser vinta.
Le “confidenze” di Putin dopo la vittoria elettorale
di Giovanni Bensi
Il primo ministro Vladimir Putin, che ha vinto le elezioni presidenziali del 4 marzo in
Russia, alcuni giorni dopo ha risposto ad una serie di domande dei giornalisti del suo pool,
convocati nella residenza di Krasnaja Poljana. presso Soci. Per prima cosa, naturalmente,
sono stati toccati i temi relativi alle nuove nomine. Putin ha dichiarato che avrebbe
discusso con il presidente uscente Dmitrij Medvedev questi problemi entro pochi giorni.
„Quali saranno i cambiamenti per ora non lo rivelerò, io e Dmitrij Anatoljevich dobbiamo
prima esaminare tutto ciò in due, vi sono determinate idee, ma perché parlarne prima del
tempo? È necessario che prima tutto ciò venga fissato su carta”, ha detto il capo del
governo. Egli ritenne che fosse scorretto parlarne in anticipo, ma qualche nome è stato
fatto.
I giornalisti hanno saputo che Sergej
Ivanov, con ogni probabilità, continuerà a
dirigere l’amministrazione del presidente
della Federazione Russa. “Credo che sarà
così. si tratta di un uomo molto efficiente.
Lo conosco da molto tempo”, ha detto
Putin rispondendo a una domanda. Il
posto di consigliere del presidente per il
lavoro con il governo e le sue dipendenze
verrà abolito, ha poi fatto sapere Putin.
Inoltre egli ha osservato che nel nuovo
governo potrebbe essere richiesto Mikhail
Prokhorov, che, sorprendentemente per
molti, ha ottenuto l’8% alle votazioni e si è
attestato al terzo posto.
iscriversi le persone attive e pensanti del
paese. Prokhorov ha poi aggiunto che,
secondo la sua opinione, lo appoggerebbe
oltre la metà di coloro che hanno preso
parte alle dimostrazioni di protesta
organizzate
dalle opposizioni nelle
maggiori città della Russia. Putin stesso,
fino
all’”inaugurazione
in
maggio
continuerà a svolgere le funzioni di
premier. Putin ha anche affermato che,
nonostante le tensioni della gara
presidenziale, egli non intende andare in
ferie. „No, perché ho già dimenticato che
cosa sono le ferie, mi ci troverei male” ha
rilevato.
“Mikhail Dmitievich (Prokhorov) è una
persona seria, un buon imprenditore, in
linea di principio potrebbe essere utile nel
governo, se lo desidererà”, ha detto Putin.
Osserviamo però che, parlando al Primo
canale, Prokhorov aveva dichiarato che
non avrebbe accettato un posto di
funzionario dello stato. “In tutti i casi non
accetterò nessuna carica, ma costruirò un
mio partito che lotterà per il potere”, aveva
detto il businessman. Egli dichiarò anche
di avere opinioni diverse da quelle di Putin
sullo sviluppo del paese. “È necessario
cambiare il potere, non c’è nulla da
stabilizzare nel nostro paese, tranne la
povertà e l’arretratezza”, ha detto con
decisione Prokhorov Egli ha sottolineato
che fra alcuni mesi fonderà un partito
„molto interessante” al quale dovrebbero
Putin
sull’opposizione:
„Mi
piacerebbe incontrarli, ma loro non
propongono nulla”
46
Vladimir Putin nel suo incontro con i
giornalisti
ha
parlato
anche
dell’opposizione. In particolare ha detto di
non essere meravigliato dal memorandum
della “Lega degli elettori” che non
riconosce i risultati delle presidenziali.
“Non c’è niente di nuovo. Lo dicevano già
prima delle elezioni. Non vale neppure la
pena di parlarne”, ha detto rispondendo a
una domanda. Come ha rilevato Putin,
„dapprima avevano ammesso che il vostro
umile servo (cioè Putin stesso – Ndr) ha
raccolto più del 50%, mentre adesso si
sono frugati nel naso ed hanno deciso che
per loro questo era troppo”. (Nota: si
tratta di una delle frasi di cattivo gusto
amate da Putin. Già nel 2007 si era
lagnato perché il governo „si fruga nel
naso e non fa un c....”). Putin ha poi
invitato l’opposizione a presentare un suo
programma costruttivo per lo sviluppo del
paese, dichiarando che solo in questo caso
essa verrà considerata una forza politica
reale. Putin ha sottolineato che non si è
mai sottratto al dialogo con l’opposizione.
A giudizio del presidente eletto,
l’opposizione antisistema „diventerà una
forza
politica
reale
solo
quando
approfitterà delle riforme da noi proposte,
si inserirà in questo sistema politico, sarà
in grado di formulare non solo le proprie
richieste, ma anche proposte per lo
sviluppo del paese”. E, ha aggiunto Putin,
„dimostreranno a una certa quantità di
elettori nelle regioni o nel paese nel suo
complesso, che le loro proposte sono
attraenti e la gente vi crede. Allora essi
diverranno una forza politica reale”.
Per ora invece, secondo Putin, la reciproca
interazione con questa opposizione
consiste nel fatto che le vengono dati i
permessi per lo svolgimento di comizi e
manifestazioni. „Il presidente Medvedev si
è incontrato con essi. Questa è già una
forma di collaborazione. Noi siamo in
costante contatto con loro”, ha detto il
presidente eletto. Per quanto riguarda la
cacciata degli oppositori sulla piazza
Pushkin il 5 marzo, Vladimir Putin ritiene
che la polizia si sia comportata in modo
corretto
e
professionale.
„Molto
professionale”, ha risposto Putin alla
domanda dei giornalisti su come giudichi
le azioni della polizia. „Non hanno
picchiato nessuno, non hanno fatto ricorso
a „mezzi speciali” e li hanno respinti [gli
oppositori] solo dopo che essi avevano
incominciato a violare il limite loro
imposto”.
L’ancora capo del governo ha aggiunto
che, grazie alle azioni della polizia, alcuni
giornalisti sono riusciti a salvarsi dai
dimostranti inferociti. “I partecipanti al
comizio avevano incominciato a picchiarli.
Uno dei giornalisti è caduto e poi è fuggito,
47
si sono lanciati a seguirlo e hanno cercato
di picchiarlo. E un agente di polizia lo ha
nascosto nella sua auto”, ha raccontato
Putin. Evidentemente il premier pensava
al caso di Aleksandr Borzenko. Questi ha
raccontato che, con la città praticamente
bloccata dalla polizia, le forze dell’ordine
hanno potuto perdere il controllo su una
colonna di nazionalisti alcuni dei quali lo
hanno aggredito. L’agente lo ha salvato
perché si trovava là casualmente.
Tuttavia Putin ha sottolineato che la
polizia è abbligata a esigere da tutti
l’osservanza della legge. „I dimostranti
hanno assunto su di sé determinati
compiti (i servizi di sicurezza –ndr). Nei
limiti della legislazione vigente è stato
permesso loro tutto. Dopo che essi
incominciarono a violare la legge, ed essi
lo fecero in modo consapevole e pubblico,
apertamente, la polizia è stata costretta a
cominciare ad agire nel modo più
adeguato”, ha spiegato il presidente eletto.
Alla fine egli ha aggiunto che „una serie di
dimostranti cerca appositamente che sia
usata la forza contro di loro”. A proposito,
rispondendo alla domanda se siano
giustificate le previsiomi di numerosi
esperti su una politica di „giro di vite”
dopo il suo ritorno al Cremlino, Putin ha
cercato di sottrarsi con un sorriso
„Certamente, come si fa a stare senza giri
di vite? Siate sempre sul chi vive!”.
Medvedev deve ripristinare l’orario
invernale, e il governo deve abolire
alpiù presto le „luci blu sulle auto
dei VIP.
Putin ha lasciato intendere di non aver
dimenticato le numerose promesse che
aveva ditribuito a destra e a manca pr
alcune settimane prima delle elzioni. Una
di esse era il ripristino dell’orario
invernale in Russia, abolito da Medvedev
quest’anno. „Se Dmitrij Anatoljevich
(Medvedev) lo ha fatto, adesso lo deve
disfare”, ha dichiarato il capo del governo.
Putin ha spiegato che l’abolizione del
passaggio all’ora legale era stata presa „su
richiesta dei lavoratori”. „Lo stesso
Medvedev ha fatto come gli hanno chiesto.
Adesso invece lo mettono in croce, gli
domandano perché lo ha fatto”, ha rilevato
Putin. A suo dire, la decisione di
ripristinare
il
vecchio
regime
di
cambiamento d’orario „può essere presa
senza alcun problema dal governo della
Russia insieme con Dmitrij Anatoljevich”.
Un altro tema sensibile per la società: il
premier ha promesso di ridurre la quantità
delle „luci blu”, delle sirene e delle targhe
speciali per le auto dei VIP ancora prima
del suo insediamento ufficiale come
presidente. Putin ga aggiunto che questo
problema è già stato discusso con il
presidente in carica Dmitrij Medvedev e
che qyesti non è contrario. „È abbastanza
complicato combattere con coloro che con
soddisfazione usano questi privilegi, - ha
aggiunto l’ancora capo del governo. – Essi
approfittano di questo e poi spuntano
come funghi”.
La sentenza su Khodorkovskij e
Lebedev è legittima.
Vladimir Putin ritiene fondata la sentenza
su Mikhail Khodorkovskij e Platon
Lebedev. „Ci sono le decisioni del
tribunale, e sono diventate ufficialmente
esecutive”,
ha
detto
durante
la
conversazione con i giornalisti. „E ci sono
le procedure previste dalla legge che
possono portare ad una liberazione. Se
qualcuno desidera accedere alle vie per la
realizzazione di queste possibilità, si
accomodi”.
Putin ha ricordato che anche il presidente
in carica „ha dato la stessa indicazione”.
La commissione per i diritti dell’uomo si
sta occupando di questo problema ed il
relativo documento è stato inviato alla
procura, ha rilevato. „Amici miei, noi tutti
parliamo di una certa componente politica
di questo affare, ma abbiamo gli occhi,
abbiamo le orecchie: avete letto la
decisione della Corte europea?” – con
queste parole Putin si è rivolto ai
giornalisti. – Vi è scritto che la Corte
48
europea per i diritti dell’uomo non vede
nell’affare Khodorkovskij un retroscena
politico”. Il capo del governo ha chiesto di
considerare quanti detenuti in Russia si
trovano nei luoghi di privazione della
libertà per aver commesso
reati
economici. „Ma l’opinione pubblica non si
ricorda di neppure uno di essi”, ha detto il
premier mostrando meraviglia.
Non si è discusso l’asilo politico per
Assad.
La questione dell’asilo politico in Russia
per Bashar Assad non è stata discussa, ha
dichiarato Putin. „Non abbiamo neppur
menzionato questa questione” – ha detto,
rispondendo alla domanda se si possa
pensare che l’attuale presidente siriano
possa ottenere asili politico in Russia.
Battibecco del premier con una
giornalista georgiana sulle truppe in
Abkhazia e Sud-Ossezia.
Col presidente della Georgia Mikheil
Saakashvili non è possibile dialogare, il
dialogo sarà possibile con un nuovo
governo. Lo ha dichiarato ancora Putin,
rispondendo a una domanda dei
giornalisti se cambierà la retorica russa
verso la Georgia nei prossimi sei anni della
sua presidenza. „Non so, quando ci
saranno le elezioni in Georgia? Anche da
questo dipendono molte cose”, ha detto
Putin rispondendo a una giornalista
georgiana. Essa a sua volta ha rilevato che
nessun politico in Georgia è disposto a
riconoscere l’indipendenza di Abkhazia e
Sud-Ossezia. „E voi che cosa volete, che la
Russia costringa la Georgia a riconoscere
la Sud-Ossezia e l’Abkhazia con la forza?”
– ha chiesto a sua volta Putin. „Ritirate le
truppe dall’Abkhazia e dall’Ossezia”, ha
insistito la giornalista. „E allora voi di
nuovo arriverete con il vostro esercito, non
è così?” le ha risposto il premier. „Voi lo
avete già fatto una volta, se ciò non fosse
avvenuto, vi sarebbe un’altra situazione”.
Il premier e presidente eletto ha rivelato ai
giornalisti che ancora prima del conflitto
aveva invitato Saakashvili a „non spingere
la situazione fino allo spargimento di
sangue”. „Io gli ho detto molte volte:
bisogna mettersi d’accordo con queste
persone. Egli confermò che così avrebbe
fatto. E che cosa ha fatto invece? Tutto il
contrario”.
Putin ha anche ricordato che la Russia
aveva promesso di non ingerirsi nel
conflitto in Adzharia ed ha mantenuto la
sua promessa, mentre la Georgia non ha
messo in pratica gli accordi che
prevedevano la creazione in quella regione
di un centro antiterroristico. „Come si può
mettersi d’accordo con simili persone”, ha
continuato Putin stringedosi nelle spalle,
„Saakashvili, dopo aver ascoltato le mie
rivelazioni, ha negato tutto. Che poteva
fare?” „Masticare la cravatta”, rispose uno
dei giornalisti (ricordando una celebre
scena del periodo della guerra russogeorgiana). „Ma al diavolo questa cravatta,
lo dico senza ironia, a tutti può succedere”,
ha continuato Putin come se avesse voluto
intercedere per Saakashvili. „Noi abbiamo
formulato ed espresso la nostra posizione.
Spetta al popolo georgiano determinare
chi sarà il presidente”, ha concluso Putin.
Giovanni Bensi è una delle voci più autorevoli tra i giornalisti che guardano ad est, classe 1938,
laureatosi in lingua e letteratura russa all’Università “Ca’ Foscari” di Venezia e all’Università “Lomonosov”
di Mosca, dal 1964 è redattore del quotidiano “L’Italia” e collaboratore di diverse pubblicazioni.Dal 1972 è
redattore e poi commentatore capo della redazione in lingua russa della radio americana “Radio Free
Europe/Radio Liberty” prima a Monaco di Baviera e poi a Praga. Dal 1991 è corrispondente per la Russia
e la CSI del quotidiano “Avvenire” di Milano. Attualmente è anche collaboratore di Nezavisimaja Gazeta. E’
un esperto di questioni religiose, soprattutto dell’Islam nei territori dell’ex URSS. Autore di numerosi saggi
tra cui ricordiamo: La Cecenia e la polveriera del Caucaso (2005) e Oltre la Cecenia. Gli altri conflitti del
Caucaso.
49
50
La Romania di Ceausescu e i giorni della rivoluzione romena
di Mauro Proni
Questo breve lavoro di ricerca, pur senza alcuna pretesa di esaustività nè tantomeno di
valenza scientifica, vuole essere un contributo ad una delle rivoluzioni più recenti e, nel
contempo, più dimenticate della recente storia europea. Il caso romeno rappresenta un
unicum nel panorama dei paesi comunisti nella loro difficile transizione verso il libero
mercato. La Romania, infatti, è stato l’unico paese d’oltrecortina che, nel contesto della
disgregazione dei regimi comunisti sul finire degli anni ottanta, ha patito un rovesciamento
violento del proprio regime, al contrario degli altri paesi del blocco sovietico che hanno
conosciuto una transizione verso la democrazia in modo più o meno pacifico. La
rivoluzione che imperversò in Romania sul finire del dicembre 1989, ben lungi dall’essere
solo una serie di disordinate proteste di piazza, ebbe successo grazie alla concomitanza di
alcuni fattori che portarono le prime e sparute manifestazioni di dissenso verso un epilogo
sempre più drammatico e violento. L’analisi dei fatti che interessarono la Romania nella
sua difficile transizione verso la democrazia sono stati oggetto di approfonditi studi da
parte di storici e giornalisti, soprattutto francesi e americani, mentre in Italia non è tuttora
facile trovare documentazione specifica sul caso romeno e, più in generale, sulla figura di
Nicolae Ceausescu, il dittatore che condizionò la Romania, nel bene o nel male, per almeno
un quarto di lustro. Conoscere e capire i fatti del dicembre 1989 è indispensabile per
comprendere la realtà attuale di questo paese.
1989: il crollo
europeo
del
comunismo
I primi episodi che segnarono l’inizio
della disgregazione dei paesi del Patto di
Varsavia consistono essenzialmente in
due eventi: l’apertura dei confini di
Sopron ed il discorso di Gorbačëv a
Berlino Est.
Procediamo con ordine. Nell’agosto del
1989 il governo di ungherese decise di
aprire i cancelli della frontiera di Sopron,
cittadina ungherese al confine con
l’Austria, così consentendo a qualunque
cittadino ungherese, ma non solo, di poter
uscire dai confini magiari senza
restrizioni e formalità burocratiche.
Inutile dire che migliaia di persone, non
solo ungheresi ma soprattutto tedeschi
della RDT, si riversarono in Austria con
tutti i mezzi a disposizione: a piedi, in
bicicletta o a bordo di grigie Trabant
51
cariche di valigie ma anche di gioia e di
speranza. L’apertura del confine di
Sopron rappresentò una svolta epocale
nella storia dell’Europa comunista e il
primo segnale di apertura verso
l’occidente, in senso non solo politico ma
anche culturale, dopo quarant’anni di
guerra fredda.
In Polonia gli episodi di protesta di
Solidarnosc e l’avvio della Perstrojka
nell’Unione Sovietica di Gorbačëv già
avevano minato la solidità del granitico
blocco comunista ed avevano dato
importanti segnali di cambiamento,
accolti con favore, ma anche con evidente
preoccupazione, da tutte le democrazie
occidentali.
E veniamo al secondo episodio. Il 6
ottobre 1989 a Berlino, in occasione del
quarantesimo
anniversario
della
fondazione della Repubblica Democratica
Tedesca, Michail Gorbačëv , segretario
generale del Partito Comunista Sovietico,
tenne un discorso pubblico alla presenza
del presidente Erich Honecker. Durante il
suo discorso il presidente dell’URSS si
rivolse al suo omologo tedesco con una
frase che lasciò il segno e della quale si
comprese l’importanza solo dopo i fatti
accaduti in Romania: “la storia non
dimentica chi non sa ascoltare le istanze
del suo tempo”. Poche parole, dirette e
stringate, che riassumono il significato
degli eventi successivi che travolsero in
primiis
la
Germania
dell’Est
e
successivamente l’Europa d’oltrecortina.
Honecker, uomo di vecchio stampo e
fedele ai dogmi del comunismo di matrice
stalinista, non parve cogliere l’invito del
presidente russo a “farsi da parte” e di
certo nessuno dell’establishment di
partito si aspettava che l’anziano
segretario potesse dare segnali di
modernità. Furono le sommosse popolari
di Lipsia nell’ottobre 1989 e l’esodo dei
tedeschi orientali attraverso la frontiera
di Sopron a mettere Honecker in seria
difficoltà. Lungi dal cogliere l’opportunità
politica di farsi artefice di una
perestrojka alla tedesca, preferì chiedere
aiuto militare a Mosca: ma non ci fu un
altro ‘56 ungherese, non ci fu un’altro ‘68
cecoslovacco. Le manifestazioni di piazza
crebbero
in
tutta
la
Germania
democratica e lo stesso Honecker capì
presto che questa volta nessuno sarebbe
corso ad aiutarlo. L’appoggio di Mosca,
militare e politico, non c’era più.
Honecker si dimise dieci giorni dopo le
proteste di Lipsia. Mancavano solo due
mesi alla fucilazione di Ceausescu e della
moglie Elena.
accaparrarsi qualche fetta di carne non
erano
un’invenzione
di
qualche
giornalista occidentale filoimperialista,
ma la triste realtà quotidiana. La fame è
sempre stata il motore delle grandi
rivoluzioni. La rivoluzione francese del
1789, quella bolscevica del 1917, così
come i recenti fatti che hanno portato alla
caduta del regime di Mubarak in Egitto
(cd.“la rivolta del pane”) furono e sono
l’epilogo della esasperazione delle masse
popolari nella lotta quotidiana per la
sopravvivenza, in contrapposizione ad un
establishment di governo che viveva (e, in
qualche caso, tuttora vive) in un
iperuranio di agi e privilegi.
Le premesse della rivolta
La storia insegna che una sistema di
governo che non riesce a far fronte alle
esigenze di base della popolazione, ovvero
l’approvvigionamento
delle
risorse
alimentari, è un sistema che non può
durare a lungo. Per le stesse ragioni, così
come i francesi esattamente duecento
anni prima decapitarono i loro sovrani, i
romeni duecento anni dopo fucilarono i
loro tiranni. Dal punto di vista del
retaggio culturale, Ceausescu non era un
fine economista, ma solo un politico
cresciuto nelle sagrestie di partito ed
Elena, pur facendo sfoggio di svariate
pubblicazioni in campo scientifico, non
aveva nemmeno completato la scuola
elementare. Negli ultimi anni di vita del
regime l’insofferenza dei romeni verso la
classe dirigente era arrivata ad un livello
esplosivo; l’odio si era catalizzato non solo
nei confronti del dittatore, ma anche della
crocchia di parenti che il Conducator
aveva collocato nei ruoli chiave della
pubblica amministrazione, in primiis la
moglie Elena, all’insegna del più bècero
dei nepotismi.
La Romania, sul finire degli anni ottanta,
era un paese che scontava una
arretratezza infrastrutturale e tecnologica
come pochi nel panorama della cosiddetta
Europa “dell’est”. A Bucarest le file
davanti ai negozi di alimentari per
La coppia presidenziale gestì la Romania
per venticinque anni come fosse il proprio
cortile di casa, facendo e disfando a
piacimento la cosa pubblica con il
massimo disprezzo e il minimo buon
senso, convinti che la propaganda di
52
regime bastasse per legittimare la loro
autorità e nascondere la verità agli occhi
della popolazione.
La politica economica
Le
scelte
in
campo
economico
rappresentano uno dei tanti esempi di
bizzarria
e
dell’incompetenza
di
Ceausescu. Il dittatore concentrò la sua
azione
di
politica
economica
principalmente
su
due
aspetti:
l'industrializzazione
forzata
e
il
risanamento
del
debito
pubblico
attraverso l’azzeramento del debito con
l’estero. Il primo obiettivo scatenò pesanti
ripercussioni sul tessuto economico
sociale.
Si
realizzò
un’opera
di
trasformazione della classe contadina in
proletariato
urbano,
favorendo
l’abbandono delle campagne e la
migrazione forzata di migliaia di persone
verso le città. Tale scelta sconvolse
profondamente l’economia del paese.
Nell'Unione
Sovietica
stalinista
il
processo di “devillaggizzazione” trovò il
suo
fondamento
nell’intenzione
programmatica di Stalin di eliminare i
piccoli proprietari terrieri (i kulaki), che
culturalmente erano stati sempre avversi
ai programmi di collettivizzazione e al
comunismo in generale. L'esperienza dei
kulaki dell'Unione Sovietica fu parimenti
drammatica. Migliaia vennero deportati
nei gulag e altrettanti costretti ad
abbandonare forzosamente le campagne
per dirigersi verso le città ed essere
impiegati come lavoratori nell'industria
pesante.
Il Conducator si impose di copiare, alla
sua maniera, le politiche staliniane. Non
si dimentichi anche che, nel quadro dei
paesi
comunisti
che
gravitavano
nell’orbita dell’URSS, le decisioni di
politica economica erano rigidamente
pianificate da Mosca e i paesi satelliti
dovevano limitarsi alla loro messa in
pratica. La Romania del XX secolo era
53
tuttavia un paese fondamentalmente
agricolo. Per tale ragione, al Paese era
stato assegnato da Mosca il ruolo di
granaio dell'Unione Sovietica, al pari di
Ucraina e Bielorussia. Il Conducator,
tuttavia, non si mostrò disposto ad
accettare passivamente il ruolo assegnato
alla Romania, volendo avviare anche nel
suo paese un progetto di rapida
industrializzazione, sul modello stalinista.
Secondo
Ceausescu,
attraverso
la
proletarizzazione dei contadini, si sarebbe
fornita ingente forza lavoro all'industria
romena, ancora in fase embrionale.
Inoltre,
concentrando più persone
possibile nelle grandi città, si potevano
meglio controllare le teste calde e il lavoro
della Securitate sarebbe stato più facile.
L’obiettivo aveva dunque un duplice
scopo.
Il risultato di queste scelte politiche fu
catastrofico. Non solo il progetto di
industrializzazione forzata non ebbe il
minimo successo, per la carenza interna
di materie prime e l’atavica arretratezza
tecnologica del paese, ma l'emigrazione
disordinata dalle campagne fece altresì
mancare la forza lavoro nelle campagne
con immaginabili conseguenze in un
paese che, piaccia o no, fondava la sua
economia
prevalentemente
sull’agricoltura e sul lavoro manuale, visto
che
anche
in
agricoltura
la
meccanizzazione della produzione era
totalmente assente.
Il risanamento del debito pubblico fu un
altro degli obiettivi del Conducator.
Purtroppo fu più un operazione di
bandiera che un reale successo.
Concentrando tutte le risorse finanziarie
all’azzeramento
del
debito
estero
ceausescu riuscì solo a impoverire le casse
dello stato ottenendo un risultato che, a
giudizio dei moderni analisti finanziari,
non rappresentava certo una priorità per
il paese e comunque poteva essere gestito
in un lasso di tempo più lungo ottenendo
gli stessi risultati a costi sociali e
economici nettamente inferiori.
Le politiche della famiglia e la
questione demografica
Il mito della “nazione”, il populismo, il
nazionalismo esasperato, non potevano
non passare anche attraverso riforme per
favorire la crescita crescita demografica,
almeno secondo le intenzioni del
compagno Nicolae. Secondo le stime del
regime, la Romania dei primi anni
sessanta era un paese a crescita
demografica azzerata. Ciò allarmava non
poco il Conducator, soprattutto in vista di
un
futuro
di
progressiva
industrializzazione del paese. Bisognava
preparare la Romania del futuro e per
farlo occorrevano braccia giovani e forti.
L’adozione delle politiche di incremento
demografico in Romania rappresentò uno
sfacelo totale che causò migliaia di morti
e altrettanti casi di abbandono di minori.
Non abbiamo un dato numerico preciso
delle vittime delle delle riforme sociali di
Ceausescu, nei manicomi, negli ospedali,
nelle case private, per fame e freddo o
inadeguatezza delle strutture mediche. In
questo senso non esisteva un istituto
nazionale che tenesse conto di questi dati:
avrebbe
significato
ammettere
ufficialmente che il “sistema” non
funzionava. Gli unici dati a disposizione
sono quelli forniti dagli oppositori del
regime, pubblicati peraltro dopo la fine
della dittatura e quindi assai discordanti
tra loro. Si stima che i morti nel
trentennio del Conducator siano stati
circa 65.000, ma c’è chi parla di
addirittura di 1.200.000 vittime, dunque
fornire un dato preciso rischia di essere
un esercizio di pura fantasia.
I primi provvedimenti in materia sociale
risalgono già al 1966. Dopo solo un anno
dalla sua nomina a segretario del Partito
Comunista Romeno, Ceausescu emanò il
primo decreto per il sostegno alle nascite
54
che consisteva in pochi semplici punti:
divieto di aborto; proibizione della
contraccezione; erogazione di premi alle
famiglie numerose; tassa sulle donne
senza figli e limitazione dei casi di
divorzio.
Il regime si spinse così avanti nel
perseguimento dell’obiettivo di aumento
demografico da negare anche l’esistenza
del virus dell’AIDS, cosa che portò alla
mancata
adozione
di
precauzioni
igieniche, con particolare riferimento alle
trasfusioni di sangue, fenomeno che
causò negli anni ottanta una delle più
gravi
catastrofi
sanitarie
dell’era
moderna.
Con l’introduzione del reato di aborto, che
prevedeva pene detentive assai pesanti, si
realizzò la prima fase della politica di
incremento demografico. Negli anni
ottanta in Romania non era possibile
trovare un ospedale pubblico che
praticasse l’interruzione di gravidanza:
presidi di polizia presso gli ospedali
controllavano le cartelle cliniche dei
pazienti con particolare riguardo alle
giovani ragazze in età sospetta. Era
altrettanto difficile trovare qualcuno
disponibile
a
praticare
l’aborto
clandestino viste le severe pene detentive
previste.
Le madri che facevano molti figli
beneficiavano tuttavia di una serie di
benefits commisurati al numero di pargoli
che mettevano al mondo: si andava da
una vacanza premio a spese dello stato,
all’automobile, fino alla casa. Le donne
che facevano più di dieci figli
beneficiavano del titolo di “eroine” della
Romania,
una
onorificenza
sostanzialmente priva di significato
pratico. Tutto ciò produsse gli effetti
desiderati fin da subito. Il tasso di natalità
aumentò
rapidamente
anche
se,
altrettanto rapidamente, le famiglie
capirono che una vacanza al mare o una
macchina nuova non aiutavano a sfamare
la famiglia numerosa. Uno, due, tre,
quattro
figli
potevano
pesare
rovinosamente sul bilancio domestico,
almeno fino a quando i fanciulli non
raggiungevano l’età per lavorare. La
catastrofe sociale era dunque cominciata.
Presto le famiglie si resero conto che non
potevano mantenere i nuovi nati e assai
frequenti furono i casi di abbandono di
minori, fenomeno costante fino alla fine
del regime. I figli abbandonati venivano
affidati a istituti statali. Si trattava più che
altro di ricoveri dove i fanciulli venivano
ospitati più che accuditi. Il personale, non
adeguatamente preparato sotto l’aspetto
sanitario,
psicologico
e
socioassistenziale, si limitava alla semplice
assistenza sanitaria di base e talvolta
nemmeno questo, per la carenza di
farmaci e di moderne apparecchiature
diagnostiche. Il risultato fu presto fatto.
Solo dopo il 1989 si venne a conoscenza
degli orfanotrofi lager. Alcuni bambini
erano storpi a causa di banali infezioni
non curate, malformazioni trascurate,
fratture non ingessate che avevano
determinato la calcificazione scomposta
delle ossa. Alcuni all’età di quattro anni si
muovevano ancora a quattro zampe in
quanto nessuno aveva insegnato loro a
camminare in posizione eretta.
Solo dopo il 1989 gli orfanotrofi della
vergogna venero chiusi, come segnale
simbolico di cesura rispetto al regime
precedente, anche se questo non risolse i
problemi degli orfani, anzi li aggravò.
Migliaia di bambini si trovarono per la
strada senza una famiglia, un lavoro, un
tetto, un’istruzione di base. Questi ragazzi
ancora oggi sono chiamati “i figli di
Ceausescu”, in quanto è al Conducator
che si riconduce la loro paternità politica.
Divenne inevitabile per molti bambini
rifugiarsi nei grandi centri abitati,
soprattutto nelle periferie della capitale,
dove le opportunità erano maggiori. Molti
55
di loro riuscirono a sopravvivere con
l’accattonaggio e commettendo piccoli
reati. Le fogne delle città erano, e in molti
casi lo sono ancora, la loro casa: sotto le
strade di Bucarest, con una coperta
adagiata sulla superficie delle condutture
dell’acqua calda.
Politica estera
La peculiarità della politica estera della
Romania di Ceausecu si caratterizzò
essenzialmente
in
una
particolare
apertura verso l'occidente, in senso non
solo politico ma anche economico, nonché
attraverso uno spiccato pacifismo di
bandiera. Il ripudio della violenza come
metodo di risoluzione dei conflitti interni
e internazionali, fu il caposcaldo con il
quale Ceausescu mirava a guadagnarsi la
stima dei capi si stato stranieri, in
sostanziale contrapposizione con Mosca,
che invece stanziava per gli armamenti
risorse finanziarie pari al 25% del suo
PIL.
La visita del presidente americano Nixon
nel 1969 si inquadra proprio nel clima di
apertura verso le relazioni internazionali
che la Romania conobbe sotto il
Conducator. Nixon fu il primo presidente
americano a mettere piede in un paese del
blocco comunista. L'anno dopo Ceausescu
ricambiò il favore recandosi per ben due
volte in visita ufficiale a Washington. Le
successive comparsate di Ceausescu in
Inghilterra, Italia, Francia, Cina, Vietnam
adempiono sempre allo stesso obiettivo
politico:
uscire
dall'isolazionismo
generalizzato dei paesi del blocco
sovietico, costruire un modello di
socialismo
aperto
all'occidente,
guadagnarsi la simpatia dei capi di stato
stranieri e un ruolo autonomo da Mosca,
mirando a ritagliarsi quel ruolo di
paladino della “pace tra i popoli” con lo
scopo, come qualcuno ritenne, di ottenere
quel Nobel per la Pace che tuttavia mai gli
fu riconosciuto. Le visite di Ceausescu ed
Elena e gli incontri con i capi di stato
stranieri erano sempre accompagnate da
uno stuolo di fotografi e operatori TV che
immortalavano gli incontri. Una volta
giunte in patria, tali immagini venivano
diffuse
attraverso
telegiornali,
documentari, il tutto dopo essere state
abilmente montato dai tecnici televisivi
romeni sotto la "regia" attenta della
Securitate ed infarcito dai consueti toni
trionfalistici degli speakers televisivi e dei
giornalisti di regime, alterando il più delle
volte la realtà e il senso delle parole. La
politica estera che strizzava l’occhiolino
all’occidente non era fine a se stessa ma
assolveva ancora una volta alla funzione
di corroborare il consenso interno.
alte sfere militari. Se a ciò si aggiunge che
i soldati vennero spesso impiegati come
forza lavoro non solo in occasione di
calamità naturali, ma anche come
muratori (ad esempio per l’edificazione
del palazzo del popolo di Bucarest,
l’attuale sede del parlamento romeno) si
capisce in quale contesto si alimentò il
malcontento delle gerarchie militari nei
confronti del tiranno fino al punto che,
durante le sommosse del 1989, larghe
frange dell’esercito si schierarono con la
popolazione così contribuendo in modo
decisivo al successo della rivoluzione.
I rapporti con le gerarchie militari
Nicolae Ceausescu tenne il suo ultimo
discorso a Bucarest il 22 dicembre 1989. I
primi disordini a Timosoara non
sembrarono
preoccupare
molto
il
Conducator che proprio pochi giorni
prima era volato a Teheran, per la stipula
di nuovi accordi con l’Iran in campo
petrolifero.
Tuttavia
Ceausescu,
adeguatamente informato dai suoi
apparati di sicurezza, si rese conto ben
presto che i disordini di Timisoara non
erano solo proteste isolate, ma che il
clima di insofferenza verso il regime stava
dilagando in tutto il paese, inclusa la
capitale. Il dittatore pensò alla più banale
delle iniziative: farsi vedere in TV per
placare
le
tensioni
e
sminuire
l’importanza delle proteste. Incaricò
quindi la Securitate di organizzare una
manifestazione di regime a Bucarest
davanti al palazzo presidenziale. Vennero
mobilitate migliaia di persone per
l’occasione, opportunamente convocate
dagli apparati si sicurezza, come era loro
solito, per fare la clacque al tiranno.
Anche la televisione nazionale era stata
allertata per trasmettere l'evento a reti
unificate, ma qualcosa andò storto. Fonti
non ufficiali affermano che la Securitate
venne informata che il comizio di
Ceausescu era stato annullato e che
quindi i supporters non servivano più.
Così migliaia di persone vennero invitate
Un altro elemento di peculiarità della
politica romena sotto Ceausescu riguarda
il ruolo assegnato alle forze armate. In
ogni regime che si rispetti il ruolo delle
forze armate è fondamentale sia sul piano
internazionale che interno, per il
controllo degli eventuali focolai di rivolta.
Gli
ingenti
investimenti
militari
dell'Unione Sovietica portarono la
tecnologia militare a livelli di assoluta
eccellenza. Purtroppo questa fu anche una
delle pesanti eredità che Gorbačëv si
trovò ad affrontare all'inizio del suo
mandato. L'enorme spesa pubblica per la
difesa unitamente alla spesa per il
pachidermico apparato statale stava
soffocando l'economia sovietica, ferma al
palo rispetto ai paesi occidentali, nel
pieno della “rivoluzione informatica”.
All’opposto di colloca la Romania.
Nonostante l'esercito romeno durante la
seconda
guerra
mondiale
fosse
numericamente molto superiore perfino
all’esercito degli Stati Uniti (si contavano
truppe per 200.000 unità contro le
170.000 degli USA), la Romania di
Ceausescu non destinò mai ingenti risorse
economiche alle forze armate trascurando
spesso le richieste di modernizzazione
degli armamenti che provenivano dalle
56
L’ultimo discorso. La fuga
a tornare indietro. Nella piazza rimasero
tuttavia altrettante persone. Non si
trattava solo di cittadini romeni, ma
soprattutto di russi, accorsi a Bucarest a
migliaia. Semplici turisti o agenti dei
servizi segreti sovietici mobilitati da
Mosca? Non si sa con certezza ma è certo
che mai come in quel giorno si registrò a
Bucarest una tale affluenza di cittadini
russi.
Affacciatosi alla finestra del palazzo
presidenziale
Ceausescu
tenne
un
discorso che durò non più di un minuto e
mezzo, cioè fino a quando i fischi
cominciarono a prendere il sopravvento
sulle parole dell’anziano dittatore.
Nemmeno il tentativo della televisione di
stato di coprire i fischi con gli applausi
pre-registrati
ebbe
successo.
Il
Conducator, visibilmente imbarazzato,
nel disperato tentativo di placare il
chiasso con un gesto incerto del suo
braccio, non riuscì più a proseguire. Un
agente della Securitate lo invitò ad
allontanarsi dal balcone. Le trasmissioni
televisive vennero oscurate. Poco dopo un
elicottero si alzò in volo dal tetto del
palazzo. Fu l'ultima volta che il
Conducator mise piede a Bucarest.
Le fonti raccontano versioni diverse di
quelle ultime ore. Si racconta che
Ceausescu salì a bordo dell'elicottero
insieme con la moglie Elena, la guardia
del corpo e due agenti della Securitate.
L'elicottero avrebbe dovuto dirigersi verso
una delle tante residenza presidenziali per
consentire alla coppia di raccogliere i
propri effetti personali e proseguire alla
volta di un aeroporto dove, a bordo di un
aereo civile, avrebbe dovuto varcare i
confini nazionali per una destinazione
imprecisata, si pensa in sudamerica.
Le cose tuttavia andarono diversamente.
Pare che l'elicottero ebbe un guasto,
probabilmente in seguito ad un
sabotaggio, e fu costretto ad un
atterraggio di fortuna in aperta
57
campagna, non lontano da Tirgoviste. Da
lì i coniugi Ceausescu si sarebbero dati
alla fuga a piedi, prima di essere raggiunti
da una pattuglia dell'esercito romeno, che
nel frattempo era passato dalla parte dei
rivoltosi. Al di là dei connotati giallopolizieschi della vicenda la sostanza è che
il presidente Repubblica Socialista
Romena, l’uomo che aveva comandato in
Romania per quasi trenta anni, ora stava
scappando per campi come un ladro
qualunque, abbandonato anche dagli
apparati dello stato che avrebbero dovuto
essergli più fedeli.
Il processo
Il processo di Ceausescu e della moglie
Elena si tenne a Tirgoviste, nella massima
segretezza ed alla presenza di un
improvvisato
tribunale
militare
organizzato per telefono da Bucarest dal
neonato Fronte Rivoluzionario Rumeno.
La necessità di mantenere segreta la
località di detenzione dei due tiranni e di
accelerare le sorti degli eventi era data dal
timore che un blitz dei reparti della
Securitate ancora fedeli al presidente
potesse mettere fine a tutto. Bisognava
tagliare la testa al serpente che ancora si
dimenava, solo in questo modo si poteva
legittimare completamente la rivoluzione
e chiudere con il passato.Non ci sono
fonti certe attestanti l’esatto giorno della
fucilazione dei due coniugi, ma opinione
comune è che si tratti del giorno di Natale
del 1989. La prigionia dei coniugi
Ceausescu a Tirgoviste durò quindi tre
giorni, dal 22 al 25 dicembre. I due
tiranni vennero accusati di tre capi di
imputazione: genocidio del popolo
romeno, politica economica fallimentare,
appropriazione indebita di proprietà
pubbliche. Dopo nemmeno un ora di
camera di consiglio il verdetto fu la
condanna a morte per entrambi con
esecuzione immediata. Il giudice ordinò
ai militari presenti di condurre i
condannati all’esterno dell’edifico per
essere giustiziati. Qui vennero fucilati,
avvolti nei loro cappotti di peltro, le mani
legate dietro la schiena. Dopo l’esecuzione
i corpi di Nicolae e Elena furono risposti
all’interno di due bare, con la faccia verso
il basso, coperti solo da un lenzuolo
bianco. L’era del Conducator era finita.
I corpi dei coniugi Ceausescu riposano
tuttora nel cimitero di Bucarest, in due
tombe molto distanti l’una dall’altra. Sulla
croce bianca della tomba del Conducator
c’è la scritta “Nicolae Ceausescu, 19181989”. Qualche fiore qua e là, omaggio di
un inguaribile nostalgico. L’attuale
governo romeno si è sempre opposto alle
reiterate richieste della figlia Zoia di
trasferire i corpi dei genitori in una tomba
di famiglia. Oggi in Romania è proibito
mostrare in pubblico immagini del
dittatore, inneggiare allo stesso a mezzo
stampa, radio o tv. Il giorno di Natale di
ogni anno, dal 1989, la televisione
nazionale trasmette le immagini del
processo e dell’esecuzione di Nicolae e
Elena Ceausescu.
Conclusioni
La Romania di oggi è nata sulle ceneri di
quella rivoluzione. Dove sono finiti i
leaders politici del passato regime?
Hanno cambiato la giacca e indossato
vesti nuove: il comunismo “non fa più
moda” ed allora ci si ricicla nei gangli del
nuovo sistema di governo per dare una
parvenza di discontinuità (o continuità?)
con il passato. Così i vecchi e grigi
dirigenti di partito sono i nuovi dirigenti
politici; gli ufficiali della Securitate sono i
nuovi ufficiali dei servizi segreti. Tutto è
cambiato perché non cambiasse nulla.
Molte sono le ipotesi sulla rivoluzione
romena, su chi fossero i suoi promotori e
su chi ne ha cavalcato l’onda una volta che
si era delineato il quadro. Non è fantasia
l’ipotesi di chi sostiene che la rivoluzione
sia stata organizzata dallo stesso
establishment del partito comunista
romeno, divenuto insofferente verso
l’anziano dittatore che si rifiutava di farsi
portavoce di una transizione democratica,
ma che, chiuso nel palazzo, si ostinava a
portare avanti il carretto dell’antistoria,
preoccupato solo di poter così perdere il
suo potere personale, costruito sul
nepotismo e sulla sopraffazione. E oggi?
Ceausescu come Gheddafi, l’eroe della
rivoluzione, come lui stesso ama definirsi,
assiste imperterrito all’avanzare delle
truppe dei ribelli in tutto il paese, perde
l’appoggio politico dei paesi occidentali
“oleodipendenti”, vede passare dalla parte
del nemico i suoi generali e i suoi
ministri. Nonostante tutto ciò si ostina a
credere in un ribaltamento delle sorti
della guerra, si mostra sicuro di se mentre
gioca a scacchi davanti ad una telecamera,
mentre i ribelli avanzano costringendolo a
passare gli ultimi giorni della sua vita in
un tugurio di cemento armato in
compagnia della sua pistola d’oro,
incurante anch’egli della storia.
Mauro Proni, nato a Lodi nel 1975, si è laureato in giurisprudenza a Pavia nel 2000 con una tesi in diritto
industriale. Nel 2003 ha frequentato un corso di comunicazione televisiva e multimediale a Torino. Nel
2006 ha iniziato a collaborare con il magazine online Viedellest. Fotoamatore, ha viaggiato intensamente
in Europa e in oriente. Pubblica reportage di viaggio di tema storico e culturale sui paesi dell’ex blocco
sovietico.
58
Mineriada: 13-15 giugno 1990. Realtà di un potere neocomunista.
di Mihnea Berindei, Ariadna Combes, Anne Planche
Casa editrice Humanitas, Bucarest 1992
Traduzione di Clara Mitola
Il presente estratto appartiene ad un’inchiesta fatta “a caldo”, compiuta e pubblicata
immediatamente dopo i fatti del giugno 1990, cioè dopo l’ondata di brutalità che
insanguina Bucarest e compromette i sogni di democrazia reale che la Romania post
comunista cerca con fatica di coltivare.
Ho deciso di tradurre parte dell’introduzione di questo lavoro di ricerca storica non solo
per rendere noti avvenimenti di cui non si sa poi molto nel nostro paese, ma anche perché
ritengo che Piața Universității sia una sorta di anello di congiunzione tra la Rivoluzione
del 1989 e la contemporaneità politica e soprattutto democratica che si osserva oggi in
Romania. È una questione fortemente simbolica, ma allo stesso tempo reale perché se le
cose fossero andate diversamente allora, forse oggi la democrazia romena avrebbe
gambe più robuste. O forse no. È un’ipotesi, un simbolo per l’appunto, un ponte tra
passato e presente, in un presente profondamente scosso dal desiderio di rinnovamento e
trasparenza, se non direttamente, pulizia da scorie e distorsioni dure a morire.
A partire dai primi rivolgimenti drammatici che hanno avuto luogo nell’Europa dell’Est,
due avvenimenti hanno richiamato l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale sulla
Romania: la rivoluzione-colpo di stato del dicembre 1989 e la discesa dei minatori per le
strade di Bucarest nei giorni del 14 e 15 giugno 1990.
Il primo ha risvegliato un grande entusiasmo e ha dato il via ad un enorme movimento di
solidarietà. Il secondo ha rappresentato uno shock. Quest’ultimo ha determinato la
repulsione anche da parte dei più vivi sostenitori delle attitudini tolleranti rispetto alla
“giovane democrazia” romena.
A sei mesi dall’insurrezione di Natale, seguita con il cuore in gola da milioni di
telespettatori, sui nostri schermi sono apparse di colpo le orde di minatori che si
riversavano su Bucarest: linciaggi, distruzioni, immagini che arrivano da un altro tempo.
È vero che da un certo momento in poi si era già fatta presente una certa incertezza
rispetto all’autenticità della rivoluzione e delle opzioni democratiche del potere che
pretendeva di essere la fonte della rivoluzione stessa. Ma in fondo, risultato di una
rivoluzione spontanea o di un colpo di stato dei riformatori gorbacioviani, il Governo gode
in modo continuativo della grande simpatia e fiducia guadagnate a dicembre. Le prime
misure di carattere democratico avevano fatto buona impressione: l’abbrogazione delle
leggi più repressive, il riconoscimento delle libertà principali tra cui quella di libera
associazione, anche per i partiti esistenti prima della guerra, la proclamata “scomparsa” del
partito comunista e delle sue strutture, soprattutto della Securitate.
Dopo gli eventi di giugno, la reazione internazionale è immediata e quasi unanime. Tutti si
sentono imbrogliati e ricordano di essere già stati tratti in inganno una volta, quando
hanno tremato di fronte alle immagini della ”ecatombe” di Timișoara.
In ogni caso, anche per l’osservatore meno accorto, i fatti di giugno rappresentano una
sorpresa solo parziale. Da una parte, sarebbe stato difficile presupporre che il potere in
carica, che aveva appena ricevuto la conferma della propria legittimità con la schiacciante
vittoria alle elezioni del 20 maggio, avrebbe avuto il coraggio di tali maniere e di
59
manifestare una tale violenza. Dall’altra parte, è noto come questa crisi sia stata preceduta
da molte alte crisi, latenti o violente, e questo in pratica già dai primi giorni della
rivoluzione.
I disordini sono montati insieme alla progressiva consapevolezza di quanto profonda fosse
la manipolazione che ha accompagnato la presa del potere e la mistificazione attraverso cui
i leader del Fronte di Salvezza Nazionale hanno cercato di dissimulare le loro reali
intenzioni: le immagini del processo ai coniugi Ceaușescu, l’esagerazione del numero delle
vittime della rivoluzione, il mistero intorno ai “terroristi”. La sensazione che si tratti di
menzogne è rafforzata dal comportamento del FSN che, già dai primi conflitti di gennaio,
ritorna all’uso di metodi ben noti: minacce fatte per lettera o telefonate anonime, lanciare
accuse infamanti, sostenute dalla stampa legata al Fronte, contro gli oppositori e i partiti
appena tornati alla vita politica. Durante la campagna elettorale, all’inizio di aprile, gli
ostacoli posti sulla strada della libera espressioni si sono fatti più ardui e più numerosi,
nella sfera individuale quanto in quella colletiva.
Inoltre, a partire dagli ultimi giorni di gennaio, molte delle manifestazioni organizzate
dalle opposizioni virano dalle posizioni iniziali, in risposta alle provocazioni sempre più
evidenti e sono usate come pretesto per contromanifestazioni di ingiustificata violenza,
attuate con la complicità delle autorità e delle forze dell’ordine. Le crisi di sviluppano in
modo coerente rispetto ad uno scenario sempre più simile a quello che si avrà in giugno.
28-29 gennaio: in risposta ad una manifestazione che ha riunito circa 100.000 persone, gli
operai di molte fabbriche di Bucarest insieme ai minatori di Valea Jiului devastano le sedi
dei partiti storici, brutalizzano chi si trova al loro interno, maltrattano tutti coloro che si
permettono di protestare.
18-19 febbraio: durante una grande manifestazione pacifica a Piața Victoriei, un gruppo di
provocatori prende d’assalto la sede del Governo senza che le forze dell’ordine, presenti in
gran numero, oppongano alcuna resistenza. Qualche ora più tardi, l’ordine è ristabilito con
facilità e molta gente è arrestata. L’accaduto, come nel caso del 28 gennaio, è considerato
dalle autorità un vero e proprio colpo di stato antidemocratico. Il giorno successivo, solo i
minatori di Valea Jiului sono presenti all’appello del Governo; gli operai della capitale
cominciano a non rispondere alle mobilitazioni. Armati di bastoni e di altre “armi” si
impegnano in una delle più minacciose manifestazioni che abbia mai attraversato le strade
della capitale.
19-21 marzo: uno scenario identico è costruito sullo sfondo dei conflitti inter-etnici di
Târgu-Mureș, in Transilvania. I “contadini” romeni sono chiamati a rispondere alle
manifestazioni degli ungheresi che chiedono al Governo una regolamentazione dei loro
diritti di minoranza. Fino all’intervento tardivo dell’esercito e della polizia, si registrano
morti e feriti.
In tutti e tre i casi, il potere ha usato strategie che ritorneranno come sfondo agli
avvenimenti di metà giugno: preparare il terreno attraverso un’attività di propaganda che
approfitta di opposizioni reali o provocate (operai/intellettuali; romeni/minoranze
nazionali etc); l’uso di certi metodi che evidenziano la presenza e l’azione di
un’organizzazione maestra nell’arte della provocazione, mobilitazione e manipolazioni,
altrimenti detta, la ex Securitate. D’altra parte, i fatti di Târgu-Mureș rappresentano un
pretesto perfetto per la costituzione del Servizio Romeno d’Informazione, all’interno del
quale si raggruppa buona parte dei quadri della vecchia polizia politica. Quest’ultima torna
così ad essere un organismo indipendente, dopo esser passata, a dicembre, sotto la
supervisione dell’esercito. Per ciò che concerne la crisi di giugno, si vedrè come da questo
nucleo nascerà la Jendarmeria, costituita soprattutto da unità che indossano la stessa
divisa della Securitate.
60
Questa crisi mette in luce il conflitto, inizialmente difficile da vedere, e in seguito sempre
più evidente, tra le due forze legittime che stanno alla base dei cambiamenti avvenuti in
Romania: la legittimità di chi è uscito in strada nella folle speranza chiudere con la
dittatura, e anche con i comunisti – parola d’ordine che ha animato i manifestanti fin dal
primo momento, e la “legittimità” di coloro che, attraverso un colpo di stato non
dichiarato, sono riusciti ad occupare i primi posti lasciati vacanti e ad autoproclamarsi
rappresentanti di una rivoluzione di cui hanno saputo approfittare.
Per i primi, la rivolta di dicembre è stata solo l’inizio della rivoluzione democratica alla cui
realizzazione essi aspiravano. Il susseguirsi quasi ininterrotto delle manifestazioni, di cui
siamo stati testimoni a Bucarest e nella maggior parte delle grandi città di tutto il paese, è
il frutto dell’azioni di questa parte della popolazione, soprattutto dei giovani. I principali
obiettivi dell’azione: conoscere la verità sui fatti di dicembre, sulla reale situazione della
Securitate e, allo stesso tempo, opporsi rispetto alla tendenza manifestata dal FSN di
monopolizzare il potere e di basarsi ancora sulla vecchia nomenclatura.
Dopo la “lezione” del 29 gennaio, i partiti politici e soprattutto i due partiti storici, il Partito
Contadino Nazionale cristiano-democratico (PNTcd) e il Partito Nazional Liberale (PNL),
non organizzano più manifestazioni per strada. In compenso, la strada sarà occupata da
leghe e associazioni studentesche, dai sindacati indipendenti e da altri movimenti, come il
Gruppo Indipendente per la Democrazia (GID), la “Società Timișoara”, l’Associazione “15
Novembre 1987”- Brașov, etc. Anche l’esercito sarà presente attraverso le manifestazioni
organizzate a febbraio dal Comitato d’Azione per la Democratizzazione dell’Esercito
(CADA). Questo movimento contestatario indipendente ritorna nelle posizioni assunte dal
Gruppo per il Dialogo Sociale (GDS), costituitosi alla fine di dicembre per iniziativa di
alcune personalità, vecchi oppositori, intellettuali di prestigio non compromessi col
vecchio regime. Il settimanale pubblicato dal GDS, a partire dal mese di gennaio, 22,
diventerà una delle principali tribune da cui il movimento renderà note le proprie
posizioni. Le principali testate indipendenti, come anche le centinaia di pubblicazioni dello
stesso tipo che appaiono in brave tempo in tutto il paese, rappresentano il catalizzatore
degli elementi più dinamici delle opposizioni democratiche e questo a dispetto delle
considerabili difficoltà materiali contro cui si scontrano e degli ostacoli posti dalle autorità
nel loro processo di sviluppo e diffusione.
I contestatari communque esitano ad impegnarsi fermamente nella lotta politica. L’11
marzo, la “Società Timișoara” pubblica il Proclama di Timișoara, un programma in tredici
punti che precisa gli obiettivi politici di tutti coloro che desiderano continuare la
rivoluzione. Dopo una prima campagna di adesioni, il 26 aprile nasce l’Alleanza di
Timișoara che raccoglie centinaia di migliaia, forse addirittura un milione di firme. In ogni
caso, per via della mancanza di esperienza, l’Alleanza non pensa di usare questo potenziale
in uno scontro elettorale e non presenza alcun candidato alle Presidenziali o una lista per le
elezioni legislative. Le cose staranno così anche per il movimento contestatario che si
cristallizzerà in Piața Universității, a Bucarest.
Il Proclama di Timișoara è un documento di riferimento dei manifestanti che, a partire dal
22 aprile, occuperanno per 53 giorni di fila questo luogo simbolico dove caddero le prime
vittime dell’insurrezione della capitale, il 21 dicembre del 1989. I manifestanti insistono
particolarmente sul “punto 8” del programma, che invoca il divieto per i vecchi attivisti
comunisti e per tutti gli ex ufficiali della Securitate a candidarsi nelle liste elettorali per le
successive tre legislature. Questo divieto è valido anche per le elezioni Presidenziali. La
seconda richiesta dei manifestanti riguarda la fine del monopolio del potere sui mezzi di
comunicazione audiovisivi, la presenza delle opposizioni, completa ed equilibrita, in
61
televisione. Per richiamare l’attenzione sull’importanza vitale accordata a tali
rivendicazioni, circa un centinaio di manifestanti entreranno in sciopero della fame,
esattamente nel posto in cui si svolgono le manifestazioni.
Le autorità non si decidono ad intraprendere un dialogo, a dispetto dei numerosi interventi
compiuti in questo senso soprattutto da parte del GDS. In ogni caso, il potere manifesta
pubblicamente e in più occasioni l’intenzione di creare un dialogo, per poi tirarsi indietro
all’ultimo momento. È anche vero che le principali rivendicazioni dei manifestanti
contenevano aspetti troppo sottili per le autorità. Da questa prospettiva, l’empasse era
inevitabile. Quando, l’11 giugno, dopo le elezioni, le autorità accetteranno infine di ricevere
una delegazione di scioperanti, sarà solo per fargli la vaga promessa di una televisione più
indipendente, premessa considerata insufficiente dagli ultimi occupanti della piazza.
In senso retrospettivo, l’importanza del fenomeno di Piața Universității deriva dalla sua
comprensione al di là del confronto col il potere. Questo posto, proclamato “prima zona
libera dal neo-comunismo”, diventa una scuola per decine, centinaia di migliaia di persone
di ogni età e condizione sociale, uomini che scoprono qui un’identità comune. È l’unico
posto in Romania in cui c’è libertà reale, dove si parla senza paura – spesso per la prima
volta – in pubblico, è un’agorà. Coloro che sono in Piața Universității abitualmente creano
una confraternita con riti propri, con canti, slogan, tribune, con un proprio folklore.
Quando, il 25 aprile, durante una seduta televisiva del Consiglio Provvisorio di Unità
Nazionale (CPUN), Ion Iliescu apostrofa i manifestanti “golani21”, questi si approprieranno
della definizione, trasformandola in un titolo onorifico e di riconoscimento.
Sempre nello stesso periodo si aprirà il balcone della Facoltà di Geografia; diventerà la
tribuna dalla quale parleranno centinaia di persone – scolari, studenti, operai, contadini,
intellettuali – in loro nome o in nome della collettività e delle associazioni che
rappresentano. Si tratta soprattutto dei cittadini di Bucarest, ma anche di uomini
proveniente dal resto del paese, persino oltre frontiera, romeni della Basarabia o che
tornano dall’esilio, stranieri simpatizzanti col movimento. Gli argomenti trattati portano
tutti in filigrana la ricerca della verità. La verità su loro stessi e sugli altri, sul passato e sul
presente. Sul presente soprattutto, per preparare il futuro. Si fa appello a coloro che la
pensano nello stesso modo; sono chiamati a parlare noti oppositori del regime di
Ceaușescu (Doina Cornea, Gabriel Andreescu, Radu Filipescu…), membri del GDS (Ana
Blandiana, Petru Creția, Stelian Tănase, Sorin Dimitrescu…), i leader dei nuovi movimenti
studenteschi (Marian Munteanu, Mihai Gheorghiu… ), quelli dell’Associazione degli Ex
Detenuti Politici (Ticu Dumitrescu), del GID (Iulian Cornățeanu, Andrei Apostol) e della
“Società Timișoara” (George Șerban) e ancora molti altri.
Piața Universității è una scuola, ma anche il luogo in cui si formano numerosi movimenti
che si cristallizzeranno e matureranno. L’esempio di Bucarest è contagioso: a Timișoara,
Cluj e Iași, a Constanța, Piatra Neamț e in altre località sono organizzatee manifestazioni
dello stesso tipo per periodi di tempo più o meno lunghi.
Questo movimento, sebbene abbia avuto un ruolo di mobilitazione reale per una parte
della società, ha portato in sé, per sua stessa natura, il germe della propria estinzione. Le
manifestazioni di Piața Universității non sono riuscite a trasformarsi in un movimento di
opposizione costruttiva, con una struttura e un programma propri. In queste condizioni, la
sua scommessa è rimasta quella di concentrarsi su un’azione contestataria che rivendica
ciò che è più difficile da ottenere nella lotta pacifica ingaggiata contro il potere: il ritiro dei
vecchi attivisti dalla campagna elettorale e in generale dalla vita politica. In realtà, anche se
queste rivendicazioni esprimevano in modo autentico ciò che era desiderio non solo dei
21
62
Golan è un aggettivo con diversi significati compresi tra perdigiorno, teppista o poveraccio.
contestatari, ma anche di gran parte della società, erano cmounque impossibili da
soddisfare se non passando ad una lotta politica. Detto in modo più diretto, era impossibile
chiedere al FSN di intraprendere un dialogo – riconoscendo loro il ruolo di interlocutori
legittimi – e nello stesso tempo chiedere alla sua leadership di riconoscersi semplicemente
come non legittimità e ritirarsi dalla gara politica.
Proprio prima del 20 maggio, i gruppi che avevano compreso l’esistenza di questo
dilemma, e l’implicito empasse in cui si impantanava il movimento, cercarono una
soluzione per metter fine all’occupazione di piazza. D’altra parte lo scoraggiamento è
sempre più evidente nella qualità di chi prende la parola, i cui contenuti si ripetono spesso,
e nella radicalizzazione, se non direttamente aggressività dei toni di alcuni oratori che
hanno parlato dal balcone.
Il 24 maggio, il GDS rende pubblica una dichiarazione rivolta ai manifestanti di Piața
Universității, in cui si insiste sulla necessità di stabilire una piattaforma meglio strutturata
e anche più politica per continuare a lottare contro il comunismo. “Nella situazione attuale,
crediamo che queste forme di protesta /soprattutto lo sciopero della fame/ debbano essere
sostituite da altre forme di opposizione, senza le quali non può esistere una società
democratica”. Quattro delle principali organizzazioni presenti all’avvenimento – la Lega
degli Studenti, l’Associazione degli Studenti di Architettura, l’Associazione “21 Dicembre” e
il GID sottoscrivono questa posizione, invocando a loro volta il ritiro dalla piazza. Queste
associazioni si ritireranno il giorno dopo. In Piața Universității rimarranno solo
“l’Associazione 16-21 Dicembre” e “l’Alleanza del popolo”, due delle meno organizzate, con
una base sociale debole e con un programma molto più radicale, se non direttamente
estremista.
Immobili fino alla fine, restano coloro che fanno lo sciopero della fame – uomini entusiasti
che assomigliano sotto certi punti di vista ai bambini perduti della rivoluzione; tuttavia, da
ora in avanti questi ultimi non rappresenteranno più il movimento in cui si riconoscevano
decine di migliaia di persone. Se Piața Universității resiste in un certo modo, è più che altro
come simbolo che come un movimento di opposizione reale. Questo significherà che, nel
momento in cui il potere sceglie di intervenire in modo brutale, non lo fa per liberarsi di un
movimento che potrebbe rappresentare un pericolo, ma proprio per eliminare quella
componente simbolica. Ma soprattutto, l’azione del Governo sarà pretesto per colpire
l’organizzazione delle opposizioni che, grazie all’esperienza della piazza, cominciano a
strutturarsi meglio.
Il presente lavoro è innanzitutto un’inchiesta, più dettagliata possibile, sugli avvenimenti
del 13, 14 e 15 giugno, a Bucarest. È un tentativo di possibile ricostruzione del modo in cui
si sono sviluppati, per esaminare il ruolo di ciascun partecipante, per distinguere in tali
avvenimenti il vero dal falso. In questo modo si svelano molteplici livelli di complicità e
responsabilità che concorrono a realizzare un’operazione preparata con cura e che
nasconde, attraverso una gigantesca manovra di disinformazione, intossicazione e
manipolazione, un vero e proprio complotto.
Clara Mitola, nata a Bari nel 1979, scrittrice e traduttrice, nel 2007 ha pubblicato il romanzo a puntato In
a Silent Way per la fanzine on-line L’Aperitivo illustrato, collaborando allo stesso tempo con la pagina
culturale del quotidiano BariSera, e con qualche casa editrice locale come editor. Laureata in lettere
moderne presso l’Università di Bari. Prima di terminare la seconda laurea in lingue e letterature straniere,
comincia a vivere tra Russia e Romania, fino a trasferirsi a Bucarest nel maggio del 2010. Ha collaborato
con Questioni di frontiera scrivendo un reportage su Bucarest e, in modo più continuativo, collabora con la
rivista Poesis Internazionale e con il blog Scrittori Precari, dove si occupa della rubrica di traduzione
letteraria ContraSens di prosa breve e poesia romena, mentre si muove qua e là partecipando a festival
poetici (festival internazionale della poesia di Genova 2010), incontri e tavole rotonde di varia natura.
Attualmente vive a Bucarest ed è orgogliosa di appartenere a quella ristretta minoranza di individui che
sfida l’abusata rotta est-ovest dei movimenti migratori.
63
Piața Universității, dove la Romania si specchia
dalla rivoluzione del 1989 alla rivolta degli indignati del 2012
di Damiano Benzoni
Ole, ole, Ceaușescu nu mai e! - Piața Universității, a Bucarest, è il chilometro zero di
un'intera nazione: la pietra miliare da cui si dipanano le strade della Romania e a partire
dalla quale si contano e collocano le distanze. Il monumento al Chilometro Zero che si
trova su un lato della piazza però porta con sé altri significati e ricordi. A partire da quel 21
dicembre 1989 che segnò la fine della dittatura comunista di Nicolae Ceaușescu, una
giornata della quale Piața Universității fu uno dei palcoscenici principali.
Sulla Rivoluzione del 1989 pende una serie interminabile di punti interrogativi
affilatissimi; la coltre di nebbia che avvolge gli eventi della novena del 1989 in Romania è a
tratti impenetrabile e sembra voler custodire i segreti più inconfessabili della tragica e
confusa fine – o metamorfosi – del Partidul Comunist Român. Dopo la neve, la
liberazione, la violenta purificazione, subito è tornato il fango. Sono troppe le impressioni
discordanti per classificare la Rivoluzione come tale, troppi i sospetti che si sia trattato di
un colpo di stato interno, di un cambio di facciata da parte del PCR per sostituire un leader
e un nome ormai troppo compromessi per essere presentabili all'opinione interna e
internazionale; per consegnare al malcontento della folla un osso su cui sfogarsi; per
evolversi e adattarsi al nuovo clima internazionale determinato dalla fine della Cortina di
Ferro. Evolversi per non morire.
Il clima degli ultimi giorni del 1989 a Bucarest è di confusione, di tensione e paura: un tutti
contro tutti tra rivoluzionari spontanei, securiști ed esercito. Tante le vittime per errore,
per confusione, per un grilletto tirato per paura; poche le certezze su cosa stia succedendo,
su chi stia con chi o contro chi, sull'esistenza o meno dei cosiddetti "terroristi" evocati da
chi aveva preso in mano la transizione. In questo clima avviene l'ascesa del Frontul
Sălvarii Naționale (FSN) di Ion Iliescu, capace di imporsi come nuova guida del paese,
inizialmente evitando accuratamente di pronunciare la parola "Rivoluzione" per poi – in
un secondo momento – impadronirsi della Rivoluzione stessa e rivendersi come difensore
e promotore della ribellione che aveva rovesciato Ceaușescu.
Mai bine mort decât comunist!
Disfattosi in fretta e furia del dittatore,
fucilato dopo un processo sommario il
giorno di Natale, Iliescu divenne il
principale architetto della Romania post – o
neo – comunista. Iliescu era un personaggio
sconosciuto ai più, membro di vertice del
PCR fino al 1971, anno in cui uscì dalle
grazie del Conducător e venne relegato
nell'oscurità come dirigente di partito a
livello locale. Il FSN non tenne fede alla
promessa di guidare la transizione del paese
fino alle prime elezioni libere e poi
dissolversi e invece, forte del controllo sulla
64
televisione di stato, indisse le prime elezioni
democratiche in maggio, sfruttando il poco
tempo lasciato a disposizione delle altre
forze politiche per organizzarsi. Iliescu si
candidò come presidente alle stesse con una
campagna improntata alla tensione etnica
nei confronti della minoranza ungherese.
Come era avvenuto pochi mesi prima,
nuovamente la nazione si strinse attorno a
Piața Universității. A partire da aprile la
piazza divenne un presidio permanente
sostenuto da intellettuali. La base delle
proteste erano i punti della Declarația de la
Timișoara, in particolare l'articolo otto che
chiedeva che il nuovo governo venisse
lustrato dai vecchi iscritti del PCR – oltre
alla richiesta che il FSN rinunciasse al
controllo della televisione per garantire
maggiore pluralità. Le rivolte continuarono
fino al giorno delle elezioni – che segnarono
lo scontato trionfo di Iliescu – e si
protrassero a lungo dopo la consultazione.
Il nuovo presidente definì i manifestanti
golani, fannulloni, e il nome divenne la
bandiera delle proteste. Il cantautore Cristi
Pațurcă ne divenne il cantore, con il suo
Imnul Golanilor – "l'inno dei fannulloni" –
che recitava: Mai bine haimana decât
trădător, mai bine huligan decât dictator,
mai bine golan decât activist, mai bine
mort decât comunist ("Meglio vagabondo
che traditore, meglio hooligan che dittatore,
meglio fannullone che attivista, meglio
morto che comunista"). Le stesse parole
campeggiano oggi sulla lapide che gli è stata
dedicata dopo la sua morte nel 2011. La
lapide si trova a fianco di una pietra miliare
che recita România – Km. 0 - București Piața Universității - Libertate - Democrație
- Zona Liberă de Neocomunism.
La protesta dei golani durò due mesi, prima
di essere soffocata con violenza dal nuovo
regime tra il tredici e il quindici giugno:
Iliescu chiamò a raccolta circa diecimila
minatori della valle del Jiu, trasportati con
dei treni speciali (apparentemente con la
complicità dell'allora ministro dei Trasporti
Traian Băsescu) e incoraggiati da un
discorso del presidente in Piața Victoriei. Le
redazioni di diversi giornali antigovernativi
vennero attaccate e gli scontri tra i minatori
e i manifestanti portarono, secondo stime
ufficiali, a sette morti e oltre settecento
feriti, anche se diverse associazioni dei
familiari delle vittime sostennero che i
decessi ammontassero a oltre un centinaio.
Piața Universității, insomma, non è solo una
piazza per i romeni: è il luogo verso cui
guarda un'intera nazione nei momenti in
cui si sente messa in ginocchio. E il
Chilometro Zero non è un semplice punto di
riferimento geografico, ma un luogo che i
65
cittadini di Bucarest hanno parecchio a
cuore. È il luogo dove provare a
confrontarsi, a protestare, a dire quel che
non va. È tornato ad esserlo questo gennaio,
quando centinaia di persone si sono
riversate nella piazza per diversi giorni per
protestare contro le misure di austerità e
chiedere le dimissioni del presidente
Băsescu. Molti dei manifestanti lasciano
trasparire
come
l'importanza
della
manifestazione risieda nel fatto di ritrovarsi
in una piazza che per loro significa
confronto, democrazia, lotta e impegno
civile. Ivan, per esempio, è stato
rivoluzionario nel 1989 e golan nel 1990, ha
un megafono in mano, gli occhi lucidi e
tanti anni sulla pelle. "Sono qui perché
Băsescu è un nuovo Ceaușescu. Sono qui
perché la gente muore di fame, perché
laggiù c'è una bambina di sei anni con dei
calzoni corti con questo freddo perché non
può comprarne di lunghi. Sono qui perché
ho due figli che non hanno futuro", mi dice,
mostrandomi la lapide di Cristi Pațurcă.
Carezza la foto del cantautore con l'indice,
mentre mi dice con la voce rotta dalla
commozione: "Ti faccio vedere una grande
persona".
Le proteste sono iniziate di venerdì, il 13
gennaio. A far scattare la miccia sono state
le dimissioni rassegnate tre giorni prima dal
sottosegretario alla salute Raed Arafat,
medico siriano-palestinese emigrato in
Romania a sedici anni nel 1981 per
compiere i propri studi. Nel 1991 a Târgu
Mureș Arafat poneva le basi di quello che
sarebbe divenuto SMURD (Serviciul Mobil
de Urgență Reanimare și Descarcerare,
"Servizio Mobile di Urgenza, Rianimazione
ed Estricazione"), un servizio di pronto
intervento che nel 1996 venne integrato al
corpo dei pompieri romeno ed esteso così a
tutta la nazione, fino a quel momento priva
di un sistema di emergenza pre-ospedaliera.
Proprio per difendere SMURD si è dimesso
Arafat, accusato dal presidente Băsescu di
essere un nemico della riforma sanitaria che
secondo il medico avrebbe sacrificato il
servizio di pronto intervento all'austerità
finanziaria. La folla ha risposto riversandosi
in piazza in un numero inaspettato per un
paese normalmente indifferente come la
Romania, dando l'impressione di un
risveglio della società civile della capitale. I
manifestanti acclamavano il nome di Arafat
definendolo un român adevărat, un
romeno vero. Ispirate da Bucarest, anche le
piazze delle altre città di Romania si
riempivano di persone e slogan di protesta.
Băsescu, la pușcărie!
La protesta, ripetuta nei giorni successivi,
ha presto assunto altri toni e ha adottato
altre istanze. Il grido della piazza è presto
diventato Jos Băsescu!, "Abbasso Băsescu!"
o Băsescu la pușcărie!, "Băsescu in
galera!". La manifestazione in sostegno di
SMURD si è trasformata in una protesta per
chiedere le dimissioni del presidente
Băsescu e del primo ministro Emil Boc e il
rinnovo di un'intera classe politica. Il terzo
giorno, domenica 15 gennaio, la protesta è
però degenerata in violenza anche a causa
del contributo di alcuni hooligan delle curve
delle squadre cittadine Dinamo, Steaua e
Rapid e del Petrolul della vicina Ploiești che
hanno ingaggiato scontri con la polizia e
vandalizzato la zona di Lipscani, il
pittoresco centro storico e turistico della
città, fino a raggiungere Piața Unirii, teatro
degli scontri più duri.
Cariche della polizia, transenne sradicate,
spranghe, sassi, molotov, lacrimogeni e
getti d'acqua. Dieci membri delle forze
dell'ordine e quarantacinque manifestanti
feriti, oltre cinquecento fermati, quasi
trecento dei quali per possesso di arma
bianca e un lunedì di tensioni, con la
minaccia della curva di tornare in piazza e
con le dichiarazioni da parte dei leader delle
principali tifoserie cittadine di aver agito
non per protestare contro i politici, ma
contro la recente e severa legge anti-ultrà.
Nonostante le promesse dei tifosi il lunedì,
quarto giorno di proteste, si è svolto senza
particolari disordini, con cinquecento
persone radunate in piazza a Bucarest e con
66
filtri di polizia negli angoli più sensibili
della piazza per prevenire violenze come
quella del giorno precedente. Il giorno
successivo, in un tentativo di placare le
proteste, il primo ministro Emil Boc
restituisce
ad
Arafat
l'incarico
di
sottosegretario, senza però riuscire a
disinnescare la protesta, ormai concentrata
su altre istanze, come ammesso dalle
dichiarazioni dello stesso Arafat al
momento del suo reintegro.
Suntem non-violenți
suntem?
ori
nu
mai
Ziua a Șaptea. Il settimo giorno – giovedì
19 gennaio – è forse il più torrido dell'intera
protesta e comincia su un altro
palcoscenico: l'Arcul de Triumf che
torreggia a nord della città, dove l'Uniunea
Social Liberală, la coalizione di minoranza,
ha organizzato il suo Miting pentru
Libertate con l'intenzione di farsi portavoce
della piazza. Settemila persone presenti per
ascoltare i discorsi altisonanti di Crin
Antonescu e Victor Ponta, i leader dei due
principali partiti dell'USL: parlano di
dittatura di Băsescu, definito l'ultimo leader
comunista del paese, e promettono che il
2012 segnerà la fine del presidente e di Boc.
Chiedono le dimissioni delle due maggiori
cariche dello stato e che vengano indette
elezioni anticipate. Eppure il numero di
persone in piazza è diverso: sono molti
meno i manifestanti di Piața Universității, e
sotto il Teatro Nazionale non sventolano –
tra le mille bandiere – i vessilli dell'USL. Il
Miting pentru Libertate sembra solo un
tentativo
di
impadronirsi
della
manifestazione attraverso l'esposizione
mediatica, un modo di legittimarsi agli
occhi della piazza come l'alternativa di cui
la Romania ha bisogno.
La sera stessa oltre un migliaio di persone si
riversa nuovamente in Piața Universității,
bloccata da un folto cordone della
Jandarmeria, che blocca l'accesso nord
della piazza arginando i manifestanti sul
Bulevardul Nicolae Bălcescu. La protesta,
nonostante il blocco della circolazione da
parte dei manifestanti, si svolge senza
problemi fino alle undici di sera circa,
quando un gruppo di dimostranti cerca di
forzare il cordone di polizia e dirigersi verso
Piața Unirii, circa ottocento metri a sud di
Piața Universității. Nuovi scontri con la
polizia, nuovi feriti, nuovi fermi: partono le
indagini su quindici manifestanti e cinque
membri della Jandarmeria e inizia il
rimpiattino di responsabilità e accuse che
infiammerà la stampa nei giorni a seguire.
Mentre Antena Trei, l'emittente più critica
nei confronti di Băsescu, accusa la polizia di
aver utilizzato degli agenti provocatori per
screditare la protesta e di aver reagito
eccessivamente, il capo della Jandarmeria
Aurel Moise dichiara ad Adevărul:
"Avremmo potuto intervenire in forza, ma
non l'abbiamo fatto, ci siamo mossi quando
i manifestanti in buona fede hanno lasciato
la strada ed è stata invece eretta una
barricata, ma alcune TV stanno cercando di
screditarci". I rappresentanti dei gruppi di
tifosi nel frattempo declinano ogni
responsabilità degli ultrà sugli scontri.
Evenimentul Zilei, uno dei quotidiani più
fedeli a Băsescu, sostiene che l'USL abbia
pagato molti dei manifestanti dell'Arcul de
Triumf per la loro presenza, pubblicando
sul proprio sito un video che proverebbe
questo fatto, ma la cui veridicità rimane
dubbia e difficilmente confermabile. Il
ministro per lo Sviluppo Regionale e il
Turismo Elena Udrea, del Partidul
Democrat-Liberal di Băsescu e Boc,
dichiara che le proteste sono legittime
perché il PDL non è stato capace di
comunicare con i cittadini e la società civile,
ma sottolinea che "la soluzione non è, in
ogni caso, sostituire Emil Boc con Victor
Ponta". L'impressione è che parte dei media
e la classe politica vogliano manipolare a
loro modo la protesta, o per screditarla o
per ricavarne legittimazione politica e voti
in vista delle elezioni legislative del 30
novembre.
67
Românii sunt frumoși
E la piazza, invece? Chi rappresenta? Cosa
vuole? Sono tanti i movimenti e le idee che
popolano Piața Universității, troppi per
riuscire a dare una definizione univoca.
Basta guardare le bandiere: il tricolore
romeno sulla banda gialla centrale riporta,
di volta in volta, lo stemma del Regno di
Romania, un buco (simbolo della
Rivoluzione del 1989, quando si asportava
dai vessilli il simbolo della Repubblica
Socialista Romena), la scritta Salvaţi Roșia
Montană, il pugno che fu simbolo delle
rivoluzioni colorate di fine anni '90 – Otpor
in Serbia, Pora in Ucraina, Kmara in
Georgia.
Ci sono professori che protestano contro i
tagli all'educazione e ai loro salari, anziani
che mostrano la loro pensione, sostenitori
di re Mihai che chiedono un referendum per
il ritorno alla monarchia costituzionale,
ecologisti che protestano contro il lucroso
contratto di sfruttamento minerario di
Roșia Montană, reduci della Rivoluzione e
della protesta dei golani come Ivan,
sostenitori di Raed Arafat, tifosi che urlano
contro la legge sugli ultrà, rom che
chiedono
maggior
rappresentazione
politica, riservisti militari, studenti, attivisti
politici o semplice gente comune, convinta
che non sia cambiato nulla da ventidue anni
a questa parte e costretta a stringere la
cinghia - nonostante già fatichi ad arrivare
alla fine del mese - perché il governo deve
ripagare i debiti contratti nei confronti delle
istituzioni finanziarie mondiali.
Mihai e Daniel sono monarchici, sventolano
la bandiera del vecchio regno di Romania,
vorrebbero un referendum per riavere una
monarchia costituzionale sul modello
inglese e sognano che il vecchio re Mihai
torni a governare il paese. Daniel vive a
Firenze, mi parla in italiano perfetto e dice
che è tornato a Bucarest apposta per le
manifestazioni. Il suo amico Mihai è fiero di
portare lo stesso nome del vecchio re e di
non aver mai votato un presidente. Dice che
sotto la monarchia la Romania ha avuto la
libertà, l'indipendenza, la ricchezza e la sua
massima espansione. Suo padre fu detenuto
politico a inizio anni '50 per propaganda
contro l'Unione Sovietica. Ana-Maria ha in
mano un cartello con una poesia. Dice che
ognuno ha la sua idea e che la soluzione è
venire qua in Piața Universității e dirla. Che
la Romania può fare meglio, che non è
giusto
che
ragazzi,
insegnanti
e
professionisti debbano lasciare il paese
perché muoiono di fame. Che lei scende in
piazza perché i romeni possano tornare a
cantare e a ridere di felicità, possano
comprarsi libri, possano studiare e avere i
migliori professionisti romeni in patria, non
le seconde scelte.
Ted ha in mano uno striscione illeggibile
fatto su una tovaglia a fiori di tela cerata e
una bandiera con il pugno che fu di Otpor,
Pora e Kmara. Dice che spera che il modello
sia quello di una rivoluzione colorata, e che
è fondamentale che tutto si svolga senza
violenze. Ha portato dei fiori per la
Jandarmeria, dice che è l'unico modo per
cambiare qualcosa. Cambiarlo come? "Non
c'è nessuno di cui possiamo fidarci, ma
l'importante è essere qua, dire che siamo
scontenti e non stare in silenzio". Dragoș
dice che c'è bisogno di cambiare, chi ha il
potere ha grosse macchine, fa vacanze
dorate, e nello stesso momento chiede ai
cittadini di stringere la cinghia e alza del
15% il costo del pane. Dice che non ci sono
soldi, che non vogliono migliaia di euro al
mese, vogliono solo vivere dignitosamente e
non vedersi continuamente tagliare gli
stipendi. Mi indica il suo rappresentante,
Mihai, portavoce di Miliția Spirituală.
Mihai scende dal palchetto improvvisato,
lascia il megafono e si mette a parlarmi.
Dice che Piața Universității è un posto
importante per i romeni, che lui non ha
soluzioni in mano, e che quello che conta,
però, è che la gente sia qui, a dire la sua, a
discutere, a cercare di creare un'alternativa
che al momento non esiste alla classe
politica.
68
Plouă, ninge, noi vom învinge!
L'undicesimo giorno, mentre Emil Boc
sacrifica alla piazza il ministro degli Esteri
Teodor Baconschi – colpevole di aver
lanciato una critica (nemmeno insultante
come si è voluto far credere in realtà) ai
manifestanti dalle pagine del suo blog – in
piazza compare anche un militare. Si tratta
di Gheorghe Alexandru, luogotenente
ventisettenne
della
Settantunesima
Flottiglia Câmpia Turzii, che sostiene di
essersi unito alle proteste per rispetto verso
la nazione e per far capire ai manifestanti
che l'esercito non li ha lasciati soli. Una
presenza che non ha mancato di dividere la
piazza e l'opinione pubblica: l'ennesimo
mezzo di strumentalizzazione o una vera
iniziativa individuale del luogotenente?
Questa è solo l'ennesima di mille
contraddizioni che animano la piazza, a
partire dalla consistenza della folla: che
valore può avere una minoranza – per
quanto attiva – in particolare quando le
cifre crollano fisiologicamente dopo le
prime due settimane di protesta? Che
impatto può avere in una democrazia – per
quanto imperfetta e corrotta come quella
romena – un numero molto limitato di
persone che si radunano per urlare slogan?
O l'obbiettivo della manifestazione, più che
far cadere veramente il governo di Băsescu,
è quello di essere lì, in piazza, a manifestare
il proprio malcontento, il fatto di essere
nemulțumiți?
Nessuno in piazza sembra avere una
soluzione, tranne i monarchici che
auspicano il ritorno di re Mihai. Alcuni
sperano che un leader possa uscire dalla
piazza, qualcuno è ottimista, qualcuno
realisticamente dice che serviranno ancora
uno o due decenni per avere un vero
cambiamento in Romania, qualcuno
addirittura dubita che si possa mai
migliorare,
ma
ritiene
comunque
importante scendere a protestare. Tutti
concordano che un'alternativa vera al
momento non esiste, eppure chiedono
elezioni anticipate dichiarando che non
saprebbero chi votare. Băsescu in un certo
senso è solo un simbolo, l'obbiettivo della
piazza è il rinnovamento dell'intera classe
politica. Una classe politica che però, dal
1989 in poi, ha dimostrato la camaleontica
abilità di cambiare pelle e di evolversi per
sopravvivere in ogni situazione. Anni fa
Băsescu disse al suo rivale per le elezioni
Adrian Năstase che la maledizione della
Romania era il fatto che i cittadini fossero
costretti a scegliere tra due ex comunisti
come loro. Il 25 gennaio il presidente si è
rivolto alla nazione in un discorso di
quarantacinque minuti, spiegando di
comprendere chiaramente quale sia la
situazione e che oltre alle persone scese in
piazza ci sono milioni di scontenti che non
sono usciti in strada. Băsescu ha difeso il
proprio operato sottolineando in più
passaggi di dover far fronte a una situazione
di crisi e all’impegno per modernizzare la
nazione e concludendo che “i presidenti non
possono dimettersi in tempo di crisi. Non
prenderò in considerazione le dimissioni a
meno che non diventi evidente che siano la
soluzione”. Una frase, in particolare, è
filtrata fino alla piazza: “Suntem acolo unde
trebuie”, ovvero “siamo lì dove bisogna”. La
risposta, piccata, è stata: “Sarebbe a dire in
Piața Universității?".
Durante la dodicesima sera di proteste la
neve comincia a coprire abbondantemente
Bucarest e le temperature scendono
drasticamente, raggiungendo anche i -18°C.
Le
proteste
si
indeboliscono,
ma
continuano, superano il mese, e trovano
nuova forza grazie a una nuova
motivazione:
ACTA,
l'accordo
internazionale anti-pirateria contro il quale
sono scese in piazza migliaia di persone in
tutta Europa, a partire dalla Polonia. Dopo
che le immagini degli scontri di Atene
hanno riempito gli schermi televisivi,
invece, in piazza compaiono anche bandiere
greche e la minaccia: "se non si risolvono i
problemi, la piazza diventerà come Atene".
69
Toată lumea știe ne conduce SIE!
A Cluj alle sei di sera si riunisce un
capannello di persone, non più di trenta, di
fronte alla statua di Mathias Corvinus.
Bandiere di Roșia Montană, bandiere della
Grecia, slogan di solidarietà con le proteste
di Atene. La manifestazione dura una
quarantina di minuti, una televisione locale
li riprende. In poco tempo la folla si
disperde da sola, senza che nemmeno un
gendarme abbia interferito. A Bucarest i
numeri sono più nutriti, ma il freddo ha
colpito duramente la partecipazione, già
vessata dai tentativi di strumentalizzazione
dell'USL – che ha smesso di partecipare ai
lavori del Parlamento – e dalle mosse di
Băsescu per disinnescarla. Il capolavoro
mediatico del presidente si compie il 6
febbraio, quando Emil Boc rassegna le
proprie dimissioni dall'incarico di primo
ministro e il governo viene sciolto e
sostituito con un nuovo esecutivo che
conserva alcuni nomi e ne liquida altri,
Elena Udrea in testa – inciampata nelle
lotte di potere del partito.
Al posto di Boc viene nominato Mihai
Răzvan Ungureanu, direttore del SIE
(Serviciul de Informații Externe al
României, i servizi segreti romeni). Negli
ultimi anni del regime di Ceaușescu
Ungureanu, che allora aveva dai diciassette
ai ventuno anni, fece carriera nel Comitato
Centrale
dell'Uniunea
Tineretului
Comunist, l'unione dei giovani comunisti. Il
passato legato al PCR e il fatto di essere
stato direttore del SIE innescano subito
l'accusa di essere un securista da parte della
piazza. L'equazione fin troppo facile è
"dirigente giovanile del PCR + direttore dei
servizi segreti = Securitate". Poco importa
che in quegli anni, tra il 1985 e il 1989, gli
iscritti al PCR fossero poco meno di quattro
milioni, circa un sesto della popolazione di
allora: l'assioma secondo il quale la carriera
politica giovanile di Ungureanu lo bolla
come delatore equivale a mettere sotto
accusa tutta una nazione, dai membri del
PCR ai tanti componenti della zona grigia.
La difficoltà di fare i conti con il
totalitarismo risiede nel fatto stesso che, a
meno di non essersi apertamente schierati
in posizioni dissidenti – e spesso nemmeno
se lo si è fatto – tutti sono complici. E, per
quanto venga invocata continuamente in
piazza, una vera resa dei conti o un dibattito
intellettualmente onesto su cosa è stato il
comunismo in Romania e sul vero
significato della Rivoluzione sembra ancora
un'ipotesi molto remota.
Nel frattempo Băsescu ha guadagnato
tempo per le elezioni legislative, nominando
un esecutivo che – almeno per due mesi – è
per legge intoccabile e dando alla piazza
l'illusione di aver ottenuto una vittoria
cruciale. Su Facebook gira una lista dei
traguardi "ottenuti" dalla piazza: le
dimissioni di Boc e la rimozione di
Baconschi, il blocco della riforma sanitaria e
il reintegro di Raed Arafat, la posticipazione
della tassa sull'auto e la rinuncia
all'accorpamento delle elezioni locali con le
legislative. Il messaggio si conclude
dicendo: "Tutto questo in meno di un mese,
grazie Piața Universității". Un ingenuo
ottimismo sembra pervadere la piazza, la
sensazione – alimentata dalla condivisione
di un'esperienza e dall'attenzione dei media
– che il centro del mondo sia lì, l'illusione
che essere una piccola massa significhi
portare con sé le ragioni di tutto il popolo.
Intanto, dietro i sipari di Palatul Cotroceni e
Palatul Victoriei, rispettivamente palazzo
presidenziale e sede del governo, si
continuano a muovere i fili della politica e
della campagna elettorale per le legislative
di fine novembre con la stessa abilità con
cui si mosse il FSN nei giorni del dicembre
1989. Sacrificato un governo alla folla,
Băsescu non sembra mollare nemmeno per
un attimo il timone del comando, cerca di
regalare l'illusione al pubblico e distrarlo,
mentre lontano dalla piazza si prepara per
le future consultazioni elettorali, l'unico
pericolo
che
potrebbe
ostacolarlo
realmente.
Damiano Benzoni è nato a Cantù (Como) il 25 maggio 1985. Laureato in Comunicazione Musicale alla
Statale di Milano, è ora studente presso la Facoltà di Scienze Politiche del medesimo ateneo. Giornalista
sportivo con particolare interesse per pallanuoto, rugby e per gli intrecci tra sport e politica, ha contribuito
a fondare le testate online SportVintage e Pianeta Sport. Ha collaborato con la rivista “Rugby!” e scrive per
la redazione locale di Lecco e Como de “Il Giorno”, ma ha pubblicato articoli anche per l’edizione online di
“Limes” e per “Avvenire”. Da agosto 2011 a Bucarest, dove sta scrivendo una tesi di laurea sull’ingresso in
Unione Europea della Romania e sulla transizione democratica del paese. Gioca a rugby come seconda o
terza linea.
70
A est di Bucarest, un'esegesi tragicomica della rivoluzione romena
di Silvia Biasutti
Corneliu Poremboiu, classe 1975, originario di
Vaslui, cittadina romena prossima al
confine con la Moldova, vince nel 2006 la Camera d’Or al Festival di Cannes con il suo film
“A Est di Bucarest”. Il titolo originale della pellicola, “A fost sau n-a fost?” (trad. C’era o
non c’era?), anticipa la linea di tensione che percorre questo piccolo capolavoro. Il primo
movens del regista è quello di dipanare una matassa intricata per la storia contemporanea
della Romania: la Rivoluzione del dicembre del 1989 si è accesa come esultazione popolare
a seguito della fuga del dittatore Ceauşescu oppure ha provocato la dipartita del
Conducător?
La trama del film rivela come il regista (e
con lui una buona fetta della classe
intellettuale romena), non si accontenti di
accettare la dittatura comunista romena
come il prodotto della “banalità del male”,
per dirla con le parole della Arendt, o di
interpretare la storia in base ad una teoria
cospirativa. Il regista mette in scena due
protagonisti, un pensionato che per
sbarcare il lunario si traveste da Babbo
Natale e un insegnante di storia con il
vizio dell’alcool. I due vengono invitati
sedici anni dopo la caduta del regime
presso una piccola emittente televisiva
romena di provincia a raccontare la loro
testimonianza: dov’erano alle 12:08 del 22
dicembre 1989, quando il dittatore
romeno lasciava Bucarest in elicottero in
una disperata fuga?
Le testimonianze dei due protagonisti si
fanno via via più confuse e imprecise,
arricchite da dettagli improbabili; alla
trasmissione arrivano nel frattempo anche
le telefonate degli spettatori, i quali
destrutturano le versioni dei due ospiti,
apportando
nuove
e
controverse
informazioni su quel 22 dicembre di cui
nessuno riesce a dare una interpretazione
plausibile. La scena della puntata
televisiva,
zoccolo
duro
del
lungometraggio, diventa così un “teatro
dell’assurdo”, a volte comico, a volte
drammatico, che fa emergere volutamente
la fotografia di un Paese che è ancora agli
71
albori di un processo di lettura critica dei
fatti storici.
Nonostante il film sia stato girato con una
buona dose di improvvisazione, con
inquadrature scarne e in low-fi, tiene
banco con una sceneggiatura ricca di
dialoghi di spessore, grazie alla quale il
regista riesce a far affiorare emozioni,
dubbi, rancori e ironie di un popolo dalla
democrazia giovane. La narrazione per
mezzo della “memoria retroattiva” di chi
visse i giorni drammatici della caduta del
regime, si lega all’interpretazione delle
responsabilità, in un sistema dove classe
politica, servizi segreti e tecnocrazia
economica erano legati da un intreccio
indissolubile. Le risposte mancate o
tendenziose dell’intellighenzia romena nei
confronti
degli
interrogativi
della
popolazione, le prove inquinate o distrutte
di proposito, l’accesso condizionato agli
archivi segreti di Stato, rendono la
ricostruzione dei fatti un’impresa ardua.
La pellicola mette in luce un sentimento
cardine della Romania post-sovietica: lo
smarrimento. In quei giorni tumultuosi
del dicembre 1989 la popolazione
percepiva con una certa angoscia il crollo
dell’apparato statale, unico vero punto di
riferimento dei romeni per quasi mezzo
secolo. Negli anni a venire i documenti
ufficiali, per lo più frutto della palingenesi
sociale voluta durante il comunismo,
venivano frammentati in diversi archivi ed
erano
trasportati
segretamente;
le
condanne politiche erano sommarie e
grottesche, la Securitate continuava a
perpetuare la sua sfera di influenza su tutti
i piani della vita sociale. Questo ha
evidentemente impedito un certo spirito
solidaristico tra coloro che hanno il
compito di ricostruire la Verità. Con il
pesante fardello del passato la Romania
continuerà a doversi confrontare, ma
senza scordarsi di guardare avanti: il film
si chiude con una telefonata in diretta di
una giovane telespettatrice, che rivela:
“fuori nevica, come una volta, siate felici
per questa neve, perché domani sarà di
nuovo tutto fango”.
72
Silvia Biasutti nasce a Udine nel 1987. E’
laureata in Turismo Culturale con una tesi
sulla minoranza ungherese in Romania e in
Sociologia del territorio con una tesi
comparativa tra l’emigrazione storica dei friulani
in Romania e l’attuale emigrazione dei Romeni in
Friuli. Ha vissuto in Romania e in Moldova, dove
ha
insegnato
italiano.
Si
occupa
di
fotografia, ha all’attivo numerose esposizioni ed
un progetto fotografico sulla città di Chişinău,
presentato in diverse città italiane e premiato
dalla SAT e SUSAT di Trento. Ha svolto inoltre un
periodo di ricerca presso il Centre for Spatial
Sociology di Lubiana. Oltre che di Europa
orientale, si occupa di processi partecipativi, di
educazione interculturale e di turismo sostenibile.
Il suo blog è: www.silviabiasutti.wordpress.com
e il suo portfolio è: www.flickr.com/fri