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ESPERIENZE PERSONALI
È SUCCESSO TUTTO MOLTO IN FRETTA –
PER FORTUNA!
Mi sono così spaventata! Quel rumore sordo e il grido
di Peter: ancora oggi, al ricordo, mi viene la pelle d’oca.
Quando sono entrata in bagno, giaceva privo di sensi
sul pavimento. Poi tutto è successo molto in fretta – per
fortuna! Perché così si è potuto salvare. L’ambulanza si è
precipitata con lui in ospedale: si era rotto un vaso sanguigno nel cervello. Adesso giaceva lì, attaccato ai tubi,
in coma farmacologico, nel reparto di terapia intensiva.
I medici chiesero di parlarmi: volevano discutere con
me su come procedere. La situazione era seria, Peter
soffriva di emorragia subaracnoidea e doveva essere
operato immediatamente. L’aneurisma scoppiato
doveva essere arrestato, altrimenti ci sarebbe stato un
rischio elevato di emorragia interna. I medici mi chiesero se Peter in passato avesse sottoscritto una dichiarazione anticipata di trattamento, ma non era così.
Adesso spettava a me dare il benestare per il piano
terapeutico suggerito. In qualità di coniuge, in questo
momento ero la persona autorizzata a rappresentarlo.
Ero oberata da questa responsabilità e non ero più
in grado di pensare lucidamente. Andava tutto così
terribilmente veloce! E poi tutti quei termini estranei.
Avrei dovuto fidarmi ciecamente dei medici? Peter era
sdraiato nel suo letto e dormiva, come se non fosse
successo niente. Gli usciva un tubo dalla bocca e in
sottofondo si sentiva il suono del ventilatore meccanico. Un altro tubo fuoriusciva lateralmente dal suo
collo. Penso che fosse per i medicinali. Il personale
infermieristico era così gentile e faceva tutto il possibile per sostenermi. Nonostante ciò provavo un senso
di solitudine. Che cosa avrei dovuto fare? Avrei dovuto
acconsentire al piano terapeutico suggerito?
ESPERIENZE PERSONALI
Peter non era affatto anziano: aveva appena 66 anni.
Ma se fosse rimasto gravemente disabile? Avrei agito
secondo le sue intenzioni? Tutti questi pensieri terribili
mi affollavano la mente. Ero completamente sopraffatta e alla fine lasciai che fossero i medici a prendere
una decisione.
Peter fu operato e dopo l’intervento restò ricoverato
per molti giorni nel reparto di terapia intensiva, in
coma farmacologico. Le sue condizioni continuavano
ad essere critiche. Ero regolarmente a colloquio con i
medici e con il personale infermieristico, mi sentivo ben
informata e appoggiata dal team dell’ospedale. Acquisii fiducia ed ero certa che sapessero ciò che facevano.
Dopotutto non era la prima volta che si occupavano
di un caso così critico. E poi, alla fine, si svegliò. Peter
stava ogni giorno meglio e il tubo respiratorio poté
essere rimosso. Mi riconobbe, era di nuovo in grado
di parlare, ma aveva ancora un’aria leggermente frastornata. Ciò che diceva non aveva senso. Avevo paura
che le cose rimanessero così e ricominciai a nutrire
dei dubbi. Dopotutto Peter non avrebbe mai desiderato vivere così, con un’invalidità grave. Il team presso
il quale era in cura mi assicurò che si trattava di una
situazione normale dopo un’emorragia cerebrale così
grave. Con i medicinali Peter divenne più tranquillo e
poco tempo dopo potemmo ricominciare a parlare di
cose semplici.
Dopo un lungo ricovero riabilitativo, proprio pochi giorni
fa Peter ha potuto essere dimesso e ritornare a casa. È
ancora molto debole, ma svolge diligentemente i suoi
esercizi ed è semplicemente straordinariamente felice di
essere ancora vivo. Apprezziamo ogni giorno, così com’è.
Società svizzera di medicina intensiva SSMI
c/o IMK Istituto per medicina e comunicazione S.p.A.
Münsterberg 1 – CH-4001 Basilea
Tel. +41 61 271 35 51 – Fax +41 61 271 33 38
[email protected] – www.sgi-ssmi.ch
ESPERIENZE PERSONALI
UNA PICCOLA FERITA CON GRAVI CONSEGUENZE
Durante le nostre ferie mia moglie Ursula si procurò una
lieve ferita alla gamba sinistra mentre attraversava un
boschetto. Alcuni giorni più tardi aveva la febbre alta,
la gamba sinistra era dolorante e la ferita era arrossata.
Le condizioni di Ursula peggiorarono rapidamente e
all’improvviso entrò in stato confusionale. Il medico del
villaggio consultato sospettò la presenza di setticemia e
predispose il ricovero in ospedale. Là le cose andarono
molto rapidamente e un’ora dopo Ursula si trovava già
nel reparto di terapia intensiva.
Ero da solo in sala d’attesa, un giovane aiuto medico
mi venne incontro e mi spiegò che mia moglie era
affetta da un grave shock settico. Soffriva di insufficienza cardiocircolatoria, polmonare e renale. Mi disse
che si trovava in coma farmacologico, con necessità di
respirazione artificiale. A detta del medico versava in
condizioni di salute molto gravi. Sussisteva addirittura il
rischio che morisse. Non gli credetti: mia moglie aveva
appena 45 anni, non fumava, era sportiva e sana.
Quando arrivai accanto al suo letto, subii un profondo
spavento. Le sue mani e le sue orecchie erano bluastre e fredde. Il monitor, pieno di curve e di numeri,
mostrava un battito cardiaco accelerato. L’aiuto primario, medico specialista di medicina interna, mi venne
incontro. Disse che Ursula doveva essere operata d’urgenza per rimuovere l’infezione alla gamba sinistra. A
causa delle cattive condizioni generali di salute, l’intervento era ad alto rischio. Mi chiese se ero d’accordo.
Ovviamente, acconsentii. Dovevano fare tutto il possibile per salvare la vita della persona a me più cara.
Vennero a prendere mia moglie per l’operazione, quattro persone spinsero il letto, c’erano dispositivi dappertutto e una suoneria persistente. L’intervento durò ben
quattro ore e non volli lasciare l’ospedale. Mi passarono
per la mente gli scenari peggiori. I nostri figli, di dieci e
tredici anni, vennero in ospedale accompagnati dai miei
genitori. Eravamo tutti disperati e i bambini piangevano.
Il team infermieristico ci portò del caffè e dell’acqua e
cercò di consolarci.
ESPERIENZE PERSONALI
Erano tutti così gentili. Alla fine, dopo cinque ore, mi fu
permesso di ritornare al capezzale di Ursula. Intorno a lei
aveva molti dispositivi, al bordo sinistro del letto erano
sospesi molti tubi con recipienti contenenti sangue.
Erano in funzione molte pompe da infusione con medicinali, il ventilatore meccanico, un dispositivo di monitoraggio cardiocircolatorio e un apparecchio che svolgeva
la funzione dei reni.
Due infermieri specialistici erano costantemente impegnati a prendere nota di numeri, a sostituire le iniezioni di farmaci e a operare i dispositivi. L’aiuto primario
sopraggiungeva molto spesso, osservava i valori, dava
nuove istruzioni e parlava con l’infermiera. Entrambi
mi fornivano molte spiegazioni, mi consolavano ed io
acquisii sempre maggiore fiducia e ottimismo. Ursula è
in buone mani, mi dicevo. Nei giorni successivi stava visibilmente meglio, le iniezioni di farmaci furono ridotte
sempre più. Furono necessarie nuove, piccole operazioni. Dopo una settimana fuoriuscì improvvisamente
dell’urina dal catetere urinario, con l’aiuto del ventilatore
meccanico Ursula era in grado di respirare da sola ed era
visibilmente più vigile. Poteva muovere soltanto le dita e
la testa. Siccome era troppo debole per respirare completamente da sola, fu necessario eseguire una tracheotomia. Dopo due settimane di ricovero nel reparto di
terapia intensiva, Ursula fu trasferita nel reparto degenza
e dopo un’altra settimana alla riabilitazione.
Oggi, ad un anno di distanza, Ursula ha ripreso a lavorare al 50%. Le cicatrici alla gamba sinistra e sul collo
disturbano ancora nei movimenti. Tuttavia, siamo felici
e molto grati a tutti gli infermieri e a tutti i medici. Senza
il team professionale di terapia intensiva e i numerosi
dispositivi, adesso sarei da solo, con i miei due bambini
ancora piccoli.
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ESPERIENZE PERSONALI
UNA BUONA ASSISTENZA IN UN
MOMENTO DIFFICILE
Mio padre aveva 76 anni e aveva lavorato in cantiere fino
all’età di 60 anni. Fumava e beveva molto. Un giorno
mi raccontò che da alcune settimane, quando tossiva
sputava sangue. Andò dal medico di famiglia, che dal
referto radiografico sospettò la presenza di un tumore
ai polmoni. Una settimana dopo questo sospetto si rafforzò e i medici consigliarono di asportare il lobo polmonare sinistro e di effettuare una chemioterapia. Mio
padre ed io fummo convocati per un colloquio. Lo specialista polmonare e il chirurgo ci informarono in merito
al successivo trattamento. Stando alle loro informazioni,
il tumore era ad uno stadio avanzato e il rischio correlato
all’intervento, di conseguenza, relativamente elevato.
Inoltre, da ulteriori analisi era risultato che mio padre era
affetto da insufficienza cardiaca, da insufficienza renale
e da cirrosi epatica causata dall’alcol. Chiesero a mio
padre se era d’accordo con il programma terapeutico.
Disse di sì. Dopotutto desiderava continuare a vivere.
Dopo l’operazione mio padre fu trasferito al reparto
di terapia intensiva. Respirava autonomamente, ma a
fatica. Aveva paura, aveva costantemente bisogno di
aiuto al suo capezzale e dell’assistenza di un’infermiera
specialistica. Dodici ore dopo le sue condizioni peggiorarono a tal punto che fu necessario collegarlo nuovamente al ventilatore automatico. I medici del reparto di
terapia intensiva diagnosticarono un infarto del miocardio e l’arteria coronarica ostruita fu riaperta. Più tardi
un dispositivo dovette svolgere le funzioni dei reni.
Ormai era un susseguirsi di brutte notizie. Secondo le
analisi non era possibile rimuovere l’intero carcinoma.
Mio padre non poteva essere staccato dal ventilatore
a causa del cuore ancora debole e di una polmonite.
La disfunzione renale persisteva e il fegato iniziò a non
funzionare più adeguatamente.
ESPERIENZE PERSONALI
Dopo due settimane le condizioni di mio padre non
erano migliorate ed era ancora ricoverato al reparto di
terapia intensiva. Il team di infermieri e di medici che
lo aveva in cura mi convocò insieme a tutta la famiglia
per un colloquio.
“Siamo costretti a rassegnarci“, disse l’aiuto primario. Questa notizia fu un vero colpo ed eravamo disperati. 24 ore dopo seguì un nuovo colloquio. La terapia
non aveva sortito effetti, perché mio padre era ancora
affetto dal tumore. Inoltre stava subentrando l’insufficienza di vari organi, come sottolineò l’aiuto primario.
I pensieri affollavano la mia mente e non sapevo più
che cosa fare. Se acconsento a interrompere la terapia, pensai, significa che uccido mio padre! Che cosa
avrebbe desiderato Lui? Se lo avesse saputo, avrebbe
detto ‚no‘ all’operazione? Adesso doveva soffrire
invano. Terribile! Alla fine andammo al capezzale di
mio padre per l’ultimo commiato. I medicinali furono
sospesi e 30 minuti dopo morì. Il team del reparto di
terapia intensiva si prese premurosamente cura di mio
padre e di me in questo momento difficile.
Sei mesi più tardi chiesi di incontrare l’aiuto primario
del reparto di terapia intensiva e il chirurgo che avevano seguito mio padre. Desideravo ringraziarli insieme
al personale infermieristico, per il fatto di averci sempre fornito una così buona informazione e assistenza.
Alla fine potemmo condividere le ragioni della loro decisione. Tuttavia, per noi sarebbe stato più facile se nel
colloquio precedente l’intervento ci avessero fatto presente quest’eventualità. In questo modo, forse sarebbe
stato chiaro che cosa avrebbe voluto mio padre.
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RECORD MINIMO DELLA SSMI
OTTIMIZZARE LA TERAPIA CON I RECORD DI DATI
Garantire e perfezionare la qualità nel campo della medicina intensiva costituisce già da molti anni uno dei compiti
più importanti della SSMI – perché ci sta particolarmente
a cuore far sì che in futuro pazienti critici abbiano ancora
migliori opportunità di una completa guarigione.
Per tale ragione, nel 2005 abbiamo introdotto il cosiddetto
record minimo della SSMI (MDSi). Questo MDSi definisce e
rileva determinate cifre di riferimento relative ad un‘unità
di terapia intensiva: Quanto tempo dura il ricovero medio
di un paziente? Quanti medici o infermieri sono operativi
per ciascun malato in stato critico? Qual è la percentuale
di pazienti ricoverati ancora una volta nell‘unità di terapia
intensiva? Quanti di questi pazienti critici hanno problemi
cardiocircolatori? Quanti hanno problemi del sistema nervoso? Si tratta solo di una piccola selezione di cifre di riferimento del record di dati in continuo aggiornamento, la cui
compilazione integrale è obbligatoria dal 2008 per tutte le
unità di terapia intensiva riconosciute dalla SSMI. In base al
record MDSi si può valutare inoltre se riconoscere o meno
un’unità di terapia intensiva da parte della SSMI.
Dal 2007 ad oggi sono stati raccolti e valutati oltre 715’000
record di dati di pazienti critici, con tendenza al rialzo:
Record di dati MDSi su base annua
100‘000
80‘000
60‘000
40‘000
20‘000
0
2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015
RECORD MINIMO DELLA SSMI
Nel 2015 hanno partecipato alla registrazione dei dati
MDSi 99 unità di terapia intensiva e Intermediate Care
Units certificate da SSMI o non certificate. Si tratta di quasi
il 74% in più rispetto al 2007:
Unità di terapia intensiva e Intermediate Care Units
partecipanti al record di dati MDSi
57
2007
81
87
88
89
92
96
100
99
2008
2009
2010
2011
2012
2013
2014
2015
Il record MDSi si compone da un lato di cifre di riferimento
che consentono di definire meglio l’esito, ovvero il risultato di una terapia. Esso comprende il tasso di sopravvivenza di pazienti critici dopo il ricovero in un’unità di terapia intensiva.
Dall’altro lato, in questa raccolta di dati piuttosto complessa si tratta anche di rilevare il processo e il dispendio
per l’assistenza terapeutica intensiva di ciascun paziente
e di rendere comparabili questi dati ovviamente anonimizzati anche tra le diverse unità di terapia intensiva. In
tal modo si intendono promuovere la condivisione delle
conoscenze e non da ultimo la ricerca nel campo della
medicina intensiva.
Grazie al record minimo della SSMI, le unità di terapia intensiva avranno la possibilità di analizzare attentamente i propri processi, documentando e verificando l’efficacia, l’adeguatezza e l’economicità del proprio lavoro. L’obiettivo è
riconoscere i propri punti forti e anche i propri punti deboli,
al fine di ottimizzare la cura dei pazienti critici.
Per ulteriori informazioni su MDSi invitiamo a visitare il nostro sito:
www.sgi-ssmi.ch/index.php/mdsi-attualita.html
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