Istituto MEME: Il minore autore di reato

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Istituto MEME: Il minore autore di reato
Istituto MEME
associato a
Université Européenne
Jean Monnet A.I.S.B.L. Bruxelles
Il minore autore di reato
dal processo alla rieducazione
Scuola di Specializzazione: Scienze Criminologiche
Tesista specializzando: Chiara Bucchignoli
Anno di corso: Secondo
Modena, 08/06/2008
Anno accademico 2007 - 2008
ISTITUTO MEME S.R.L. MODENA ASSOCIATO UNIVERSITÉ EUROPÉENNE JEAN MONET A.I.S.B.L. BRUXELLES
CHIARA BUCCHIGNOLI – SST IN SCIENZE CRIMINOLOGICHE – SECONDO ANNO – A.A. 2007 - 2008
INDICE
1. Normativa in materia di diritto minorile
pag. 3
2. Istituzione giudiziarie e amministrative
pag. 4
3. L’imputabilità
pag. 7
4. La capacità di intendere e di volere
pag. 9
5. Il processo a carico di minore
pag. 13
6. Strumenti alternativi alla condanna
pag. 14
6.1- Irrilevanza del fatto
pag. 14
6.2- La sospensione del processo con messa alla prova
pag. 14
6.3 – Il perdono giudiziale
pag. 18
7. La mediazione penale
pag. 20
8. Strumenti di attenuazione della pena
pag. 25
8.1 – L’attenuante della minore età
pag. 25
8.2 – Attenuante ex art. 114 c. 3 C.p.
pag. 25
9. Strumenti per evitare l’espiazione della pena in carcere
pag. 26
9.1- La sospensione condizionale della pena
pag. 26
9.2 - Le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi
pag. 27
10. Strumenti per ridurre l’espiazione della pena inflitta
10.1 – La libertà condizionale
11. Strumenti per rendere meno afflittiva l’espiazione della pena
pag. 30
pag. 30
pag. 31
11.1 – Affidamento in prova al servizio sociale
pag. 31
11.2 – Detenzione domiciliare
pag. 31
12. La Prevenzione
pag. 33
13. Le misure di sicurezza
pag. 36
14. Cause del disagio minorile
pag. 40
15. Profiling
pag. 45
16. Prospettive
pag. 50
Bibliografia
pag. 52
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1. NORMATIVA SUL MINORE AUTORE DI REATO
Nel tracciare per linee essenziali il diritto penale minorile occorre preliminarmente individuare le fonti normative di specifico rilievo:
•
Costituzione art. 27 c. 2: le pene […] devono tendere alla rieducazione del
condannato – È principio informatore del diritto penale minorile che volge
al recupero del minore più che all’irrogazione di sanzione;
•
Codice Penale: sull’imputabilità – la capacità di intendere e di volere e conseguentemente l’accertamento dell’età :
Art. 85 C.p. Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato se al momento in cui lo ha commesso non era imputabile.
Art. 97 C.p. Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il
fatto, non aveva compiuto i 14 anni (nel Codice Zanardelli erano 9 anni).
Art. 98 C.p. È imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto,
aveva compiuto i 14 anni ma non ancora i 18, se aveva la capacità di intendere e di volere, ma la pena è diminuita.
•
Codice di Procedura Penale: si applica al processo minorile ove non in contrasto con le norme speciali dettate dal Dpr 448/88,
•
Legge Minorile RDL 1404/34 ispirata a principi di retribuzione della pena e
risarcimento, successivamente espunti dal processo a carico di minori; si
tratta di testo in gran parte emendato da successivi provvedimenti,
•
DPR 448/88 Disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni: è il corpus normativo nel quale più evidenti sono i principi della rieducazione, del reinserimento e della sanzione penale quale ultima ratio che
hanno ispirato il legislatore,
•
DPR 616/77 trasferimento ai comuni della competenza per interventi in favore dei minori soggetti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria.
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2. ISTITUZIONI GIUDIZIARIE E AMMINISTRATIVE
L’organo giurisdizionale al quale è devoluta la competenza su tutte le questioni
riguardanti il minore autore di reato è il Tribunale per i Minorenni.
Esso ha:
•
competenza penale a conoscere dei reati commessi da minorenni, compresa
la sorveglianza sull’esecuzione delle sanzioni;
•
competenza civile nei procedimenti inerenti la potestà genitoriale,
l’affidamento o l’adozione di minori degli anni diciotto;
•
competenza amministrativa per l’applicazione delle misure rieducative.
Si caratterizza rispetto agli altri organi giurisdizionali per la composizione: oltre a magistrati togati, selezionati per specifica attitudine, preparazione ed esperienza, ne fanno parte cittadini competenti nelle materie di biologia, psichiatria, antropologia criminale, pedagogia o psicologia.
Competente invece a prendere notizia dei reati, anche di propria iniziativa, e ad
impedire che ne vengano commessi ulteriori è la polizia giudiziaria. Presso
ciascuna Procura della Repubblica è istituita una sezione di polizia giudiziaria
specializzata, alla quale viene assegnato personale dotato di particolari capacità
e sensibilità per trattare con i minori.
Il servizio sociale per i minorenni comprende al suo interno due funzioni primarie:
•
il servizio sociale assistenziale, volto a fornire al ragazzo i mezzi materiali
per la sua corretta crescita e la sua educazione;
•
il servizio sociale giudiziario, competente a svolgere le attività di informazione del Giudice sulla situazione e sulle condizioni del minore, informa-
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zioni preziose e strumentali per la successiva eventuale esecuzione di misure di prevenzione e/o sicurezza disposte dall’autorità giudiziaria.
Il servizio sociale dell’amministrazione della giustizia è istituito presso i Centri
per la giustizia minorile, organi sottoposti all’autorità del Ministero della Giustizia e che fanno capo al Dipartimento per la giustizia minorile. Esso collabora
con l’autorità giudiziaria nell’adempimento delle indagini circa la personalità
del minore autore di reato e in seguito affianca il giovane nel percorso di recupero e di rieducazione.
I servizi assistenziali degli enti locali sono invece organi delle Aziende sanitarie locali e svolgono per lo più la funzione assistenziale.
Le norme di attuazione del DPR 448/88 hanno inoltre istituito i Centri di prima
accoglienza, luoghi destinati a ricevere i minori arrestati o fermati in attesa
dell’udienza di convalida del fermo, in alternativa alla detenzione in carcere. In
ragione dei principi informatori della materia la permanenza dei minori nei
Centri di prima accoglienza deve essere ridotta al minimo. Purtroppo la carenza di strutture fa sì che nel concreto minori in attesa di udienza di convalida di
fermo si trovino a convivere con minori che stanno scontando la pena, e che
hanno quindi maggiore familiarità con il comportamento criminale.
Le disposizioni introdotte con il DPR 448/88 e successive, ispirate alla tutela e
alla riflessione sul minore autore di reato, hanno portato alla nascita di una serie di specializzazioni nel campo della psicologia e della criminologia minorile.
Si sono quindi delineate nuove figure professionali che operano non solo
nell’ambito del procedimento penale ma che portano le loro conoscenze e le loro esperienze al servizio del minore autore di reato.
Questi operatori, in particolar modo i criminologi e gli psicologi che lavorano
all’interno delle carceri e dei servizi sociali, vengono formati ad approntare
programmi individualizzati di osservazione della personalità del minore e individuare il miglior percorso terapeutico per il suo recupero. Le loro specifiche
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competenze ne fanno un centro di mediazione tra il sistema penale, che richiede il rispetto delle norme e prescrive sanzioni in base alla normativa, e il giovane bisognoso di sostegno e di accompagnamento.
Nei confronti del ragazzo infatti l’operatore spesso fatica a instaurare una vera
e propria alleanza terapeutica, che è il momento cardine del rapporto empatico
che si deve instaurare con il paziente, in quanto il mandato che svolge lo porta
ad assolvere le richieste dell’autorità giudiziaria, e per conto d’essa del più generale interesse pubblico.
Questo processo transferale, di scambio e di confidenza, rischia di essere compromesso anche per la possibile mancanza di fiducia da parte del minore stesso, che si sente analizzato e giudicato anziché supportato.
Lo scontro inevitabile è tra la richiesta di aiuto da parte del minore autore di
reato e la necessità di riportare al Giudice fatti e condizioni psicologiche il più
obiettivamente possibile.
Il giovane recepisce la funzione di valutazione che ricopre il criminologo/clinico, è consapevole del fatto che il suo giudizio può portare conseguenze
anche dannose in fase giudiziale e ciò può influenzare la sua apertura al dialogo, fino a portare ad una vera e propria simulazione.
Non solo, l’inquirente può servirsi dell’operatore anche per acquisire elementi
nella fase preliminare del processo, e in tal senso è ancora più evidente quanto
possa essere delicata la posizione dell’operatore, il quale col suo intervento può
influenzare l’instaurarsi o meno del processo stesso.
Tale evenienza si scontra con il diritto che ha il minore, al pari di tutti i soggetti sottoposti ad indagine, ad un giudizio imparziale e non fondato su preconcetti o pregiudizi. Le indagini sulla sua personalità sarebbero più congrue e garantiste se riguardassero esclusivamente le condizioni per l’imputabilità, escludendo giudizi sulla maturità o sulla capacità a delinquere.
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3. L’IMPUTABILITÀ
Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se,
al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile (art. 85 c.p.).
È imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere (art. 85, c. 2, c.p.).
Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva
compiuto i quattordici anni (art. 97 c.p.).
Quindi per essere chiamato a rispondere penalmente delle proprie azioni
costituenti reato il minore deve avere compiuto i quattordici anni ed essere
in possesso della capacità di intendere e di volere.
Preliminare ad ogni attività processuale è pertanto l’accertamento dei presupposti per l’imputabilità, accertamenti che spesso rivestono non poche difficoltà.
L’età viene accertata attraverso indagini anagrafiche e di stato civile.
In mancanza di riscontri documentali si procede ad accertamenti peritali
dell’età. Tali accertamenti rivestono particolare difficoltà nei casi di fermo di
immigrati irregolari, soprattutto quando trattasi di minori inseriti stabilmente in
ambienti criminogeni dediti alla organizzazione della delinquenza minorile
(accattonaggio – furti – scippi). In questi casi si procede, attraverso indagini
cliniche, all’accertamento dell’età ossea e dell’età dentaria, mantenendo fermo
il principio del favor rei in virtù del quale, in caso di dubbi o contestazioni, si
applica l’interpretazione più favorevole all’indagato.
Da più parti è stato proposto, in virtù del generale maggior livello di acculturamento e di conoscenze dei minori, di abbassare la soglia dell’imputabilità ai
12 anni.
Tale proposta è però contrastata dalla più parte degli studiosi della materia,
poiché la presupposta maggiore maturità dei minori si scontra con un fenomeno che si sta sviluppando negli ultimi decenni nelle civiltà cosiddette sviluppa7
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te, che vede i tempi di cura parentale protrarsi fino ad assumere tratti quasi patologici.
Nel giovane, protetto e deresponsabilizzato, si creano meccanismi di dipendenza molto forti rispetto al nucleo familiare (la cosiddetta sindrome di Peter Pan)
che influenzano i suoi processi di maturazione portandolo ad essere più sprovvisto di strumenti cognitivi, relazionali, affettivi e decisionali rispetto a quanto
poteva mediamente accertarsi nei tempi passati.
A ciò bisogna aggiungere il fenomeno di parcellizzazione della società e con
essa degli strumenti e dei luoghi che possono essere di sostegno alla cura e
all’educazione del ragazzo. La cura è sempre più affidata ad agenti esterni
all’ambiente familiare, mentre per converso è venuto spesso a mancare
l’appoggio della comunità e del vicinato che, fino alla prima metà del secolo
scorso e anche oltre, insieme alla scuola rappresentava per i giovani un favorevole integratore di esperienze.
Oggi, se si esclude la ristretta realtà familiare, il giovane è privato del confronto e dell’interazione con il micro ambiente sociale che circonda la sua casa, vive l’educazione e le prime esperienze in scuole o gruppi esterni, per lo più privi della vigilanza di adulti interessati e partecipi.
Per tutto questo insieme di motivi pare azzardato abbassare la soglia di responsabilità del minore all’età di dodici anni.
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4. LA CAPACITÀ DI INTENDERE E DI VOLERE
È imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, aveva compiuto i
quattordici anni, ma non ancora i diciotto, se aveva capacità di intendere e di
volere; ma la pena è diminuita (art. 98 c.p.).
Oltre ad essere imputabile il minore, come del resto anche l’adulto, deve possedere la capacità di intendere e la capacità di volere, ossia idoneo sviluppo
intellettivo e forza di carattere.
Deve essere in grado di rappresentare a sé stesso l’evento verso il quale è diretta la sua azione, valutarne gli effetti e selezionare i motivi che lo devono spingere a inibirsi dal commettere reato. Questo processo necessita per compiersi
di strumenti cognitivi quali la proiezione nel tempo e nello spazio delle conseguenze del reato, la memoria degli eventi passati e di ciò che ne è scaturito, la
previsione di diverse ipotesi di svolgimento dell’evento. Il minore deve aver
maturato un certo grado di autodeterminazione e di dominio sulle proprie pulsioni, deve essere in grado di indirizzare consapevolmente il proprio comportamento.
La sussistenza delle condizioni per dichiarare la capacità di intendere e di volere del minore non può essere presunta come accade per gli adulti ma deve essere di volta in volta concretamente ricercata e dimostrata dal Giudice, potendo
essa mancare anche per semplice immaturità psichica.
Si
chiede
quindi
al
giudice
di
merito
un’adeguata
motivazione
sull’accertamento, in concreto, di tale capacità, intesa come attitudine del soggetto ad avere la consapevolezza del disvalore sociale dell’atto e delle relative
conseguenze e a determinare liberamente la sua condotta in relazione ad esso.
Al fine di verificare il possesso di tali facoltà è ammessa anche la perizia psicologica, eccezione questa al principio previsto dall’art. 220 c.p.p. che vieta in-
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dagini sul carattere o la personalità del reo fatti salvi i procedimenti di esecuzione della pena o delle misure di sicurezza.
La perizia psicologica deve partire da un’analisi sulla maturità o immaturità del
soggetto per giungere a verificare il suo complessivo grado di sviluppo morale
e sociale, la sua capacità di soppesare moralmente e socialmente l’atto delinquenziale che sta per compiere. Solo in questo modo potrà correttamente valutarsi l’imputabilità del minore.
Per la formulazione del giudizio sulla maturità del minore non riveste decisivo
rilievo, anzi ne è soltanto fattore di complemento, la considerazione dell’età
cronologica del soggetto. Il giudizio del perito (o del giudice) dovrà formarsi
autonomamente dal dato anagrafico, in quanto il processo di maturazione è un
evento assolutamente individuale, che prescinde dall’età del ragazzo per essere al contrario influenzato da innumerevoli altri fattori.
L’imputabilità dovrà poi essere valutata in relazione allo specifico fatto delittuoso commesso. È indubitabile e viene continuamente valutato dalla giurisprudenza che certi reati di tipo bagatellare provocano nel ragazzo una diversa
(minore) avvertibilità del disvalore etico-sociale e dell’immoralità del comportamento rispetto a reati che coinvolgono beni primari quali la vita o la salute
Ulteriori criteri di valutazione saranno dedotti dalla condotta nel minore nel
processo giudiziale ed extragiudiziale e il suo coinvolgimento nel percorso riparatorio e riabilitativo.
In questa fase si pone il problema dell’analisi dei fattori che influenzano
l’azione delittuosa del minore ma non sono a lui ascrivibili. Tali sono tutte
quelle influenze, quelle componenti relazionali come il gruppo, o le pressioni
economiche e sociali, il disadattamento o le violenze familiari, che gli vengono
dall’esterno e che muovono la sua azione pur non escludendone la responsabilità.
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Studiosi come Edward M. Lemert arrivano a considerare l’azione deviante
proprio come una risposta del minore alle pressioni e alle aspettative sociali.
È in effetti discutibile come spesso si tenda ad analizzare la vita familiare del
giovane per riscontrare deficit e difficoltà che possono suggestionarne e indirizzarne il processo di maturazione ma poi tali deficit e disagi non vengano opportunamente valutati come attenuanti alla sua responsabilità.
Per Cohen e Cicchetti ogni manifestazione psicopatologica nel bambino o nel
ragazzo deve essere analizzata dell’ambito dei fattori di rischio e di protezione
che ciascuno possiede. Tali sono gli strumenti che possiamo utilizzare per offrire resistenza all’offensività degli eventi sociali che influiscono sul nostro
comportamento.
Sarà quindi considerato maturo colui che è in grado di rispondere in modo critico agli stimoli contradditori che gli vengono dal contesto sociale.
Come per i maggiorenni, anche per i minorenni possono poi verificarsi eventi
patologici che hanno l’effetto di scemare o escludere la capacità di intendere e
di volere. In questi casi è necessaria una perizia psichiatrica.
Al solo fine della determinazione della pena in concreto o della concessine del
perdono giudiziale (v. oltre) spetta inoltre al giudice il potere discrezionale di
valutare la capacità a delinquere del colpevole, capacità che viene desunta dai
motivi che hanno spinto il reo a delinquere, dal suo carattere, dai precedenti
penali e giudiziari, dalla condotta del reo contemporanea e successiva al reato,
dalle condizioni di vita individuale, familiare e sociale.
Tali valutazioni rilevano anche ai fini del giudizio di pericolosità sociale (art.
203 c.p.), vale a dire dell’analisi circa la probabilità che il reo possa commettere nuovamente fatti costituenti reato, giudizio sul quale si fonda l’applicazione
di qualsiasi misura di sicurezza.
È da dire che l’istituto trova scarsissima applicazione nei confronti di minori.
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Sotto il profilo processuale il difetto di imputabilità per essere il soggetto minore degli anni 14 deve essere dichiarato con sentenza di non luogo a procedere, in ogni stato e grado del procedimento. Ove invece venga accertato il difetto di imputabilità in soggetto maggiore degli anni quattordici si farà ricorso:
•
nella fase delle indagini preliminari all’archiviazione;
•
nell’udienza preliminare o in giudizio con sentenza di non luogo a
procedere per difetto di imputabilità.
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5. IL PROCESSO A CARICO DI MINORE
Già si è detto dei principi che informano il processo penale a carico del minore.
Di seguito saranno illustrati alcuni degli istituti che, pur affiancandosi ad analoghi istituti del processo penale contro adulti, presentano specificità allorquando a delinquere sia il minore: istituti di prevenzione, di mediazione, istituti
speciali quali il perdono giudiziale, la declaratoria di irrilevanza del fatto, la
messa alla prova ecc.
Non sono invece applicabili al processo minorile alcuni istituti del processo
penale per adulti quali l’applicazione pena su richiesta delle parti (patteggiamento) ex art. 444 c.p.p. in quanto si è ritenuto diseducativo per il minore,
nell’ottica della sua responsabilizzazione e consapevolezza del disvalore del
fatto commesso, consentirgli di concordare la misura della pena.
Non è neppure applicabile il procedimento per decreto penale (art. 459 ss.
c.p.p.), non è prevista la condanna alle spese processuali e non è consentita la
costituzione di parte civile per il risarcimento dei danni.
Il procedimento minorile non conosce incriminazioni o sanzioni destinate esclusivamente agli imputati minorenni ma prevede tutta una serie di strumenti
giuridici atti a rieducare e recuperare il minore autore di reato.
Si tratta in particolare di strumenti di definizione anticipata del giudizio che
complessivamente hanno ben funzionato tanto che mediamente giungono
all’udienza dibattimentale soltanto il 10% dei procedimenti: i restanti vengono
definiti o con gli strumenti alternativi alla condanna (v. paragrafo successivo) o
in udienza preliminare.
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6. STRUMENTI ALTERNATIVI ALLA CONDANNA
6.1 Irrilevanza del fatto
L’art. 27 DPR 448/88 prevede che ove nel corso delle indagini preliminari emerga la tenuità del fatto e l’occasionalità del comportamento e si ritenga che
l’ulteriore corso del procedimento possa arrecare danno alle esigenze educative
del minore può essere emessa sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza
del fatto.
Il reato deve essere di scarsa consistenza e gravità (reati c.d. bagatellari), non
deve rientrare in un quadro sistematico di delinquenza e infine il procedimento,
qualora proseguisse, deve essere ritenuto dannoso per il percorso di recupero e
rieducazione del minore.
L’irrilevanza del fatto deve essere dichiarata con sentenza di non luogo a procedere.
In queste ipotesi dopo l’obbligatorio esercizio dell’azione penale la valutazione
discrezionale del giudice, sempre motivata, conduce all’archiviazione del procedimento.
6.2 La sospensione del processo con messa alla prova
Gli art. 28 e 29 DPR 448/88 regolano la sospensione del processo con messa
alla prova. Il giudice, quando ritiene che sia necessaria una valutazione della
personalità del minore e una specifica attività di trattamento, e contemporaneamente è in grado di svolgere un giudizio prognostico positivo sul futuro comportamento del minore, può disporre con ordinanza la sospensione del processo e affidare il minorenne ai servizi minorili dell’amministrazione della giustizia.
Non esistono preclusioni all’applicazione della misura, né di ordine oggettivo
(quindi per es. è applicabile anche in ipotesi di imputazione per omicidio) né di
ordine soggettivo.
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Il periodo di messa alla prova non può essere superiore a tre anni se si procede
per reati puniti con l’ergastolo o con la reclusione non inferiore nel massimo a
12 anni; in tutti gli altri casi il periodo di prova non può superare l’anno.
Presupposto necessario è la convinzione da parte del giudice che il soggetto
abbia commesso il fatto e che possa porre in essere un positivo percorso di rieducazione. La messa alla prova richiede pertanto da parte del ragazzo e della
famiglia impegno e responsabilità nell’affrontare questo tipo di verifica da parte delle istituzioni delle reali capacità di recupero del minore.
Con l’ordinanza di sospensione il giudice impone al minore una serie di prescrizioni volte a riparare le conseguenze del danno recato e a riconciliarsi con
la vittima o con la sua famiglia. Ciò non ha nulla a che vedere con il risarcimento del danno, riparazione non presente nel processo a carico di minori, visto il divieto di costituzione di parte civile in questa sede.
Al termine del periodo di prova il giudice, sentite le osservazioni dei Servizi
sociali, sentito il minore e la famiglia, se ritiene che il percorso abbia avuto
buon esito, dichiara l’estinzione del reato.
L’istituto della messa alla prova è applicabile non solo a chi è minorenne al
momento della sospensione del procedimento ma anche a chi ha già compiuto i
18 anni, ferma restando la minore età al momento del compimento del reato e
la necessità di osservazione e recupero.
Scopo principale di questo istituto è la valutazione della personalità del minore,
l’analisi del suo contesto familiare e la presenza di elementi di fatto che dimostrino la possibilità e la volontà da parte del minore di operare scelte di vita positive e allontanarsi dall’ambiente delinquenziale. Da parte sua il minore deve
dimostrare la seria intenzione di migliorare le sue condizioni di vita e rispettare
le prescrizioni che gli sono state imposte.
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Nonostante da più parti si siano levate critiche la Corte Costituzionale ha ribadito che il consenso del minore alla messa alla prova non è condizione necessaria per l’applicabilità della misura (Sent. 125 del 14/04/95). Nonostante ciò il
consenso e la partecipazione del minore sono certamente presupposti che favoriscono l’esito positivo del progetto.
Nell’ambito della sospensione del processo con messa alla prova la funzione
del servizio minorile di Stato è quella di predisporre un progetto di intervento
che coinvolga la famiglia e l’ambiente di vita del minore, che preveda una serie
di impegni per il ragazzo, che coinvolga gli operatori della giustizia e dell’ente
locale e che miri alla riparazione delle conseguenze del reato anche nei confronti della vittima.
È il giudice a decidere se tale progetto deve essere svolto in regime di libertà o
tramite l’applicazione di una misura cautelare. I servizi provvedono periodicamente ad informare il giudice (presidente del collegio che ha disposto la sospensione o giudice da lui delegato) sull’evoluzione del caso, sulle modifiche
che ritengono opportuno apportare e sulle eventuali trasgressioni ad opera del
minore (in tal caso, se le trasgressioni sono violente e ripetute la sospensione
può essere revocata dal giudice e si dà corso ad una nuova udienza preliminare
o dibattimentale).
Non è scontato l’esito positivo del ricorso a questa misura alternativa: notevole
influenza sulla sua riuscita avrà l’esistenza di una progettualità condivisa fra le
istanze giudiziarie e quelle sociali e sanitarie competenti per la gestione concreta del progetto.
È essenziale che il minore senta l’appoggio e il controllo di educatori e servizi
sociali e si senta coinvolto nel Suo progetto di accompagnamento. In caso contrario rischierà di vedere sfumata la possibilità di redimersi e di far fallire
l’istituto che rappresenta un meritevole tentativo di spostamento del giudizio
dalla sede giudiziale a quella extragiudiziale.
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Tale misura rispecchia nella maniera più ampia i principi di destigmatizzazione, minima offensività della pena nei confronti del minore, residualità della detenzione e adeguatezza della sanzione al reato effettivamente commesso.
Aspetti positivi della messa alla prova sono la decarcerizzazione (si evita al
minore la riparazione del danno all’interno delle istituzioni carcerarie); la garanzia che la pronuncia di estinzione del reato non sarà iscritta nel casellario
giudiziario, lasciando così intonsa la fedina penale del giovane; la flessibilità e
la reiterabilità della misura, che può essere concessa più di una volta allo stesso
minore.
Ci sono però anche aspetti problematici, ad esempio il fatto che non sia disciplinata l’ipotesi in cui il minore superi la prova senza violazioni o trasgressioni
ma allo stesso tempo senza aver realmente effettuato un cambiamento di condotta.
Inoltre non è previsto un termine entro il quale si debba celebrare l’udienza di
verifica della messa alla prova. Tale udienza può quindi intervenire anche molto tempo dopo la chiusura dell’esperienza, con ciò arrecando danno al percorso
di recupero del minore che non percepisce la conseguenzialità della decisione
del Giudice rispetto al suo comportamento meritevole.
Infine non c’è modo per verificare se il giovane persegue il progetto per reale
interesse e convinzione oppure se simula per ottenere benefici e sconti pur senza una partecipazione sincera. L’importante per il sistema pare essere che il
cambiamento avvenga nel minor tempo possibile, piuttosto che sia retto da
concrete motivazioni.
Nell’esecuzione della misura si sono verificate spesso notevoli disparità di trattamento tra le diverse fasce della popolazione, mancando, per quanto riguarda i
giovani extracomunitari o nomadi, un radicamento della famiglia e del gruppo
sociale che possa sostenere il trattamento e possa fornire ai servizi sociali la
base su cui operare.
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I maggiori ostacoli alla riuscita della messa alla prova sono rappresentati
dall’inadeguatezza delle risorse mobilitate a favore del ragazzo: troppo spesso
è assente la disponibilità a partecipare da parte della famiglia e degli amici, sono insufficienti l’impegno e la capacità delle risorse istituzionali e di volontariato e la competenza dei servizi del territorio.
6.3 Il perdono giudiziale
L’istituto è disciplinato dal comma 1 dell’art. 169 codice penale, come integrato dall'art. 19 r.d.l. 20 luglio 1934, n. 1934, n.1404, nel testo introdotto dall'art. 112 l. 24 novembre 1981, n. 689, che di seguito si riporta:
«Se per il reato commesso dal minore degli anni diciotto il tribunale per i minorenni ritiene che si possa applicare una pena restrittiva della libertà personale non superiore a due anni, ovvero una pena pecuniaria non superiore a lire tre milioni, anche se congiunta a detta pena, può applicare il perdono giudiziale, sia quando provvede a norma dell'articolo 14 sia nel giudizio».
L’art. 169 Codice Penale richiede una ulteriore condizione: “quando presume
che il colpevole si asterrà dal commettere ulteriori reati”.
Tale norma persegue lo scopo, da ritenere superiore e fondamento di tutto il diritto minorile, del recupero del minore. Per potersi applicare è necessario innanzitutto l’accertamento della responsabilità del soggetto e della sua imputabilità, sia nel caso che il giudice si astenga dal pronunciare la condanna sia nel
caso che non disponga il rinvio a giudizio.
Il perdono giudiziale può essere concesso una sola volta, salvo nei casi di estensione ad altri reati che siano legati al primo dal vincolo della continuazione
o in ipotesi di delitti commessi anteriormente alla prima sentenza di perdono.
È misura non revocabile in quanto estingue il reato nel momento del passaggio
in giudicato della sentenza, è incondizionato e istantaneo (viene applicato con
sentenza di non luogo a procedere).
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È istituto di larghissima applicazione nel diritto penale minorile; svolge la duplice funzione di fornire al ragazzo delinquente occasionale la possibilità di
cancellare l’esperienza negativa e di deflazionare i Tribunali per i Minori che
nel nostro paese, come ogni altra struttura del pianeta giustizia, sono certamente sottodimensionati rispetto alle effettive necessità.
L’esigenza di alleggerire i carichi dei Tribunali per i Minori porta purtroppo
talvolta all’aberrante conseguenza della concessione del perdono giudiziale
senza una previa attenta valutazione della responsabilità.
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7. LA MEDIAZIONE PENALE MINORILE
La mediazione penale minorile può essere disposta dal Giudice nell’ambito
delle prescrizioni volte al buon esito della messa alla prova (art. 28 DPR
448/88).
È istituto che può essere analizzato in questa sede in quanto ha lo scopo di evitare la condanna ed è alternativa all’applicazione del diritto penale. È una prassi ancora lontana da una puntuale e capillare attuazione nel nostro ordinamento
non
solo
perché
è
ritenuta
contrastante
con
il
principio
cardine
dell’obbligatorietà dell’azione penale ma soprattutto per l’endemica carenza di
strutture istituzionali.
Tuttavia da più parti si sta sviluppando e accrescendo l’uso della mediazione
per risolvere i conflitti provocati dalla commissione di un reato ad opera di minorenni.
Il fondamento di questa disciplina è la fiducia nella possibilità di rieducare il
minore attraverso un’attività che sia extra penale, che non provochi
l’etichettamento e lo stress che possono suscitare nel giovane i procedimenti
penali. Il minore deve essere condotto all’accettazione e alla consapevolezza
del peso delle proprie azioni, con il coinvolgimento diretto e attivo di tutto ciò
che lo circonda.
Egli deve sentirsi responsabile della possibilità di cambiare, deve essere parte
del suo stesso progetto di recupero, sentendosi in tal modo protagonista del sistema penale e non solo una pedina.
Nello stesso tempo al giovane devono essere imposte prescrizioni che lo rendano cosciente del male provocato e confronti con la vittima che gli facciano
riparare il danno inferto.
Con la mediazione penale si esprime chiaramente lo scontro tra la funzione e
direzione punitiva del diritto penale e la funzione educativa, che tende sempre
al cambiamento del minore per scelta e non per imposizione.
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Punto di partenza della mediazione penale è una importante carenza del sistema penale: la risoluzione delle contese porta al giudizio di colpevolezza o innocenza ma non interviene nel ricomporre il conflitto tra le parti. Gli aspetti
emotivi, il disagio individuale e collettivo provocato dall’evento criminoso non
vengono affrontati né risolti, vengono lasciati ad altra sede e spesso non ricevono nessun tipo di trattamento.
Oltretutto nell’attuale processo minorile il riconoscimento dei diritti della vittima è stato escluso attraverso il divieto di costituzione di parte civile. In questo modo chi subisce un danno non si vede tutelato nell’espressione dei suoi diritti e percepisce il processo come totalmente sbilanciato a favore dell’autore
del reato.
La mediazione ottiene quindi il risultato di dare attenzione anche ai bisogni
della vittima, di analizzare e dare sfogo ai suoi sentimenti di rabbia, delusione
nei confronti del sistema e insicurezza per una società che non la tutela.
Gian Vittorio Pisapia definisce la mediazione penale come “terra di mezzo che
si caratterizza come luogo di ricostruzione al cui interno possano svilupparsi
gli incontri tra reo e vittima e prevedere così un’attività di risoluzione dei conflitti”.
Bouchard ritiene che finalità della mediazione sia “di riallacciare i fili di una
comunicazione interrotta” tra il reo e la sua vittima.
Gli scopi della mediazione penale sono due: il risarcimento del danno oppure
la riconciliazione con la vittima.
L’istituto della mediazione, che in Italia si applica quasi esclusivamente
nell’ambito del diritto minorile, si presenta in due diverse forme:
™
Empowering style (terapeutico): il mediatore è presente e agisce per favorire l’incontro tra le parti. Egli apre la seduta illustrando gli obiettivi
dell’incontro poi lascia spazio ai diretti interessati.
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™
Controlling style (contrastante): è uno stile più diretto, prevede che il
mediatore intervenga per sollecitare le parti a comunicare con lui prima
che tra di loro. La finalità è il ripristino di un dialogo in quei casi in cui
c’è resistenza ad affrontare tale processo.
Committenti della mediazione penale possono essere il Giudice, la polizia giudiziaria o i servizi minorili, i quali inviano le parti al Servizio di mediazione.
La prima fase vede l’ascolto individuale delle parti ad opera del mediatore e la
verifica di fattibilità di tale procedimento. Vengono sentiti anche i genitori
dell’indagato e il suo difensore e, una volta raccolte queste informazioni, il
mediatore definisce insieme alle parti le modalità del loro incontro.
Nel primo incontro diretto tra le parti si procede a illustrare le regole di conduzione della prova, mirate al riconoscimento del danno inflitto alla vittima e
all’ascolto dei diversi punti di vista.
Di seguito minore e vittima formulano un accordo sul progetto di riparazione
che può prevedere il risarcimento diretto o la prestazione di un’attività che
simbolicamente favorisca il riscatto della vittima.
Dei risultati di questi colloqui il mediatore dà notizia al giudice, senza affrontare nello specifico i contenuti o i fatti emersi durante i colloqui ma semplicemente comunicando l’esito positivo di tale prova. Il giudice valuta la possibilità di dichiarare l’irrilevanza del fatto o di concedere il perdono giudiziale.
Presupposto fondamentale per attuare questa procedura è che ci sia il consenso
reale di vittima e autore del reato. Il minore sottoposto alla mediazione penale
è solitamente un ragazzo appartenente ai ceti sociali medio bassi che mette in
atto reati di scarsa gravità sostanziale ma dal notevole impatto sociale.
Per attenuare questo rifiuto dell’altro si opera nella direzione di dare coscienza
e responsabilizzare il giovane nei confronti della società, insegnargli il rispetto
dei valori della persona, della dignità, del bene comune. In particolare il reo
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venendo a contatto con la sua vittima può comprendere la concretezza della sua
azione e delle conseguenze che porta nell’altra persona.
Il sistema mediatorio deve ottenere il consenso della vittima, cosa non sempre
facile, le deve offrire assistenza di tipo umanitario e psicologico, affrontare i
suoi bisogni emotivi e tutelarla non solo rispetto all’autore del reato ma anche
rispetto al sistema penale stesso.
Il mediatore deve essere dotato di capacità di comunicazione e di negoziazione,
deve essere sensibile alle situazioni critiche e deve riuscire a rimanere neutrale
nel gioco delle parti, in ogni cosa che dice e in ogni movimento che compie.
Vittima e reo non devono sentire la sua partecipazione personale ma devono
avvertire solo il suo tentativo di conciliare le diverse esigenze nel rispetto di
tutte le convinzioni.
Il mediatore deve essere assolutamente tollerante e aperto verso l’altro, soprattutto verso il reo, e non deve dare l’impressione di giudicarlo o criticarlo.
L’atmosfera che deve creare è un’atmosfera di accoglienza finalizzata a mettere a proprio agio persone che si trovano ad affrontare un difficile cammino interiore.
Il mediatore deve comunicare empatia nei confronti dei sentimenti del soggetto
che si trova davanti, empatia che si manifesta nella partecipazione alle emozioni della vittima e del reo senza che ciò comporti un condizionamento delle
proprie convinzioni ma piuttosto uno strumento di analisi cognitiva ancor più
efficace.
In Italia l’applicazione della mediazione penale è ancora scarsa in quanto contraddice il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, principio cardine
del nostro ordinamento. Il processo infatti deve essere portato a conclusione in
ogni caso, anche se vittima e reo si sono conciliati.
La mediazione può essere attuata nel corso delle indagini preliminari, quando il
giudice raccoglie informazioni sulla personalità e sulla storia familiare del minore per valutarne il grado di responsabilità e la rilevanza del fatto, oppure
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nell’udienza preliminare o ancora in caso di sentenza che sospende il processo
con messa alla prova, prova che può essere conclusa con la risoluzione del conflitto nei confronti della vittima.
Questo modello di giustizia riparativa (restorative justice) si contrappone a
quello storico di giustizia retributiva, che concepisce la sanzione come una punizione per il danno inferto e un “corrispettivo” della propria colpa nei confronti della società.
La restorative justice è un modello che coinvolge la vittima del reato, riequilibra gli interessi lesi dall’azione criminosa e afferma una nuova responsabilità
del reo che si trova faccia a faccia con la sua vittima.
L’analisi di questa procedura può portare a due tipi di considerazioni.
Da un lato essa può essere vista come uno spiraglio di luce nel tentativo, spesso fallito da parte della giustizia minorile, di dare risposte ai bisogni dei minori
disadattati e deviati, portandoli ad aprirsi alla famiglia e confrontarsi con le vittime dei loro reati. In tal senso essi acquisiscono la consapevolezza della negatività delle loro azioni senza essere etichettati e senza subire la punizione rappresentata dalle sanzioni penali.
Dall’altro lato si tende, tramite la mediazione penale, a far propri principi come
il rifiuto dell’autorità e della responsabilità personale, con il rischio di un ulteriore sacrificio del sistema sanzionatorio a favore di una responsabilità solo nei
confronti del terzo e non verso tutta la collettività.
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8. STRUMENTI DI ATTENUAZIONE DELLA PENA
8.1 L’attenuante della minore età
È disciplinata dall’art. 98 Codice Penale: al minore imputabile è sempre applicata l’attenuante specifica della minore età, secondo le norme generali degli
artt. 63, 65, 67 e 69 c.p.
La giurisprudenza ha peraltro precisato che l’applicazione dell’attenuante generale della minore età non si sottrae al giudizio di comparazione, e quindi ben
può essere assorbita da giudizio di prevalenza delle circostanze aggravanti contestate.
La diminuente della minore età deve essere posta in comparazione, ai sensi
dell'art. 69 c.p., con eventuali circostanze aggravanti.
Costituisce specificazione dell’attenuante prevista per il vizio parziale di mente
(art. 89 c.p.). In sede di concreta applicazione si sono verificati spesso contrasti
risolti con l’interpretazione più favorevole al minore: si è ritenuto che le due
attenuanti generiche possano concorrere tra loro quando siano fondate sui diversi parametri della minore età da un lato e dell’infermità dall’altro.
8.2 Attenuante art. 114 c. 3 c.p.
La pena può essere diminuita per chi è stato determinato a commettere il reato
•
da persona che esercitava autorità, direzione o vigilanza;
•
da un genitore o esercente la potestà.
È di applicazione facoltativa. Il giudice dovrà concretamente accertare che il
minore sia stato indotto a commettere il reato o a parteciparvi esclusivamente o
prevalentemente in virtù della posizione di supremazia del maggiorenne.
È cumulabile con l’attenuante generale prevista dall’art. 98, c. 2, c.p. poiché si
fonda su risultanze ulteriori rispetto alla mera considerazione della minore età
del soggetto.
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9. STRUMENTI PER EVITARE
L’ESPIAZIONE DELLA PENA IN CARCERE
9.1 La sospensione condizionale della pena
L’art. 163 del Codice Penale prevede che il giudice possa ordinare una sospensione della pena per un periodo di 5 anni (in caso di delitto) o di 2 anni (per le
contravvenzioni). Trascorsi i termini senza che il condannato abbia reiterato il
reato e qualora abbia rispettato le prescrizioni imposte dal giudice il reato si
considera estinto.
La sospensione viene concessa quando la pena altrimenti inflitta è pari o minore, per i minori degli anni 18, alla reclusione per tre anni.
Condizione necessaria per l’applicazione di questo strumento è l’assenza di
precedenti delitti o di una abitualità di comportamenti criminali da parte del
condannato; l’astensione dalla commissione di altri reati e la non applicazione
di misure in sicurezza.
Si tratta di un beneficio concedibile una sola volta nel corso della “carriera
criminale” del minore (tranne l’ipotesi in cui la pena da infliggere, cumulata
con quella già irrogata, non superi i limiti di pena previsti dall’art. 163 c.p.) e
che può essere revocato in caso di compimento di delitto o contravvenzione
della stessa indole o in caso di inadempienza degli obblighi previsti. Tali possono essere il risarcimento del danno, la pubblicazione della sentenza, la prestazione gratuita di attività a favore della collettività ecc.
Nella giustizia minorile in particolare questo istituto ricopre un ruolo fondamentale in quanto, tramite le prescrizioni imposte dal Giudice che mirano a eliminare le conseguenze dannose del reato, il minore prende coscienza delle
sue responsabilità e agisce per risolvere il danno che ha provocato, in vista del
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premio dell’estinzione del reato. Da questo punto di vista è una misura simile a
quella della sospensione del processo con messa alla prova, nella quale però gli
obblighi imposti dal Giudice sono condizione di applicazione della misura
stessa in quanto finalizzati ad una valutazione della personalità dell’autore del
reato.
9.2 Le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi
L’origine di questi strumenti, applicabili anche ai reati commessi dagli adulti,
deriva dalla necessità di evitare che vengano inflitte quelle pene detentive brevi, sanzionanti reati di tenue gravità, che se eseguite hanno scarsi risultati pratici e tendono piuttosto al contagio criminale, mentre se sospese hanno scarso
valore intimidatorio.
La L. 689/1981 prevede la sostituzione di alcune pene detentive brevi con le
misure della semidetenzione, della libertà controllata e della pena pecuniaria
sostitutiva.
Tali sanzioni vengono applicate con la sentenza di condanna e la loro esecuzione può essere condizionalmente sospesa. Qualora nel corso dell’esecuzione
intervenga condanna a pena detentiva per fatto successivo la pena sostitutiva
deve essere revocata e convertita in pena detentiva.
La semidetenzione sostituisce la pena detentiva non superiore a una anno. Consiste nell’obbligo di trascorrere almeno 10 ore al giorno negli istituti penitenziari indicati dal Magistrato di sorveglianza, compatibilmente con le esigenze
di studio e di lavoro del minore. A questo obbligo posso essere aggiunte ulteriori prescrizioni quali il ritiro della patente, del passaporto o il divieto di detenzione e possesso di armi.
La libertà controllata sostituisce la pena detentiva non superiore a 6 mesi.
Consiste nella diminuzione delle libertà individuali per mezzo di restrizioni
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quali il divieto di allontanarsi dal comune di residenza, l’obbligo di presentarsi
alle autorità di polizia, la sospensione della patente di guida.
La pena pecuniaria sostituisce pene detentive non superiori a 3 mesi. Ove il
condannato non provveda al pagamento della somma di denaro il Pubblico Ministero chiede la conversione della pena. L’istituto non trova il favore degli operatori del diritto penale minorile per la scarsa afflittività che comporta. Infatti
il minore è quasi sempre privo di mezzi propri e pertanto al pagamento della
sanzione provvedono i genitori, così deresponsabilizzando il ragazzo che non
avverte la sanzione.
Nell’ambito del diritto penale minorile tale procedura è stata recepita dall’art.
30 del DPR 448 il quale stabilisce che con la sentenza di condanna il Giudice,
quando ritiene di dover applicare una pena detentiva non superiore a due anni
può sostituirla con la sanzione della semidetenzione o della libertà controllata,
tenuto conto della personalità e delle esigenze di lavoro o di studio del minorenne nonché delle sue condizioni familiari, sociali e ambientali.
L’applicazione delle pene detentive vere e proprie viene relegata a
un’eventualità marginale, extrema ratio di un processo che tende invece a infliggere sanzioni più tenui e meno dannose per il minore che delinque. Tutto
ciò è comunque subordinato alla buona condotta del minore, alla sua responsabilità nell’ambito familiare e sociale e al giudizio positivo del tribunale in merito alla sua personalità.
L’art. 32 DPR 448/88 regola poi il caso in cui, nell’ambito dell’udienza preliminare, il pubblico ministero faccia richiesta di applicazione di una pena sostitutiva. In tal caso il giudice può procedere alla sostituzione riducendo la pena
fino alla metà del minimo edittale.
L’esecuzione delle sanzioni penali sostitutive, così come delle misure cautelari,
pene detentive e misure di sicurezza, è affidata al personale dei servizi minori28
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li, e prevede le stesse modalità anche per coloro che nel corso dell’esecuzione
abbiano compiuto il diciottesimo anno di età ma non il ventunesimo.
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10. STRUMENTI PER RIDURRE LA DURATA DELLA PENA INFLITTA
10.1 La libertà condizionale
Può essere ordinata in qualunque momento dell’esecuzione, qualunque sia la
durata della pena detentiva inflitta e di quella non ancora espiata.
Con tale misura si fa cessare l’esecuzione della pena prima della scadenza del
termine stabilito nella sentenza di condanna.
Presupposto per la sua applicazione è la positiva verifica del percorso di rieducazione svolto dal minore e il giudizio prognostico positivo sulla probabilità
che per il futuro si asterrà dal delinquere.
Scopo fondamentale in ambito minorile è il recupero del minore, al quale devono essere applicate le misure di sicurezza della permanenza i casa o del collocamento in comunità, sotto l’affidamento dei servizi sociali.
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11. STRUMENTI PER RENDERE MENO AFFLITTIVA
L’ESPIAZIONE DELLA PENA
11.1 Affidamento in prova al servizio sociale
È modalità di esecuzione della pena, alternativa alla detenzione in carcere.
Gli scopi sono quelli di facilitare il rientro in società di coloro che non hanno
commesso gravi delitti e di non sovraffollare le carceri, in modo che il sistema
carcerario possa concentrare le sue attenzioni su quanti sono colpevoli di reati
gravi.
Tale misura può essere disposta quando la pena detentiva non supera i tre anni,
se si presume che l’affidamento possa agevolare la rieducazione del condannato e nei casi in cui non ci sono presunzioni di reiterazione del reato.
Il condannato resta affidato ai servizi per un periodo uguale a quello che avrebbe dovuto espiare in carcere. Gli sono imposte prescrizioni e divieti, la sua
condotta viene periodicamente riferita al magistrato di sorveglianza.
L’affidamento viene revocato in caso di comportamento incompatibile con il
regime della misura stessa.
Per i soggetti tossicodipendenti o alcool dipendenti è previsto l’affidamento in
prova al fine di proseguire o iniziare un programma terapeutico atto a recuperare il soggetto.
Per i minori l’esecuzione della misura avviene presso i servizi sociali minorili.
11.2 Detenzione domiciliare
Altra misura alternativa alla detenzione consiste nella possibilità per il condannato di espiare la pena nella propria abitazione o in altro luogo pubblico di cura
o assistenza. Nel caso di persone minori di anni ventuno la misura può essere
disposta per comprovate esigenze di lavoro o di studio. Il tribunale di sorveglianza determina e impartisce le disposizioni per gli interventi del servizio sociale. Il minore che si allontani dalla dimora indicata per la detenzione non può
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essere arrestato in flagranza né può essere oggetto di misure cautelari, a differenza del condannato adulto, ma la denuncia per violazione della detenzione
domiciliare comporta la sospensione del beneficio e la condanna ne causa la
revoca.
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12. LA PREVENZIONE
Concetto contrapposto a quello di repressione, indica tutte quelle misure atte a
prevenire la commissione di reati, agendo sia sulle causa oggettive (condizioni
sociali ed economiche, familiari e di gruppo) sia sulle cause soggettive (devianza, predisposizione, pericolosità sociale del singolo individuo).
La prevenzione si distingue in:
o prevenzione generale: intimidazione connessa alla minaccia della sanzione;
o prevenzione speciale: è costituita dal processo di risocializzazione che si
opera con l’applicazione delle misure di sicurezza. La prevenzione speciale
può essere:
ƒ ante delictum, remota o prossima a seconda che intervenga indifferentemente sulle cause di criminalità di un gruppo o che si concentri sulla pericolosità sociale di un singolo individuo;
ƒ post delictum, quando ha come presupposto l’effettiva commissione di
un reato e lo scopo è quello di impedire la recidiva.
Nell’ambito del diritto minorile la prevenzione si ottiene tramite le misure di
rieducazione, nel quadro della cosiddetta competenza amministrativa del Tribunale per i minorenni.
Esse hanno lo scopo di impedire la commissione di reati da parte di persona
minore degli anni diciotto e di risparmiarle quindi l’applicazione delle misure
previste dalla legge penale.
La rieducazione è alternativa alla repressione penale del reato. L’ordinamento
tenta attraverso tali strumenti di intervenire sul minore che inizia un percorso
delittuoso non tanto per predisposizione o tendenza spontanea ma per determinazione ambientale.
Si tratta di provvedimenti non penali, risocializzanti, con contenuti terapeutici
ed educativi.
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Le misure rieducative trovano il loro primo fondamento giuridico nella Costituzione, la quale riconosce il diritto di ogni bambino e ragazzo all’educazione.
L’art. 30 prevede che qualora i genitori non siano in grado di fornire tale educazione sarà lo Stato a prendersene cura. Altro fondamento indispensabile è la
necessità comune di prevenire e contenere la criminalità minorile in vista di
una difesa sociale che è scopo primario dell’attività dello Stato.
Le principali misure di rieducazione del minore sono previste dalla Legge Minorile (R.D.L. 1404/34) e si applicano in caso di manifesta irregolarità di condotta del minore, la quale deve manifestarsi in fatti concreti e esternamente apprezzabili.
L’impulso per l’esecuzione di tali misure avviene d’ufficio, a seguito di segnalazioni fatte al Tribunale per i minorenni dalle forze dell’ordine, dai servizi sociali, dalle scuole, dai genitori stessi, di notizie concernenti tali manifestazioni
di devianza. Il tribunale compie le dovute indagini e provvede con decreto ad
applicare una delle seguenti misure:
¾ affidamento al servizio sociale: consiste nell’obbligo da parte del minore di
tenersi in contatto con i servizi sociali responsabili del suo percorso riabilitativo e di seguirne le prescrizioni. Da parte sua l’operatore incaricato deve
sorvegliare il minore, consigliarlo e favorire i suoi rapporti con la famiglia.
La potestà genitoriale non viene meno con l’applicazione di questa misura: i
genitori mantengono l’obbligo di educare e curare il figlio insieme al diritto
di amministrarne i beni e rappresentarlo ma a loro viene ascritto l’obbligo
di mantenere contatti e seguire le prescrizioni dei servizi sociali responsabili;
¾ collocamento in casa di rieducazione o in istituto medico-psico-pedagogico:
strumento applicato nei confronti di quei minori che rifiutano la vita sociale, il rispetto delle norme di comportamento e gli impegni lavorativi, scolastici o sportivi. Nella maggior parte dei casi si tratta di ragazzi che vedono
la frequentazione dei servizi sociali come denigrante, che sono ben inseriti
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in un contesto criminogeno che li vede parte di un gruppo dal quale difficilmente potrebbero allontanarsi se non con misure drastiche, certamente
non in regime di libertà. La legge minorile prevedeva quindi la collocazione
in una casa di rieducazione, di tipo chiuso, che raccoglie anche centinaia di
minori ed è organizzata con disciplina di tipo militare.
Con l’entrata in vigore del DPR 616/77 tutti gli istituti di rieducazione sono
stati soppressi e la competenza in materia di prevenzione è stata trasferita ai
Comuni, che sono responsabili dell’applicazione delle misure necessarie
per l’esecuzione dei provvedimenti del Tribunale per i minorenni.
A causa della mancanza di risorse, della scarsa continuità nel predisporre e
portare avanti programmi di riadattamento sociale, della incompetenza e
spesso inesperienza degli operatori in materia la realizzazione di tali obiettivi da parte dei Comuni ha incontrato grandi ostacoli. Il Tribunale, per non
veder cadere nel vuoto i provvedimenti in materia di rieducazione, ha cessato in molti casi di esercitare tale funzione.
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13. LE MISURE DI SICUREZZA
Consistono in restrizioni della libertà personale o in misure di natura patrimoniale con lo scopo di risocializzare il soggetto e prevenire il compimento di ulteriori reati.
Per l’applicazione di una misura di sicurezza personale è necessario il giudizio
di pericolosità sociale del soggetto, pericolosità che si evince da un presupposto di fatto, la commissione di un reato da parte del soggetto, e da un giudizio
prognostico, il possibile reiterarsi dell’azione delittuosa (art. 19 DPR 448/88).
Per i minorenni le misure di sicurezza applicabili sono:
-
il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, applicabile all’imputato minorenne nel caso in cui sia stato prosciolto per incapacità di intendere e di
volere a causa di infermità;
-
divieto di soggiorno in uno o più Comuni o in una o più Province, applicabile in caso di minore colpevole di delitti contro la personalità dello Stato o
contro l’ordine pubblico; la valutazione da fare in questi casi è quanto possa
giovare al minore l’allontanamento dall’ambiente familiare;
-
l’espulsione dello straniero dal territorio dello Stato in caso di commissione
di delitti contro la personalità dello Stato o di altri delitti puniti con la reclusione non inferiore a 10 anni;
-
la confisca, comporta la devoluzione allo Stato delle cose che servirono o
furono destinate a commettere l’atto delittuoso o del prodotto/profitto di tale reato.
Riformatorio e libertà vigilata erano misure di sicurezza previste dal codice
penale per:
o minori di anni 14 autori di un fatto previsto dalla legge come delitto e ritenuti socialmente pericolosi;
o minori di anni 18 sia non imputabili che imputabili e socialmente pericolosi.
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Il DPR 448 è intervenuto modificando la disciplina del riformatorio. Tale misura si applica in relazione ai delitti non colposi per i quali la legge stabilisce la
pena dell’ergastolo e della reclusione non inferiore nel massimo a 9 anni, ai reati di furto, rapina, detenzione di armi o stupefacenti, al delitto di violenza carnale.
Per entrambi gli strumenti deve sussistere il concreto pericolo che il minore
commetta delitti con uso di armi o altri mezzi di violenza. Le misure sono eseguite nelle forme del collocamento in comunità e delle prescrizioni e permanenza in casa.
Il riformatorio giudiziario oggi ha perso la sua funzione di difesa nei confronti
della società in quanto il minore autore di reato viene collocato in strutture aperte, dalle quali egli è materialmente libero di allontanarsi. Tali comunità sono organizzate come case famiglia, prevedono una permanenza non superiore
alle dieci unità in modo tale da favorire un clima e un’atmosfera costruttive.
Sono previste altresì una serie di norme e di prescrizioni che limitano la condotta del giovane e rendono improbabile il perpetrarsi di altri atti delittuosi. Per
i non imputabili il riformatorio si sostituisce alla pena, per gli imputabili si aggiunge ad essa e viene eseguita dopo l’espiazione, fatto salvo il consenso del
minore.
L’applicazione di questa misura è facoltativa, deve sussistere in concreto ed essere accertata la pericolosità sociale del minore. La durata minima di permanenza in riformatorio è di un anno e tale sanzione può essere applicata fino al
compimento dei diciotto anni, oltre tale data la misura viene sostituita dalla libertà vigilata.
La valutazione in merito alla pericolosità sociale del ragazzo si deve fondare su
criteri concreti, e non solo sulle indicazioni della normativa inerenti l’uso di
armi o altri mezzi di violenza. Uno scippo a persona indifesa o anziana, senza
la minima cura per l’incolumità della vittima, può essere considerato sintomo
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di una degenerazione che deve essere arginata prima che si sfoghi in reati ben
più gravi contro la persona.
Qualora il giovane trasgredisca agli obblighi previsti nella comunità di affidamento il magistrato di sorveglianza può disporre la detenzione in carcere fino
ad un mese, così come se egli si allontana o non si presenta quando ciò gli viene richiesto. L’inflizione di tale pena può essere ripetuta in caso di ulteriori
manifestazioni di trasgressione.
Tale parentesi il più delle volte può provocare più danni che benefici in quanto
non viene percepita come una vera punizione, anzi è vista dal minore come una
soluzione psicologicamente più comoda rispetto alla difficile partecipazione
che gli viene richiesta in comunità.
Oltretutto il fatto che la sottrazione volontaria del minore all’esecuzione della
misura del riformatorio non comporti più il nuovo inizio del periodo minimo di
applicazione dello strumento stesso è un passo indietro nella responsabilizzazione del ragazzo e non dà al giovane il senso della sanzione.
La libertà vigilata è una misura non specificamente minorile che tuttavia viene
impiegata spesso e volentieri in questo campo.
Il minore viene affidato ai servizi sociali, i quali devono far rispettare determinate prescrizioni impartite dal Giudice, quali l’obbligo di residenza in un determinato Comune, l’obbligo di vigilanza per i congiunti del ragazzo, l’obbligo
di provvedere alla sua educazione morale e al trattamento rieducativo. Al ragazzo può essere prescritta la permanenza in casa e il divieto di frequentare altre persone ad esclusione dei familiari più prossimi.
In caso di trasgressione di una di queste prescrizioni il magistrato di sorveglianza provvede con l’ordine di ricovero in un riformatorio giudiziario.
Riformatorio e libertà vigilata sono misure applicabili in alternativa, per un
certo verso complementari. Il Giudice può sempre sostituire il riformatorio con
la libertà vigilata e viceversa può considerare il ricovero in riformatorio come
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una punizione in caso di inosservanza delle prescrizioni della libertà vigilata.
Questi strumenti devono essere scelti e modulati in base alla personalità del
giovane e sulle sue intenzioni di ravvedersi dei crimini commessi o delle devianza manifestate.
Importante per impedire la reiterazione di reati è che, una volta conclusa la misura di sicurezza, il giovane sia seguito e accompagnato nel suo percorso di
reinserimento sociale. Tale compito spetta al servizio sociale dell’amministrazione della giustizia e ai servizi sociali degli enti locali. Le attività finalizzate
al reinserimento devono avere inizio almeno sei mesi prima della conclusione
della misura, attraverso un particolare programma che tenti di risolvere i conflitti familiari, i problemi di lavoro o ambientali che il giovane si troverà ad affrontare. Egli deve essere poi valutato nella sua condotta all’esterno del riformatorio, verificando che mantenga stabilmente la sua occupazione e che dedichi il tempo libero ad attività che non lo spingano verso la commissione di delitti.
Diversamente dalle misure di rieducazione, che sono strumenti di un procedimento civile di volontaria giurisdizione volto alla prevenzione criminale ante
delictum, le misure di sicurezza sono regolate dal codice di procedura penale,
intervengono dopo la commissione di un reato e hanno carattere afflittivo. Le
prime tendono alla rieducazione del giovane disadattato, le seconde alla rieducazione del minore pericoloso.
In molti casi l’applicazione di una misura è alternativa all’applicazione
dell’altra in quanto spesso la rieducazione avviene quando il minore ha già
commesso un reato, così come il riformatorio o la libertà vigilata sono sanzioni
per giovani disadattati oltre che pericolosi.
L’applicazione di misure cautelative quali il ricovero in comunità o la libertà
vigilata sono spesso segnali del fallimento a monte dei servizi sociali che non
hanno ottenuto il recupero del ragazzo.
Ad oggi le misure di sicurezza sono strumenti in crisi vista la difficoltà di prevedere realmente la recidiva in relazione alla condotta del minore.
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14. CAUSE DEL DISAGIO MINORILE
Analizzare le cause del disagio minorile che porta al compimento di reati non è
semplice e non è argomento di univoca interpretazione.
La corrente di pensiero più giustificazionista tende ad attribuire la responsabilità della criminalità minorile a fattori microsociali quali la disgregazione dei
nuclei familiari tradizionali e la nascita delle nuove famiglie allargate. Tale fenomeno porta a condividere l’educazione del figlio tra i due genitori lontani o
in conflitto fra loro, causando spesso lacune o contrasti che non facilitano la
nascita nel bambino di una coscienza sociale.
Altre volte i fattori possono essere il vero e proprio abbandono materiale o psicologico da parte dei genitori che non possono o non vogliono occuparsi del
figlio e inevitabilmente lo conducono a scelte di vita sbagliate e pericolose.
Spesso e volentieri il giovane criminale conosce un’unica realtà fatta di violenza e maltrattamenti: questi saranno i canoni di condotta che egli percepirà come validi.
Si ritiene poi che possano influire fattori macrosociali quali la mancanza di
certezza della pena, che provoca nel giovane la tranquillità di non subire sanzioni per il proprio comportamento antisociale. Le stesse misure alternative alla detenzione, garanzia irrinunciabile per tutelare quei minori che si sono ritrovati nell’azione delinquenziale occasionale a causa di ingenuità o immaturità,
rischiano di rappresentare un incentivo e non certo un deterrente a compiere azioni criminali per i delinquenti abituali.
Altra causa imputabile al contesto sociale è la proliferazione di modelli di vita
e di condotta errati, sottolineati e portati alla ribalta in particolar modo dai
mass media, che creano nel giovane la speranza nell’ottenimento di una carriera e una vita densa di soddisfazioni da ottenere senza il minimo sforzo.
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Queste sono le cosiddette mete culturali, obiettivi che la società pone come desiderabili e raggiungibili per ogni soggetto ma che nella realtà delle cose sono
punti d’arrivo solo per coloro che posseggono i mezzi istituzionali per farlo.
La mancanza di questi mezzi nella grande maggioranza della popolazione provoca senso di inadeguatezza, che i minori in particolare sentono come elemento demoralizzante, e che li porta a cercare altre strade per l’ottenimento di quei
benefici che la società ammiccante promette loro, senza poi fornire gli strumenti per ottenerli.
L’eccessiva stimolazione delle aspirazioni alla ricchezza e al benessere che la
società crea nel giovane provoca un senso di irrequietezza e di malessere, oltre
a una forte competizione che arriva fino all’uso di strumenti illegali per soddisfare le proprie ambizioni.
Infine in ogni minore che delinque si ritrovano fattori individuali che non possono essere trascurati, che sono la base e il punto di partenza della responsabilità di ogni soggetto nei confronti delle sue azioni.
Il senso di inadeguatezza e l’emotività instabile che ritroviamo spesso nell’età
adolescenziale si accompagnano a modelli di attaccamento precari, causando il
crollo di ogni sistema normativo interiore e la creazione di canali di sfogo alternativi.
L’adolescente è nella fase della vita in cui più di tutte è suscettibile alle influenze da parte dell’esterno. Se egli non riesce, da solo o con l’aiuto della famiglia, della scuola o di specialisti, a creare un’immagine di sé e un’identità
coerente, stabile e omogenea, finirà col ritrovarsi un’identità personale disarmonica.
Un comportamento e un’identità disorganizzata possono determinare quei primi episodi bagatellari che, creando nell’esterno una aspettativa negativa nei
confronti del minore, lo indurranno poi ad agire secondo quella aspettativa e a
perpetrare la condotta delittuosa.
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Il giovane finisce per interiorizzare i messaggi negativi di etichettamento che
percepisce dall’esterno e tende a trasformarsi in ciò che gli altri credono che
egli sia.
Pur nella necessità di valutare i condizionamenti esterni di cui si è detto non si
deve cadere nell’eccesso di scaricare la responsabilità della criminalità minorile sulla collettività, senza attribuire al minore la colpa della sua azione criminosa, poiché ciò altro non è se non deresponsabilizzazione del minore, fenomeno criticato e criticabile.
Bisogna infatti tenere presente che le cause ambientali e i disagi del contesto
per ripercuotersi negativamente sul ragazzo devono trovare terreno fertile.
Se così non fosse ci troveremmo in una situazione di degenerazione totale, nella quale la delinquenza è la strada percorsa dalla maggioranza in quanto via più
facile per l’ottenimento di risultati e la soddisfazione dei piaceri.
Così non è: per ogni ragazzo che si lascia influenzare e intraprende un percorso
sbagliato altri cento si impegnano per affrontare e risolvere le mancanze di
quella stessa società che non fornisce loro i migliori strumenti per farlo, o le istruzioni per utilizzarli.
A partire dagli anni settanta si sono succeduto molteplici teorie che tentarono
di dare motivazioni e fondamento alla delinquenza minorile. In particolare Hirschi nel 1969 sostenne che tre erano le principali prospettive dalle quali considerare la criminalità nei giovani, alle quali si aggiunse negli anni successivi la
teoria dell’etichettamento:
o Teoria del controllo: si basa sulla supposizione che le azioni delittuose si
fondino su un debole legame dell’individuo nei confronti della società. Infatti la tendenza propria dell’uomo nel perseguire i suoi obiettivi è quella di
adeguarsi alle norme della collettività, per un istinto di socializzazione e
conformismo.
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Quando i controlli sociali crollano o falliscono il soggetto è portato a delinquere perché non sente più quel contatto con la collettività che matura automaticamente in una società civile. Egli non percepisce la moralità o
l’importanza della legge e non si sente perciò obbligato a rispettarla.
o Teoria della devianza culturale: la delinquenza non è altro che l’effetto e il
prodotto dell’adesione a un sistema di valori contrapposto a quello più comune e simbolo della classe più potente. Secondo Kornhauser i delinquenti
sono conformisti al pari del resto della popolazione, ma nei confronti di una
sottocultura, di un sistema di valori differente. L’uomo, il giovane in particolare, non è mai deviato o deviante di per sè, lo è in quanto partecipa a una
cultura differente.
In particolare nelle aree più industrializzate, dove maggiormente si risente
della mancanza di controllo da parte della comunità, il tasso di delinquenza
tende a salire, anche a causa dello status economico basso e della eterogeneità nella popolazione.
Il minore in queste realtà compie reato perché l’uso della violenza diventa
la sua norma imperativa di comportamento, è la strada per giustificare la
propria aggressività in opposizione alle imposizioni dei ceti dominanti.
o Teoria della tensione: la delinquenza si verifica quando al minore viene impedito di ottenere quei risultati, di realizzare quelle opportunità di successo
che la società gli promette.
Robert Merton ipotizzava una teoria dell’anomia, in base alla quale c’è
mancanza di norme nel momento in cui c’è difformità tra le mete che la società ti presenta come possibili e i mezzi per il raggiungimento di tali mete.
Il comportamento criminogeno si spiega quindi come ribellione nei confronti di una collettività che ti presenta come ottenibili determinati risultati
ma non ti dà gli strumenti concreti per ottenerli.
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o Teoria dell’etichettamento (labeling): si deve tener conto dei rischi e dei
pregiudizi che possono derivare al minorenne dal contatto con l’apparato
della giustizia. Le procedure formali della giustizia penale possono contribuire ad attivare un processo negativo di etichettamento che va ad influire
sulla personalità stessa del minore.
Ci sono infatti due tipi di devianza riscontrabili nel minore: una devianza
primaria, quella originaria, che non viene colta e punita dalle autorità, e una
devianza secondaria, che si sviluppa in seguito all’adattamento del minore
alle problematiche che gli presentano come conseguenza della delinquenza
primaria.
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15. PROFILING
Solitamente il minore che delinque è giovane e di sesso maschile: le donne sono meglio socializzate e recepiscono con più facilità i valori morali e i codici di
condotta imposti dalla società.
La delinquenza minorile è in crescita nei paesi sviluppati, in particolare per
quanto riguarda i delitti gravi contro la persona e i delitti sessuali. Nei paesi
sotto sviluppati la tendenza vede la commissione di reati di minore gravità.
Il reo spesso appartiene a ceti medio–bassi e si trova in una condizione sociale
ed economica carente. Più alto è il ceto di appartenenza più si rileva la presenza di reati collegati ad abuso di alcool o droga e al suicidio.
Il tasso di delinquenza è molto alto nelle zone urbane mentre nelle piccole città
diminuisce. Ciò è dovuto alla mancanza di servizi e di opportunità criminali
dei piccoli centri o delle zone suburbane e al maggiore controllo sociale che si
verifica in queste zone.
È da rilevare infine il basso tasso di reati gravi contro la persona quali
l’omicidio compiuto da un minorenne. Nonostante il forte peso che i mass media tendono a dare a questo tipo di delitto i numeri confermano come sia marginale rispetto alla totalità dei reati posti in essere da minori degli anni 18.
Isabella Merzagora Betsos individua tre tipologie di delinquenza minorile:
-
delinquenza minorile fisiologica: è quella criminalità insita nella fase adolescenziale, destinata a riassorbirsi con l’ingresso nella fase adulta;
-
delinquenza minorile patologica endemica: comprende i minori stranieri
che vengono educati a compiere reati come attività comune, anche in pieno
giorno; la loro carriera criminale si adegua al sistema culturale di appartenenza ed è quindi molto difficile intervenire per controllarla in quanto non
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viene vista come una violazione della legge ma come un normale sistema di
comportamento;
-
delinquenza minorile patologica endemica: comprende la delinquenza arruolata dalla criminalità organizzata, dall’associazionismo mafioso.
La delinquenza fisiologica è quella più adatta all’applicazione della giustizia
riparativa e della mediazione penale in quanto nel giovane non è ancora radicato l’istinto criminogeno: egli delinque per passatempo e per mancanza di contatto con quelle che sono le conseguenze del reato. Il confronto con la sua vittima in sede di mediazione penale è ottimo strumento per risolvere il contrasto
e responsabilizzarlo per il futuro.
Molto più difficile è l’applicazione del medesimo schema operativo a quei
soggetti che sono profondamente inseriti in un ambiente delinquenziale e che
quindi percepiscono tale realtà come l’unica possibile e l’unica valida. In questi casi essi non hanno la possibilità di prendere coscienza della negatività delle
loro azioni, o se ne diventano consapevoli è solo perché sono stati allontanati
dal loro ambiente familiare e sociale.
Per analizzare più da vicino i motivi che possono spingere il minore a delinquere bisogna partire dal presupposto che l’atto criminale è profondamente radicato alle possibilità che l’adolescente sente di possedere e alle difficoltà che
riscontra nel tentativo di realizzare quelle possibilità.
Ogni comportamento antisociale, come sostiene Michael Rutter, deriva da
un’interazione tra opportunità che il giovane possiede, stress ambientale, predisposizioni individuali, risposta emotiva dei familiari e dell’ambiente sociale
che lo circonda e analisi dei costi e dei benefici che può produrre l’atto criminale.
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Perché tale atto si concretizzi è necessario che si verifichino una serie di condizioni: la presenza di una vittima (oggetto o soggetto) adatta, la presenza del delinquente stesso e l’assenza di una qualsiasi tutela a quell’obiettivo.
Spesso il minore non è in grado di analizzare compiutamente il peso dei rischi
in rapporto ai benefici che derivano dal reato: la maggiore concentrazione si
focalizza più che sul guadagno materiale sul realizzarsi del sentimento di trasgressione e sull’ottenimento di rispetto e ammirazione da parte dei suoi pari.
Il minore tende quindi ad aggregarsi in bande che fomentano l’attività criminale e sostengono e istruiscono gli appartenenti. I motivi che spingono un ragazzo alla scelta di questo tipo di compagnie, abbiamo detto, sono diversi: il limitato accesso che egli ha rispetto alle possibilità descritte e promesse dalla società, una vita familiare instabile, uno scadente concetto di sé ecc…
Le regole in realtà ci sono, non siamo di fronte ad atti anomici, ma tali regole si
discostano dalla comune moralità. Questa identificazione in negativo con il
gruppo può portare l’adolescente a delinquere senza che egli neppure abbia la
coscienza di agire per condivisione di norme altrui anziché per convinzione
personale.
Si presenta quindi agli operatori il fenomeno della criminalità minorile di
gruppo, della sua conoscenza e delle modalità di salvaguardia del minore che
nel gruppo delinque.
La banda minorile è un gruppo, un’entità collettiva di ragazzi che agiscono per
il raggiungimento di scopi comuni, identificabili spesso in appropriazione o distruzione di beni altrui, affermazioni di potere sul e contro il mondo degli adulti,
Il collante del gruppo può essere il più diverso: il tifo calcistico, l’ideologia (o
pseudoideologia) politica, la comunione di censo.
Le ragioni che gli studiosi hanno individuato alla base della formazione del
branco è la necessità per l’adolescente da un lato di affrontare la separazione
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dalla famiglia e dall’altro di formare e rappresentare il concetto di sé orientato
verso l’età adulta.
Il fatto che il ragazzo non si senta accettato dalla società, percepisca la sua inadeguatezza nei confronti dei modelli proposti dai mass media fa sì che egli partecipi alla banda per vedersi riconosciuto un ruolo di potere e di supremazia,
per ricevere il consenso degli altri e raggiungere gli obiettivi che individualmente e legittimamente non riuscirebbe a raggiungere.
Lo status desiderato si ottiene solo attraverso canali non convenzionali, soprattutto per i giovani che appartengono a classi più disagiate.
L’appartenenza alla banda o alla istituzione criminale è una reazione alla risposta negativa avuta dalla società, insieme ad una molto più pragmatica ricerca
del piacere e del divertimento.
Crude e illuminanti sono sul punto alcune pagine del libro GOMORRA di Roberto Saviano (Mondatori, 2006) nelle quali l’autore descrive i moschilli, le
nuove leve della camorra.
“Li arruolano appena diventano capaci di essere fedeli al capo. Hanno dai
dodici ai diciassette anni, molti sono figli o fratelli di affiliati, molti provengono da famiglie di precari. … Per numero sono un vero e proprio esercito. Un
ragazzino …è disposto ad essere perennemente per strada”
I moschilli hanno comportamenti e responsabilità da camorristi maturi. Sono
guaglioncelli, morti parlanti, morti viventi, morti che si muovono. Bello e buono prendono e ti uccidono, ma tanto la vita è già persa…”
Sono ragazzini capi, kamikaze dei clan che non vanno a morire per nessuna
religione, ma per danaro e potere, a ogni costo, come unico modo di vivere
che valga la pena”.
Ove questo descritto è l’ambiente di provenienza del minore è evidente quanto
difficile e incerto sarà il percorso di recupero e rieducazione.
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Nel tempo si è sostanzialmente dovuto prendere atto della complessiva sconfitta degli interventi mirati sulle bande giovanili (tentativo di frammentazione
della banda, carcerazione dei capi e altro) e si è giunti alla conclusione che in
questi casi l’unica via per recuperare il minore è lo svolgimento di un percorso
di diagnosi psicologica che prenda in esame le varie tappe di maturazione del
minore e l’influenza che su di esse ha avuto il gruppo.
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16. PROSPETTIVE
Pensare a soluzioni concrete per combattere la delinquenza minorile è riflessione complessa e spesso contraddittoria, in quanto gli interessi da difendere
sono plurimi e non sempre si è in grado di distinguere quale sia quello prevalente.
Scopo primario del diritto penale e delle discipline che ruotano intorno al procedimento a carico di un minore autore di reato deve essere li recupero e la tutela degli interessi del ragazzo, parte debole e recuperabile, soggetto che può,
attraverso interventi mirati, essere reinserito nella società e dare il suo personale e positivo contributo.
Tuttavia non bisogna dimenticare il diritto all’ordine pubblico, alla sicurezza
che spetta ad ogni cittadino, e che non può essere negato per far spazio a individui che già in giovane età dimostrano attaccamento alla violenza e alla illegalità.
Difficile credere che un inasprimento delle pene possa portare a risultati tangibili. La realtà giudiziaria italiana ben ci dimostra che in realtà non è la gravità
della sanzione a condizionare il comportamento malavitoso quanto la certezza
della pena e della sua applicazione. Per ottenere i migliori risultati è necessario
che il giovane, nel decidere il proprio comportamento, non deve prefigurarsi
come conseguenza che la massima punizione possibile sia un’ipotetica misura
che nella realtà non verrà mai applicata, ma deve avere la certezza e il timore
che una sanzione seppur simbolica gli verrà inflitta, e che essa si aggraverà
man mano che egli riterrà di proseguire nella sua carriera delittuosa.
Per quanto riguarda poi l’esecuzione della pena o delle misure alternative,
l’approccio alla cura del minore non deve essere il modello positivistico della
rieducazione, della socializzazione forzata dall’esterno, ma una progettualità
individualizzata che coinvolga il giovane tramite un intenso lavoro psicologico
e terapeutico.
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Non si deve più insistere sulla negazione dell’ambiente di vita del ragazzo,
credendolo unico responsabile della sua devianza, ma si deve invece tendere a
ricomprenderlo nell’attività di ristrutturazione, trasformando la famiglia e il
gruppo nel punto focale dell’opera di rieducazione.
Ciò si può ottenere attraverso un percorso che comprenda il trattamento individuale del minore ma anche colloqui e attività con la famiglia o con gruppi di
sostegno.
Da ultimo una considerazione: nel diritto civile si tende a supportare
l’immaturità, a concedere attenuanti e perfino ad appoggiare le scelte dei giovani che non scelgono l’autonomia, non si prendono le proprie responsabilità
nei confronti di famiglia e società.
Come mai in ambito penale si registra invece questa forte discrepanza, questa
rigidità nel colpevolizzare il minore? Lo si lascia solo di fronte agli effetti disastrosi della sua azione delinquenziale, lo si mette di fronte a responsabilità che
a volte sono troppo grandi per essere affrontate, si dimentica tutto il
background che è stato di supporto se non addirittura di spinta alla sua devianza?.
Non dobbiamo dimenticare che esistono fattori di responsabilità che appartengono al giovane e a lui solamente. Ma ci sono anche fattori di cui la società si
deve prendere carico, che sono il frutto di scelte e sviluppi indipendenti dal
giovane e dalle sue scelte di vita.
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BIBLIOGRAFIA
- ROSSI LINO, Adolescenti Criminali – Dalla valutazione alla cura; Carocci
Ed. 2004.
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