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[email protected] www.kronstadt-toscana.org marzo 2011 Crisi Il concetto, la categoria di crisi è più che mai presente nel “discorso” politico contemporaneo. Oggi siamo dentro a quella che è stata definita dagli “esperti” come la più grande crisi economica degli ultimi ottant'anni, con assetti dominanti consolidati che ora tenderebbero a ridislocarsi a livello globale. Detto ciò per il potere statal/capitalistico la crisi è una occasione per spingere l'acceleratore sullo sfruttamento dei dominati, sul militarismo che massacra i popoli e sulla predazione delle risorse naturali che determina il disastro ecologico/sociale. Il sistema dominante – con le sue i n s a z i a b i l i s p e c u l a z i o n i a f f a r i s t ico/finanziarie – produce oggettivamente ed endemicamente la crisi e poi quando questa arriva la utilizza per accumulare sempre maggiori profitti sulla pelle di moltitudini operaie. Il potere è globale, la crisi è globale, la barbarie è globale e montante. Profitti, bonus e dividendi continuano a scorrere, a getto continuo, per le multinazionali e i managers, per il padronato e la banche. La loro ricetta per la crisi? Massimizzare i guadagni e socializzare le perdite! Dunque per l'insieme delle classi subalterne ad ogni latitudine la crisi è una mannaia all'opera, una opprimente realtà fatta di disoccupazione, precarietà, miseria e violenza statale. La crisi mondiale derivante dal crack finanziario in USA nel corso del 2008 ha determinato l'ulteriore aggressione sistemica alla vita sul pianeta, causando disastri sociali in varie parti del mondo. In Messico, la crisi capitalistica ha il volto delle fameliche multinazionali che intensificano lo sventramento e prosciugamento dell'ecosistema per l'accumulazione economica calpestando diritti umani. Chi si oppone deve essere eliminato.La strategia delle multinazionali, dello stato messicano e delle sue entità locali è di fare terra bruciata di realtà sociali resistenti e progettuali: il Chiapas zapatista e Oaxaca libertaria in primo luogo. Comunità di donne e uomini che lottano e cercano di rigenerarsi nella solidarietà dal basso e nell'autogestione, esperimenti sociali fuori e contro le logiche capitalistiche, che possono dare speranza ad una specie umana sempre più alienata e soggiogata dal dominio. In Europa da più di due anni la crisi si abbatte fortemente sulle condizioni di vita dei lavoratori e delle lavoratrici e sulle nuove generazioni iper-precarizzate e “senza futuro”. Anche in Italia la crisi morde. Mentre si accentuano i tagli governativi ai diritti sociali, le fabbriche delocalizzano e licenziano. Ecco dunque il manager speculatore Marchionne – sostenuto da governo, sindacati di stato sempre più gialli e centrosinistra - imporre un ritorno ad una rapporto capitale/lavoro di tipo ottocentesco, un balzo all'indietro verso la restaurazione di un padronato che comandi su servi muti, ubbidienti e riconoscenti, bestie da soma da utilizzare o dismettere a piacimento per accrescere gli incassi. C'è la crisi e allora lorsignori fanno di necessità virtù! Ma contro il maglio della crisi emerge la lotta sociale Ma dal basso si accende la ribellione contro lo status quo. Una forte lotta di classe si è sviluppata da tempo in Grecia, dove la maggior parte della popolazione è stata messa in ginocchio dai diktat Crisi Ÿ La fabbrica ideale di Marchionne Ÿ Internazionale Ÿ Maghreb: La fiamma della rivolta Ÿ Maghreb libero Ÿ Dalla Palestina Ÿ Messico paese di transito Ÿ La Corea del Nord non ci sta Genere Ÿ Questioni di genere: si riaccende il dibattito Comunicati Ÿ No Hub a Pisa Ÿ Senza confini fisici e mentali Rubriche Ÿ Scienza e Anarchia: Evoluzionismo versus Creazionismo Ÿ Filosofia e Anarchia: Krisis Ÿ Fumetto: chi di capitalismo ferisce 1 Editoriale neoliberisti della Banca Centrale Europea e dell'FMI. Nell'Ellade va avanti una ribellione popolare con fiammate insorgenti contro le devastazioni antisociali – massicci tagli alla spesa pubblica e drastica riduzione dei diritti - imposte dalla finanza internazionale ed eseguite dallo stato greco mediante la repressione. La ribellione ha visto e vede un composito movimento anarchico e libertario in prima fila, impegnato a sviluppare opposizione intransigente e autorganizzazione diffusa. In Spagna, dove la disoccupazione dilaga, crescono le lotte sociali contro il governo di centrosinistra di Zapatero. Ci sono stati nell'ultimo periodo scioperi e manifestazioni contro le misure "anticrisi" governative con scontri in piazza con le forze repressive. Ad animare forme radicali di protesta le organizzazioni anarcosindacaliste come Solidaridad Obrera, CNT e CGT, fortemente impegnate in varie realtà lavorative sulla base dell'azione e della democrazia dirette, alternative ai sindacati concertativi di stato. Diffusa e battagliera la presenza nelle piazze anche di vari gruppi autorganizzati. Le misure del governo spagnolo consistono in un attacco alle pensioni dei lavoratori, tagli al welfare e ulteriore precarizzazione. Come in Grecia un governo di “sinistra" attua delle misure imposte dal potere centrale europeo e dalle oligarchie economiche. Come in Grecia tanti lavoratori non ci stanno, non si piegano. Negli ultimi anni davanti a licenziamenti di massa, chiusura d'aziende e ad una crescita delle aree di esclusione sociale, anche le classi lavoratrici francesi – ad ondate e risacche - si sono mobilitate. La Francia, a partire da una spinta dal basso, è stata attraversata da scioperi, diffuse mobilitazioni in piazza, picchetti con dure contestazioni a padroni e governo, ma anche sequestri in fabbrica di dirigenti, a dimostrazione che la lotta necessita di sempre maggiore radicalità. Nelle banlieux la gioventù emarginata, la racaille , cioè la feccia (come è stata definita dal burocrate Sarkozy) a momenti si risveglia e scuote il sacro ordine borghese. In varie parti del vecchio continente – fra alti e bassi, fra tensioni insorgenti e frammentazione delle lotte – si manifesta il malcontento, la protesta e anche la rabbia popolare che spesso invade le piazze delle città. E' la critica reale all'ideologia della crisi. Di recente in Inghilterra migliaia e migliaia di giovani studenti dell'università hanno prima occupato le facoltà e poi si sono riversati in maniera determinata per le strade di Londra e in altre città attaccando i simboli del potere, contro l'autoritarismo e il classismo delle élites dominanti che aumentano in maniera stratosferica le tasse universitarie per far tornare i loro conti . Pure in Italia nell'ultimo periodo una risposta antagonistica all'ideologia della crisi è venuta dal movimento studentesco e dei ricercatori precari che si è opposto – a volte anche in maniera radicale - alla controriforma Tremonti/Gelmini, provvedimento per fare cassa. Poi è stata la volta del movimento operaio che ha lanciato un segnale di contrasto all'attacco padronal-governativo con i tanti NO al referendum capestro di Mirafiori, a cui è seguito uno sciopero divenuto generale grazie ai sindacati di base, sciopero che non è stato rituale. Tuttavia gran parte del movimento dei lavoratori risulta ancora piuttosto condizionato e compresso dall'asse filopadronale Cgil-PD oppure tende ad atomizzarsi, ciò a causa della crescente precarizzazione del lavoro e della vita, ma anche per una diffusa sfiducia nella possibilità di realizzare una alternativa sociale. In questo quadro il sindacalismo conflittuale e alternativo – fra le sue non poche contraddizioni e limiti – si è impegnato e si sta impegnando nelle lotte cercando di rompere la cappa concertativa dominante. Questione di genere La crisi alimenta anche l'oppressione e lo sfruttamento di genere. La questione dell'autodeterminazione delle donne è una questione fondamentale dentro la più ampia questione dell'autoemancipazione sociale degli sfruttati e oppressi. Sempre in Italia di recente sono scesi in piazza dei settori sociali e politici autorganizzati per i diritti e le libertà delle donne, critici ed alternativi all'impostazione delle manifestazioni “antiberlusconiane “ funzionali al blocco di potere targato PD, spacciate per essere “dalla parte delle donne”. Settori femministi, anticapitalisti e antiautoritari si sono mobilitati autonomamente contro il potere bipartisan – centrodestra/centrosinistra – statalista e patriarcale. Dunque una parte delle donne si sono mobilitate sulla base del loro protagonismo diretto contro il sessismo dei governi di ogni colore e della chiese, contro l'ideologia del familismo tradizionalista e moralista, contro le crescenti violenze maschiliste che si verificano in gran parte fra le mura domestiche, per la libertà sessuale e la libera autodeterminazione, 2 per l'autorganizzazione delle lotte di emancipazione femminile e sociale, stigmatizzando il fatto che la crisi capitalistica viene scaricata in primo luogo sulle donne, sempre più precarie, disoccupate e vessate. Si sono mobilitate a fianco delle sorelle immigrate colpite dal razzismo di stato e diffuso e contro l'ideologia machista/militarista. Si sono mobilitate perché non ci sono donne “perbene” e donne “permale” e per l'unione dal basso di tutte le donne contro tutti i poteri. Si sono mobilitate anche denunciando che spesso certe logiche autoritarie maschiliste e comportamenti sessisti si riproducono anche nei movimenti antisistemici. Devastazioni militariste e ambientali E poi la crisi è guerra permanente e permanente devastazione ambientale. In Afghanistan prosegue la “guerra umanitaria al terrorismo”: cioè occupazione, devastazione e saccheggio da parte degli eserciti massacratori che portano la “pace” – quella della tabula rasa - con l'Italia in prima fila. Il Belpaese: in Val Susa, Piemonte, continuano le lotte popolari – con all'interno gruppi e individualità anarchiche - contro lo scempio di natura, salute e risorse pubbliche determinato dalla “megaopera” TAV, classico esempio di affarismo scellerato. Lo stato risponde – al solito - con i manganelli delle forze del dis-ordine. Da Nord a Sud: in Campania i rifiuti continuano ad ammassarsi a Napoli e in altre città, mentre lo stato militarizza i territori, reprime manu militari le proteste e impone per “risolvere i problemi” ulteriore inquinamento e avvelenamento. Naturalmente tutto ciò viene spacciato come “emergenza democratica e civile” in contesti critici! Ma mentre l'antimilitarismo purtroppo in questa fase langue, le rivolte in Campania contro la monnezza, prima di tutto politica, e quelle in Val Susa per la qualità della vita, testimoniano l'indignazione e la forza di volontà di tanta gente che alza la testa e dice:“ora basta!” Crisi Più a Sud Ma è andando ancora più a Sud che di fronte al portato mortifero della crisi globale e permanente si leva la rivolta sociale generale che si estende o può estendersi per positivo contagio. In paesi come Tunisia ed Egitto dove la povertà è crescente, sotto l'urto della grande rivolta in larga misura spontanea che vuole libertà e giustizia sociale, ma anche riforme istituzionali e democrazia liberale, cadono vecchi autocrati alle dipendenze di UE ed USA. Tutto il Medioriente e il Maghreb sono scossi da un sommovimento sociale di milioni di persone. Sono in fibrillazione Algeria, Yemen, Bahrein, Marocco …In Libia le rivolte contro il rais Gheddafi, un despota grande amico dei governi italiani per il suo sporco lavoro in tema di “contenimento dei flussi migratori” e per grossi interessi economici in ballo, vengono represse in un bagno di sangue. Il dittatore Gheddafi per mantenere il potere sta perpetrando un orribile massacro contro le masse in rivolta. Truppe di mercenari reclutati dal regime, oltre alle forze armate e di sicurezza, sparano sul popolo libico. Il tiranno appare comunque sempre più accerchiato e le potenze neocolonialiste in difficoltà, sono alla ricerca di nuove, barbare “soluzioni” ... I regimi per riprodursi come al solito ammazzano e mentono, ma non sembra che la gente sia disposta a tornare a casa dopo la cacciata dei tiranni. Certamente in Tunisia ed Egitto il potere è all'opera per riciclarsi, gli eserciti - rimasti in certa misura in stand by mentre le forze di polizia uccidevano centinaia di persone - e gli apparati politici locali sostenuti dalle potenze occidentali, sembra che ora abbiano ri-preso in mano le redini del comando promettendo cambiamenti istituzionali. Allo stato attuale appare assente una forte progettualità anticapitalistica in questi coraggiosi movimenti popolari che ponga la questione dell'alternativa rivoluzionaria complessiva. Risulta che settori borghesi stiano in qualche modo capeggiando le rivolte. Questo ovviamente dipende da vari fattori, a partire dalle feroci repressioni pluridecennali dell' opposizione sociale e politica di classe e dall'isolamento rispetto al contesto internazionale in cui è stato costretto dal potere il proletariato in quei paesi. Tuttavia sia in Egitto che in Tunisia si sono coagulati, fin dall'inizio delle rivolte, degli embrioni di autorganizzazione delle lotte soprattutto indirizzati all'autodifesa dagli attacchi delle forze poliziesche ma anche tesi a dare continuità alle mobilitazioni. Dall'Egitto in particolare sono giunte notizie di scioperi, blocchi e manifestazioni in vari comparti industriali e anche fra gli impiegati pubblici per conquistare migliori condizioni di vita: estese mobilitazioni proletarie auto-dirette. E giungono notizie di distruzione di simboli del potere: uffici governativi, sedi del partito del tiranno cacciato e stazioni di polizia… Da questa situazione insorgente, magmatica e largamente incerta, ma in certa misura tendente a rompere gli schemi precostituiti potrebbero strutturarsi dei consigli di lavoratori, una rete di organismi di auto-democrazia alla base di un possibile processo di trasformazione sociale . Passando poi alla vicina Palestina è da sottolineare che, solidarizzando con queste rivolte diffuse, nonché sfidando il potere sia di Fatah che di Hamas che reprimono tutto quello che nasce dal basso, anche la gente di Gaza e della Cisgiordania scende in strada autorganizzata per La fabbrica ideale di Marchionne di Alberto Dopo l'azione di forza di Pomigliano, la tattica del rapinatore Marchionne e della sua composita cricca , composta da azionisti, governanti a stelle e strisce e tricolori e sindacalisti con il ruolo di kapò, è stata applicata anche a Torino. Niente di nuovo sembrerebbe: i padroni hanno da sempre cercato di spolpare i lavoratori, spesso fino ad ucciderli. Ma non penso sia proprio così: l'imposizione da parte di una azienda di condizioni di lavoro, e di vita, per mezzo delle quali gli operai vengono costretti a ritmi allucinanti e senza possibilità di organizzarsi per lottare rappresenta un salto di qualità notevole. Marchionne ricorda sinistramente il tristemente famigerato Valletta, l'amministratore delegato della Fiat nel secondo dopoguerra, che, in nome della ricostruzione “nazionale” impose in 3 manifestare contro i massacri, la pulizia etnica e l'apartheid attuati dallo stato israeliano, al loro fianco il movimento degli Anarchici Contro il Muro e i solidali internazionali. L'endemica crisi mediorentale si eleva al quadrato nell'attuale crisi globale, la Resistenza palestinese per la vita, la terra e la libertà prosegue. No ai lager E da un contesto mediorientale e nord africano pieno di speranze quanto drammatico, devastato sia dalla repressione statale che dalla crisi globale, tante donne e uomini fuggono alla ricerca di una vita migliore e, clandestinizzati, approdano sulle coste siciliane. La crisi qui si concretizza nella disumanità dei campi lager per immigrati e profughi voluti da destri e sinistri, quali gendarmi della “fortezza europea”, quali esecutori ricompensati dai padroni che vogliono manodopera da sfruttare senza limiti. A questo brutale apartheid istituzionale gli immigrati si stanno ribellando, vari gruppi antirazzisti, antagonisti e anarchici li sostengono, occorre che cresca un movimento dal basso che unisca lavoratori nativi e immigrati per lo smantellamento di queste strutture totali concentrazionarie, in nome della libertà e della giustizia sociale per tutte e tutti. Contro la barbarie della crisi statal/capitalistica, per una alternativa di civiltà. Kronstadt Anarchico Toscano Crisi fabbrica un clima di terrore e di ricatto. Con una piccola differenza: Vittorio Valletta guadagnava “solamente” 30 volte il salario di un operaio, Sergio Marchionne ben 170 volte. Già il salto di qualità nell'inveterato vizio della rapina tipico di tutti i padroni, privati e statali, risulta evidente. A tal proposito c'è da dire che ciò si inquadra facilmente nel contesto italiano dove il potere statal/capitalistico si mostra sempre di più come una sorta di camarilla da basso impero dove gli aspetti gangsteristici rimangono quasi gli unici evidenti. Succhiare il sangue e la vita di chi ha la fortuna di avere un posto di lavoro con balzo indietro nei secoli: sembra di trovarci nell'ottocento londinese con la differenze che la tecnologia al servizio dello sfruttamento si trova ad anni luci di distanza dagli antichi telai in quanto a capacità di estrarre profitto dal lavoro altrui. E senza dimenticare l'utilizzo di questa nel controllo (mass media e vigilanza ossessiva e pervadente attraverso occhi elettronici omnipresenti in ogni spazio) e nella repressione (armi sempre più sofisticate e micidiali, sperimentate nelle guerre nel sud del mondo e pronte all'utilizzo casalingo) di ogni dissenso e ribellione. Da anni è inoltre in corso, ed oggi si accentua in maniera feroce, un attacco senza limiti alle condizioni di vita delle classi subalterne: cancellazione dei diritti sociali duramente conquistati con le lotte da lavoratrici e lavoratori; controriforma classista e mercificante dell'università; precarizzazione totale della vita per milioni e milioni di persone; campi di concentramento per gli immigrati, da super-sfruttare o da utilizzare come capro espiatorio nel quadro di un sistema concentrazionario istituzionale; continui massacri di popolazioni inermi in Afghanistan, per logiche di profitto e geopolitiche, mediante la “guerra umanitaria” d'occupazione con enormi investimenti in armamenti mentre si taglia ulteriormente la spesa sociale per i bisogni fondamentali delle persone. Come attore protagonista dell'ultima zampata padronale è quindi salito alla ribalta nel 2010 l'affarista Marchionne che, utilizzando sia l'ideologia della “crisi” che quella della “globalizzazione” (due facce della stessa medaglia), ha dato l'ultima mazzata alle classi operaie. Benedetto dal capo dell'azienda-Italia Berlusconi, e dalla stampella di regime Bersani, lo speculatore finanziario della Fiat Marchionne ha imposto sotto ricatto gli “accordi” di Pomigliano e Mirafiori, veri e propri diktat da “padrone delle ferriere” ai lavoratori, della serie: o accettate di essere sfruttati ulteriormente peggio che bestie da soma oppure vi butto in mezzo alla strada voi e le vostre famiglie! Ora in Fiat tutto diventa legittimo: far lavorare gli operai sino allo sfinimento (anche 10 ore al giorno per quattro giorni consecutivi), con pause ridottissime e la mensa spostata a fine turno, il divieto di ammalarsi, quello di scioperare contro l'accordo e l'impossibilità di eleggere i propri rappresentanti, che saranno nominati d'ufficio dai sindacati collaborazionisti che l'avranno firmato (Fim, Uilm, Ugl e il sindacato giallo Fismic). Fuori rimane la Fiom che non l'ha sottoscritto, così come i sindacati di base. Tuttavia la Fiom, bisogna dirlo in maniera chiara e netta, è vittima più di se stessa che di Marchionne avendo, da anni, cogestito un sistema di relazioni sindacali fondato sulla sistematica esclusione dai diritti di rappresentanza del sindacalismo conflittuale e alternativo, ciò nel quadro di una subalternità alle logiche concertative. In questo barbaro contesto il voto al referendum di Mirafiori – che ha approvato di stretta misura l'accordo, molto più stretta che a Pomigliano - dice una cosa molto semplice: quasi la metà dei lavoratori ha respinto nettamente il ricatto, altri hanno ceduto al sì intimiditi e minacciati dall'azienda, dai sindacati collaborazionisti, dalla campagna terroristica dei massmedia padronal-governativi, dalla propaganda dei burocrati del centrosinistra, dalle ambiguità dell'ineffabile Camuso, sostenitrice della concertazione filo-padronale. Ma quello di Marchionne non è un esordio. Chi si ricorda che un anno addietro era apparso sulla scena il perverso Brunetta con il suo decreto anti fulloni? All'epoca, salvo rare eccezioni estremamente minoritarie, la nuova normativa che obbliga i dipendenti pubblici ad un futuro da caserma, non fu neanche ostacolata da 4 un'opposizione paragonabile a quella delle tute blu. Come la riforma Brunetta è passata e piano piano verrà applicata a milioni di lavoratori e lavoratrici, il modello Marchionne, si cercherà di estenderlo negli altri stabilimenti Fiat, nel suo indotto, ma anche fuori, nelle altre aziende, e nel restante mondo del lavoro. Il modello-Fiat potrebbe diventare il modello sociale futuro dove diritti sociali e libertà civili saranno sempre più a discrezione di padroni e burocrati i quali li ridurranno sempre di più! Ma quanto potrà durare la quasi calma sociale italiana? Le avvisaglie di ripresa delle lotte ci sono già state: dalle mobilitazioni anti riforma Gelmeini nelle scuole e nelle università, alle continue rivolte nei CIE, allo sciopero del 28 gennaio indetto dalla FIOM, ma con presenza di parte del sindacalismo di base. Ancora troppo poco! Ma le rivolte del Maghreb sono vicine geograficamente. Ma anche nei protagonisti: chissà quanti ribelli nordafricani sono passati e si sono radicalizzati nei lager nostrani. Ma è ancora troppo poco. Questo modello, e quindi questo sistema, va combattuto radicalmente fin da subito e dappertutto, va combattuto attraverso il protagonismo diretto dei lavoratori, attraverso la lotta dal basso autodiretta e coordinata da parte di lavoratori autoctoni e immigrati, studenti, precari e disoccupati. Va combattuto non solo per riprenderci i diritti elementari (che non è poco ma è limitante), ma anche e soprattutto per prenderci il prodotto del lavoro ed eliminare la rapina quotidiana, per riprendersi la vita, mettendo in discussione ogni cosa a partire da ciò che utile produrre (sicuramente non le scatole di metallo in cui siamo obbligati a passare una buona parte della nostra esistenza). Internazionale Dalla sponda meridionale del Mediterraneo alla penisola araba la fiamma della rivolta divampa! di Alberto e Maco Negli ultimi due mesi i popoli arabi, di paese in paese, come una marea inarrestabile hanno riempito le piazze, le strade ed i quartieri delle loro misere città, scuotendosi di dosso il terrore nei confronti degli stati e dei loro terribili apparati repressivi. Per lunghi ed interminabili decenni presidentidittatori con annesse famiglie e clan, al soldo delle potenze imperialiste, si sono arricchiti vergognosamente sfruttando le ricchezze del sottosuolo (svendute alle compagnie petrolifere europee ed americane) e obbligando a condizioni di vita miserrime milioni di persone. Infatti, dopo che i movimenti anticoloniali del secondo dopo guerra avevano portato all'indipendenza politica, cioè dal controllo diretto degli stati europei, le terre in questione (dall'Algeria alla Libia ed alla Tunisia), vi è stato ovunque un rapido processo di ricolonizzazione diretto da elites che, approfittando del ruolo da loro svolto nei processi di liberazione nazionale, al soldo dell'imperialismo (sia di marca occidentale che sovietico), hanno svolto un ruolo fondamentale nello sviluppo e nel mantenimento dell'attuale sistema politico-economico mondiale, fondato in buona parte sull'utilizzo delle risorse energetiche di cui sono esageratamente ricchi tutti questi paesi. Ma improvvisamente, a partire da un episodio che poteva apparire all'apparenza di scarsa importanza, il gesto disperato di un giovane tunisino datosi alle fiamme, è partita una delle ribellioni più estesa e rapida degli ultimi anni. Dalla Tunisia le fiamme della rivolta si sono propagate a macchia d'olio ed hanno travolto dittatori e messo in crisi monarchie che sembravano aver superato le barriere della storia. E' stato rimesso in discussione l'assetto mondiale post “89. Sono stati in sostanza smentiti in pochi giorni i tristi peana che da anni recitavano i mantra sulla fine della storia e sono state messe in discussioni le teorie superficiali sul dominio della religione islamica e l'influenza di Bin Laden sulla soggettività araba. Ma tutto è ancora in movimento e molto difficile è azzardare ipotesi e previsioni sul futuro dei mondi arabi. Merita comunque riportare una cronologia di sintesi di ciò che è successo perché nella confusione massmediologica di regime si rischia di dimenticare subito quello che è successo e sta ancora succedendo. tiranno Ben Alì, messo al trono, per chi se ne sia dimenticato, dal mai troppo poco vituperato Craxi (che in quella terra ha terminato la sua infame esistenza). Ma già alla fine del 2010 si erano dati i prodromi della ribellione; infatti dopo che il 17 dicembre scorso, davanti al municipio di Sidi Bouzid, in segno di protesta, un giovane di nome Mohamed Buaziz si era dato fuoco, perché che la polizia gli aveva confiscato la merce in quanto sprovvisto delle autorizzazioni per la vendita, la rivolta ha iniziato a divampare. Da Kairouan a Sfax e Ben Guardane, da Sousse a Tunisi la gente scende in piazza pacificamente, contro la crisi la fame e Ben Alì. Ma la polizia aggredisce ovunque i manifestanti e gli scontri si fanno violentissimi, con morti e numerosi feriti. Dopo un mese di insurrezione popolare il tiranno e la sua gang è costretto a fuggire portandosi dietro più di una tonnellata di lingotti d'oro, parte delle ricchezze accumulate da lui ed il suo clan familiare in anni di rapine ai danni del popolo tunisino. E' stata una prima grande vittoria, sicuramente parziale e temporanea, ma anche e soprattutto un esempio per tutti i popoli della regione. Infatti il Partito dell'Unione Democratico Costituzionale (RCD) è ancora al potere con 161 seggi su 314 e con il presidente ad interim Ghannouchi rappresentante della vecchia oligarchia. Ma la mobilitazione del popolo prosegue: la gente non si fida e ancora non torna a casa. Dal 23 gennaio centinaia di persone della “Carovana per la libertà” si sono radunate davanti alla residenza del primo ministro. Ci sono scioperi di massa grazie all'iniziativa di settori combattivi della Unione Generale del Lavoro Tunisina (UGTT), a partire dal settore della scuola alle imprese pubbliche. Gannouchi concede qualche briciola di riforma per calmare le proteste, ma senza successo. Le manifestazioni continuano. Giordania. In Giordania ci sono stati tre giorni di proteste dopo il crollo del regime di Ben Ali. Su invito dei sindacati, dei partiti islamismi e di quelli di sinistra, migliaia di persone sono scese in strada ad Amman ed in altre città al grido “No all'oppressione, si al cambiamento! Vogliamo libertà e giustizia sociale”. Il re Abdallah II annuncia allora un programma di riforme economiche e sociali, nel tentativo di disinnescare lo scontento. Algeria. La rivolta algerina scoppia il 21 gennaio 2011 a causa della mancanza di alloggi, la disoccupazione e l'ennesimo rincaro dei prezzi sui prodotti alimentari e di prima necessità aumentati del 20% in un anno. Nei quartieri poveri algerini si sviluppa una rivolta che si estende in tutto il paese, partendo dai comuni come Cabili, Bourmedes, Bejaia fino a coinvolgere le principali città come Orano, Tipazia ed altre, arrivando a toccare le città dell'est come Annaba e Costantina. Il ministro del commercio, Mustapha Banbada, cerca di calmare le acque promettendo di abolire alcune tassazioni. Ma chiaramente ciò rimane lettera morta. Le persone iniziano a scontrarsi con la polizia che spara sulla folla. Le notizie parlano di 40 morti e oltre 300 feriti, di cui 30 in modo grave. Il 12 febbraio i contestatori del presidente Abdelaziz Bouteflika si radunano in piazza a migliaia, per un appuntamento organizzato via internet diversi giorni prima. Il governo risponde blindando la capitale con trentamila soldati, check-point creati nei luoghi nevralgici e disperdendo i manifestanti che si erano riuniti in piazza Primo maggio per marciare verso piazza dei Martiri. In serata, via twitter, si diffonde la notizia che gli apparati di sicurezza avrebbero arrestato oltre 400 persone. Nel Paese dal 1992 è in vigore la legge d'emergenza. Egitto. 30 gennaio. Anche l'Egitto si unisce alla Tunisia ed all'Algeria, dicendo basta alla dittatura di Mubarak. Le manifestazioni si susseguono in tutte le città egiziane (da Alessandria a Suez fino al Cairo) e gli scontri con i cani dello stato (polizia) non si fanno attendere. Come negli altri paesi vengono incendiate auto blindo, i centri del potere vengono presi di mira e la polizia risponde, come sempre, prima con le botte e poi con il fuoco. I primi bilanci di giorni di scontri tra polizia e manifestanti: oltre 150 morti, mille feriti e centinaia di arrestati. Il 1 febbraio le Tunisia. Il 14 gennaio 2011, scoppia la rivolta tunisina ribellandosi contro il governo del 5 Internazionale Il 30 gennaio centinaia di studenti scendono in strada a el Obeid, 600 chilometri a ovest della capitale Khartoum, per chiedere la fine del regime del presidente Omar el Bashir. La polizia risponde con i lacrimogeni. Secondo alcuni testimoni accanto ai reparti antisommossa si sarebbero schierati studenti aderenti al partito di el Bashir. Si parla di disordini anche a Khartoum, dove la polizia ha schierato 20 camion davanti all'università, nel tentativo di impedire a 300 studenti dissidenti di organizzare una manifestazione contro il regime. manifestazioni in piazza Tahrir proseguono, raccogliendo circa due milioni di persone. L'esercito sembra schierarsi apertamente con la popolazione, riconoscendo la legittimità della protesta e delle richieste. Si diffondono voci circa una presunta fuga del Faraone verso il Bahrein. Nella notte il presidente parla al popolo e promette di non ricandidarsi per le elezioni di settembre ma conferma di voler restare al suo posto fino alla scadenza del mandato e di non voler morire lontano dal “suo” Egitto. L'11 febbraio nuove manifestazioni al Cairo, Alessandria e nel Sinai. Nella capitale, i manifestanti protestano davanti alla sede della tv di stato. I carri armati impediscono alla folla di raggiungere il palazzo presidenziale. Nel primo pomeriggio si diffondono voci, poi confermate, circa una fuga del rais verso Sharm el Sheikh. Viene annunciato un nuovo e importante discorso di Mubarak. Poco dopo il vicepresidente Omar Suleiman legge un comunicato in cui annuncia il passaggio dei poteri all'esercito al quale si appoggia il ricolonizzatore Obama. Ma in ogni caso Mubarak si è dimesso. Il futuro della rivolta egiziana è ancora incerto. Yemen. Il 27 gennaio si svolgono dimostrazioni nel paese contro il governo di Ali Abdallah Saleh, al potere da 32 anni. Le opposizioni, dopo aver rifiutato l'offerta del presidente a non ricandidarsi nel 2013, celebrano la versione yemenita della "Giornata della rabbia", invocando un cambio di regime. A Sana'a si radunano 20 mila persone, chiamate in piazza dai gruppi della società civile e dai partiti d'opposizione. Il 14 febbraio circa tremila studenti si riuniscono davanti all'università, per chiedere ancora una volta le dimissioni di Ali Abdullah Saleh. La polizia interviene prima che il corteo si scontri con una manifestazione organizzata dai sostenitori del presidente. Oltre duecento fermi nella città di Taiz, dove i reparti antisommossa intervengono con decisione. Human Rights Watch denuncia la brutalità della polizia yemenita. Sudan. Libano. Il 3 febbraio un centinaio di dimostranti tenta l'assalto all'Ambasciata egiziana di Beirut. Gli scontri con i reparti antisommossa, che creano un cordone di sicurezza intorno all'edificio, durano 20 minuti circa. Bahrein. Anche il piccolo emirato viene toccato dalla rivolta. Il 14 febbraio il governo schiera i reparti antisommossa per spegnere la protesta che ha i suoi focolai a Bani Jamrah e Diraz. Nella mattinata, la polizia aveva disperso alcuni fedeli musulmani a Nuwerdait, che si erano raccolti in piazza per la preghiera del mattino. Gruppi di attivisti umani denunciano la brutalità delle forze di sicurezza. Negli scontri, sarebbero morti alcuni manifestanti. Il 15 febbraio si verificano nuovi scontri tra polizia e manifestanti, scesi numerosi in strada approfittando di un giorno di festa. Un corteo funebre viene attaccato dai militari. Sempre più forti sono le proteste contro il governo del Primo ministro Sheikh Khalifa bin Salman al Khalifa, al potere dal 1971. I manifestanti non chiedono ancora le dimissioni del re, Hamd bin Isa al-Khalifa, nipote del Primo ministro. I centri del dissenso sono anche qui le università. Gli studenti chiedono maggiori libertà e più diritti. Il simbolo della protesta è un lenzuolo bianco, macchiato con inchiostro rosso, a indicare la determinazione a sacrificare se stessi in nome della libertà. Il 17 febbraio l'esercito riprende il controllo di Manama, la capitale, e soffoca nel sangue la rivolta. Il bilancio è di tre morti e 231 feriti. Ma il 18 febbraio dopo la preghiera del Venerdì, una folla si riunisce nel sobborgo di Duraz e comincia a intonare cori contro gli al Khalifa, il clan dei monarchi sunniti e la protesta si rivolge anche contro la famiglia reale. Iran. Il 14 febbraio ritorna in campo anche la Persia. Gli studenti dell'onda verde dopo moti mesi tornano a protestare per le strade di Teheran contro il regime di Mahmud Ahmadinejad. La polizia interviene e si parla di "città nel caos totale". L'università di Teheran viene circondata dalle forze di polizia ed incidenti 6 si verificano anche a Isfahan e Shiraz. Alla fine della giornata si conteranno due morti e decine di arresti. Gibuti. Il 18 febbraio migliaia di persone scendono in piazza contro il presidente Ismael Omar Guelleh, al potere sin dall'indipendenza dalla Francia, nel 1977. Viene occupato uno stadio. I manifestanti sostengono che vi resteranno fino a quando Guelleh, che ha recentemente emendato la costituzione per potersi ricandidare, non se ne andrà. Marocco. Il 21 di febbraio si svolgono manifestazioni a Rabat e a Casablanca. A Fez si raccolgono tremila persone in un corteo di protesta pacifico. Cinque cadaveri sono stati trovati in una banca data alle fiamme ad al-Holceimas, dove si sono verificati scontri violenti. Libia. Il 16 febbraio scoppiano disordini a Bengasi. Si parla di 14 feriti nei tafferugli con le forze di polizia. La protesta deflagra dopo l'arresto di Fethi Tarbel, avvocato di un'associazione dei parenti dei prigionieri uccisi nella sparatoria avvenuta nel carcere di Tripoli nel 1996. Il 17 febbraio i disordini scoppiano a Benghazi e ad al-Bayda dove vengono uccise complessivamente dieci persone. Il giorno dopo la situazione precipita. Gheddafi sceglie il pugno di ferro contro qualsiasi tentativo di ribellione. Vengono riportate notizie di scontri e di uccisioni sommarie. Si parla di 35 morti. Sono quattro le città in cui si contano le insurrezioni più importanti: al-Bayda, Ajdabiya, Zawiya e Darnah. Al-Bayda in particolare sarebbe nelle mani degli insorti. Il 19 febbraio le forze di polizia attaccano un corteo funebre a Bengasi. A sera le agenzie parleranno di 120 morti, prevalentemente civili uccisi dalle truppe fedeli a Gheddafi. Ma tra l'esercito iniziano le prime defezioni. Viene segnalata la presenza di mercenari africani assoldati Internazionale per reprimere nel sangue la rivolta ed alcuni di questi vengono catturati dalla folla. I cecchini dai palazzi fanno fuoco sui cortei. Il 20 febbraio la popolazione prende il controllo di Bengasi. Le proteste raggiungono Tripoli, dove le forze di sicurezza intervengono brutalmente. Il numero dei morti è impressionante. Il 21 febbraio la folla assalta i palazzi del potere. Gheddafi ordina alle truppe che gli sono rimaste fedeli di sparare senza pietà, utilizzando anche i caccia per bombardare i dimostranti. Ma Bengasi è in mano agli insorti e nei giorni successivi viene preso il controllo di quasi tutto il paese, mentre a Tripoli, i fedeli del colonnello, si scatenano massacrando migliaia di persone. Ma i giorni del dittatore, amico di Berlusconi e D'Alema, sono contati. Dopo questi due mesi di rivolte niente sarà più come prima. Una pericolosa (per classi dominanti) crepa si è aperta nel sistema mondo globalizzato sotto l'egida del capitale. La “cupola” mondiale cercherà sicuramente di riprendere il pieno controllo di queste terre e già lo sta facendo provando ad erigere nuovi stati semidemocratici al suo servizio ed al servizio dei monopoli della rapina. O forse cercheranno di insinuarsi i cleri islamici. Ma non sarà così facile. Milioni di esseri umani hanno rischiato la vita, molti l'hanno persa e continuano a morire nelle strade e nelle piazze. Hanno assaporato la libertà, anche se, bisogna riconoscere, non hanno ancora messo in discussione né il sistema economico capitalista né lo stato in quanto istituzione da cui liberarsi. Però da anarchici non possiamo che salutare con entusiasmo quello che sta succedendo, sostenendo in primo luogo i piccoli gruppi anarchici e libertari che esistono in questi paesi ed auspicando che i popoli arabi in lotta inizino a percorrere un'altra strada; quella per una società autogestita ed organizzata liberamente attraverso l'azione diretta e popolare. crisi capitalistica, nella globalizzazione neoliberista, nello sfruttamento imperialista e nel tentativo di riaffermazione della dignità di questi popoli i suoi capisaldi. Analizziamo ognuno dei casi dove le rivolte sono più brucianti. egemonici delle potenze occidentali nel Vicino e nel Medio Oriente. ... Nel 1962, l'indipendenza d'Algeria invia un segnale forte all'Africa e al Terzo Mondo, mettendo in allerta le potenze imperialiste. Ugualmente bisogna sottolineare il colpo di Stato in Libia da parte di Kadhafi nel 1969. Questo colonnello assume il potere e nazionalizza importanti settori dell'economia, a grave scapito dell'Occidente. Dieci anni più tardi, in Iran la rivoluzione islamica detronizza lo Scià, uno dei pilastri più importanti della strategia degli Stati Uniti in Medio Oriente. In breve, in questo periodo, un movimento anti-imperialista molto forte sfida gli interessi strategici degli Stati Uniti nel mondo arabo. Per fortuna per Washington, non tutti i paesi della regione seguono la via di Nasser. Questo è il caso della Tunisia. Nel 1957, un anno dopo l'indipendenza tunisina, Bourguiba, il presidente tunisino, è uno dei principali dirigenti arabi a scrivere nella prestigiosa rivista statunitense, Foreign Affairs. ... Siamo in piena Guerra Fredda. I Sovietici sostengono Nasser la cui influenza si sta allargando nella regione. E gli Stati Uniti hanno bisogno di agenti filo-imperialisti come Bourguiba per non perdere il controllo strategico sul mondo arabo.”(4) . Maghreb libero. di Marcello Rivolte, sommosse, ribellioni. Un nuovo vento di protesta spira con forza nei paesi del Nord Africa; zone del mondo che il capitalismo appellava, ma che alcuni intellettuali o presunti tali si ostinano a chiamare, “paesi del Terzo Mondo” ovvero quelli non allineati alla divisione “imposta” dai due blocchi statunitense e sovietico. Le rivolte popolari contro i regimi reazionari scoppiate in Algeria, Tunisia, Yemen, Egitto, Libia, hanno ottenuto sino ad ora la fuga di Ben Alì e la destabilizzazione del regime di Mubarak. Cercare di spiegare in modo esaustivo le motivazioni di questi fatti non è semplice ma è possibile tracciarne dei larghi tratti atti a dipingere in modo più chiaro il quadro geopolitico. Le rivoluzioni che, a partire dalla Tunisia, si sono estese in gran parte del Nord Africa hanno infatti più chiavi di lettura; alcune un po' false o forvianti: “le rivolte per il pane”, altre semplicistiche: “le rivolte contro il dispotismo”, altre ancora: “teoriche del complotto”. È senz'altro vero che questi paesi hanno un “tenore di vita medio” molto basso, ad esempio in Egitto la spesa per la sussistenza alimentare ammonta al 48,1% rispetto al 17,5% dell'Italia(1) ma queste stesse percentuali non hanno senso in Libia; però tali rivolte, a titolo esemplificativo quella tunisina(2), non possono essere imputate esclusivamente al carovita, o all'abbattimento di regimi dispotici in quanto “non spiegano il perché “despoti” al potere da quaranta anni siano stati messi fuori gioco in poco tempo, né la diffusione rapidissima del contagio in un’area molto vasta”(1) le motivazioni vanno esaminate in una ottica molto più attenta che vede nella Caso tunisino “La Tunisia ieri (15 gennaio 2011) si è risvegliata, lentamente, con un'unica certezza: Ben Ali se n'è andato e non tornerà più.”(3) con questa frase lapidaria della Sgrena viene acclamata la rivoluzione tunisina, rivoluzione che ha pregressi dal 2008 ma che vede come elemento scatenante il suicidio di Mohamed Bouazizi, il 17 dicembre 2010, “un giovane venditore di frutta e verdura, si è bruciato per disperazione dopo che alcuni poliziotti gli avevano confiscato la merce e il carretto di vendita e le autorità locali gli avevano impedito di lavorare”(4). Sicuramente lapopolazione tunisina mal tollerava la mancanza di libertà, la corruzione, la disoccupazione e la repressione instaurate e attuate in modo esemplare dal regime di Ben Alì; però per ben capire l'evoluzione delle sommosse e l'importanza che questo paese aveva assunto nella strategia dell'imperialismo statunitense bisogna analizzare il contesto politico arabo degli anni '50 e '60. “Nel 1952, in Egitto alcuni ufficiali rovesciavano la monarchia del re Farouk e proclamavano la repubblica. Con Nasser alla sua guida, l'Egitto diviene la base del nazionalismo arabo con idee rivoluzionarie ispirate al socialismo. Come attestato dalla nazionalizzazione del canale di Suez, l'arrivo al potere di Nasser rappresenta un colpo duro per l'Occidente, in quanto la politica del presidente egiziano è in contrasto totale con gli obiettivi 7 Internazionale Sotto Bourguiba la Tunisia conosce indubbiamente dei progressi nell'istruzione e nella condizione femminile ma apre la strada ad nazionalismo liberista che si sarebbe trasformato in dittatura. Infatti, nel 1987 Ben Alì succede a Bourguiba e prosegue il cammino precedente abbandonando però il capitalismo di stato in favore di un neoliberismo con un grossissimo piano di privatizzazioni. Tutto ciò ha permesso da un lato a Ben Alì e ai Trabelsi (la famiglia della moglie) di arricchirsi a dismisura svendendo le materie prime alle multinazionali occidentali, dall'altro di incrementare l'istruzione, il turismo e di “sconfiggere il pericolo islamico”. “Il regime di Ben Ali è stato considerato dalla stampa e dalle diplomazie occidentali un esempio da seguire, per la sua moderazione, per i successi economici e sociali ottenuti... ma era chiaro che si trattava, in realtà, di un regime ferocemente repressivo, con una censura che arrivava ad essere persino ridicola tanto era esagerata, con un tasso di disoccupazione altissimo, che nella fascia d'età tra i 15 e i 30 anni supera il 40%, e con un sistema di corruzione che avvolgeva l'economia nazionale, gestito in modo mafioso da due famiglie: quella di Ben Ali e quella della moglie, Leila Trabelsi.”(5) La “rivoluzione dei gelsomini”, come è stata definita dai media occidentali forse in riferimento alla rivoluzione dei garofani nel 1974 in Portogallo, ha avuto successo perché è riuscita a toccare tutti i segmenti della società, compresi alcuni settori dell'esercito e della polizia che hanno simpatizzato con i manifestanti. In tal caso l'apparato repressivo non è stato più in grado di funzionare come aveva fatto fino a quel momento. “La Tunisia”, però, “ha appena vissuto una doppia rivolta, ma non è ancora una rivoluzione”(6) infatti, le forze armate hanno assunto il controllo nominandosi “garanti della rivoluzione” e promettendo di rispettare la costituzione ma tra il popolo serpeggia un forte sentimento d'incertezza e le prospettive per il futuro rimarranno solo delle ipotesi fintanto che non verrà riorganizzata la polizia, prima sotto lo stretto controllo di Ben Alì, e non sarà possibile esprimere una reale alternativa. “I padroni dei media di ogni stampo accorrono al capezzale della giovane democrazia per dare prescrizioni e consigli interessati. Perché, se il dittatore se n’è andato, la dittatura non è finita. Il suo organo principale, il Rassemblement constitutionnel démocratique (RCD), partito di massa che rivendica un milione di aderenti (ovvero un tunisino su dieci), e che controllava tutti gli ingranaggi e il sistema di corruzione del paese, è ancora in piedi e detiene i posti chiave nel nuovo governo.”(7) fatto seguito la ribellione in Egitto. Il popolo egiziano si è rivoltato contro il regime di Mubarak. Dal 28 gennaio la popolazione è scesa in piazza sfogando “tutta la frustrazione accumulata in trent'anni di regime”(8) e dopo 18 giorni di lotta popolare dura, con 300 morti, migliaia di feriti e migliaia di arresti, è riuscita a destabilizzare, ma non a cambiare, uno dei regimi più spietati e brutali del Medio Oriente. Il popolo egiziano comincia quindi a respirare dopo 30 anni di oppressione e sottomissione. Dopo la sua fuga presso Sharm el Sheikh, nel Sinai, Mubarak ha trasferito tutti i suoi poteri al Consiglio militare supremo. Il «parlamento parallelo», eletto dall'Assemblea del popolo e nato come risposta alle elezioni farsa che avevano permesso al Partito Nazionale Democratico (PND) di avere il 97% dei seggi, cerca di interloquire con il Consiglio militare supremo e con i suoi comunicati. Tanti sono i dubbi e poche le certezze. La transizione verso forme democratiche è dura e ardua, in un paese, come del resto nel caso tunisino, in cui Mubarak, nonostante gli insuccessi, era stimato e godeva di un forte appoggio. Altro parallelo con il dittatore tunisino è l'accumulo delle “fortune personali” con stili di vita sfarzosi per mogli e figli. “La ricchezza di Mubarak, della sua famiglia e dei suoi alleati politici è stata a lungo una fonte di risentimento in una nazione con alto tasso di disoccupazione e una povertà immensa”(9), infatti “il 40 per cento della popolazione vive con meno di due dollari al giorno e perfino i cittadini del ceto medio istruito, i cui figli sono scesi in piazza per protestare, non hanno visto migliorare la loro situazione, con un tasso di disoccupazione che si aggira intorno al 20%”(8). Dopo l'abbandono di Mubarak, “tutti, dal rappresentante del partito Tagammo Caso egiziano Alla “rivolta dei gelsomini” tunisina, ha 8 (sinistra) a quello dei Fratelli musulmani, hanno preparato un documento in nove punti che presenteranno ai vertici delle forze armate. È, dicono, un testo «fondamentale» per accelerare la transizione verso la democrazia”(10). I punti fondamentali di cambiamento riconosciuti da tutti i partiti e da tutti i movimenti, da quello del 25 Gennaio a quello del 6 Aprile, sono i seguenti: - la sospensione immediata della legge di emergenza varata 30 anni fa - lo scioglimento immediato del parlamento e del senato egiziano - la cancellazione della vecchia costituzione e la creazione di una assemblea costituente - assicurare immediatamente la libertà di espressione e la libera circolazione delle informazioni - la liberazione di tutti i detenuti politici e di tutti i leader politici dell’opposizione Si discute molto del ruolo dell'esercito. É forte il timore che i generali dell’esercito controllino la rivoluzione innescata dai giovani, diventata rivoluzione di tutto il popolo, per svuotarla dei suoi contenuti, nonostante le parole dei militari che hanno annunciato le dimissioni del dittatore. “«Stiamo decidendo se svuotare del tutto piazza Tahrir dove abbiamo sconfitto il raìs oppure lasciare un presidio permanente, dipenderà molto dalla revoca delle leggi d'emergenza da parte delle autorità militari», ci dice la portavoce del Movimento 6 Aprile...I comandi militari non hanno sciolto i nostri dubbi. Il loro comunicato conferma il governo in carica e non fornisce alcuna scadenza per l'attuazione della road map della democrazia in Egitto, non fornisce alcuna indicazione su come procederà e con quali modalità la transizione. Dobbiamo essere vigili. Mubarak non è più al potere ma il resto è tutto da costrui- Internazionale re”(10). Moltissimi gli interessi politici ed economici che riguardano l'Egitto. “Per l'Occidente l'Egitto svolge un ruolo importante nello scacchiere mediorientale. Con i suoi 80 milioni di abitanti, è il paese più popoloso del mondo arabo. Anche se la sua influenza sta diminuendo, il paese impone la sua lingua e la sua cultura soprattutto quella giovanile, a tutta la regione. Inoltre ogni anno per il canale di Suez passano il 7% del traffico marittimo globale e circa il 2% delle spedizioni di petrolio.”(8). Non va inoltre dimenticato che il possibile stravolgimento della dittatura egiziana potrebbe condurre a ritrattare gli accordi di Camp David (1978) e il conseguente trattato di pace con Israele (1979) e ad aprire la strada alla rottura del blocco contro la confinante striscia di Gaza, dove da anni Israele ed Egitto tengono prigionieri un milione e mezzo di palestinesi. Molti temono, con l'avanzare dei Fratelli Musulmani, un possibile modello iraniano, altri un modello turco stile Erdogan. Qualunque sia la transizione, sia i movimenti che i partiti politici sono troppo deboli per innescare un cambiamento repentino e la ricerca di un sostituto temporaneo di Mubarak si fa sempre più pressante. Da Omar Suleiman, vice presidente nominato dal vecchio dittatore a Mohamed el Baradei, premio Nobel per la pace del 2005 ed ex direttore dell'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica (AIEA), si è aperto il toto presidente. Chi prenderà il posto di Mubarak? Spinte neocoloniali, da parte degli Stati Uniti, e possibili commistioni islamiche scuotono il paese. Le angosce sono tante: “Pur ancora brancolando nel buio ma memori di come nel 1979 persero il controllo dell’Iran, oggi gli Stati Uniti non possono assolutamente concedersi il lusso di perdere l’Egitto, l’asse portante della loro politica nel Nord Africa e nel Medio oriente, lo snodo cruciale tramite il quale mantengono saldo il sistema di alleanze filo occidentali nella regione, l’interfaccia che consente loro di bilanciare in qualche modo lo strapotere di Israele e di espandere la loro influenza politica ed economica su tutti gli stati della regione. E sono giustamente preoccupati, dato che, dopo la Tunisia e l’Egitto, anche in Giordania e nello Yemen si sono accesi piccoli focolai di rivolta”(11). Caso libico Le proteste tunisine si sono propagate anche in Libia in particolar modo nella regione della Cirenaica con le città di alBayda, Bengasi, Tobruk. Sommosse “sedate” con il sangue da parte del colonnello Muammar Gheddafi, al potere da 42 anni, che non ha esitato ad utilizzare le forze armate con mitragliatrici e caccia da combattimento e ad assoldare mercenari, “i berretti gialli, come li chiama la gente per il colore del loro copricapo”(12), per sparare sulla folla in un primo momento disarmata. Migliaia i morti. La repressione non si è fermata quì ma ha steso la sua mano anche sui mezzi di comunicazione “dopo l'oscuramento di Internet e delle tv satellitari, in molte città della rivolta sta mancando l'elettricità.”(12), azione messa in atto anche dal regime egiziano. Occorre però fare dei distinguo nelle rivolte politiche del Medio Oriente, valutando attentamente le diverse dinamiche, “questa accortezza diventa ancora più necessaria nel valutare gli eventi in Libia e le profonde differenze con quanto accaduto negli altri paesi del Maghreb, Tunisia ed Egitto soprattutto. Non solo, occorre anche separare il giudizio su Gheddafi rispetto alle cause e alle conseguenze eventi in corso. In Libia, diversamente che in Tunisia e in Egitto, dobbiamo parlare di guerra civile e non di rivolta popolare.”(13). Infatti, dobbiamo considerare che le condizioni socio-economiche dei libici sono migliori di quelli degli altri paesi della zona ma anche che la popolazione libica è divisa in tribù e che lo stesso colonnello ha contribuito ad assembrarle in una nazione. Infatti, “Gheddafi, è stato un valoroso combattente anticolonialista e per anni ha cercato di alimentare focolai di rivolta contro il neocolonialismo in Africa e Medio Oriente”(13), “quando fu protagonista del colpo di stato nel '69 aveva davanti a sé un paese pieno di piccole organizzazioni, clanico, e lui ha contribuito a farne una nazione. In un anno ha cacciato le basi militari americane e inglesi, ha espulso i 9 20mila italiani che costituivano ancora un retaggio del colonialismo.”(14) ma “dopo anni di embargo (e di bombardamenti USA non dimentichiamolo) nel 1999 Gheddafi ha cercato la strada del compromesso con l’imperialismo, soprattutto dopo l’11 settembre...”(13) ciò ha permesso dal 2004 che gli Stati Uniti non considerassero più la Libia uno “stato canaglia” e “sono tornati ormai da sette anni con quattro multinazionali petrolifere ad attingere al petrolio di Tripoli. E gli interessi non sono solo per il petrolio perché i francesi hanno attivato contratti per vendere i loro aerei da combattimento, la Gran Bretagna aveva mandato Tony Blair - che con Seif al Islam risolse anche la vicenda drammatica di Lockerbie - come commesso viaggiatore d'affari. Tutti in fila per vendere forniture. Perché in Libia-Piazza Affari c'è da cambiare tutto: ci sono da costruire aeroporti nuovi, la famosa ferrovia, l'autostrada litoranea dovrà costruirla l'Italia. Come da accordo storico con il quale il governo italiano riconosce le infamie italiane colonialiste e fasciste, per avere in cambio il contenimento - vale a dire nuovi campi di concentramento dell'immigrazione disperata del Maghreb e dell'interno africano.”(15). L'apertura palese ai paesi imperialisti ha fatto commettere ulteriori errori a Gheddafi: da una parte ha dimenticato che la Cirenaica è ancora pervasa dal mito di Omar el Mukhtar, considerato un eroe libico contro l'Italia colonialista, dall'altra ha “sempre minimizzato l'importanza delle tribù del Gebel, della «montagna», che sono a 50 km da Tripoli.”(14). Inoltre, le proteste libiche non hanno nulla a che spartire con quelle egiziane e tunisine, infatti, “la Libia non ha masse di disperati urbani, in parte perché il regime ha adottato un sistema paternalistico/assistenziale che evita gravi forme di miseria, ed in parte perché mancano proprio le masse, dato che si sta parlando di un paese spopolato...”(16). In sostanza l'importanza che gioca la Libia nello scacchiere del Mediterraneo è immensa. “Grazie alle ricche riserve di petrolio e gas naturale, la Libia ha una bilancia commerciale in attivo di 27 miliardi di dollari annui e un reddito pro capite medio-alto di 12mila dollari, sei volte maggiore di quello egiziano. Nonostante le forti disparità, il livello medio di vita della popolazione libica (appena 6,5 milioni di abitanti in Internazionale confronto ai quasi 85 dell'Egitto) è quindi più alto di quello dell'Egitto e degli altri paesi nordafricani. ..a fuggire quindi sono soprattutto tecnici delle grandi compagnie petrolifere. Non solo l'ENI, che realizza in Libia circa il 15% del suo fatturato, e Finmeccanica ma anche altre multinazionali soprattutto europee: BP, Royal Dutch Shell, Total, Basf, Statoil, Rapsol. Sono costretti a lasciare la Libia anche centinaia di russi della Gazprom e oltre 30mila cinesi di compagnie petrolifere e di costruzioni. Una immagine emblematica di come l'economia libica sia interconnessa all'economia globalizzata, dominata dalle multinazionali.” (17) È molto probabile che in Libia vi sia in atto un “golpe”(16) per la spartizione delle risorse naturali e per accaparrarsi la costruzione di servizi più o meno imponenti e “non si può quindi escludere che la rivalità etnica sia ancora la leva con cui altre potenze coloniali oggi stiano cercando di destabilizzare il regime di Gheddafi, magari prospettando ai vari capi tribali la possibilità di cogestire il business del petrolio con le multinazionali angloamericane”. I flussi migratori verso l'Italia e l'Europa saranno incrementati ma i barconi carichi di profughi e di migranti hanno spesso la funzione di distogliere l'attenzione dai veri ingressi nei porti: quelli delle petroliere e delle navi gasiere. Tutto ciò non potrà lasciare impassibili gli “esportatori di democrazia” e la forze USA/NATO si preparano per una nuova “guerra umanitaria”(17),(18). Gli interessi non sono solo dell'Occidente ma anche delle nuove forze capitaliste; infatti, Pechino auspica un ritorno alla normalità in Libia e ciò appare evidente basta considerare che “il commercio cino-libico è in forte crescita (circa il 30% solo nel 2010)”(17) Cosa accomuna quindi le rivolte e le proteste, ripeto parlare di rivoluzioni mi sembra alquanto prematuro, in Nord Africa? Quasi tutti i popoli oppressi del Medio Oriente hanno visto e hanno capito cosa vuol dire la autodeterminazione e la forza di un popolo. La liberazione dagli stati coloniali ha instaurato una finta liberazione delle popolazioni e delle zone di terra dove vivono, e attraverso vari stadi: dalla nazionalizzazione alla liberalizzazione delle risorse naturali ha permesso la ricolonizzazione da parte delle multinazionali economiche in accordo con i despoti locali. Dietro le rivolte in Egitto, in Tunisia, in Algeria, in Libia, c'è un' èlite di giovani africani poliglotti, digitalizzati (basta valutare l'importanza che hanno avuto gli universitari e le comunicazioni informatiche nelle proteste) che hanno preso un minimo di coscienza della propria schiavitù, della propria miseria e spinti alla disperazione per la situazione in cui vivono hanno cercato di dare un peso sostanziale alle proprie decisioni senza aspettare di essere avallati dai loro governi. “I Tunisini, gli Egiziani e i popoli del Terzo Mondo sono meglio informati, da una parte grazie ad AlJazeera e d’altro canto attraverso Internet e le sue reti sociali. L’evoluzione delle tecnologie dell’informazione ha aumentato il livello dell’istruzione e di presa di coscienza delle persone. Il popolo non è più una massa di contadini analfabeti.”(4) “In definitiva, negli ultimi anni si è verificato uno sviluppo dipendente, subalterno a quegli stessi paesi occidentali che oggi parlano ipocritamente di democrazia e che condannano la violenza di "despoti" fino a ieri appoggiati in tutti i modi e considerati controparti affidabili. La debolezza e la repentina caduta di queste élite è dovuta proprio al fatto di essere pressoché semplici intermediari degli interessi esteri. In qualche caso, saliti al potere con il concorso decisivo dei servizi segreti europei, come Ben Alì in Tunisia grazie ai servizi italiani (Craxi ha avuto un ruolo importantissimo). ... Il principale nemico dei popoli arabi e nord-africani è chi sta dietro i “despoti”, ovvero quello che possiamo chiamare neo-imperialismo, che non si basa sul controllo diretto del territorio, come il vecchio imperialismo colonialista. L’imperialismo odierno si fonda sul controllo per procura dell’economia e delle materie prime e scarica, attraverso i mercati finanziari, le sue contraddizioni, la crisi in primo luogo, sui paesi periferici. Il punto, dunque, non è la rivendicazione di una democrazia astratta, ma la rivendicazione di rapporti sociali e internazionali di tipo diverso.”(1) Il mondo è ormai uno scacchiere in cui la partita è globale. Oltre ai soliti ruoli USA/NATO cosa faranno la Russia, la Cina, l'asse Turchia-Iran? È chiaro che nessuno starà a guardare. Cosa possiamo concludere da uno scenario così devastante: che la disinfor- 10 mazione agisce quasi indisturbata e che grandi schemi di potere si giocheranno nelle zone del Maghreb. Le rivolte in Tunisia e in Egitto hanno forse avuto un carattere spontaneo ma a mio avviso non contengono ancora progetti alternativi di società, noi come anarchici e anarchiche non possiamo che spingere le masse a una rivolta generalizzata attraverso l'azione diretta che liberi tutti e tutte dai controlli dei poteri economici e che finalmente autodetermini i popoli. Riferimenti (1) Domenico Moro, Le vere cause delle rivolte in Nord Africa, Resistenze del 23 febbraio 2011 (2) AA.VV., Rivolta del pane in Tunisia, decine di morti: «La polizia smetta di sparare», Corriere della Sera del 08 gennaio 2011 (3) Giuliana Sgrena, Ben Ali non abita più qui, Il manifesto del 16 gennaio 2011 (4) Michel Collon, Grégoire Lalieu, Mohamed Hassan: «Le cause della rivoluzione tunisina vanno ben oltre Ben Ali e la sua fazione», 01 febbraio 2011 tratto da http://www.michelcollon.info È possibile leggerene la traduzione in http://www.marx21.it (5) Mario Sei, La rivoluzione in Tunisia: una storia reale o virtuale?, 09 febbraio 2011 tratto da http://www.comedonchischiotte.org (6) Sami Naïr, La Tunisia brucia, tratto da Internazionale del 21 gennaio 2011 (7) Mohamed gruppo Pierre-Besnard della Fédération anarchiste, La caduta di Ben Ali e del suo clan di mafiosi. Fine del dittatore, non della dittatura, Umanità Nova del 06 febbraio 2011 (8) AA.VV., Tempo scaduto per il faraone, tratto da Internazionale del 04 febbraio 2011 (9) Sudarsan Raghavan, Egyptians focus their attention on recovering the nation's money, The Washington Post del 13 febbraio 2011 (10) Michele Giorgio, Il nuovo Egitto con tanti dubbi, Il manifesto del 14 febbraio 2011 (11) AA.VV., Chi prenderà il posto di Mubarak? Egitto: le teorie dei Neocons alla prova dei fatti, Umanità Nova del 13 febbraio 2011 (12) Abi Elkafi, Libia nel caos, decine di morti, Il manifesto del 22 febbraio 2011 (13) Sergio Carraro, Libia. Non è una rivolta popolare ma una guerra civile. I dovuti distinguo, Megachip del 24 febbraio 2011 (14) Angelo Del Boca, Nel precipizio, Il manifesto del 22 febbraio 2011 (15) Tommaso De Francesco, Gheddafi reggerà, in cirenaica rivolta endemica, Il manifesto del 20 febbraio 2011 (16) Comidad, Libia: una guerra del petrolio tra ENI e BP?, 24 febbraio 2011 tratto da http://www.comidad.org/dblog/articolo.asp?artico lo=402 (17) Manlio Dinucci, La Libia nel grande gioco. Al via la nuova spartizione dell’Africa, Il manifesto del 25 febbraio 2011 (18) Tommaso De Francesco, Verso un’altra guerra "umanitaria", Il manifesto del 25 febbraio 2011 Internazionale Dalla Palestina di Alex Gaza imprigionata Nella Striscia di Gaza, enorme campo di concentramento per volontà dello Stato d'Israele, la gente ha solidarizzato con entusiasmo con la rivolta in Egitto contro l'autocrazia, autocrazia da tempo in combutta con i governi israeliani e armata dagli USA. Tuttavia è presente anche angoscia fra la popolazione, angoscia per una condizione di ulteriore isolamento della Striscia a seconda degli accadimenti nella terra delle piramidi: i tunnel e il valico di Rafah ( al confine fra Gaza ed Egitto) dai quali passa un minimo di approvvigionamento energetico, alimenti e medicinali, erano stati bloccati, poi sono stati riaperti, ma le incognite e le paure sono numerose. A Gaza la situazione continua ad essere critica sotto tutti gli aspetti, in particolare è insufficiente il carburante per produrre l'energia elettrica che fa andare avanti gli ospedali, si profila una ulteriore catastrofe umanitaria che va a sommarsi agli effetti dell'operazione genocidiaria “Piombo Fuso” realizzata dallo Stato israeliano due anni fa. Come abbiamo sottolineato più volte su questo foglio, la popolazione di Gaza resiste coraggiosamente ma la situazione è sempre più drammatica, si teme per un altro massacro da parte dell'apparato militare israeliano. La maggior parte della gente di Gaza non può uscire da questa stretta striscia di terra, la più estesa prigione a cielo aperto del mondo, e la maggior parte degli adulti non ha possibilità di lavorare. 800.000 persone, più di metà della popolazione, sono bambini. La gente è ancora in lutto a causa dei criminali attacchi dell' esercito israeliano dell'inverno 2009, quando 1400 persone sono state assassinate, e tra queste 350 bambini, con immani devastazioni. E l'aviazione israeliana continua con i raids uccidendo, ferendo e distruggendo. Lotta congiunta, popolare e autorganizzata nella West Bank In Cisgiordania prosegue l'Apartheid neocolonialista israeliano mediante la realizzazione di una barriera che si estende per centinaia di chilometri (ultimata dovrebbe superare i 750 Km, e' costituita da un muro in cemento alto 8 metri, fossati, filo spinato e recinzione elettrificata con telecamere e postazioni di cecchini), con la confisca di terre e sorgenti d'acqua dei villaggi palestinesi, l'impossibilità per i palestinesi di spostarsi liberamente da una località all'altra mediante la militarizzazione delle vie di comunicazione, la distruzione di abitazioni e campi coltivati, il tutto secondo una piano di pulizia etnica e colonizzazione, con uccisioni, ferimenti e arresti. Ma la lotta dal basso antisegregazione e anti-occupazione non si arresta davanti alla criminale repressione: *Sono passati sei anni da quando gli abitanti di Bil'in - villaggio palestinese cuore della resistenza dal basso non violenta - insieme ai loro compagni israeliani e internazionali, hanno iniziato a mobilitarsi costantemente - con marce e azioni dirette - contro il Muro dell'Apartheid e la confisca delle loro terre. Sono trascorsi più di tre anni da quando la Corte Suprema d' Israele ha stabilito che il percorso del Muro doveva essere cambiato il più presto possibile: “il popolo di Bil'in ha aspettato abbastanza”. Il Comitato Popolare di Bil'in contro il Muro e gli insediamenti ha organizzato venerdì 18 febbraio una celebrazione dei sei anni di lotta. Gli abitanti del villaggio, insieme a molte centinaia di loro sostenitori – venuti da tutta la Cisgiordania, da Israele e da tutto il mondo – hanno marciato ancora una volta verso le terre sequestrate al di là del Muro. Il corteo, accompagnato da musica e con simboli contro l 'apartheid e gli USA, è riuscito ad avvicinarsi al recinto di separazione nonostante i lacrimogeni e gli spruzzi di acqua fetida lanciati dall'esercito israeliano. “I giovani sono riusciti a tirare giù il recinto esterno in un paio di punti e ad andare oltre. Poco dopo l'esercito ha attraversato il muro spalleggiato da lanci di gas. Alcuni manifestanti sono riusciti a restare a contatto con i soldati, impedendo ai giovani di tirare sassi su di loro. Più aumentavano i manifestanti che pressavano i soldati, più sono aumentate le sofferenze da inalazione di gas ed i rischi di essere colpiti dalle granate sparate da breve distanza direttamente sul corteo. I soldati hanno persino sparato sulle ambulanze impegnate nel trasporto delle vittime delle inalazioni di gas letali. Durante il confronto diretto con i soldati, un manifestante ha scritto con lo spray uno slogan contro il muro sullo scudo di un militare e altri due manifestanti sono stati arrestati (uno falsamente accusato di lancio di pietre, poi entrambi in giornata rilasciati). Quindi i manifestanti hanno sciolto la manifestazione e sono tornati indietro con la maggior parte dei giornalisti. Ma i soldati sono rimasti là, per cui i giovani hanno cercato di spingerli alla ritirata sottoponendoli ad un fitto lancio di pietre. Per tutta risposta tre soldati hanno sparato in corsa proiettili veri calibro 0,22, per poi andarsene. Un ragazzo di 17 anni è rimasto ferito”. I media israeliani hanno poi mentito sull'accaduto dicendo che il giovane ferito avrebbe minacciato i soldati con un'arma appuntita. *“Verso le 9 del mattino di venerdì 28 gennaio, due gruppi di coloni armati hanno marciato attraverso Beit Umar, villaggio palestinese. I coloni hanno sparato e ferito due giovani palestinesi: Bilal Al-Qador è stato colpito a un braccio e Yousef Ikhlay è stato colpito in testa. Quest'ultimo è morto più tardi durante la notte all'ospedale di Hebron. Yousef non ha mai perso nessuna delle manifestazioni settimanali contro l'insediamento dei coloni israeliani di Karmei Tzur che è costruito su un terreno della sua famiglia. Era anche un assiduo volontario per il Progetto Solidarietà Palestina. A seguito della sua uccisione una marcia funebre enorme si è tenuta a Beit Umar il sabato. Migliaia di persone hanno marciato verso la strada principale bloccandola per oltre un'ora. L'esercito israeliano ha invaso il villaggio e ferito decine di persone. L' uccisione di Yousefs è stato denunciata a Jaffa ( cittadina a pochi chilometri da Tel Aviv, n.d.r. ) il sabato notte in una prima manifestazione programmata contro gli insediamenti israeliani.” *L'11 Gennaio Jonathan Pollak di Anarchici Contro il Muro ha iniziato un periodo di tre mesi di reclusione nella prigione Hermon, nel nord d'Israele. “L'accusa formale è riunione illegale ma la 11 Internazionale vera ragione per cui è in carcere è che lui è intransigente nella resistenza all'oppressione dello stato israeliano. Prima di essere condannato Pollak ha dichiarato in tribunale che l'unica cosa per cui si rammarica è "non fare di più” per cambiare la situazione insostenibile degli abitanti di Gaza, e per far cessare il controllo d'Israele sui palestinesi. Questo caso dimostra che il sistema giudiziario utilizzerà il carcere per sopprimere il dissenso politico anche nei confronti di attivisti ebrei relativamente privilegiati (rispetto ai palestinesi n.d.r). Questa repressione di solito prende la forma di un'abitudine a scendere a compromessi con lo Stato e le sue istituzioni in innumerevoli modi. Rifiutando di pentirsi e anche di fare appello per il suo caso, Pollak resiste a questa sistematica forma di repressione. L'importanza di tali azioni è che hanno un potenziale che può essere davvero rivoluzionario. Rifiutando di accettare le convenzioni politiche e giuridiche per quello che è successo a lui, si può realizzare un cambiamento molto significativo. Il successo della sfida di Jonathan al sistema giuridico dipenderà dal fatto che questo ispiri altri a fare lo stesso e ad unirsi alla lotta in cui si è impegnato.” Egli apprezzerebbe ricevere lettere in carcere, *Il primo gennaio Jawaher Abu Rahma attivista palestinese del comitato di villaggio di Bil'in - sorella di Bassem Abu Rahma, colpito a morte da un candelotto di gas lacrimogeno sparato ad alta velocità durante una manifestazione il 17 aprile del 2009 - è stata uccisa per avvelenamento da gas lacrimogeni sparati dall'esercito israeliano durante una manifestazione contro il Muro dell'Apartheid. Mohammed Khatib, membro del Comitato Popolare di Bil'in ha dichiarato: "Siamo scioccati e furiosi per la brutalità d' Israele, che ancora una volta è costata la vita di una pacifica dimostrante, la risposta letale e disumana d' Israele alla nostra lotta non passerà. All''alba di un nuovo decennio è il momento che il mondo chieda conto ad Israele delle sue responsabilità per porre fine all'occupazione ". L'avvocato Michael Sfard, che rappresenta il villaggio in un ricorso contro il Muro ha aggiunto: "Un figlio è stato ucciso da un proiettile … una figlia soffocata dal gas, due manifestanti coraggiosi contro un regime che uccide gli innocenti e non indaga sui suoi criminali. Non resteremo passivi, noi non ci arrendiamo, noi non risparmieremo alcuno sforzo fino a quando i responsabili non saranno puniti. E lo saranno. " (1) Dunque la gente dei villaggi continua a ribellarsi e a lottare contro l'infame Apartheid assieme al movimento degli Anarchici Contro il Muro, assieme ad altri gruppi pacifisti israeliani e assieme agli attivisti solidali internazionali. Repressione delle lotte dal basso da parte di Fatah e Hamas Ma la repressione è anche interna. Quando le popolazioni della Palestina hanno cercato di manifestare a fianco delle sorelle e dei fratelli egiziani contro l'autocrazia di Mubarak, i poteri confliggenti di Fatah e Hamas, ma ugualmente antipopolari e liberticidi, hanno represso violentemente le mobilitazioni dal basso per la libertà e la giustizia sociale. La collaborazionista Autorità Palestinese ha manganellato e arrestato chi ha solidarizzato con la rivolta in Egitto perché il regime egiziano rappresenta da tempo un importante interlocutore per Israele nell'area mediorentale, Abu Mazen nega la libertà d'espressione alla gente della Cisgiordania. Allo stesso modo la polizia della fondamentalista Hamas ha arrestato e percosso i giovani che manifestavano in favore delle mobilitazioni egiziane anti-regime. Il fatto è che – al di là dei vari tatticismi politici – anche in Palestina chi governa teme le manifestazioni autorganizzate che mettono o possono mettere in vario modo in discussione l'ordine costituito, e le reprime. In un clima generale d'insorgenza sociale nel Maghreb e in Medioriente (con i dittatori Ben Alì e Mubarak cacciati dalle classi subalterne in rivolta), questi moti sociali potrebbero infiammare ulteriormente la situazione anche a Gaza e nella West Bank. Al centro degli interrogatori subiti dai manifestanti arrestati, la richiesta incessante e opprimente di informazioni sull' “identità” del nuovo acerrimo nemico di tutti i governi arabi: Internet e i social network, cioè stiamo parlando della paura da parte dei poteri costituiti che la gente possa comunicare dal basso e in autonomia infrangendo le barriere predisposte dai governanti, sviluppando opposizione e alternativa sociale. Omar Barghouti, analista politico palestinese indipendente e uno dei fondatori del Palestinian Campaign for the Academic & Cultural Boycott of Israel (Pacbi) - il boicottaggio accademico e culturale d'Israele - ha così tratteggiato la situazione fra Gaza e Cisgiordania: " Hamas e Fatah concordano in così poco, e quell'unico piccolo denominatore comune è la repressione del dissenso e la repressione della libertà” BDS (2) Il PSCABI (Palestinian Student Campain for the Academic Boycott of Israel) composto da studenti palestinesi, artisti, intellettuali, insegnanti, e individualità di varia collocazione politica, ha lanciato una campagna Anti-Apartheid a partire dal 7 marzo in tutto il mondo (IAW – Israeli Apartheid Week). Lo scopo della IAW è d' informare le persone riguardo la natura d' Israele come un sistema di Apartheid e costruire campagne di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni come parte del 12 movimento globale BDS, la campagna chiama ad una forte mobilitazione internazionale diretta, dal basso e diffusa. Lo storico israeliano antisionista Ilan Pappè recentemente ha scritto: “E' tempo ora per tutti quelli che hanno fatto sentire la loro voce DOPO il massacro di Gaza due anni fa, di farla sentire ADESSO, e cercare di evitare il prossimo”. Gli organizzatori della IAW sottolineano come l'esempio delle vicine rivolte sociali in Tunisia ed Egitto, alimentino la speranza perché possano aprirsi nuovi scenari di auto-emancipazione, di libertà e vita anche per le popolazioni palestinesi dei Territori Occupati e come queste insorgenze diano un grande slancio alle stesse campagne BDS. A Tel Aviv davanti all'ambasciata USA ci sono state di recente proteste da parte degli Anarchici Contro il muro e altri attivisti anti-apartheid per la complicità del governo a stelle e striscie con la politica israeliana degli insediamenti coloniali. Forte è stato l'appello, con striscioni, cartelli e slogan contro l'occupazione e per la campagna BDS! *(1)Notizie riprese dal sito degli Anarchici Contro il Muro: www.awalls.org e da A infos: http://www.ainfos.ca/it/ . Per sostenere gli Anarchici Contro il Muro: www.awalls.org (2)Boicottaggio,Disinvestimento e Sanzioni Altre fonti, si veda: www.peacereporter.net www.apartheidweek.org www.pacbi.org www.bdsmovement.net http://guerrillaradio.iobloggo.com/ http://www.bilin-village.org/ Internazionale Migranti: Messico paese di transito. I soprusi, gli abusi e la violazione dei più basilari diritti umani di Luca . Oaxaca: l'oppressione dei migranti Negli stati del sud della federazione Messicana si è sviluppato dal 2006 un movimento popolare di vaste dimensioni. Sulle pagine di questo giornale abbiamo già affrontato diversi aspetti di questo movimento e abbiamo descritto, almeno in parte, quali settori sociali, fra quelli che si situano più in basso nella scala dello sfruttamento, si sono mobilitati. Un aspetto che non è stato ancora analizzato riguarda invece la repressione dei migranti che attraversano gli stati del sud della federazione messicana per raggiungere i luoghi dove vi è più “ricchezza”, si intende luoghi dove gli individui trovano maggiori opportunità di vendere la propria forza lavoro. Oaxaca come paese di transito Il funzionario della Segreteria federale per la salute pubblica messicana ha dichiarato a mezzo stampa che il treno che porta i migranti dal centro america alla frontiera messicana con gli Stati Uniti d'America attraversa almeno 25 punti rossi, nei quali i migranti possono essere soggetti ad azioni criminali da parte delle bande malavitose. Le quattro rotte del treno che attraversa tutto il messico sono: Arriaga, Chiapas Lechería, Estado de México; Tenosique, Tabasco-Lechería, Estado de México; Lechería, Estado de MéxicoReynosa,Tamaulipas, e Lechería Estado de México-Nuevo Laredo, Tamaulipas. Nello Stato di Oaxaca sono state segnalate in particolare alcune località dove i migranti sono soggetti ai maggiori rischi, sempre secondo il governo, da parte di attacchi di bande criminali. Le località sono: Chauites, Juchitán de Zaragoza, Ciudad Ixtepec, e Matías Romero, dove lo scorso dicembre fu ucciso un migrante proveniente da El Salvador da un commando armato(1). La migrazione da El Salvador costituisce una delle percentuali più alte di migranti diretti verso gli Usa. Alimentata da decenni di guerra civile, instabilità economica e disastri naturali la migrazione verso gli Stati Uniti ha subito una vera e propria impennata. 1.1 milioni sono già residenti negli Usa, quasi un sesto della popolazione del Salvador, che ad oggi conta 5.7 milioni di abitanti. Considerando la notevole incidenza dei salvadoregni sulle percentuali di migranti diretti negli Usa dal Centro America riportiamo alcuni passi dell'intervista realizzata a Washington con un exguerrigliero del Fronte di Liberazione Nazionale Farabundo Martin, che per ragioni di sicurezza mantiene l'anonimato,ma che descrive dettagliatamente le angherie, i soprusi e le violenze subite nel cammino verso il nord. Nell'intervista racconta di trafficanti voraci, sequestri di massa, funzionari corrotti, elementi che segnarono costantemente i circa tremila chilometri percorsi. Tutto questo rende un quadro della profonda repressione, vessazione e violazione dei più elementari diritti umani a cui sono sottoposti i migranti che attraversano il Messico. Vanno inoltre ricordati episodi come il Massacro di 72 migranti a Tamaulipas e ed il sequestro di un gruppo di migranti nello stato di Oaxaca nel dicembre scorso. Ma descriviamo succintamente il viaggio del sotto-comandante . L'inizio del viaggio: fu il primo momento in cui subì il primo sopruso. “I poliziotti mi accusarono di voler andare dal Guatemala agli Stati Uniti e mi chiesero circa 20 dollari per lasciarmi prendere l'autobus diretto verso la frontiera con il Messico”. Dopo aver pagato varie “mazzette” a posti di blocco e polizia nel sud della federazione messicana, Chiapas e Oaxaca, il sottocomandante giunge a Città del Messico, dove si ferma per qualche ora, ma nell'Hotel dove alloggiava si imbatte in un “controllo” della polizia federale. Il migrante dichiara di aver pagato 2000 dollari ad un agente per essere accompagnato in un'altra città messicana più a nord vicino alla frontiera dove aveva appuntamento con un “coyote”. Giunto così al quinto giorno di viaggio inizia il passaggio della frontiera. “Alle 4.30 della mattina nuotavo nel fiume Bravo tenuto a galla dalla gomma di una ruota insieme ad altre due ragazze onduregne”. Superato il fiume, elusa la pattuglia di frontiera giunge ad una casa di un messicano, un “coyote”, che lo accompagna in una “Casa di Sicurezza”. Qui viene sequestrato per la prima volta e racconta: “c'erano 5 stanze piene di migranti; c'erano 15 persone in ogni stanza. C'erano messicani, guatemaltechi, onduregni, salvadoregni, brasiliani ed equadoregni” . “Un messicano arrivò alla stanza e disse che avremmo dovuto pagare 1500 dollari a testa, o altrimenti, non saremmo usciti da lì. Ci ordinò di chiamare le nostre famiglie negli Usa. Una ragazza onduregna disse che non aveva nessuno. Il trafficante le rispose che lui non era disposto a perdere del denaro. Le disse che avrebbe dovuto prostituirsi per pagarlo”. Infine, dopo 10 giorni di viaggio lo sequestrarono una seconda volta, sempre solo attraverso il pagamento di 1500 dollari lo lasciarono definitivamente libero, però il trafficante, che lo portò con una geep vicino a Arlington Heights, ad ovest di Los 13 Ángeles, gli chiese altri 500 dollari prima di rilasciarlo. Concludendo: il viaggio non solo era stato “un incubo”, come lo definisce l'intervistato, ma solo fino alla frontiera con gli Usa gli era costato più di diecimila dollari. (2) I sequestri sui treni Oltre ai viaggi “di routine” come quello descritto sopra si sono verificati vari sequestri di massa come nel caso dei morti di Tamaulipas(3) e nel dicembre scorso 40 persone sono state sequestrate anche nello stato di Oaxaca. Il treno merci, diretto al nord del messico è stato fermato e assaltato e 40 migranti sono stati sequestrati. La dinamica dei fatti presenta però diverse incongruenze e punti oscuri. Infatti, in un primo momento, unità di polizia e membri dell'esercito regolare hanno bloccato il treno che attraversava l'istmo di Oaxaca e hanno controllato i documenti a duecentocinquanta migranti. Una novantina vengono arrestati e gli altri fatti ri-partire con il treno merci. Alcuni testimoni riferiscono che gli stessi lavoratori della Compagnia Statale dell'Istmo di Tehuantepec, sembra che abbiano compiuto abusi e rivolto minacce ai migranti perché non li avrebbero ricompensati con adeguate somme di denaro. Quando il treno si rimette in marcia i funzionari della società dicono che a causa del denaro insufficiente potrebbero incorrere in problemi nel prosieguo del cammino. Ed infatti dopo circa mezz'ora il treno viene bloccato nuovamente, ma questa volta assaltato da un commando non identificato. I migranti vengono derubati e circa quaranta di loro sequestrati, fra i prigionieri, di cui ad oggi non si hanno notizie certe, vi sono anche dieci donne e un minorenne. Due giorni più tardi alcuni migranti, riusciti a sfuggire al controllo di polizia ed esercito e all'assalto del commando, raggiungono l'Albergo per migranti “Fratelli in Cammino”, nella città oaxaqueña “Ciudad Ixtepec”. Il direttore del centro, Padre Alejandro Solalinde, un noto difensore dei diritti umani dei migranti, informò le autorità e denunciò pubblicamente il sequestro. Da allora l'attivista ha ricevuto molteplici minacce di morte. (4) A partire da questi fatti moltissimi attivisti, sia di Ong che di collettivi autoorganizzati, hanno intensificato il loro lavoro dal basso in sostegno ai migranti. Contemporaneamente l'Alto Commissariato per i diritti umani delle Nazioni Unite ha domandato al governo oaxaqueño e a quello messicano di fare chiarezza sulla vicenda(5) . Internazionale Il lavoro delle Ong e dei gruppi autoorganizzati Nei primi giorni di gennaio varie ong hanno indetto una carovana dal titolo “passo dopo passo verso la pace”, sono partiti dal Chiapas e dopo un tragitto di 17 chilometri circa hanno concluso la marcia in una località oaxaqueña, Chahuaites. L'obiettivo degli attivisti era ottenere garanzie, da parte di istituzioni statali e federali, in merito al rispetto di basilari diritti umani anche per i migranti.(6) Se il governo messicano ha varato una legge dove riconosce la necessità di salvaguardare i diritti umani degli individui, indipendentemente se siano “illegali” o meno, questo è dovuto alle pressioni, blocchi stradali e manifestazioni susseguitesi anche in queste ultime settimane in Chiapas e Oaxaca in sostegno ai migranti(7) . L'intenzione iniziale del governo messicano era infatti introdurre forme di sanzione per il semplice fatto di dare aiuto a individui ”illegali”, oltre che a stabilire il reimpatrio immediato degli “indocumentados”. Ci ricorda niente? Chiaro che rispetto alla nostrana penisola le situazioni di degrado e i livelli di violenza raggiungono picchi maggiori, ma le volontà governative in merito ai flussi migratori si assomigliano. Infatti quello che ambedue i governi vogliono è continuare a reprimere e mantenere i livelli di guadagno che dal traffico di quelle persone ricavano, i governi come le organizzazioni criminali. Si pensi per esempio che, oltre alle mazzette ai funzionari di polizia o ai funzionari pubblici, ai guadagni dal traffico di esseri umani finalizzati alla prostituzione, anche gli stessi governi hanno veri e propri guadagni ufficiali. Come, ad esempio, riporta in un articolo JOSÉ SANTIAGO HEALY in merito alle carceri statunitensi solo per migranti, che costituiscono un vero e proprio affare per il governo e le aziende che le gestiscono: più arresti vengono compiuti maggiore è il ricavo(8). Insomma il governo si nasconde dietro solenni passaggi formali come l'approvazione di leggi avanzate in materia di rispetto dei diritti umani dei migranti (9), ma solo attraverso l'azione quotidiana degli attivisti sociali che militano in Organizzazioni non governative come in collettivi e gruppi non formali, si può mantenere alta l'attenzione sulla tragedia che colpisce ogni anno centinaia di migliaia di esseri umani. Concludendo solo negli ultimi sei mesi la commissione per i diritti umani americana riferisce che i sequestri in Messico sono di circa 240 persone. (1) L. Franco, “Seguridad Pública identifica 25 “puntos rojos” donde migrantes son víctimas de extorsiones y secuestros”, 21/01/2011.Fonte: http://www.cronica.com.mx/nota.php?id_nota=5557 48 (2) V. H. Michel, “Subcomandante Ramiro: “Peleé en la guerra desde los 12 años, pero pasar por México fue terrible”, 16/01/2011. “Fonte: http://www.msemanal.com/node/3517 (3)agn.gob.gt, “allan 72 migrantes muertos en T a m a u l i p a s ” , 2 5 / 0 8 / 2 0 1 0 . f o nte:http://agn.gob.gt/agn/index.php/components/co m _ a c y m a iling/js/index.php?option=com_content&view=article &id=417:hallan-72-migrantes-muertos-entamaulipas-&catid=59:america-latina&Itemid=188 (4)Telesur.net, “ONU pide a México celeridad y transparencia en investigación por secuestros de i n m i g r a n t e s ” , 2 1 / 0 1 / 2 0 1 1 . Fonte:http://www.telesurtv.net/secciones/noticias/8 7657-NN/onu-pide-a-mexico-celeridad-ytransparencia-en-investigacion-por-secuestros-deinmigrantes/ (5) un.org, “ONU pide a México investigar secuestro de migrantes”, 21/01/2001Fonte: http://www.un.org/spanish/News/fullstorynews.asp ?newsID=20103&criteria1=secuestro&criteria2=inmi grantes (6) E. Flores, “Suspenden paso del tren en Arriaga, Chiapas, hasta el próximo lunes “ , 0 7 / 0 1 / 2 0 1 1 . F o n t e : http://www.milenio.com/node/616253 (7)J. De Dios Garcia Davish, “Toman migrantes las calle en Chiapas”, 22/02/2011. sFonte: http://www.milenio.com/node/652508 (8) J. Santiago Healy, “Migrantes: un jugoso negozio”, 28/01/2011. Fonte: http://www.zeitgeist.com.mx/mexico/index.php?opti on=com_kunena&Itemid=21&func=view&catid=20& id=744#744 (9) D. Sempere, “Ley Solalinde”, 28/02/2011. Fonte: http://www.nssoaxaca.com/migracion/104general/63219-ley-solalinde Barbarie militariste: la Corea del Nord non ci sta! di Maco Era il 1953, quando le due coree ( nord, sud ) misero fine alle ostilità ,ma il 38° meridiano (linea che divide queste due nazioni) è sempre stato conteso tra di loro. Il 23 novembre 2010, con 50 colpi di artiglieria , i nordcoreani hanno raggiunto il bersaglio:ovvero l' isola sud coreana Yeonpyeong ospitante 600 marines e altre decine di militari di altri reparti, uccidendo 60 persone tra civili innocenti e militari, e distruggendo abitazioni. L'attacco è avvenuto il giorno dopo la “Houguk Exercise”, la principale esercitazione difensiva annuale sud coreana, che prevede la partecipazione di oltre 7000 militari. Inoltre sempre lo stesso giorno, Stephen Bosworth ( inviato speciale americano in Nordcorea) giungendo a Pechino ha dichiarato, dopo aver realizzato un dossier su Kim Sung (leader nord coreano), che la Corea del Nord ha uno sviluppato impianto di arricchimento dell'uranio (si pensa il migliore a livello mondiale), con il quale sarebbero in grado di costruire armi nucleari. Waschington ha parlato di un'aperta sfida, Seul si è detta “molto preoccupata” e Tokyo ha definito la situazione “totalmente inaccettabile”. La preoccupazione di Seul non si è fatta attendere, ha invitato i 6 paesi ( Russia , Cina , Giappone, Corea del Nord, Corea del Sud, Stati Uniti) a tornare ragionevoli, invocando un colloquio per calmare la situazione. Ma gia il 17 novembre 2010 il quotidiano nordcoreano Rodong Simmun aveva affermato che la Corea del Nord era pronta a negoziare in merito al problema del nucleare, e che il fallimento su tale problema era dovuto agli Stati Uniti e alla Corea del Sud, imputando a quest'ultima di aver stabilito unilateralmente il rilancio dei negoziati delle sei nazioni, osservando poi che l'obbiettivo della denuclearizzazione riguardava tutta la penisola coreana mentre erano stati imposti divieti ad una sola parte (Nordcorea), inoltre che c'era stata la decisione da parte di Seul di aderire al piano statunitense per la proliferazione militare. A questa notizia Kim Jong II ha risposto con la cancellazione dell'armistizio firmato nel 1953 dove venivano dichiarati gli accordi per la “PACE” tra i due stati . Intanto il premier giapponese Naoto Kan, ha riferito ai suoi ministri di “tenersi pronti ad ogni eventualità, in maniera da reagire a qualsiasi imprevisto”. Anche la Russia ha invitato ad evitare escalation. Il problema è che sia già in corso una escalation, dato che i contrasti tra i due stati asiatici stanno subendo accelerazioni. Il rischio e che possa scoppiare un'altra 14 guerra tra queste potenze regionali, con effetti devastanti anche a livello mondiale. L'attrito tra questi due paesi è ormai storico, basta pensare che la guerra tra di loro iniziò nel 1950 e terminò nel 1953, ma gli strascichi si fanno sentire ancora oggi, a tal punto che nel 2009 si temeva per un ennesimo scontro tra Seul e Pyongyang. Lo scoppio di una guerra a sfondo nucleare non sarebbe proprio da scartare, visto gli armamenti di cui dispongono le due nazioni,ma soprattutto i vari test nucleari che hanno svolto le due Coree. Per questo motivo l'Onu ha decretato nuove sanzioni per entrambi i due paesi. Intanto gli abitanti dei due stati stanno pensando di “salvarsi le penne” scappando dal proprio paese(ma soprattutto la Sudcorea, visto che nel Nord ci sono ferree leggi che non permettono l'espatrio) per paura o semplicemente per sicurezza (non stiamo ancora parlando di un esodo). Per ora i due leaders coreani si stanno ritrovando nuovamente, ma stiamo attendendo i vari sviluppi che emergeranno. Molti gruppi pacifisti stanno lottando per la pace definitiva tra le due fazioni, e anche noi come anarchici ci dobbiamo unire a questa lotta. Lottiamo contro tutte le guerre, contro la nuclearizzazione statalista e la tirannia militarista sui popoli del mondo. Genere 13 Febbraio: questioni di genere si ri-accende il dibattito Introduzione di Berni Il 13 febbraio 2011 si sono verificate in tutta la penisola manifestazioni che avevano come tema centrale la dignità delle donne, i diritti e la questione di genere più in generale. Al bieco tentativo di partiti politici come il Partito Democratico di strumentalizzare le lotte di donne, gay, lesbiche, transgender, prostitute e uomini che si oppongono alle logiche di dominio e di potere che costituiscono l'impianto su cui si fonda il patriarcato, sono nati in molte città spezzoni critici, dai quali sono emersi una molteplicità di punti di vista, riflessioni e percorsi di lotta. Pensiamo che la miglior risposta a chi cercava di piegare , per l'ennesima volta, una tematica, come quella di genere, agli interessi di una elite cercando di far passare il 13 febbraio come la crociata contro l'attuale presidente del loro governo, sia stata mettere in piazza una molteplicità di soggetti, punti di vista, forme di protesta e perseguire il tentativo di ri-accendere un dibattito orizzontale, pubblico e aperto. Questo percorso nella città di Pisa è iniziato con la manifestazione del 13 e sta continuando anche in vista dell'8 marzo, giornata nella quale si svolgeranno molteplici iniziative, organizzate da un comitato di donne e uomini, provenienti da orientamenti politici ed esperienze di mobilitazione anche molto distanti fra loro. Come contributo al dibattito pubblichiamo su questo numero di Kronstadt le riflessioni di un compagno che ha partecipato alla manifestazione pisana prendendo parte allo spezzone critico con gli ombrelli rossi. Disertiamo il patriarcato! Il discorso dei disertori di Lucha Riguardo alla manifestazione di oggi si è detto -giustamente- che era opportuno e necessario che anche gli uomini scendessero in strada, non solo come forma di solidarietà, ma anche e soprattutto per rivendicare un diverso modello di uomo. Vorrei riflettere su questo punto perché mi sembra che tocchi nel vivo il dibattito che ha preceduto questa giornata, e anche perché in generale non si parla abbastanza delle responsabilità e delle interazioni tra i maschi ed il maschilismo. Qualcuno ha ricordato che il maschilismo e la cultura di discriminazione che vige in italia non è stata portata da Berlusconi, ma piuttosto al contrario, che il premier è sintomo e degenerazione visibile di un fenomeno diffuso, che la commistione soldi-sesso-potere è antecedente e profondamente radicata nella società occidentale. Il potere maschile, o se vogliamo chiamarlo il sistema patriarcale, non è concentrato in un unica persona Berlusconi- ed in un unico luogo -Arcore-, né discende verticalmente da un'unica fonte. Se fosse così sarebbe semplice cambiare la società, rimuovendo all'origine la fonte e la concentrazione del potere maschile. Al contrario, il potere maschile è un potere diffuso, distribuito in tutti i rapporti sociali, col quale ci confrontiamo quotidianamente, costantemente, in ogni ambito della nostra vita, lavorativa, relazionale, culturale. Queste relazioni di potere non sono qualcosa di astratto, ma di estremamente concreto: quando parliamo di “cultura maschilista”, parliamo dei comportamenti delle persone, nel modo in cui parlano, in cui vivono, in cui si spostano, in cui lavorano, in cui amano, in cui fanno l'amore, in cui si uccidono. Ed in questi comportamenti, un ruolo lo svolgono -ovviamente- anche gli uomini. Non voglio dire che gli uomini -tutti gli uomini- siano un esercito od un corpo di polizia dispiegato sul territorio per controllare e reprimere la popolazione femminile, ma che di fatto agli uomini viene proposto -implicitamente- un patto. Ci viene chiesto di aderire ad un modello, ad un sistema di relazioni codificato, o se non si tratta di adesione, comunque ci viene richiesto di riconoscere che quello è il modello, quella è la maniera di comportarsi. In cambio ci vengono offerti dei privilegi, che in qualche modo controbilancino la perdita che abbiamo sofferto accettando di identificarci, se non di omologarci, ad un unico modello. Questo patto, questa adesione, non ci 15 viene proposta da Berlusconi, o da Lele Mora, o da Emilio Fede. Ci viene proposta dai nostri padri, dai nostri fratelli, dai nostri compagni di studio, dai colleghi, dai conoscenti. Dobbiamo renderci conto che agli uomini viene chiesto di sorvegliarci l'un l'altro, perché nessuna polizia politica potrebbe avere un controllo tanto diffuso nella società come ce l'ha il potere maschile. Il modello di uomo che propongono i quotidiani è degradante, è vero. Ma come è stato giustamente detto per le donne, non si tratta di recuperare un ruolo perduto, un bel tempo che fu, quando le famiglie erano felici e la società armoniosa, con gli uomini nelle fabbriche e negli eserciti e le donne nelle cucine e nei bordelli. Non si tratta di restaurare niente, perché non è quello il modello in cui ci vogliamo riconoscere. Se scendiamo in piazza oggi, non è per difendere una dignità di uomini offesa, ma per liberarci da quelle relazioni di omertà maschile nelle quali hanno provato ad arruolarci. Ci hanno armati e ci hanno istruiti per difendere un sistema, e quello che possiamo fare noi altro non è che deporre le armi, che vuol dire rinunciare ai privilegi che ci sono stati concessi -il che non è semplice né indolore. Diventiamo disertori del maschilismo, neghiamo la solidarietà che ci viene chiesta contro le donne, decidiamo che la nostra sessualità e la nostra affettività appartiene solo a noi stessi e non a qualche pubblicitario con manie velleitarie. Lucha (1) Tratto dal blog vogliamotuttopisa al link: http://vogliamotuttopisa.noblogs.org/post/2011/0 2/13/il-discorso-dei-disertori/ Comunicati No all’aeroporto della morte: NO HUB! di Kronstadt - redazione di Pisa Cos’è l’HUB? Per capire cosa sia questa struttura che muoverà migliaia di soldati ogni mese verso i teatri di guerra in lungo e largo per il pianeta, iniziamo da quei pochi documenti reperibili. Tra questi troviamo la nota aggiuntiva “allo stato della difesa per l'anno 2010” emessa dal fascista ministro della difesa La Russa, nel marzo di quest'anno. In questa nota si trova un'analisi del quadro internazionale che sostiene che per l'Italia e per l'Europa non ci sono attuali minacce esterne, ma non importa: è necessario andare anche a considerare equilibri più generali e per far questo è bene mantenere alto il livello di forza, ammodernamento e struttura delle Forze Armate del paese. Premesso che le forze armate non difendono i cittadini, ma gli interessi dello Stato e dei suoi amici, la domanda che sorge è: perché tanti soldi (circa 60 milioni di euro complessivi dicono fonti ufficiali) e perché tanta necessità di investire in questo settore che provoca morte e distruzione di interi popoli? Vediamo in concreto cosa c'è scritto nella nota in relazione all'Hub. Per quanto riguarda i programmi da realizzare nel corso del 2010 e i “Programmi aerei”, oltre ad un ampio ammodernamento di velivoli, si prevede un “programma di approvvigionamento mezzi, equipaggiamenti, sistemi, nonché realizzazione di infrastrutture operative e di supporto per la costituzione di un HUB aereo nazionale”. Per le spese relative ai programmi della componente aerea, tra cui il più importante appare quello dell'Hub aereo nazionale, è prevista per il 2010 una somma di 37,8 milioni di euro (solo nel 2010, ma la conclusione dell'Hub è prevista per il 2013). Interessante notare che nessuno dei signori che siedono in parlamento si è sognato di fare alcuna domanda al ministro in merito sulle ragioni di questo progetto. Infatti, chiunque voglia, può comprovare che non vi è stata nessuna interrogazione parlamentare in merito ad una richiesta di chiarimento sul progetto dell'Hub. Tutto questo successe a marzo, poi più niente fino ad il primo agosto 2010, quando l'ANSA diffonde questo comunicato: “Il portavoce della quarantaseiesima Brigata aerea, maggiore Giorgio Mattia ha reso noto che l'aeroporto militare di Pisa diventerà un Hub nazionale per le forze armate, annunciando che ''il maggio prossimo l'inizio dei lavori all'interno della base per renderla rispondente alle nuove esigenze entro il 2013, quando l'Hub diventerà operativo''. ''L'aeroporto Dall'Oro - spiega Mattia sarà quindi il punto di riferimento per tutte le forze armate che avranno bisogno di spostarsi per via aerea per tutte le missioni nei teatri internazionali. Durante i lavori di ampliamento dello scalo, realizzeremo anche una struttura ricettiva che potrà ricevere circa 30 mila uomini perfettamente equipaggiati, per un arco di tempo di almeno un mese''. Per concludere con la poca ma significativa rassegna di documenti abbiamo la gara d'appalto lanciata sul sito dell'areonautica militare del 3 agosto e che si chiudeva il 9 settembre. In questa vengono assegnate le forniture, per il neo costituendo hub militare nella città di Pisa, come si può leggere nella gara per sei milioni di euro. Fonte: http://www.aeronautica.difesa.it/gareA ppalto/Pagine/HubPisa.aspx Pochi giorni dopo, il primo cittadino Filippeschi ha immediatamente dichiarato che per lui era tutt'altro che un problema, anzi un onore ricevere l'Hub nella “sua” città; dello stesso parere il presidente della provincia Pieroni. Nel frattempo il progetto arriva in parlamento dopo la gara d'appalto e il 30 settembre viene meglio esposto il progetto che poi approda ad una commissione il 12 ottobre. Il 12 ottobre 2010 viene presentato alla Commissione difesa del Senato. Nella sua relazione, il sen. Luigi Ramponi (generale a riposo, membro del Pdl), rileva che la realizzazione di un polo aereo dedicato all'attività logistica e di supporto era un'esigenza assai sentita dalle Forze armate. Precisa che si tratterà di una struttura di grandi dimensioni, la quale dovrà essere adeguatamente connessa con le principali vie di comunicazione stradale, ferroviaria e navale, ed essere in grado di gestire contemporaneamente più operazioni di imbarco e sbarco di personale e materiali e le “vie di comunicazione” che interessano questi progetti, a Pisa, sappiamo che non mancano: base americana di camp Darby, Porto di Livorno, CISAM, Folgore etc… L'impatto sul territorio Riprendendo le parole pronunciate da un esponente di Medicina Democratica di Livorno scopriamo dati molto inquietanti. Prima di tutto si può riscontrare come l'aeroporto militare sia inserito in un contesto territoriale già fortemente inquinato e con impianti ad alto rischio d'incidente. Partiamo da Livorno troviamo le raffinerie, poi la piattaforma del rigassificatore off-shore in costruzione, poi a Pisa con la Saint Gobain e i famigerati capannoni di Camp derby. 16 Già troppi incidenti sono avvenuti nella nostra zona che hanno riguardato la presenza dell'esercito, della base nato e del segreto di Stato. La tragedia della Moby Prince, avvenuta il 10 aprile 1991 diretta in Sardegna si schiantò contro una petroliera, e non perché i marinai erano distratti, ma perché la petroliera non era segnalata adeguatamente e la ragione risiede nel fatto che si stavano svolgendo operazioni militari con alcune chiatte statunitensi di ritorno dalla guerra del Golfo, e quindi coperte da segreto militare. L'intento dell'hub è di meglio collegare il porto di Livorno, l'interporto di Guasticce, il canale dei navicelli, dove regione provincia di Pisa e Livorno e comuni stanno investendo per l'allargamento, e quindi di intensificare le manovre militari dal porto fino all'aeroporto. Possiamo ricordare, per fare un altro esempio, l'incidente del 24 settembre 2010, quando un'autocisterna di cherosene per l'aeroporto di Genova ne perse 5.000 litri tra le case: fortunatamente non vi fu innesco ma poteva essere un'altra Viareggio. Decine di cisterne simili per l'aeroporto di Pisa escono dalla raffineria tutti i i giorni Immaginate quanto si intensificherebbe anche questo traffico e conseguentemente il rischio. E' doveroso un accenno al rigassificatore che ha un potenziale davvero catastrofico. Se la commissione degli esperti internazionali non si esprime dicendo si o no al progetto, mantenendo un ruolo tecnico e non scendendo in quello politico, le dichiarazioni di questi esperti sono inquietanti. Sostengono che il rigassificatore potrebbe avere incidenti a catena e la società che lo gestisce non ha preso in considerazione questa ipotesi: cosa succederebbe se questa sequela di guasti arrivasse a coinvolgere le strutture in terraferma a partire dalle raffinerie dell'Eni? Se abbiamo detto che la perdita di una cisterna poteva provocare, se veniva Comunicati innescata, un'altra Viareggio non è facile immaginare le dimensioni, sicuramente devastanti, del danno che potrebbe provocare il rigassificatore. Tutto questo è collegato all'Hub in vari modi. Chi conosce quali tipi di armi sono contenute all'interno dei capannoni e dei “magazzini” di Camp Derby? Nessuno sa fino in fondo cosa c'è causa segreto militare e questo sarà la parola d'ordine di tutto quello che succederà anche dentro il nuovo aeroporto militare. L'altra conseguenza immediata che si può calcolare riguarda l'inquinamento e riprendiamo anche qui il prezioso aiuto del membro di Medicina Democratica di Livorno che ha comparato alcuni dati. Attualmente l'aeroporto di Pisa che vede un trafico di 185 voli al giorno (140 civili +45 militari)., e già inquina moltissimo, non vi sono però studi sulle emissioi chimiche attuali. Possiamo però fare un paragone con l'aeroporto di Venezia, simile per traffico (192 voli/giorno) e per farla breve (ma i dati sono pubblici) dieci minuti di volo di un aereo inquina come circa 2000 macchine in circolazione durante tutta una giornata. Quindi sul territorio ci uccidono già adesso, ogni giorno, con questi veleni, ma anche nei teatri di guerra verso cui saranno diretti i velivoli, carichi di armamenti, rifornimenti e soldati. Si calcola che da questo hub partano fino a trentamila uomini ogni mese armati fino ai denti. Inoltre gli aerei da carico potranno trasportare ulteriori strumenti di morte. Tanto per fare un esempio ricordiamo l'incidente del C130, che viene utilizzato per rifornire i caccia bombardieri in volo e che durante un'esercitazione, nel novembre 2009, è precipitato rischiando di provocare una strage e le armi che passeranno da Pisa aumenteranno in quantità visto che l' Hub risponde ad una nuova strategia della Nato come accordato nel summit di Lisbona del 2010. Un danno questa costruzione lo ha già fatto: il Sindaco altri loschi figuri stanno già facendo un tavolo tecnico per decidere in quale modo gentile radere al suolo 44 abitazioni dove vivono alcune famiglie che hanno la sfortuna di vivere dove dovrà sorgere questa utilissima struttura. Noi diciamo no all'Hub! Come cittadini e cittadine, ma anche come compagni e compagne anarchici e anarchiche, ci opponiamo a questo ennesimo attacco da parte dei detentori del potere politico ed economico che con le loro forze armate mettono in pericolo la vita e la salute di uomini e donne che vivono tanto nei territori dove loro decidono di impiantare strutture per le loro manovre di guerra come ovviamente, ed in quantità enormemente maggiore, in quei territori dove i loro caccia scaricheranno le loro bombe. Siamo contrari a questo progetto per pochi e semplici motivi siamo contrari a ogni tipo di guerra e quindi a tutti i progetti che servono a sostenerla, sia militarmente che logisticamente; contribuisce ad alimentare, a Pisa come in ogni altro luogo, una ideologia militare, gerarchica e autoritaria, dove c'è chi decide e chi subisce le decisioni altrui (così è andata anche per la costruzione dell'Hub Senza confini fisici e mentali di Kronstadt - redazione di Volterra I migranti si ribellano continuamente con forza e coraggio da dentro le istituzioni totali in cui vengono rinchiusi dallo stato italiano (come avviene in tutta Europa e nel Nord Africa), si ribellano, superando la disperazione, in nome della vita, della libertà e della dignità e testimoniano direttamente i soprusi e le violenze di ogni genere a cui sono sottoposti nei centri d'identificazione ed espulsione: delle terribili prigioni! I CPT-CIE* sono campi di concentramento diffusi in varie regioni italiane in cui vengono imprigionati i migranti per mesi, strutture statali di repressione securitaria e di negazione dei diritti umani - come affermato anche da organizzazioni umanitarie moderate come Amnesty International e Medici Senza Frontiere -, dalle quali donne e uomini la cui unica colpa è di essere poveri e “senza documenti”, vengono deportati verso torture, disperazione e morte. Si pensi a questo proposito agli scellerati accordi internazionali stipulati - sia dal governo Prodi che da 17 stesso); contribuisce ad alimentare la falsa idea che l'esercito è vicino alla popolazione, che la difende da chissà quali improbabili e invisibili nemici, quando sappiamo benissimo cosa significa un aeroporto militare: armamenti tenuti segreti per conto di altre nazioni e per supportare altre guerre che difendono solo interessi economici di chi le alimenta; costa un sacco di soldi (ma noi non lo vorremmo nemmeno gratis) quando la grande maggioranza dei cittadini non ha accesso o fa fatica ad accedere ai servizi essenziali o questi vengono barbaramente sacrificati (sanità, scuola, servizi sociali); inquina l'aria e l'acqua con agenti cancerogeni. Concludiamo appellandoci a tutti e tutte a finche si possa sviluppare uniti una lotta per ri-appropriarci dei nostri diritti come quello di vivere in un territorio non militarizzato e non inquinato . Crediamo che non sia giusto che gli spazi pubblici, cioè a utilizzo di tutti, vengano strappati alla collettività in funzione degli interessi dei potenti. Infatti chi se non le classi dirigenti degli stati trae vantaggio da un economia di guerra? Noi come individui cittadini e cittadine riteniamo necessario opporre a questi interessi di caste politiche ed economiche le esigenze e i bisogni delle comunità. In questo senso rifiutiamo ogni intervento schiacciato sull'opzione militare che coinvolga l'aeroporto di Pisa. Convinti che rispondere ai bisogni delle classi subalterne significhi opporsi ad ogni logica di potere che ha nel militarismo la sua faccia più cruda. Comunicati quello Berlusconi – con il dittatore libico Gheddafi sulla pelle degli immigrati cosiddetti “clandestini”, persone alla ricerca di una speranza di vita. In questo periodo fra Maghreb e Medioriente, Tunisia ed Egitto in primis, colpite dalla devastante crisi capitalistica globale, estese rivolte sociali sono scoppiate per la libertà e la giustizia sociale, dei tiranni sono stati cacciati. Si tratta di avvenimenti di grande rilevanza politica e sociale, che tendono a mettere in discussione assetti geopolitici dominanti da tempo strutturati e soprattutto avvenimenti che alimentano grandi speranze fra le classi subalterne di quei paesi e non solo. La situazione generale è comunque piena d'incognite e trame al vertice: i vari poteri hanno risposto come al solito con la repressione omicida e ora sono all'opera per riciclarsi, con le potenze neocolonialiste che stanno riparametrando il loro intervento ... Dalla Libia giungono notizie di massacri di civili in rivolta contro la dittatura del “colonnello”, massacrati da forze dell'esercito e della polizia fedeli a Gheddafi e da truppe mercenarie, giungono notizie di fosse comuni. Lo stato italiano e le aziende italiane da parecchi anni vendono vari armamenti alla stragista tirannia libica. I migranti che dalla sponda sud del Mediterraneo in questo periodo giungono sulle coste siciliane in fuga dalla violenza statale, dalla fame e dalla miseria, fuggono da condizioni di vita drammatiche di cui è corresponsabile l' “occidente democratico” foraggiatore di autocrazie. Molti sono morti e continuano a morire in mare vittime delle politiche criminali di clandestinizzazione e respingimento attuate dal governo italiano. I governi italici di tutti i colori, quali gendarmi della fortezza statal/capitalistica europea, spendono cifre altissime per militarizzare il mare e i territori, per edificare varie strutture totali d'internamento in cui rinchiudere gli immigrati e i profughi, mentre tante risorse potrebbero essere usate per i bisogni umani, sulla base di una vera accoglienza solidale. Ma non esistono poteri buoni! E' dal basso, dal crescere di una generale lotta di classe autodiretta e internazionalista, che sostenga le rivolte sociali sull'altra sponda del Mediterraneo e le ribellioni contro il razzismo e lo sfruttamento statalpadronali in Italia ed Europa, che unisca lavoratori nativi e immigrati, sgretolando xenofobia, individualismi regressivi e beceri nazionalismi, che è possibile conquistare diritti e libertà, che può affermarsi una vita migliore per tutti e tutte. Attraverso una solidarietà dal basso fra le persone, fuori e contro le logiche di potere, attraverso delle pratiche di mutuo appoggio progettuali, autonome ed espansive che superino confini fisici e mentali per costruire, insieme, percorsi di emancipazione. Delle trasformazioni sociali e culturali – rivoluzionarie - di tipo libertario e socialista sono sempre più urgenti davanti alla barbarie del decadente sistema capitalistico, contro la sua realpolitik sanguinaria e distruttiva. Tutto dannatamente complicato, ma tutto estremamente necessario! Gli immigrati, i profughi non sono “l'orda nemica” da controllare e respingere - come propagandano in maniera terroristica i media di regime del Belpaese “democratico”, che diffondono paure e alimentano fra la gente gli istinti peggiori d'intolleranza e discriminazione, rappresentando il razzismo di stato e diffuso come qualcosa di “normale e legittimo” - bensì donne, uomini e bambini alla ricerca di un futuro, nei quali riconoscere noi stessi! Occorre sconfiggere la “banalità del male”! Il movimento anarchico e libertario – sostenendo le rivolte e le lotte degli immigrati dentro i CIE e nelle piazze: per la vita, la libertà e la dignità! - assieme ad associazioni antirazziste e settori antagonisti, si sta opponendo in varie città d'Italia all'apartheid istituzional/padronale, al neofascismo e al retrivo leghismo attraverso la mobilitazione diretta e la controinformazione. Anche in Toscana si sono sviluppate nei mesi scorsi varie iniziative libertarie contro l'annunciata apertura di un CPT/CIE da parte della giunta regionale di centrosinistra. NO al razzismo di stato bipartisan! Il sistema concentrazionario statale vigente è uno strumento necessario al capitale per mantenere sotto ricatto i lavoratori immigrati al fine di poterli supersfruttare oltre che un business economico per ditte e cooperative di vario tipo (spesso cattoliche) nella costruzionegestione di tali strutture concentrazionarie. Per il potere politico i migranti sono un capro espiatorio su cui indirizzare il crescente malcontento per la crisi sociale determinata dal dis-ordine capitalistico. La strategia delle élites dominanti è: internamenti in strutture totali e guerra fra poveri: dividi et impera! E attraverso le cosiddette “politiche per la sicurezza” si determina sempre più un generale stato di polizia. L' apartheid istituzionale nei confronti dei lavoratori immigrati e dei profughi, è stato iniziato dal centrosinistra con la legge Turco/Napolitano (CPT) e il voto favorevole in parlamento anche di Rifondazione Comunista, Niki Vendola compreso (ora novello “leader alternativo” di SEL) e proseguito dal centrodestra con l'ultrarazzista legge Bossi/Fini e con normative successive (CIE). Il centrosinistra, PD e soci, apparato politico/affaristico liberalconfindustriale che strizza l'occhio al leghismo razzista, continua – al di là di meschine sceneggiate - a sostenere l'impianto di questo sistema infame. E nell'attuale situazione di fibrillazione nell'area del Mediterraneo il reazionario e fascistoide governo Berlusconi – con una opposizione istituzionale complice, al di là 18 di ipocriti distinguo di facciata - sta battendo cassa all'Unione Europea per avere cospicui fondi da utilizzare per ampliare il sistema concentrazionario e incrementare ulteriormente l'affarismo che specula sulla vita di migliaia di persone. Opposizioni subalterne E' funzionale al barbaro sistema dominante fare oggi dell' “antirazzismoantifascismo” – come fa un'area della sinistra partitica e di stato intrisa di ipocriti politicismi e di feticismi legalitari ( SEL, Rifondazione, PDCI ecc...) - senza mettere al centro con chiarezza, determinazione e coerenza, come netta scelta di campo, senza fare sconti a nessuno, la questione della lotta risoluta contro il sistema concentrazionario istituzionale dei CPTCIE, per il suo smantellamento. Anzi a volte continuando ad appoggiarlo esplicitamente, vedi Rifondazione al governo regionale in Toscana, e comunque restando subalterni ad un potere statale bipartisan classista e liberticida che produce tutto ciò. Anche per quanto concerne l'antifascismo: le logiche sottostanti al sistema dei campi di concentramento CPT-CIE sono lo stagno putrido in cui sguazzano e si alimentano i fasci di tutte le risme, vecchi e nuovi. *Centri di Permanenza Temporanea (CPT) e Centri d'identificazione ed espulsione (CIE) Fonti: fortresseurope.blogspot.com http://www.ainfos.ca/it/ www.anarkismo.net http://it.wikipedia.org/wiki/Centro_di_identificazi one_ed_espulsione www.peacereport.net senzafrontiere.noblogs.org http://www.umanitanova.org/ www.autistici.org/macerie/ Comunicati Manifesto dei giovani di Gaza di Gaza Youth Breaks Out Vaffanculo Hamas. Vaffanculo Israele. Vaffanculo Fatah. Vaffanculo Onu. Vaffanculo Unrwa. Vaffanculo Usa! Noi, i giovani di Gaza, siamo stufi di Israele, di Hamas, dell'occupazione, delle violazioni dei diritti umani e dell'indifferenza della comunità internazionale! Vogliamo urlare per rompere il muro di silenzio, ingiustizia e indifferenza, come gli F16 israeliani rompono il muro del suono; vogliamo urlare con tutta la forza delle nostre anime per sfogare l'immensa frustrazione che ci consuma per la situazione del cazzo in cui viviamo; siamo come pidocchi stretti tra due unghie, viviamo un incubo dentro un incubo, dove non c'è spazio né per la speranza né per la libertà. Ci siamo rotti i coglioni di rimanere imbrigliati in questa guerra politica; ci siamo rotti i coglioni delle notti nere come il carbone con gli aerei che sorvolano le nostre case; siamo stomacati dall'uccisione di contadini innocenti nella buffer zone, colpevoli solo di stare lavorando le loro terre; ci siamo rotti i coglioni degli uomini barbuti che se ne vanno in giro con le loro armi abusando del loro potere, picchiando o incarcerando i giovani colpevoli solo di manifestare per ciò in cui credono; ci siamo rotti i coglioni del muro della vergogna che ci separa dal resto del nostro Paese tenendoci ingabbiati in un pezzo di terra grande quanto un francobollo; e ci siamo rotti i coglioni di chi ci dipinge come terroristi, fanatici fatti in casa con le bombe in tasca e il maligno negli occhi; abbiamo le palle piene dell'indifferenza da parte della comunità internazionale, i cosiddetti esperti in esprimere sconcerto e stilare risoluzioni, ma codardi nel mettere in pratica qualsiasi cosa su cui si trovino d'accordo; ci siamo rotti i coglioni di vivere una vita di merda, imprigionati dagli israeliani, picchiati da Hamas e completamente ignorati dal resto del mondo. C'è una rivoluzione che cresce dentro di noi, un'immensa insoddisfazione e frustrazione che ci distruggerà a meno che non troviamo un modo per canalizzare questa energia in qualcosa che possa sfidare lo status quo e ridarci la speranza. La goccia che ha fatto traboccare il vaso facendo tremare i nostri cuori per la frustrazione e la disperazione è stata quando il 30 Novembre gli uomini di Hamas sono intervenuti allo Sharek Youth Forum, un'organizzazione di giovani molto seguita con fucili, menzogne e violenza, buttando tutti i volontari fuori incarcerandoni alcuni, e proibendo allo Sharek di continuare a lavorare. 19 Alcuni giorni dopo, alcuni dimostranti davanti alla sede dello Sharek sono stati picchiati, altri incarcerati. Stiamo davvero vivendo un incubo dentro un incubo. E' difficile trovare le parole per descrivere le pressioni a cui siamo sottoposti. Siamo sopravvissuti a malapena all'Operazione Piombo Fuso, in cui Israele ci ha bombardati di brutto con molta efficacia,distruggendo migliaia di case e ancora più persone e sogni. Non si sono sbarazzati di Hamas, come speravano, ma ci hanno spaventati a morte per sempre, facendoci tutti ammalare di sindromi post-traumatiche visto che non avevamo nessuno posto dove rifugiarci. Siamo giovani dai cuori pesanti. Ci portiamo dentro una pesantezza così immensa che rende difficile anche solo godersi un tramonto. Come possiamo godere di un tramonto quando le nuvole dipingono l'orizzonte di nero e orribili ricordi del passato riaffiorano alla mente ogni volta che chiudiamo gli occhi? Sorridiamo per nascondere il dolore. Ridiamo per dimenticare la guerra. Teniamo alta la speranza per evitare di suicidarci qui e adesso. Durante la guerra abbiamo avuto la netta sensazione che Israele voglia cancellarci dalla faccia della Terra. Comunicati Negli ultimi anni Hamas ha fatto di tutto per controllare i nostri pensieri, comportamenti e aspirazioni. Siamo una generazione di giovani abituati ad affrontare i missili, a portare a termine la missione impossibile di vivere una vita normale e sana, a malapena tollerata da una enorme organizzazione che ha diffuso nella nostra società un cancro maligno, causando la distruzione e la morte di ogni cellula vivente, di ogni pensiero e sogno che si trovasse sulla sua strada, oltre che la paralisi della gente a causa del suo regime di terrore. Per non parlare della prigione in cui viviamo, una prigione giustificata e sostenuta da un paese cosiddetto democratico. La storia si ripete nel modo più crudele e non frega niente a nessuno. Abbiamo paura. Qui a Gaza abbiamo paura di essere incarcerati, picchiati, torturati, bombardati, uccisi.Abbiamo paura di vivere, perché dobbiamo soppesare con cautela ogni piccolo passo che facciamo, viviamo tra proibizioni di ogni tipo, non possiamo muoverci come vogliamo, né dire ciò che vogliamo, né fare ciò che vogliamo, a volte non possiamo neanche pensare ciò che vogliamo perché l'occupazione ci ha occupato il cervello e il cuore in modo così orribile che fa male e ci fa venire voglia di piangere lacrime infinite di frustrazione e rabbia! Non vogliamo odiare, non vogliamo sentire questi sentimenti, non vogliamo più essere vittime. BASTA! Basta dolore, basta lacrime, basta sofferenza, basta controllo, proibizioni, giustificazioni ingiuste, terrore, torture, scuse, bombardamenti, notti insonni, civili morti, ricordi neri, futuro orribile, presente che ti spezza il cuore, politica perversa, politici fanatici, stronzate religiose, basta incarcerazioni! DICIAMO BASTA! Questo non è il futuro che vogliamo! Vogliamo tre cose. Vogliamo essere liberi. Vogliamo poter vivere una vita normale. Vogliamo la pace. E’ chiedere troppo? Siamo un movimento per la pace fatto dai giovani di Gaza e da chiunque altro li voglia sostenere e non si darà pace finché la verità su Gaza non venga fuori e tutti ne siano a conoscenza, in modo tale che il silenzioassenso e l'indifferenza urlata non siano più accettabili. Questo è il manifesto dei giovani di Gaza per il cambiamento! Speriamo solo che tu - sì, proprio tu che adesso stai leggendo questo manifesto!- ci supporterai. Per sapere come, per favore lasciate un messaggio o contattaci direttamente a: Vogliamo essere liberi, vogliamo vivere, vogliamo la pace. LIBERTA' PER I GIOVANI DI GAZA! Inizieremo con la distruzione dell'occupazione che ci circonda, ci libereremo da questo carcere mentale per riguadagnarci la nostra dignità e il rispetto di noi stessi. Andremo avanti a testa alta Kronstadt - 90 anni fa io kronstadt l’ho sempre festeggiata il 18 marzo! anche quando ci opporranno resistenza. Lavoreremo giorno e notte per cambiare le miserabili condizioni di vita in cui viviamo. Costruiremo sogni dove incontreremo muri. Novantanni fa anni fa veniva repressa una rivoluzione socialista in cui si manifestò un ideale libertario, anticentralista e federalista. Era la rivoluzione di Kronstadt. Nella primavera del 1917 venne proclamata la nascita della "Repubblica di Kronstadt", che già chiariva l’orientamento anticentralista e federalista dei libertari della cittadina. Il 1° marzo del 1921 la rivoluzione di Kronstadt prese una direzione libertaria, opponendosi tenacemente al potere bolscevico, in favore di un socialismo più umano e meno autoritario. Il regime sovietico non gradì questo autonomismo decisionale e sin dal 1918 cominciò a mostrare il proprio volto autoritario, con la “bolscevizzazione” dei soviet, in virtù della quale vennero espulse tutte le componenti di opposizione. Il 18 marzo 1921, il giorno in cui veniva celebrato il 50° anniversario della Comune di Parigi, venne sancita dai bolscevichi la caduta della cittadella, ponendo fine al sogno di un socialismo libertario, espressione del popolo e non dei partiti e della burocrazia. si vede che sei stato un Trotskista! di Grillo 20 (Da Anarchopedia) Rubriche Scienza e anarchia: Evoluzionismo versus Creazionismo di Marcello Evoluzionismo versus creazionismo La maggiore agenzia demoscopica statunitense, la Gallup, periodicamente dal 1982 effettua un sondaggio in merito alle “vostre convinzioni riguardo l'origine e l'evoluzione dell'uomo”. Tale inchiesta include nelle opzioni di scelta la frase: “Dio ha creato l'uomo circa nella stessa forma di oggi in un momento compreso negli ultimi diecimila anni”. Resto basito a verificare la percentuale raggiunta da questa preferenza: il 44% (nel 2008). Quindi, il 44% degli statunitensi (o sarebbe meglio dire tale campione censito) nega l'evoluzione e questo implica che secondo tale fascia di popolazione il genere umano (ma, estendendo il concetto, lo stesso mondo) non ha più di 10000 anni ed è quindi nella stessa “forma” in cui lo vediamo oggi. La situazione non è molto diversa in Europa. Da un sondaggio condotto da Eurobaromentro nel 2005 si evince che larghe fasce di popolazione hanno delle convinzioni pazzesche in merito all'uomo e alla sua evoluzione. Riporto solo alcune cifre. All'asserzione: “L'uomo, quale lo conosciamo oggi, si è evoluto da specie animali precedenti” abbiamo che la percentuale più alta di veridicità su questa affermazione tocca l'85% in Islanda, il 79% in Gran Bretagna, il 68% in Italia, il 55% in Grecia e solo il 27% in Turchia. La situazione diventa più allarmante se consideriamo le risposte di veridicità all'affermazione: “I primi uomini sono vissuti nella stessa epoca dei dinosauri”, il 28% in Gran Bretagna, il 29% in Spagna, il 32% in Italia, il 42% in Turchia. Il 37% degli Olandesi pensa che Adamo ed Eva siano stati dei personaggi storici. Da queste percentuali non possiamo che trarre una conclusione: la quantità di persone che crede nel creazionismo è in forte aumento e tale aumento ha indotto nel 2007 il Consiglio d'Europa ad approvare una specifica risoluzione con cui ha invitato gli stati membri ad “opporsi fermamente” all'insegnamento nelle scuole del creazionismo come disciplina scientifica. Vediamo di fare un po' di chiarezza. Prima del testo “L'origine delle specie” (1859) di Charles Darwin gli scienziati concordavano con una concezione tradizionale, che in particolar modo in Occidente vedeva nella dottrine cristiana ed ebraica i suoi capisaldi, per cui il mondo è stato creato improvvisamente da una entità superiore nelle stesse condizioni così come oggi lo vediamo. Per tale credenza, le caratteristiche del mondo non sono mai mutate nel passato né cambieranno in futuro fino al giorno della distruzione. Nelle scienze naturali questa concezione si traduce in una teoria per cui tutte le specie (termine creato da Linneo e ancora oggi utilizzato) sono fisse e immutabili e quindi numerabili, o meglio classificabili, tante quante furono create dall'ente supremo. Tale teoria supportata da Linneo prevede che l'ente 21 creatore abbia un'idea astratta immutabile di ciascuna specie che si concretizza e si riproduce immutata nel tempo. Il primo scienziato ad opporsi a questa teoria è stato Jean-Baptiste Lamarck; il primo a parlare apertamente di cambiamento naturale di una specie e non di miracolo o di creazione. Egli nella sua pubblicazione “Philosophie zoologique” (1809) afferma che gli organismi, così come si presentano, sono il risultato di un processo graduale di modificazione che avviene sotto la pressione delle condizioni ambientali. Secondo la teoria lamarckiana, ancora oggi sostenuta da diversi scienziati, la variazione (o meglio l'evoluzione) degli organismi è dovuta a due principi: il primo è l'azione che l'ambiente esercita su di essi e questa azione produce variazioni capaci di trasmettersi ereditariamente ai discendenti (ereditarietà dei caratteri acquisiti), il secondo è quello di una tendenza al miglioramento, progresso insito secondo Lamarck in ogni organismo. L'impostazione teorica di Lamarck, rapporto organismo-ambiente, non si limita a descrivere i fatti ma a interpretarli. Darwin ebbe subito dei dubbi sull'azione diretta dell'ambiente, sulla variabilità e l'ereditarietà dei caratteri acquisiti. Le differenze fondamentali dell'evoluzionismo di Darwin rispetto a quello di Lamarck constano dei seguenti punti: a) la riproduzione di una specie e la disponibilità delle risorse ambientali b) la variabilità di un tipo all'interno della Rubriche stessa specie (una delle caratteristiche fondamentali per l'evoluzione) c) la lotta per l'esistenza e la sopravvivenza del più adatto rispetto a questa lotta d) la selezione naturale. La teoria di Darwin è prettamente scientifica, introduce solo fenomeni naturali osservabili e quindi misurabili ed esclude qualsiasi tipo di volontà, forza o impulso creatore. L'evoluzionismo di Darwin scatenò subito polemiche con lo status quo, con la Chiesa e con molte altre istituzioni. I suoi sostenitori sin dall'inizio furono principalmente atei o agnostici (ad esempio Thomas Huxley) o rivoluzionari del pensiero come Karl Marx o Friedrich Engels che ne criticarono però l'impostazione malthusiana. Infatti, le tesi di Thomas Malthus, esposte nel suo “Saggio sul principio della popolazione e la sua influenza sul miglioramento futuro della società” e che influenzarono molto Darwin, affermavano che con l'aumento demografico della popolazione i mezzi di sussistenza disponibili si sarebbero drasticamente ridotti, come conseguenza il tasso di crescita andrebbe strettamente controllato e i poveri sono costretti ad essere dei “reietti” della società; tale idea cozzava quindi con qualsiasi politica di seria assistenza ai poveri e praticamente assumeva come dato di fatto una inevitabile divisione della società in classi. Darwin applicò la sua teoria evoluzionistica e la selezione naturale alla specie “uomo” ed espose nell'opera “Origine dell'uomo e la selezione sessuale” (1871) ulteriori idee che sconvolsero in primo momento l'Inghilterra vittoriana e poi il mondo intero. Secondo la teoria dell'evoluzione, i membri dello stesso gruppo si somigliano perché si sono evoluti da un antenato comune, nel caso dell'uomo dalle scimmie. L'evoluzionismo darwiniano è cambiato molto con il passare del tempo, aggiungendo al suo interno elementi della teoria dell'ereditarietà di George Mendel e di gran parte della teoria genetica, si parla in questo caso di neo-darwinismo. Dalla fine degli anni '70 una recrudescenza creazionista (o come preferiscono chiamarla i neodarwinisti neo-creazionista o negazionista) si sta sempre più affermando, come precisavo all'inizio dell'articolo. Tali idee mettono in dubbio le spiegazione meccanicistica e naturalistica dello sviluppo della vita che escludono qualsiasi intervento non creatore, soprattutto dopo l'evidenza delle scoperte paleontologiche. È forviante pensare che anche tra gli scienziati i negazionisti siano pochi, perché non è così. Il nuovo creazionismo propone la creazione improvvisa della vita sulla terra meno di 10000 anni fa. Uomini e scimmie hanno antenati comuni. Strati geologici sono sorti soprattutto in occasione di una inondazione globale del pianeta, quello che viene individuato come diluvio universale. In un primo momento questi adepti accettavano la “teoria della terra antica”, sostanzialmente il rifiuto dell'evoluzione la credenza in un dio pur supportando le scoperte geologiche, ultimamente sono sostenitori della “teoria della terra giovane” una visione ortodossa della Bibbia e della Genesi; secondo questa teoria la terra non avrebbe più di 6500 anni. I neo-creazionisti rimandano spesso a tessere mancanti di un puzzle (la natura), ai cosiddetti anelli mancanti e affermano che la complessità degli organismi viventi è 22 troppo grande per poter dire che sono sorti attraverso l'evoluzione. L'evoluzione invece procede a piccoli passi; ma con molti piccoli passi e con continui nuovi tentativi molto è possibile: tutta quanta la ricca molteplicità della vita sul nostro pianeta. Una immensa mole di falsità ci sta inondando. È chiaro che la scienza procede per prove, controprove, teorie e falsificazione di queste ultime. Nessuno dovrebbe avere un atteggiamento fideistico nella scienza ma le assurdità dei creazionisti sono sotto gli occhi di tutti e tutte. L'evoluzione è oramai un fatto e cedere alle pulsioni creazioniste condurrebbe a un periodo di barbarie senza fine in cui la religioni, mistificazioni nate per tenere sotto controllo il popolo, la farebbero da padrone, in cui molte ideologie politiche di stampo sociale sarebbero inevitabilmente cancellate. Preoccupante è anche la nascita di teorie “teisticoevoluzioniste” in cui dio avrebbe scelto l'evoluzionismo come pratica creazionista. Come anarchici e anarchiche non possiamo in alcun modo sostenere teorie creazioniste e oscurantismi di sorta ma dobbiamo cercare forme di libero pensiero lontane da stati e dei. Bibliografia Helena Cronin, Il pavone e la formica. Selezione sessuale e altruismo da Darwin ad oggi, Il Saggiatore Charles Darwin, L'origine della specie, Bollati Boringhieri Charles Darwin, L'origine dell'uomo e la scelta sessuale, Rizzoli Richard Dawkins, Il gene egoista, Zanichelli Richard Dawkins, Il più grande spettacolo della Terra. Perché Darwin aveva ragione, Mondadori Richard Dawkins, L'orologiaio cieco, Rizzoli Giuseppe Di Siena, Biologia, darwinismo sociale, marxismo, in Critica Marxista, n.6, 1972, p. 241253 John C. Greene, La morte di Adamo. L'evoluzionismo e la sua influenza sul pensiero occidentale, Feltrinelli Julian Huxley, Idee per un nuovo umanesimo, Feltrinelli Donald C. Johanson, A. Edey Maitland, Lucy. Le origini dell'umanità, Mondadori Thomas R. Malthus, Saggio sul principio di popolazione, Einaudi Ernst Mayr, L'evoluzione delle specie animali, Einaudi George Mendel, Le leggi dell'ereditarietà, Rizzoli Jacques Monod, Il caso e la necessità, Mondadori Giuseppe Montalenti, Charles Darwin, Riunti Giuseppe Montalenti, L'evoluzione, Einaudi Bertrand Russell, Scienza e religione, Longanesi Rubriche Filosofia e anarchia: Krisis di Gianluca Quanto il bombardamento dei mass media sia influente la percezione della realtà non è di per sé evidente perché, appunto, anche il bombardamento stesso fa parte dell'influenza. Questo vale non solo per massime tipiche del linguaggio giornalistico e televisivo per cui “se non è in televisione non esiste”, oppure “ripeti tante volte una bugia finché non diventa vera” (questa massima a dire il vero già conosciuta ai tempi di Pericle nel V secolo a.C), ma in modo meno invasivo come usare un termine tanto spesso da farlo entrare nel linguaggio comune facendo contemporaneamente perdere anche la capacità di analisi nei confronti di esso: quando un termine lo si usa regolarmente si suppone di conoscerlo bene, di sapere cosa significa e quindi di controllarne gli effetti nel contesto in cui viene speso e usato. Krisis Tra questi termini uno attira le nostre attenzioni più di altri, in questi giorni, per l'abnorme uso che se ne fa: crisi. Tutto è crisi: crisi economica (che poi è il tema di questo di numero di marzo 2011 di Kronstadt), crisi politica, crisi dei valori, crisi esistenziale etc. Qualsiasi situazione che non si presenta per come è immaginata o prevista è una situazione critica, e quindi ogni situazione è critica visto che è piuttosto utopico che l'essere coincida con il dover-essere. Ma forse in questo senso siamo anche troppo ottimisti: immaginare come debba essere una situazione è operazione che richiede una certa dietrologia che nella vita quotidiana raramente ci poniamo. Il doveressere è quindi piuttosto una eventualità che ci viene suggerita da fonti esterne, con toni molto persuasivi per come questa si dovrebbe realizzare, e sempre in termini molto vaghi e poco analitici (in modo da non doversi fare troppe domande). C'è una crisi economica? Quali sono le cause? Perché tutti hanno pronte (a parole) le soluzioni mentre raramente ci vengono offerti gli strumenti di analisi? La risposta è fin troppo ovvia, se si ragiona in termini politici, ma questa è una rubrica di filosofia e allora proveremo a dare una risposta analitica: il sospetto è che la critica non deve essere fatta neppure allo stesso significato della parola crisi. La crisi, infatti, come tutte le parole che incutono terrore, insicurezza, instabilità invocano protezione, volontà di sottomissione a chi qualche soluzione (facile) può offrirla. Guerre, carestie e peste vi colgano Nella storia la parola crisi di solito si associa a un cambiamento, di solito lungo, o una rottura con un paradigma culturale o scientifico precedente (le cosiddette “ere critiche” descritte dall'utopista socialista Saint Simon) per approdare ad una nuova era di felice accettazione di nuovi principi. Si parla ad esempio di “Crisi del 300”, per parlare di un periodo lungo un secolo nell'immaginario collettivo infestato di peste, carestie e guerre devastanti. A parte che le guerre erano più o meno nella “norma” della storia dell'uomo precedente e successiva (sia in quantità che in qualità), e che peste e carestia normalmente a queste si accompagnano, è certamente più interessante vedere quale cambiamento in atto nel corso di questo secolo ha determinato il bisogno di considerarlo una crisi così eccezionale. Crisi significa infatti “separazione”, “piega” e di solito le pieghe non si prendono da sole ma sono determinate da decisioni e scelte. Questa crisi in particola non è difficile vederla come un effetto, lungo, di un cambiamento dell'economia europea che passando da una cultura di sussistenza o autoconsumo a una sviluppata sugli scambi commerciali e sull'agricoltura intensiva ha reso città e campagne dipendenti dagli scambi stessi e quindi soggetta, in nome di più alti profitti per chi gli scambi li gestisce, a carestie e malattie conseguenti. La crisi del 300 può, in quest'ottica, essere vista come un “semplice” adatta- mento a una mutata condizione economica che non nasce per caso e come ogni adattamento qualcuno ci perde qualcosa, qualcuno ci guadagna. La bolla speculativa. La crisi economica odierna è stata accompagnata, nei primi mesi in cui se ne sentì parlare, ad una espressione che suonava più o meno così: “il capitalismo non sarà più come prima”. Adesso la sentiamo un po' meno (segno che a qualcuno il capitalismo continua a piacere anche com'era prima), ma è stato un barlume di lucidità che sembrava accorgersi che forse una crisi economica (cioè l'incapacità di un sistema produttivo di produrre come e quanto ci si aspetta che debba fare sulla carta o nelle speranze di chi ci investe, sia di capitale che di lavoro duro) non nasce per caso ma si può, spesso troppo banalmente, far derivare da scelte precise, facilmente individuabili nel sistema produttivo stesso che le produce. Molto più complicato, in apparenza, ma preferibile, cercare sempre cause esterne, contingenti, imprevedibili e quindi bisognose di interventi di chi sulla reale causa delle crisi ci mangia: invasioni straniere, religioni fondamentaliste, perversioni culturali e politiche di chi osa criticare anche solo chiedendosi, questa crisi, che da tutte le parti viene urlata, da dove la prossima volta arrivi. C'è grossa crisi E se l'analisi di un problema si vuol ben nascondere, basta parlarne, tanto, infilandolo ovunque e soprattutto in contesto dove non ci stia a fare niente. Il suo pronunciarlo sempre e comunque, anche in situazioni quotidiane, reali, facilmente risolvibili e con piccole decisioni ben prese, farà credere che in fondo, crisi vere e proprie, nemmeno esistono ma sono solo il frutto dell'immaginazione delle nostre menti bacate di consumatori insoddisfatti. 23 Fumetto Chi di capitalismo ferisce chi di capitalismo ferisce di Luchetti, Fontana hacked by thirdman prato , ultima frontiera delle colline orientali . citta’ miraggio di molti e loschi uomini senza scrupoli dagli occhi a mandorla! boia che palle! se sapevo che era cosi’ noioso arruolassi nelle camicie verdi andavo a gioca’ a risiko col mi nipote! per difende cosa poi? quattro sarti scalcinati che colla scusa dei cinesi non sanno piu’ cosa fa’ pe’ vende! ma da oggi i suoi onesti e laboriosi cittadini non sono piu’ soli, un uomo solo e’ pronto a difenderli! buongiorno caro miliziano razzista! e’ permesso? vengo dalla grande cina e vi porto giusto un po’ di lavoro anche a voi bifolchi, che voglia di niente fare avete! voglia di fare niente a chi? io sto lavorando, ‘un lo vedi? proteggo i confini della mia patria! l’hai pagata la dogana? o credi di poter venire qui a fare i porci comodi tua? guarda che a infinocchiare i poveracci col miraggio de’ soldi facili s’e’ inventato noi! ahio, vedo vedo! ecco, bravo! fai a far danni con il tuo sistema produttivo primitivo altrove, qui non e’ piu’ aria! dogana? credevo che qui il mercato fosse libero come ci avete insegnato ad approfittarne proprio voi! ma io le fabbriche le apro in romania e vi vado nel culo! a noi ci basta ave’ la scusa per lamentacci della grisi! boia, vi si deve insegna’ sempre tutto! 24