PDF - Kronstadt

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marzo 2011
Crisi
Il concetto, la categoria di crisi è più che
mai presente nel “discorso” politico
contemporaneo. Oggi siamo dentro a
quella che è stata definita dagli “esperti”
come la più grande crisi economica degli
ultimi ottant'anni, con assetti dominanti
consolidati che ora tenderebbero a
ridislocarsi a livello globale.
Detto ciò per il potere statal/capitalistico
la crisi è una occasione per spingere
l'acceleratore sullo sfruttamento dei
dominati, sul militarismo che massacra i
popoli e sulla predazione delle risorse
naturali che determina il disastro ecologico/sociale.
Il sistema dominante – con le sue
i n s a z i a b i l i s p e c u l a z i o n i a f f a r i s t ico/finanziarie – produce oggettivamente
ed endemicamente la crisi e poi quando
questa arriva la utilizza per accumulare
sempre maggiori profitti sulla pelle di
moltitudini operaie.
Il potere è globale, la crisi è globale, la
barbarie è globale e montante.
Profitti, bonus e dividendi continuano a
scorrere, a getto continuo, per le multinazionali e i managers, per il padronato e la
banche. La loro ricetta per la crisi?
Massimizzare i guadagni e socializzare le
perdite! Dunque per l'insieme delle classi
subalterne ad ogni latitudine la crisi è una
mannaia all'opera, una opprimente realtà
fatta di disoccupazione, precarietà, miseria
e violenza statale.
La crisi mondiale derivante dal crack
finanziario in USA nel corso del 2008 ha
determinato l'ulteriore aggressione
sistemica alla vita sul pianeta, causando
disastri sociali in varie parti del mondo.
In Messico, la crisi capitalistica ha il volto
delle fameliche multinazionali che
intensificano lo sventramento e prosciugamento dell'ecosistema per l'accumulazione
economica calpestando diritti umani. Chi si
oppone deve essere eliminato.La strategia
delle multinazionali, dello stato messicano
e delle sue entità locali è di fare terra
bruciata di realtà sociali resistenti e
progettuali: il Chiapas zapatista e Oaxaca
libertaria in primo luogo. Comunità di
donne e uomini che lottano e cercano di
rigenerarsi nella solidarietà dal basso e
nell'autogestione, esperimenti sociali fuori
e contro le logiche capitalistiche, che
possono dare speranza ad una specie
umana sempre più alienata e soggiogata dal
dominio.
In Europa da più di due anni la crisi si
abbatte fortemente sulle condizioni di vita
dei lavoratori e delle lavoratrici e sulle
nuove generazioni iper-precarizzate e
“senza futuro”.
Anche in Italia la crisi morde. Mentre si
accentuano i tagli governativi ai diritti
sociali, le fabbriche delocalizzano e
licenziano. Ecco dunque il manager
speculatore Marchionne – sostenuto da
governo, sindacati di stato sempre più gialli
e centrosinistra - imporre un ritorno ad una
rapporto capitale/lavoro di tipo ottocentesco, un balzo all'indietro verso la restaurazione di un padronato che comandi su servi
muti, ubbidienti e riconoscenti, bestie da
soma da utilizzare o dismettere a piacimento per accrescere gli incassi. C'è la crisi e
allora lorsignori fanno di necessità virtù!
Ma contro il maglio della crisi emerge la
lotta sociale
Ma dal basso si accende la ribellione
contro lo status quo. Una forte lotta di
classe si è sviluppata da tempo in Grecia,
dove la maggior parte della popolazione è
stata messa in ginocchio dai diktat
Crisi
Ÿ La fabbrica ideale di Marchionne
Ÿ
Internazionale
Ÿ Maghreb: La fiamma della rivolta
Ÿ Maghreb libero
Ÿ Dalla Palestina
Ÿ Messico paese di transito
Ÿ La Corea del Nord non ci sta
Genere
Ÿ Questioni di genere: si riaccende il
dibattito
Comunicati
Ÿ No Hub a Pisa
Ÿ Senza confini fisici e mentali
Rubriche
Ÿ Scienza e Anarchia: Evoluzionismo
versus Creazionismo
Ÿ Filosofia e Anarchia: Krisis
Ÿ Fumetto: chi di capitalismo ferisce
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Editoriale
neoliberisti della Banca Centrale Europea e
dell'FMI. Nell'Ellade va avanti una
ribellione popolare con fiammate insorgenti contro le devastazioni antisociali –
massicci tagli alla spesa pubblica e drastica
riduzione dei diritti - imposte dalla finanza
internazionale ed eseguite dallo stato greco
mediante la repressione. La ribellione ha
visto e vede un composito movimento
anarchico e libertario in prima fila,
impegnato a sviluppare opposizione
intransigente e autorganizzazione diffusa.
In Spagna, dove la disoccupazione dilaga,
crescono le lotte sociali contro il governo di
centrosinistra di Zapatero. Ci sono stati
nell'ultimo periodo scioperi e manifestazioni contro le misure "anticrisi" governative con scontri in piazza con le forze
repressive. Ad animare forme radicali di
protesta le organizzazioni anarcosindacaliste come Solidaridad Obrera, CNT e CGT,
fortemente impegnate in varie realtà
lavorative sulla base dell'azione e della
democrazia dirette, alternative ai sindacati
concertativi di stato. Diffusa e battagliera la
presenza nelle piazze anche di vari gruppi
autorganizzati. Le misure del governo
spagnolo consistono in un attacco alle
pensioni dei lavoratori, tagli al welfare e
ulteriore precarizzazione. Come in Grecia
un governo di “sinistra" attua delle misure
imposte dal potere centrale europeo e dalle
oligarchie economiche. Come in Grecia
tanti lavoratori non ci stanno, non si
piegano.
Negli ultimi anni davanti a licenziamenti
di massa, chiusura d'aziende e ad una
crescita delle aree di esclusione sociale,
anche le classi lavoratrici francesi – ad
ondate e risacche - si sono mobilitate. La
Francia, a partire da una spinta dal basso, è
stata attraversata da scioperi, diffuse
mobilitazioni in piazza, picchetti con dure
contestazioni a padroni e governo, ma
anche sequestri in fabbrica di dirigenti, a
dimostrazione che la lotta necessita di
sempre maggiore radicalità. Nelle banlieux
la gioventù emarginata, la racaille , cioè la
feccia (come è stata definita dal burocrate
Sarkozy) a momenti si risveglia e scuote il
sacro ordine borghese.
In varie parti del vecchio continente – fra
alti e bassi, fra tensioni insorgenti e
frammentazione delle lotte – si manifesta il
malcontento, la protesta e anche la rabbia
popolare che spesso invade le piazze delle
città. E' la critica reale all'ideologia della
crisi.
Di recente in Inghilterra migliaia e
migliaia di giovani studenti dell'università
hanno prima occupato le facoltà e poi si
sono riversati in maniera determinata per
le strade di Londra e in altre città attaccando i simboli del potere, contro
l'autoritarismo e il classismo delle élites
dominanti che aumentano in maniera
stratosferica le tasse universitarie per far
tornare i loro conti .
Pure in Italia nell'ultimo periodo una
risposta antagonistica all'ideologia della
crisi è venuta dal movimento studentesco e
dei ricercatori precari che si è opposto – a
volte anche in maniera radicale - alla
controriforma Tremonti/Gelmini,
provvedimento per fare cassa. Poi è stata la
volta del movimento operaio che ha
lanciato un segnale di contrasto all'attacco
padronal-governativo con i tanti NO al
referendum capestro di Mirafiori, a cui è
seguito uno sciopero divenuto generale
grazie ai sindacati di base, sciopero che non
è stato rituale.
Tuttavia gran parte del movimento dei
lavoratori risulta ancora piuttosto
condizionato e compresso dall'asse filopadronale Cgil-PD oppure tende ad
atomizzarsi, ciò a causa della crescente
precarizzazione del lavoro e della vita, ma
anche per una diffusa sfiducia nella
possibilità di realizzare una alternativa
sociale. In questo quadro il sindacalismo
conflittuale e alternativo – fra le sue non
poche contraddizioni e limiti – si è
impegnato e si sta impegnando nelle lotte
cercando di rompere la cappa concertativa
dominante.
Questione di genere
La crisi alimenta anche l'oppressione e lo
sfruttamento di genere. La questione
dell'autodeterminazione delle donne è una
questione fondamentale dentro la più
ampia questione dell'autoemancipazione
sociale degli sfruttati e oppressi.
Sempre in Italia di recente sono scesi in
piazza dei settori sociali e politici autorganizzati per i diritti e le libertà delle donne,
critici ed alternativi all'impostazione delle
manifestazioni
“antiberlusconiane “
funzionali al blocco di potere targato PD,
spacciate per essere “dalla parte delle
donne”.
Settori femministi, anticapitalisti e
antiautoritari si sono mobilitati autonomamente contro il potere bipartisan –
centrodestra/centrosinistra – statalista e
patriarcale. Dunque una parte delle donne
si sono mobilitate sulla base del loro
protagonismo diretto contro il sessismo dei
governi di ogni colore e della chiese, contro
l'ideologia del familismo tradizionalista e
moralista, contro le crescenti violenze
maschiliste che si verificano in gran parte
fra le mura domestiche, per la libertà
sessuale e la libera autodeterminazione,
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per l'autorganizzazione delle lotte di
emancipazione femminile e sociale,
stigmatizzando il fatto che la crisi capitalistica viene scaricata in primo luogo sulle
donne, sempre più precarie, disoccupate e
vessate. Si sono mobilitate a fianco delle
sorelle immigrate colpite dal razzismo di
stato e diffuso e contro l'ideologia machista/militarista. Si sono mobilitate perché
non ci sono donne “perbene” e donne
“permale” e per l'unione dal basso di tutte le
donne contro tutti i poteri. Si sono mobilitate anche denunciando che spesso certe
logiche autoritarie maschiliste e comportamenti sessisti si riproducono anche nei
movimenti antisistemici.
Devastazioni militariste e ambientali
E poi la crisi è guerra permanente e
permanente devastazione ambientale.
In Afghanistan prosegue la “guerra
umanitaria al terrorismo”: cioè occupazione, devastazione e saccheggio da parte degli
eserciti massacratori che portano la “pace”
– quella della tabula rasa - con l'Italia in
prima fila.
Il Belpaese: in Val Susa, Piemonte,
continuano le lotte popolari – con
all'interno gruppi e individualità anarchiche - contro lo scempio di natura, salute e
risorse pubbliche determinato dalla “megaopera” TAV, classico esempio di affarismo
scellerato. Lo stato risponde – al solito - con
i manganelli delle forze del dis-ordine. Da
Nord a Sud: in Campania i rifiuti continuano ad ammassarsi a Napoli e in altre città,
mentre lo stato militarizza i territori,
reprime manu militari le proteste e impone
per “risolvere i problemi” ulteriore
inquinamento e avvelenamento.
Naturalmente tutto ciò viene spacciato
come “emergenza democratica e civile” in
contesti critici! Ma mentre
l'antimilitarismo purtroppo in questa fase
langue, le rivolte in Campania contro la
monnezza, prima di tutto politica, e quelle
in Val Susa per la qualità della vita,
testimoniano l'indignazione e la forza di
volontà di tanta gente che alza la testa e
dice:“ora basta!”
Crisi
Più a Sud
Ma è andando ancora più a Sud che di
fronte al portato mortifero della crisi
globale e permanente si leva la rivolta
sociale generale che si estende o può
estendersi per positivo contagio.
In paesi come Tunisia ed Egitto dove la
povertà è crescente, sotto l'urto della
grande rivolta in larga misura spontanea
che vuole libertà e giustizia sociale, ma
anche riforme istituzionali e democrazia
liberale, cadono vecchi autocrati alle
dipendenze di UE ed USA. Tutto il
Medioriente e il Maghreb sono scossi da un
sommovimento sociale di milioni di
persone. Sono in fibrillazione Algeria,
Yemen, Bahrein, Marocco …In Libia le
rivolte contro il rais Gheddafi, un despota
grande amico dei governi italiani per il suo
sporco lavoro in tema di “contenimento dei
flussi migratori” e per grossi interessi
economici in ballo, vengono represse in un
bagno di sangue. Il dittatore Gheddafi per
mantenere il potere sta perpetrando un
orribile massacro contro le masse in rivolta.
Truppe di mercenari reclutati dal regime,
oltre alle forze armate e di sicurezza,
sparano sul popolo libico. Il tiranno appare
comunque sempre più accerchiato e le
potenze neocolonialiste in difficoltà, sono
alla ricerca di nuove, barbare “soluzioni” ...
I regimi per riprodursi come al solito
ammazzano e mentono, ma non sembra
che la gente sia disposta a tornare a casa
dopo la cacciata dei tiranni. Certamente in
Tunisia ed Egitto il potere è all'opera per
riciclarsi, gli eserciti - rimasti in certa
misura in stand by mentre le forze di
polizia uccidevano centinaia di persone - e
gli apparati politici locali sostenuti dalle
potenze occidentali, sembra che ora
abbiano ri-preso in mano le redini del
comando promettendo cambiamenti
istituzionali.
Allo stato attuale appare assente una
forte progettualità anticapitalistica in
questi coraggiosi movimenti popolari che
ponga la questione dell'alternativa
rivoluzionaria complessiva. Risulta che
settori borghesi stiano in qualche modo
capeggiando le rivolte. Questo ovviamente
dipende da vari fattori, a partire dalle feroci
repressioni pluridecennali dell'
opposizione sociale e politica di classe e
dall'isolamento rispetto al contesto
internazionale in cui è stato costretto dal
potere il proletariato in quei paesi.
Tuttavia sia in Egitto che in Tunisia si
sono coagulati, fin dall'inizio delle rivolte,
degli embrioni di autorganizzazione delle
lotte soprattutto indirizzati all'autodifesa
dagli attacchi delle forze poliziesche ma
anche tesi a dare continuità alle mobilitazioni. Dall'Egitto in particolare sono giunte
notizie di scioperi, blocchi e manifestazioni
in vari comparti industriali e anche fra gli
impiegati pubblici per conquistare migliori
condizioni di vita: estese mobilitazioni
proletarie auto-dirette.
E giungono notizie di distruzione di
simboli del potere: uffici governativi, sedi
del partito del tiranno cacciato e stazioni di
polizia…
Da questa situazione insorgente,
magmatica e largamente incerta, ma in
certa misura tendente a rompere gli schemi
precostituiti potrebbero strutturarsi dei
consigli di lavoratori, una rete di organismi
di auto-democrazia alla base di un possibile
processo di trasformazione sociale .
Passando poi alla vicina Palestina è da
sottolineare che, solidarizzando con
queste rivolte diffuse, nonché sfidando il
potere sia di Fatah che di Hamas che
reprimono tutto quello che nasce dal basso,
anche la gente di Gaza e della Cisgiordania
scende in strada autorganizzata per
La fabbrica ideale di Marchionne
di Alberto
Dopo l'azione di forza di Pomigliano, la
tattica del rapinatore Marchionne e della
sua composita cricca , composta da
azionisti, governanti a stelle e strisce e
tricolori e sindacalisti con il ruolo di kapò, è
stata applicata anche a Torino. Niente di
nuovo sembrerebbe: i padroni hanno da
sempre cercato di spolpare i lavoratori,
spesso fino ad ucciderli. Ma non penso sia
proprio così: l'imposizione da parte di una
azienda di condizioni di lavoro, e di vita, per
mezzo delle quali gli operai vengono
costretti a ritmi allucinanti e senza
possibilità di organizzarsi per lottare
rappresenta un salto di qualità notevole.
Marchionne ricorda sinistramente il
tristemente famigerato Valletta,
l'amministratore delegato della Fiat nel
secondo dopoguerra, che, in nome della
ricostruzione “nazionale” impose in
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manifestare contro i massacri, la pulizia
etnica e l'apartheid attuati dallo stato
israeliano, al loro fianco il movimento degli
Anarchici Contro il Muro e i solidali
internazionali.
L'endemica crisi mediorentale si eleva al
quadrato nell'attuale crisi globale, la
Resistenza palestinese per la vita, la terra e
la libertà prosegue.
No ai lager
E da un contesto mediorientale e nord
africano pieno di speranze quanto
drammatico, devastato sia dalla repressione statale che dalla crisi globale, tante
donne e uomini fuggono alla ricerca di una
vita migliore e, clandestinizzati, approdano
sulle coste siciliane. La crisi qui si concretizza nella disumanità dei campi lager per
immigrati e profughi voluti da destri e
sinistri, quali gendarmi della “fortezza
europea”, quali esecutori ricompensati dai
padroni che vogliono manodopera da
sfruttare senza limiti.
A questo brutale apartheid istituzionale
gli immigrati si stanno ribellando, vari
gruppi antirazzisti, antagonisti e anarchici
li sostengono, occorre che cresca un
movimento dal basso che unisca lavoratori
nativi e immigrati per lo smantellamento di
queste strutture totali concentrazionarie,
in nome della libertà e della giustizia
sociale per tutte e tutti.
Contro la barbarie della crisi statal/capitalistica, per una alternativa di
civiltà.
Kronstadt Anarchico Toscano
Crisi
fabbrica un clima di terrore e di ricatto. Con
una piccola differenza: Vittorio Valletta
guadagnava “solamente” 30 volte il salario
di un operaio, Sergio Marchionne ben 170
volte. Già il salto di qualità nell'inveterato
vizio della rapina tipico di tutti i padroni,
privati e statali, risulta evidente.
A tal proposito c'è da dire che ciò si
inquadra facilmente nel contesto italiano
dove il potere statal/capitalistico si mostra
sempre di più come una sorta di camarilla
da basso impero dove gli aspetti gangsteristici rimangono quasi gli unici evidenti.
Succhiare il sangue e la vita di chi ha la
fortuna di avere un posto di lavoro con
balzo indietro nei secoli: sembra di trovarci
nell'ottocento londinese con la differenze
che la tecnologia al servizio dello sfruttamento si trova ad anni luci di distanza dagli
antichi telai in quanto a capacità di estrarre
profitto dal lavoro altrui. E senza dimenticare l'utilizzo di questa nel controllo (mass
media e vigilanza ossessiva e pervadente
attraverso occhi elettronici omnipresenti in
ogni spazio) e nella repressione (armi
sempre più sofisticate e micidiali, sperimentate nelle guerre nel sud del mondo e
pronte all'utilizzo casalingo) di ogni
dissenso e ribellione. Da anni è inoltre in
corso, ed oggi si accentua in maniera
feroce, un attacco senza limiti alle condizioni di vita delle classi subalterne: cancellazione dei diritti sociali duramente conquistati con le lotte da lavoratrici e lavoratori;
controriforma classista e mercificante
dell'università; precarizzazione totale della
vita per milioni e milioni di persone; campi
di concentramento per gli immigrati, da
super-sfruttare o da utilizzare come capro
espiatorio nel quadro di un sistema
concentrazionario istituzionale; continui
massacri di popolazioni inermi in
Afghanistan, per logiche di profitto e
geopolitiche, mediante la “guerra umanitaria” d'occupazione con enormi investimenti in armamenti mentre si taglia ulteriormente la spesa sociale per i bisogni
fondamentali delle persone.
Come attore protagonista dell'ultima
zampata padronale è quindi salito alla
ribalta nel 2010 l'affarista Marchionne che,
utilizzando sia l'ideologia della “crisi” che
quella della “globalizzazione” (due facce
della stessa medaglia), ha dato l'ultima
mazzata alle classi operaie. Benedetto dal
capo dell'azienda-Italia Berlusconi, e dalla
stampella di regime Bersani, lo speculatore
finanziario della Fiat Marchionne ha
imposto sotto ricatto gli “accordi” di
Pomigliano e Mirafiori, veri e propri diktat
da “padrone delle ferriere” ai lavoratori,
della serie: o accettate di essere sfruttati
ulteriormente peggio che bestie da soma
oppure vi butto in mezzo alla strada voi e le
vostre famiglie! Ora in Fiat tutto diventa
legittimo: far lavorare gli operai sino allo
sfinimento (anche 10 ore al giorno per
quattro giorni consecutivi), con pause
ridottissime e la mensa spostata a fine
turno, il divieto di ammalarsi, quello di
scioperare contro l'accordo e
l'impossibilità di eleggere i propri rappresentanti, che saranno nominati d'ufficio dai
sindacati collaborazionisti che l'avranno
firmato (Fim, Uilm, Ugl e il sindacato giallo
Fismic). Fuori rimane la Fiom che non l'ha
sottoscritto, così come i sindacati di base.
Tuttavia la Fiom, bisogna dirlo in maniera
chiara e netta, è vittima più di se stessa che
di Marchionne avendo, da anni, cogestito
un sistema di relazioni sindacali fondato
sulla sistematica esclusione dai diritti di
rappresentanza del sindacalismo conflittuale e alternativo, ciò nel quadro di una
subalternità alle logiche concertative.
In questo barbaro contesto il voto al
referendum di Mirafiori – che ha approvato
di stretta misura l'accordo, molto più
stretta che a Pomigliano - dice una cosa
molto semplice: quasi la metà dei lavoratori
ha respinto nettamente il ricatto, altri
hanno ceduto al sì intimiditi e minacciati
dall'azienda, dai sindacati collaborazionisti, dalla campagna terroristica dei massmedia padronal-governativi, dalla
propaganda dei burocrati del centrosinistra, dalle ambiguità dell'ineffabile
Camuso, sostenitrice della concertazione
filo-padronale. Ma quello di Marchionne
non è un esordio. Chi si ricorda che un anno
addietro era apparso sulla scena il perverso
Brunetta con il suo decreto anti fulloni?
All'epoca, salvo rare eccezioni estremamente minoritarie, la nuova normativa che
obbliga i dipendenti pubblici ad un futuro
da caserma, non fu neanche ostacolata da
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un'opposizione paragonabile a quella delle
tute blu.
Come la riforma Brunetta è passata e
piano piano verrà applicata a milioni di
lavoratori e lavoratrici, il modello
Marchionne, si cercherà di estenderlo negli
altri stabilimenti Fiat, nel suo indotto, ma
anche fuori, nelle altre aziende, e nel
restante mondo del lavoro. Il modello-Fiat
potrebbe diventare il modello sociale
futuro dove diritti sociali e libertà civili
saranno sempre più a discrezione di
padroni e burocrati i quali li ridurranno
sempre di più!
Ma quanto potrà durare la quasi calma
sociale italiana? Le avvisaglie di ripresa
delle lotte ci sono già state: dalle mobilitazioni anti riforma Gelmeini nelle scuole e
nelle università, alle continue rivolte nei
CIE, allo sciopero del 28 gennaio indetto
dalla FIOM, ma con presenza di parte del
sindacalismo di base. Ancora troppo poco!
Ma le rivolte del Maghreb sono vicine
geograficamente. Ma anche nei protagonisti: chissà quanti ribelli nordafricani sono
passati e si sono radicalizzati nei lager
nostrani. Ma è ancora troppo poco. Questo
modello, e quindi questo sistema, va
combattuto radicalmente fin da subito e
dappertutto, va combattuto attraverso il
protagonismo diretto dei lavoratori,
attraverso la lotta dal basso autodiretta e
coordinata da parte di lavoratori autoctoni
e immigrati, studenti, precari e disoccupati.
Va combattuto non solo per riprenderci i
diritti elementari (che non è poco ma è
limitante), ma anche e soprattutto per
prenderci il prodotto del lavoro ed
eliminare la rapina quotidiana, per
riprendersi la vita, mettendo in discussione
ogni cosa a partire da ciò che utile produrre
(sicuramente non le scatole di metallo in
cui siamo obbligati a passare una buona
parte della nostra esistenza).
Internazionale
Dalla sponda meridionale del Mediterraneo alla
penisola araba la fiamma della rivolta divampa!
di Alberto e Maco
Negli ultimi due mesi i popoli arabi, di
paese in paese, come una marea inarrestabile hanno riempito le piazze, le strade ed i
quartieri delle loro misere città, scuotendosi di dosso il terrore nei confronti degli stati
e dei loro terribili apparati repressivi. Per
lunghi ed interminabili decenni presidentidittatori con annesse famiglie e clan, al
soldo delle potenze imperialiste, si sono
arricchiti vergognosamente sfruttando le
ricchezze del sottosuolo (svendute alle
compagnie petrolifere europee ed americane) e obbligando a condizioni di vita
miserrime milioni di persone. Infatti, dopo
che i movimenti anticoloniali del secondo
dopo guerra avevano portato
all'indipendenza politica, cioè dal controllo
diretto degli stati europei, le terre in
questione (dall'Algeria alla Libia ed alla
Tunisia), vi è stato ovunque un rapido
processo di ricolonizzazione diretto da
elites che, approfittando del ruolo da loro
svolto nei processi di liberazione nazionale,
al soldo dell'imperialismo (sia di marca
occidentale che sovietico), hanno svolto un
ruolo fondamentale nello sviluppo e nel
mantenimento dell'attuale sistema
politico-economico mondiale, fondato in
buona parte sull'utilizzo delle risorse
energetiche di cui sono esageratamente
ricchi tutti questi paesi. Ma improvvisamente, a partire da un episodio che poteva
apparire all'apparenza di scarsa importanza, il gesto disperato di un giovane tunisino
datosi alle fiamme, è partita una delle
ribellioni più estesa e rapida degli ultimi
anni. Dalla Tunisia le fiamme della rivolta
si sono propagate a macchia d'olio ed
hanno travolto dittatori e messo in crisi
monarchie che sembravano aver superato
le barriere della storia.
E' stato rimesso in discussione l'assetto
mondiale post “89. Sono stati in sostanza
smentiti in pochi giorni i tristi peana che da
anni recitavano i mantra sulla fine della
storia e sono state messe in discussioni le
teorie superficiali sul dominio della
religione islamica e l'influenza di Bin Laden
sulla soggettività araba. Ma tutto è ancora
in movimento e molto difficile è azzardare
ipotesi e previsioni sul futuro dei mondi
arabi.
Merita comunque riportare una cronologia di sintesi di ciò che è successo perché
nella confusione massmediologica di
regime si rischia di dimenticare subito
quello che è successo e sta ancora succedendo.
tiranno Ben Alì, messo al trono, per chi se
ne sia dimenticato, dal mai troppo poco
vituperato Craxi (che in quella terra ha
terminato la sua infame esistenza).
Ma già alla fine del 2010 si erano dati i
prodromi della ribellione; infatti dopo che
il 17 dicembre scorso, davanti al municipio
di Sidi Bouzid, in segno di protesta, un
giovane di nome Mohamed Buaziz si era
dato fuoco, perché che la polizia gli aveva
confiscato la merce in quanto sprovvisto
delle autorizzazioni per la vendita, la
rivolta ha iniziato a divampare.
Da Kairouan a Sfax e Ben Guardane, da
Sousse a Tunisi la gente scende in piazza
pacificamente, contro la crisi la fame e Ben
Alì.
Ma la polizia aggredisce ovunque i
manifestanti e gli scontri si fanno violentissimi, con morti e numerosi feriti. Dopo un
mese di insurrezione popolare il tiranno e
la sua gang è costretto a fuggire portandosi
dietro più di una tonnellata di lingotti
d'oro, parte delle ricchezze accumulate da
lui ed il suo clan familiare in anni di rapine
ai danni del popolo tunisino. E' stata una
prima grande vittoria, sicuramente
parziale e temporanea, ma anche e
soprattutto un esempio per tutti i popoli
della regione. Infatti il Partito dell'Unione
Democratico Costituzionale (RCD) è
ancora al potere con 161 seggi su 314 e con il
presidente ad interim Ghannouchi
rappresentante della vecchia oligarchia.
Ma la mobilitazione del popolo prosegue: la
gente non si fida e ancora non torna a casa.
Dal 23 gennaio centinaia di persone della
“Carovana per la libertà” si sono radunate
davanti alla residenza del primo ministro.
Ci sono scioperi di massa grazie
all'iniziativa di settori combattivi della
Unione Generale del Lavoro Tunisina
(UGTT), a partire dal settore della scuola
alle imprese pubbliche. Gannouchi
concede qualche briciola di riforma per
calmare le proteste, ma senza successo. Le
manifestazioni continuano.
Giordania.
In Giordania ci sono stati tre giorni di
proteste dopo il crollo del regime di Ben Ali.
Su invito dei sindacati, dei partiti islamismi
e di quelli di sinistra, migliaia di persone
sono scese in strada ad Amman ed in altre
città al grido “No all'oppressione, si al
cambiamento! Vogliamo libertà e giustizia
sociale”. Il re Abdallah II annuncia allora
un programma di riforme economiche e
sociali, nel tentativo di disinnescare lo
scontento.
Algeria.
La rivolta algerina scoppia il 21 gennaio
2011 a causa della mancanza di alloggi, la
disoccupazione e l'ennesimo rincaro dei
prezzi sui prodotti alimentari e di prima
necessità aumentati del 20% in un anno.
Nei quartieri poveri algerini si sviluppa
una rivolta che si estende in tutto il paese,
partendo dai comuni come Cabili,
Bourmedes, Bejaia fino a coinvolgere le
principali città come Orano, Tipazia ed
altre, arrivando a toccare le città dell'est
come Annaba e Costantina.
Il ministro del commercio, Mustapha
Banbada, cerca di calmare le acque
promettendo di abolire alcune tassazioni.
Ma chiaramente ciò rimane lettera morta.
Le persone iniziano a scontrarsi con la
polizia che spara sulla folla. Le notizie
parlano di 40 morti e oltre 300 feriti, di cui
30 in modo grave. Il 12 febbraio i contestatori del presidente Abdelaziz Bouteflika si
radunano in piazza a migliaia, per un
appuntamento organizzato via internet
diversi giorni prima. Il governo risponde
blindando la capitale con trentamila
soldati, check-point creati nei luoghi
nevralgici e disperdendo i manifestanti che
si erano riuniti in piazza Primo maggio per
marciare verso piazza dei Martiri. In
serata, via twitter, si diffonde la notizia che
gli apparati di sicurezza avrebbero
arrestato oltre 400 persone. Nel Paese dal
1992 è in vigore la legge d'emergenza.
Egitto.
30 gennaio. Anche l'Egitto si unisce alla
Tunisia ed all'Algeria, dicendo basta alla
dittatura di Mubarak.
Le manifestazioni si susseguono in tutte
le città egiziane (da Alessandria a Suez fino
al Cairo) e gli scontri con i cani dello stato
(polizia) non si fanno attendere. Come
negli altri paesi vengono incendiate auto
blindo, i centri del potere vengono presi di
mira e la polizia risponde, come sempre,
prima con le botte e poi con il fuoco. I primi
bilanci di giorni di scontri tra polizia e
manifestanti: oltre 150 morti, mille feriti e
centinaia di arrestati. Il 1 febbraio le
Tunisia.
Il 14 gennaio 2011, scoppia la rivolta
tunisina ribellandosi contro il governo del
5
Internazionale
Il 30 gennaio centinaia di studenti
scendono in strada a el Obeid, 600
chilometri a ovest della capitale Khartoum,
per chiedere la fine del regime del presidente Omar el Bashir. La polizia risponde
con i lacrimogeni. Secondo alcuni testimoni accanto ai reparti antisommossa si
sarebbero schierati studenti aderenti al
partito di el Bashir. Si parla di disordini
anche a Khartoum, dove la polizia ha
schierato 20 camion davanti all'università,
nel tentativo di impedire a 300 studenti
dissidenti di organizzare una manifestazione contro il regime.
manifestazioni in piazza Tahrir proseguono, raccogliendo circa due milioni di
persone. L'esercito sembra schierarsi
apertamente con la popolazione, riconoscendo la legittimità della protesta e delle
richieste. Si diffondono voci circa una
presunta fuga del Faraone verso il Bahrein.
Nella notte il presidente parla al popolo e
promette di non ricandidarsi per le elezioni
di settembre ma conferma di voler restare
al suo posto fino alla scadenza del mandato
e di non voler morire lontano dal “suo”
Egitto.
L'11 febbraio nuove manifestazioni al
Cairo, Alessandria e nel Sinai. Nella
capitale, i manifestanti protestano davanti
alla sede della tv di stato. I carri armati
impediscono alla folla di raggiungere il
palazzo presidenziale. Nel primo pomeriggio si diffondono voci, poi confermate, circa
una fuga del rais verso Sharm el Sheikh.
Viene annunciato un nuovo e importante
discorso di Mubarak. Poco dopo il vicepresidente Omar Suleiman legge un comunicato in cui annuncia il passaggio dei poteri
all'esercito al quale si appoggia il ricolonizzatore Obama. Ma in ogni caso Mubarak si
è dimesso. Il futuro della rivolta egiziana è
ancora incerto.
Yemen.
Il 27 gennaio si svolgono dimostrazioni
nel paese contro il governo di Ali Abdallah
Saleh, al potere da 32 anni. Le opposizioni,
dopo aver rifiutato l'offerta del presidente a
non ricandidarsi nel 2013, celebrano la
versione yemenita della "Giornata della
rabbia", invocando un cambio di regime. A
Sana'a si radunano 20 mila persone,
chiamate in piazza dai gruppi della società
civile e dai partiti d'opposizione. Il 14
febbraio circa tremila studenti si riuniscono davanti all'università, per chiedere
ancora una volta le dimissioni di Ali
Abdullah Saleh. La polizia interviene prima
che il corteo si scontri con una manifestazione organizzata dai sostenitori del
presidente. Oltre duecento fermi nella città
di Taiz, dove i reparti antisommossa
intervengono con decisione. Human Rights
Watch denuncia la brutalità della polizia
yemenita.
Sudan.
Libano.
Il 3 febbraio un centinaio di dimostranti
tenta l'assalto all'Ambasciata egiziana di
Beirut. Gli scontri con i reparti antisommossa, che creano un cordone di sicurezza
intorno all'edificio, durano 20 minuti circa.
Bahrein.
Anche il piccolo emirato viene toccato
dalla rivolta. Il 14 febbraio il governo
schiera i reparti antisommossa per
spegnere la protesta che ha i suoi focolai a
Bani Jamrah e Diraz. Nella mattinata, la
polizia aveva disperso alcuni fedeli
musulmani a Nuwerdait, che si erano
raccolti in piazza per la preghiera del
mattino. Gruppi di attivisti umani
denunciano la brutalità delle forze di
sicurezza. Negli scontri, sarebbero morti
alcuni manifestanti. Il 15 febbraio si
verificano nuovi scontri tra polizia e
manifestanti, scesi numerosi in strada
approfittando di un giorno di festa. Un
corteo funebre viene attaccato dai militari.
Sempre più forti sono le proteste contro il
governo del Primo ministro Sheikh Khalifa
bin Salman al Khalifa, al potere dal 1971. I
manifestanti non chiedono ancora le
dimissioni del re, Hamd bin Isa al-Khalifa,
nipote del Primo ministro. I centri del
dissenso sono anche qui le università. Gli
studenti chiedono maggiori libertà e più
diritti. Il simbolo della protesta è un
lenzuolo bianco, macchiato con inchiostro
rosso, a indicare la determinazione a
sacrificare se stessi in nome della libertà. Il
17 febbraio l'esercito riprende il controllo di
Manama, la capitale, e soffoca nel sangue la
rivolta. Il bilancio è di tre morti e 231 feriti.
Ma il 18 febbraio dopo la preghiera del
Venerdì, una folla si riunisce nel sobborgo
di Duraz e comincia a intonare cori contro
gli al Khalifa, il clan dei monarchi sunniti e
la protesta si rivolge anche contro la
famiglia reale.
Iran.
Il 14 febbraio ritorna in campo anche la
Persia. Gli studenti dell'onda verde dopo
moti mesi tornano a protestare per le
strade di Teheran contro il regime di
Mahmud Ahmadinejad. La polizia
interviene e si parla di "città nel caos
totale". L'università di Teheran viene
circondata dalle forze di polizia ed incidenti
6
si verificano anche a Isfahan e Shiraz. Alla
fine della giornata si conteranno due morti
e decine di arresti.
Gibuti.
Il 18 febbraio migliaia di persone
scendono in piazza contro il presidente
Ismael Omar Guelleh, al potere sin
dall'indipendenza dalla Francia, nel 1977.
Viene occupato uno stadio. I manifestanti
sostengono che vi resteranno fino a
quando Guelleh, che ha recentemente
emendato la costituzione per potersi
ricandidare, non se ne andrà.
Marocco.
Il 21 di febbraio si svolgono manifestazioni a Rabat e a Casablanca. A Fez si
raccolgono tremila persone in un corteo di
protesta pacifico. Cinque cadaveri sono
stati trovati in una banca data alle fiamme
ad al-Holceimas, dove si sono verificati
scontri violenti.
Libia.
Il 16 febbraio scoppiano disordini a
Bengasi. Si parla di 14 feriti nei tafferugli
con le forze di polizia. La protesta deflagra
dopo l'arresto di Fethi Tarbel, avvocato di
un'associazione dei parenti dei prigionieri
uccisi nella sparatoria avvenuta nel carcere
di Tripoli nel 1996. Il 17 febbraio i disordini
scoppiano a Benghazi e ad al-Bayda dove
vengono uccise complessivamente dieci
persone. Il giorno dopo la situazione
precipita. Gheddafi sceglie il pugno di ferro
contro qualsiasi tentativo di ribellione.
Vengono riportate notizie di scontri e di
uccisioni sommarie. Si parla di 35 morti.
Sono quattro le città in cui si contano le
insurrezioni più importanti: al-Bayda,
Ajdabiya, Zawiya e Darnah. Al-Bayda in
particolare sarebbe nelle mani degli
insorti. Il 19 febbraio le forze di polizia
attaccano un corteo funebre a Bengasi. A
sera le agenzie parleranno di 120 morti,
prevalentemente civili uccisi dalle truppe
fedeli a Gheddafi. Ma tra l'esercito iniziano
le prime defezioni. Viene segnalata la
presenza di mercenari africani assoldati
Internazionale
per reprimere nel sangue la rivolta ed
alcuni di questi vengono catturati dalla
folla. I cecchini dai palazzi fanno fuoco sui
cortei. Il 20 febbraio la popolazione prende
il controllo di Bengasi. Le proteste
raggiungono Tripoli, dove le forze di
sicurezza intervengono brutalmente. Il
numero dei morti è impressionante. Il 21
febbraio la folla assalta i palazzi del potere.
Gheddafi ordina alle truppe che gli sono
rimaste fedeli di sparare senza pietà,
utilizzando anche i caccia per bombardare i
dimostranti. Ma Bengasi è in mano agli
insorti e nei giorni successivi viene preso il
controllo di quasi tutto il paese, mentre a
Tripoli, i fedeli del colonnello, si scatenano
massacrando migliaia di persone. Ma i
giorni del dittatore, amico di Berlusconi e
D'Alema, sono contati.
Dopo questi due mesi di rivolte niente
sarà più come prima. Una pericolosa (per
classi dominanti) crepa si è aperta nel
sistema mondo globalizzato sotto l'egida
del capitale. La “cupola” mondiale
cercherà sicuramente di riprendere il pieno
controllo di queste terre e già lo sta facendo
provando ad erigere nuovi stati semidemocratici al suo servizio ed al servizio dei
monopoli della rapina. O forse cercheranno di insinuarsi i cleri islamici. Ma non sarà
così facile. Milioni di esseri umani hanno
rischiato la vita, molti l'hanno persa e
continuano a morire nelle strade e nelle
piazze. Hanno assaporato la libertà, anche
se, bisogna riconoscere, non hanno ancora
messo in discussione né il sistema
economico capitalista né lo stato in quanto
istituzione da cui liberarsi. Però da
anarchici non possiamo che salutare con
entusiasmo quello che sta succedendo,
sostenendo in primo luogo i piccoli gruppi
anarchici e libertari che esistono in questi
paesi ed auspicando che i popoli arabi in
lotta inizino a percorrere un'altra strada;
quella per una società autogestita ed
organizzata liberamente attraverso
l'azione diretta e popolare.
crisi capitalistica, nella globalizzazione
neoliberista, nello sfruttamento imperialista e nel tentativo di riaffermazione della
dignità di questi popoli i suoi capisaldi.
Analizziamo ognuno dei casi dove le
rivolte sono più brucianti.
egemonici delle potenze occidentali nel
Vicino e nel Medio Oriente. ... Nel 1962,
l'indipendenza d'Algeria invia un segnale
forte all'Africa e al Terzo Mondo, mettendo
in allerta le potenze imperialiste.
Ugualmente bisogna sottolineare il colpo
di Stato in Libia da parte di Kadhafi nel
1969. Questo colonnello assume il potere e
nazionalizza importanti settori
dell'economia, a grave scapito
dell'Occidente. Dieci anni più tardi, in Iran
la rivoluzione islamica detronizza lo Scià,
uno dei pilastri più importanti della
strategia degli Stati Uniti in Medio Oriente.
In breve, in questo periodo, un movimento
anti-imperialista molto forte sfida gli
interessi strategici degli Stati Uniti nel
mondo arabo. Per fortuna per Washington,
non tutti i paesi della regione seguono la via
di Nasser. Questo è il caso della Tunisia.
Nel 1957, un anno dopo l'indipendenza
tunisina, Bourguiba, il presidente tunisino,
è uno dei principali dirigenti arabi a
scrivere nella prestigiosa rivista statunitense, Foreign Affairs. ... Siamo in piena
Guerra Fredda. I Sovietici sostengono
Nasser la cui influenza si sta allargando
nella regione. E gli Stati Uniti hanno
bisogno di agenti filo-imperialisti come
Bourguiba per non perdere il controllo
strategico sul mondo arabo.”(4)
.
Maghreb libero.
di Marcello
Rivolte, sommosse, ribellioni.
Un nuovo vento di protesta spira con
forza nei paesi del Nord Africa; zone del
mondo che il capitalismo appellava, ma che
alcuni intellettuali o presunti tali si
ostinano a chiamare, “paesi del Terzo
Mondo” ovvero quelli non allineati alla
divisione “imposta” dai due blocchi
statunitense e sovietico. Le rivolte popolari
contro i regimi reazionari scoppiate in
Algeria, Tunisia, Yemen, Egitto, Libia,
hanno ottenuto sino ad ora la fuga di Ben
Alì e la destabilizzazione del regime di
Mubarak. Cercare di spiegare in modo
esaustivo le motivazioni di questi fatti non è
semplice ma è possibile tracciarne dei
larghi tratti atti a dipingere in modo più
chiaro il quadro geopolitico.
Le rivoluzioni che, a partire dalla Tunisia,
si sono estese in gran parte del Nord Africa
hanno infatti più chiavi di lettura; alcune
un po' false o forvianti: “le rivolte per il
pane”, altre semplicistiche: “le rivolte
contro il dispotismo”, altre ancora:
“teoriche del complotto”.
È senz'altro vero che questi paesi hanno
un “tenore di vita medio” molto basso, ad
esempio in
Egitto la spesa per la sussistenza
alimentare ammonta al 48,1% rispetto al
17,5% dell'Italia(1) ma queste stesse
percentuali non hanno senso in Libia; però
tali rivolte, a titolo esemplificativo quella
tunisina(2), non possono essere imputate
esclusivamente al carovita, o
all'abbattimento di regimi dispotici in
quanto “non spiegano il perché “despoti” al
potere da quaranta anni siano stati messi
fuori gioco in poco tempo, né la diffusione
rapidissima del contagio in un’area molto
vasta”(1) le motivazioni vanno esaminate in
una ottica molto più attenta che vede nella
Caso tunisino
“La Tunisia ieri (15 gennaio 2011) si è
risvegliata, lentamente, con un'unica
certezza: Ben Ali se n'è andato e non
tornerà più.”(3) con questa frase lapidaria
della Sgrena viene acclamata la rivoluzione
tunisina, rivoluzione che ha pregressi dal
2008 ma che vede come elemento scatenante il suicidio di Mohamed Bouazizi, il 17
dicembre 2010, “un giovane venditore di
frutta e verdura, si è bruciato per disperazione dopo che alcuni poliziotti gli avevano
confiscato la merce e il carretto di vendita e
le autorità locali gli avevano impedito di
lavorare”(4). Sicuramente lapopolazione
tunisina mal tollerava la mancanza di
libertà, la corruzione, la disoccupazione e la
repressione instaurate e attuate in modo
esemplare dal regime di Ben Alì; però per
ben capire l'evoluzione delle sommosse e
l'importanza che questo paese aveva
assunto nella strategia dell'imperialismo
statunitense bisogna analizzare il contesto
politico arabo degli anni '50 e '60.
“Nel 1952, in Egitto alcuni ufficiali
rovesciavano la monarchia del re Farouk e
proclamavano la repubblica.
Con Nasser alla sua guida, l'Egitto
diviene la base del nazionalismo arabo con
idee rivoluzionarie ispirate al socialismo.
Come attestato dalla nazionalizzazione del
canale di Suez, l'arrivo al potere di Nasser
rappresenta un colpo duro per l'Occidente,
in quanto la politica del presidente egiziano
è in contrasto totale con gli obiettivi
7
Internazionale
Sotto Bourguiba la Tunisia conosce
indubbiamente dei progressi
nell'istruzione e nella condizione femminile ma apre la strada ad nazionalismo
liberista che si sarebbe trasformato in
dittatura. Infatti, nel 1987 Ben Alì succede a
Bourguiba e prosegue il cammino precedente abbandonando però il capitalismo di
stato in favore di un neoliberismo con un
grossissimo piano di privatizzazioni. Tutto
ciò ha permesso da un lato a Ben Alì e ai
Trabelsi (la famiglia della moglie) di
arricchirsi a dismisura svendendo le
materie prime alle multinazionali occidentali, dall'altro di incrementare l'istruzione,
il turismo e di “sconfiggere il pericolo
islamico”.
“Il regime di Ben Ali è stato considerato
dalla stampa e dalle diplomazie occidentali
un esempio da seguire, per la sua moderazione, per i successi economici e sociali
ottenuti... ma era chiaro che si trattava, in
realtà, di un regime ferocemente repressivo, con una censura che arrivava ad essere
persino ridicola tanto era esagerata, con un
tasso di disoccupazione altissimo, che nella
fascia d'età tra i 15 e i 30 anni supera il 40%,
e con un sistema di corruzione che
avvolgeva l'economia nazionale, gestito in
modo mafioso da due famiglie: quella di
Ben Ali e quella della moglie, Leila
Trabelsi.”(5)
La “rivoluzione dei gelsomini”, come è
stata definita dai media occidentali forse in
riferimento alla rivoluzione dei garofani nel
1974 in Portogallo, ha avuto successo
perché è riuscita a toccare tutti i segmenti
della società, compresi alcuni settori
dell'esercito e della polizia che hanno
simpatizzato con i manifestanti. In tal caso
l'apparato repressivo non è stato più in
grado di funzionare come aveva fatto fino a
quel momento.
“La Tunisia”, però, “ha appena vissuto
una doppia rivolta, ma non è ancora una
rivoluzione”(6) infatti, le forze armate
hanno assunto il controllo nominandosi
“garanti della rivoluzione” e promettendo
di rispettare la costituzione ma tra il popolo
serpeggia un forte sentimento d'incertezza
e le prospettive per il futuro rimarranno
solo delle ipotesi fintanto che non verrà
riorganizzata la polizia, prima sotto lo
stretto controllo di Ben Alì, e non sarà
possibile esprimere una reale alternativa.
“I padroni dei media di ogni stampo
accorrono al capezzale della giovane
democrazia per dare prescrizioni e consigli
interessati. Perché, se il dittatore se n’è
andato, la dittatura non è finita. Il suo
organo principale, il Rassemblement
constitutionnel démocratique (RCD),
partito di massa che rivendica un milione di
aderenti (ovvero un tunisino su dieci), e che
controllava tutti gli ingranaggi e il sistema
di corruzione del paese, è
ancora in piedi e detiene i posti chiave nel
nuovo governo.”(7)
fatto seguito la ribellione in Egitto. Il
popolo egiziano si è rivoltato contro il
regime di Mubarak. Dal 28 gennaio la
popolazione è scesa in piazza sfogando
“tutta la frustrazione accumulata in
trent'anni di regime”(8) e dopo 18 giorni di
lotta popolare dura, con 300 morti,
migliaia di feriti e migliaia di arresti, è
riuscita a destabilizzare, ma non a cambiare, uno dei regimi più spietati e brutali del
Medio Oriente. Il popolo egiziano comincia
quindi a respirare dopo 30 anni di oppressione e sottomissione.
Dopo la sua fuga presso Sharm el Sheikh,
nel Sinai, Mubarak ha trasferito tutti i suoi
poteri al Consiglio militare supremo. Il
«parlamento parallelo», eletto
dall'Assemblea del popolo e nato come
risposta alle elezioni farsa che avevano
permesso al Partito Nazionale
Democratico (PND) di avere il 97% dei
seggi, cerca di interloquire con il Consiglio
militare supremo e con i suoi comunicati.
Tanti sono i dubbi e poche le certezze. La
transizione verso forme democratiche è
dura e ardua, in un paese, come del resto
nel caso tunisino, in cui Mubarak, nonostante gli insuccessi, era stimato e godeva
di un forte appoggio.
Altro parallelo con il dittatore tunisino è
l'accumulo delle “fortune personali” con
stili di vita sfarzosi per mogli e figli. “La
ricchezza di Mubarak, della sua famiglia e
dei suoi alleati politici è stata a lungo una
fonte di risentimento in una nazione con
alto tasso di disoccupazione e una povertà
immensa”(9), infatti “il 40 per cento della
popolazione vive con meno di due dollari al
giorno e perfino i cittadini del ceto medio
istruito, i cui figli sono scesi in piazza per
protestare, non hanno visto migliorare la
loro situazione, con un tasso di disoccupazione che si aggira intorno al 20%”(8).
Dopo l'abbandono di Mubarak, “tutti, dal
rappresentante del partito Tagammo
Caso egiziano
Alla “rivolta dei gelsomini” tunisina, ha
8
(sinistra) a quello dei Fratelli musulmani,
hanno preparato un documento in nove
punti che presenteranno ai vertici delle
forze armate.
È, dicono, un testo «fondamentale» per
accelerare la transizione verso la democrazia”(10). I punti fondamentali di cambiamento riconosciuti da tutti i partiti e da
tutti i movimenti, da quello del 25 Gennaio
a quello del 6 Aprile, sono i seguenti:
- la sospensione immediata della legge di
emergenza varata 30 anni fa
- lo scioglimento immediato del parlamento e del senato egiziano
- la cancellazione della vecchia costituzione e la creazione di una assemblea
costituente
- assicurare immediatamente la libertà di
espressione e la libera circolazione delle
informazioni
- la liberazione di tutti i detenuti politici e
di tutti i leader politici dell’opposizione
Si discute molto del ruolo dell'esercito. É
forte il timore che i generali dell’esercito
controllino la rivoluzione innescata dai
giovani, diventata rivoluzione di tutto il
popolo, per svuotarla dei suoi contenuti,
nonostante le parole dei militari che hanno
annunciato le dimissioni del dittatore.
“«Stiamo decidendo se svuotare del tutto
piazza Tahrir dove abbiamo sconfitto il raìs
oppure lasciare un presidio permanente,
dipenderà molto dalla revoca delle leggi
d'emergenza da parte delle autorità
militari», ci dice la portavoce del
Movimento 6 Aprile...I comandi militari
non hanno sciolto i nostri dubbi. Il loro
comunicato conferma il governo in carica e
non fornisce alcuna scadenza per
l'attuazione della road map della democrazia in Egitto, non fornisce alcuna indicazione su come procederà e con quali modalità
la transizione.
Dobbiamo essere vigili. Mubarak non è
più al potere ma il resto è tutto da costrui-
Internazionale
re”(10).
Moltissimi gli interessi politici ed
economici che riguardano l'Egitto. “Per
l'Occidente l'Egitto svolge un ruolo
importante nello scacchiere mediorientale.
Con i suoi 80 milioni di abitanti, è il paese
più popoloso del mondo arabo. Anche se la
sua influenza sta diminuendo, il paese
impone la sua lingua e la sua cultura
soprattutto quella giovanile, a tutta la
regione. Inoltre ogni anno per il canale di
Suez passano il 7% del traffico marittimo
globale e circa il 2% delle spedizioni di
petrolio.”(8).
Non va inoltre dimenticato che il
possibile stravolgimento della dittatura
egiziana potrebbe condurre a ritrattare gli
accordi di Camp David (1978) e il conseguente trattato di pace con Israele (1979) e
ad aprire la strada alla rottura del blocco
contro la confinante striscia di Gaza, dove
da anni Israele ed Egitto tengono prigionieri un milione e mezzo di palestinesi. Molti
temono, con l'avanzare dei Fratelli
Musulmani, un possibile modello iraniano,
altri un modello turco stile Erdogan.
Qualunque sia la transizione, sia i
movimenti che i partiti politici sono troppo
deboli per innescare un cambiamento
repentino e la ricerca di un sostituto
temporaneo di Mubarak si fa sempre più
pressante. Da Omar Suleiman, vice
presidente nominato dal vecchio dittatore a
Mohamed el Baradei, premio Nobel per la
pace del 2005 ed ex direttore dell'Agenzia
Internazionale per l'Energia Atomica
(AIEA), si è aperto il toto presidente. Chi
prenderà il posto di Mubarak? Spinte neocoloniali, da parte degli Stati Uniti, e
possibili commistioni islamiche scuotono il
paese. Le angosce sono tante: “Pur ancora
brancolando nel buio ma memori di come
nel 1979 persero il controllo dell’Iran, oggi
gli Stati Uniti non possono assolutamente
concedersi il lusso di perdere l’Egitto, l’asse
portante della loro politica nel Nord Africa
e nel Medio oriente, lo snodo cruciale
tramite il quale mantengono saldo il
sistema di alleanze filo occidentali nella
regione, l’interfaccia che consente loro di
bilanciare in qualche modo lo strapotere di
Israele e di espandere la loro influenza
politica ed economica su tutti gli stati della
regione. E sono giustamente preoccupati,
dato che, dopo la Tunisia e l’Egitto, anche
in Giordania e nello Yemen si sono accesi
piccoli focolai di rivolta”(11).
Caso libico
Le proteste tunisine si sono propagate
anche in Libia in particolar modo nella
regione della Cirenaica con le città di alBayda, Bengasi, Tobruk. Sommosse
“sedate” con il sangue da parte del colonnello Muammar Gheddafi, al potere da 42
anni, che non ha esitato ad utilizzare le
forze armate con mitragliatrici e caccia da
combattimento e ad assoldare mercenari,
“i berretti gialli, come li chiama la gente per
il colore del loro copricapo”(12), per
sparare sulla folla in un primo momento
disarmata. Migliaia i morti. La repressione
non si è fermata quì ma ha steso la sua
mano anche sui mezzi di comunicazione
“dopo l'oscuramento di Internet e delle tv
satellitari, in molte città della rivolta sta
mancando l'elettricità.”(12), azione messa
in atto anche dal regime egiziano.
Occorre però fare dei distinguo nelle
rivolte politiche del Medio Oriente,
valutando attentamente le diverse
dinamiche, “questa accortezza diventa
ancora più necessaria nel valutare gli eventi
in Libia e le profonde differenze con quanto
accaduto negli altri paesi del Maghreb,
Tunisia ed Egitto soprattutto. Non solo,
occorre anche separare il giudizio su
Gheddafi rispetto alle cause e alle conseguenze eventi in corso. In Libia, diversamente che in Tunisia e in Egitto, dobbiamo
parlare di guerra civile e non di rivolta
popolare.”(13). Infatti, dobbiamo considerare che le condizioni socio-economiche
dei libici sono migliori di quelli degli altri
paesi della zona ma anche che la popolazione libica è divisa in tribù e che lo stesso
colonnello ha contribuito ad assembrarle
in una nazione.
Infatti, “Gheddafi, è stato un valoroso
combattente anticolonialista e per anni ha
cercato di alimentare focolai di rivolta
contro il neocolonialismo in Africa e Medio
Oriente”(13), “quando fu protagonista del
colpo di stato nel '69 aveva davanti a sé un
paese pieno di piccole organizzazioni,
clanico, e lui ha contribuito a farne una
nazione. In un anno ha cacciato le basi
militari americane e inglesi, ha espulso i
9
20mila italiani che costituivano ancora un
retaggio del colonialismo.”(14) ma “dopo
anni di embargo (e di bombardamenti USA
non dimentichiamolo) nel 1999 Gheddafi
ha cercato la strada del compromesso con
l’imperialismo, soprattutto dopo l’11
settembre...”(13) ciò ha permesso dal 2004
che gli Stati Uniti non considerassero più la
Libia uno “stato canaglia” e “sono tornati
ormai da sette anni con quattro multinazionali petrolifere ad attingere al petrolio di
Tripoli. E gli interessi non sono solo per il
petrolio perché i francesi hanno attivato
contratti per vendere i loro aerei da
combattimento, la Gran Bretagna aveva
mandato Tony Blair - che con Seif al Islam
risolse anche la vicenda drammatica di
Lockerbie - come commesso viaggiatore
d'affari. Tutti in fila per vendere forniture.
Perché in Libia-Piazza Affari c'è da
cambiare tutto: ci sono da costruire
aeroporti nuovi, la famosa ferrovia,
l'autostrada litoranea dovrà costruirla
l'Italia. Come da accordo storico con il
quale il governo italiano riconosce le
infamie italiane colonialiste e fasciste, per
avere in cambio il contenimento - vale a
dire nuovi campi di concentramento dell'immigrazione disperata del Maghreb e
dell'interno africano.”(15).
L'apertura palese ai paesi imperialisti ha
fatto commettere ulteriori errori a
Gheddafi: da una parte ha dimenticato che
la Cirenaica è ancora pervasa dal mito di
Omar el Mukhtar, considerato un eroe
libico contro l'Italia colonialista, dall'altra
ha “sempre minimizzato l'importanza delle
tribù del Gebel, della «montagna», che
sono a 50 km da Tripoli.”(14).
Inoltre, le proteste libiche non hanno
nulla a che spartire con quelle egiziane e
tunisine, infatti, “la Libia non ha masse di
disperati urbani, in parte perché il regime
ha adottato un sistema paternalistico/assistenziale che evita gravi forme di
miseria, ed in parte perché mancano
proprio le masse, dato che si sta parlando di
un paese spopolato...”(16).
In sostanza l'importanza che gioca la
Libia nello scacchiere del Mediterraneo è
immensa.
“Grazie alle ricche riserve di petrolio e gas
naturale, la Libia ha una bilancia commerciale in attivo di 27 miliardi di dollari annui
e un reddito pro capite medio-alto di
12mila dollari, sei volte maggiore di quello
egiziano. Nonostante le forti disparità, il
livello medio di vita della popolazione
libica (appena 6,5 milioni di abitanti in
Internazionale
confronto ai quasi 85 dell'Egitto) è quindi
più alto di quello dell'Egitto e degli altri
paesi nordafricani. ..a fuggire quindi sono
soprattutto tecnici delle grandi compagnie
petrolifere. Non solo l'ENI, che realizza in
Libia circa il 15% del suo fatturato, e
Finmeccanica ma anche altre multinazionali soprattutto europee: BP, Royal Dutch
Shell, Total, Basf, Statoil, Rapsol. Sono
costretti a lasciare la Libia anche centinaia
di russi della Gazprom e oltre 30mila
cinesi di compagnie petrolifere e di
costruzioni. Una immagine emblematica di
come l'economia libica sia interconnessa
all'economia globalizzata, dominata dalle
multinazionali.” (17)
È molto probabile che in Libia vi sia in
atto un “golpe”(16) per la spartizione delle
risorse naturali e per accaparrarsi la
costruzione di servizi più o meno imponenti e “non si può quindi escludere che la
rivalità etnica sia ancora la leva con cui altre
potenze coloniali oggi stiano cercando di
destabilizzare il regime di Gheddafi,
magari prospettando ai vari capi tribali la
possibilità di cogestire il business del
petrolio con le multinazionali angloamericane”.
I flussi migratori verso l'Italia e l'Europa
saranno incrementati ma i barconi carichi
di profughi e di migranti hanno spesso la
funzione di distogliere l'attenzione dai veri
ingressi nei porti: quelli delle petroliere e
delle navi gasiere.
Tutto ciò non potrà lasciare impassibili
gli “esportatori di democrazia” e la forze
USA/NATO si preparano per una nuova
“guerra umanitaria”(17),(18). Gli interessi
non sono solo dell'Occidente ma anche
delle nuove forze capitaliste; infatti,
Pechino auspica un ritorno alla normalità
in Libia e ciò appare evidente basta
considerare che “il commercio cino-libico è
in forte crescita (circa il 30% solo nel
2010)”(17)
Cosa accomuna quindi le rivolte e le
proteste, ripeto parlare di rivoluzioni mi sembra alquanto prematuro, in
Nord Africa?
Quasi tutti i popoli oppressi del Medio
Oriente hanno visto e hanno capito cosa
vuol dire la autodeterminazione e la forza
di un popolo. La liberazione dagli stati
coloniali ha instaurato una finta liberazione delle popolazioni e delle zone di terra
dove vivono, e attraverso vari stadi: dalla
nazionalizzazione alla liberalizzazione
delle risorse naturali ha permesso la
ricolonizzazione da parte delle multinazionali economiche in accordo con i despoti
locali. Dietro le rivolte in Egitto, in Tunisia,
in Algeria, in Libia, c'è un' èlite di giovani
africani poliglotti, digitalizzati (basta
valutare l'importanza che hanno avuto gli
universitari e le comunicazioni informatiche nelle proteste) che hanno preso un
minimo di coscienza della propria
schiavitù, della propria miseria e spinti alla
disperazione per la situazione in cui vivono
hanno cercato di dare un peso sostanziale
alle proprie decisioni senza aspettare di
essere avallati dai loro governi. “I Tunisini,
gli Egiziani e i popoli del Terzo Mondo sono
meglio informati, da una parte grazie ad AlJazeera e d’altro canto attraverso Internet e
le sue reti sociali. L’evoluzione delle
tecnologie dell’informazione ha aumentato
il livello dell’istruzione e di presa di
coscienza delle persone. Il popolo non è più
una massa di contadini analfabeti.”(4)
“In definitiva, negli ultimi anni si è
verificato uno sviluppo dipendente,
subalterno a quegli stessi paesi occidentali
che oggi parlano ipocritamente di democrazia e che condannano la violenza di
"despoti" fino a ieri appoggiati in tutti i
modi e considerati controparti affidabili.
La debolezza e la repentina caduta di
queste élite è dovuta proprio al fatto di
essere pressoché semplici intermediari
degli interessi esteri. In qualche caso, saliti
al potere con il concorso decisivo dei servizi
segreti europei, come Ben Alì in Tunisia
grazie ai servizi italiani (Craxi ha avuto un
ruolo importantissimo). ... Il principale
nemico dei popoli arabi e nord-africani è
chi sta dietro i “despoti”, ovvero quello che
possiamo chiamare neo-imperialismo, che
non si basa sul controllo diretto del
territorio, come il vecchio imperialismo
colonialista. L’imperialismo odierno si
fonda sul controllo per procura
dell’economia e delle materie prime e
scarica, attraverso i mercati finanziari, le
sue contraddizioni, la crisi in primo luogo,
sui paesi periferici. Il punto, dunque, non è
la rivendicazione di una democrazia
astratta, ma la rivendicazione di rapporti
sociali e internazionali di tipo diverso.”(1)
Il mondo è ormai uno scacchiere in cui la
partita è globale. Oltre ai soliti ruoli
USA/NATO cosa faranno la Russia, la Cina,
l'asse Turchia-Iran? È chiaro che nessuno
starà a guardare.
Cosa possiamo concludere da uno
scenario così devastante: che la disinfor-
10
mazione agisce quasi indisturbata e che
grandi schemi di potere si giocheranno
nelle zone del Maghreb.
Le rivolte in Tunisia e in Egitto hanno
forse avuto un carattere spontaneo ma a
mio avviso non contengono ancora progetti
alternativi di società, noi come anarchici e
anarchiche non possiamo che spingere le
masse a una rivolta generalizzata attraverso l'azione diretta che liberi tutti e tutte dai
controlli dei poteri economici e che
finalmente autodetermini i popoli.
Riferimenti
(1) Domenico Moro, Le vere cause delle rivolte in
Nord Africa, Resistenze del 23 febbraio 2011
(2) AA.VV., Rivolta del pane in Tunisia, decine di
morti: «La polizia smetta di sparare», Corriere della
Sera del 08 gennaio 2011
(3) Giuliana Sgrena, Ben Ali non abita più qui, Il
manifesto del 16 gennaio 2011
(4) Michel Collon, Grégoire Lalieu, Mohamed
Hassan: «Le cause della rivoluzione tunisina vanno ben
oltre Ben Ali e la sua fazione», 01 febbraio 2011 tratto da
http://www.michelcollon.info È possibile leggerene la
traduzione in http://www.marx21.it
(5) Mario Sei, La rivoluzione in Tunisia: una storia
reale o virtuale?, 09 febbraio 2011 tratto da
http://www.comedonchischiotte.org
(6) Sami Naïr, La Tunisia brucia, tratto da
Internazionale del 21 gennaio 2011
(7) Mohamed gruppo Pierre-Besnard della
Fédération anarchiste, La caduta di Ben Ali e del suo
clan di mafiosi. Fine del dittatore, non della dittatura,
Umanità Nova del 06 febbraio 2011
(8) AA.VV., Tempo scaduto per il faraone, tratto da
Internazionale del 04 febbraio 2011
(9) Sudarsan Raghavan, Egyptians focus their
attention on recovering the nation's money, The
Washington Post del 13 febbraio 2011
(10) Michele Giorgio, Il nuovo Egitto con tanti dubbi,
Il manifesto del 14 febbraio 2011
(11) AA.VV., Chi prenderà il posto di Mubarak?
Egitto: le teorie dei Neocons alla prova dei fatti,
Umanità
Nova del 13 febbraio 2011
(12) Abi Elkafi, Libia nel caos, decine di morti, Il
manifesto del 22 febbraio 2011
(13) Sergio Carraro, Libia. Non è una rivolta popolare
ma una guerra civile. I dovuti distinguo,
Megachip del 24 febbraio 2011
(14) Angelo Del Boca, Nel precipizio, Il manifesto del
22 febbraio 2011
(15) Tommaso De Francesco, Gheddafi reggerà, in
cirenaica rivolta endemica, Il manifesto del 20
febbraio 2011
(16) Comidad, Libia: una guerra del petrolio tra ENI e
BP?, 24 febbraio 2011 tratto da
http://www.comidad.org/dblog/articolo.asp?artico
lo=402
(17) Manlio Dinucci, La Libia nel grande gioco. Al via
la nuova spartizione dell’Africa, Il manifesto del 25
febbraio 2011
(18) Tommaso De Francesco, Verso un’altra guerra
"umanitaria", Il manifesto del 25 febbraio 2011
Internazionale
Dalla Palestina
di Alex
Gaza imprigionata
Nella Striscia di Gaza, enorme campo di
concentramento per volontà dello Stato
d'Israele, la gente ha solidarizzato con
entusiasmo con la rivolta in Egitto contro
l'autocrazia, autocrazia da tempo in
combutta con i governi israeliani e armata
dagli USA. Tuttavia è presente anche
angoscia fra la popolazione, angoscia per
una condizione di ulteriore isolamento
della Striscia a seconda degli accadimenti
nella terra delle piramidi: i tunnel e il valico
di Rafah ( al confine fra Gaza ed Egitto) dai
quali passa un minimo di approvvigionamento energetico, alimenti e medicinali,
erano stati bloccati, poi sono stati riaperti,
ma le incognite e le paure sono numerose. A
Gaza la situazione continua ad essere
critica sotto tutti gli aspetti, in particolare è
insufficiente il carburante per produrre
l'energia elettrica che fa andare avanti gli
ospedali, si profila una ulteriore catastrofe
umanitaria che va a sommarsi agli effetti
dell'operazione genocidiaria “Piombo
Fuso” realizzata dallo Stato israeliano due
anni fa. Come abbiamo sottolineato più
volte su questo foglio, la popolazione di
Gaza resiste coraggiosamente ma la
situazione è sempre più drammatica, si
teme per un altro massacro da parte
dell'apparato militare israeliano.
La maggior parte della gente di Gaza non
può uscire da questa stretta striscia di terra,
la più estesa prigione a cielo aperto del
mondo, e la maggior parte degli adulti non
ha possibilità di lavorare. 800.000
persone, più di metà della popolazione,
sono bambini. La gente è ancora in lutto a
causa dei criminali attacchi dell' esercito
israeliano dell'inverno 2009, quando 1400
persone sono state assassinate, e tra queste
350 bambini, con immani devastazioni. E
l'aviazione israeliana continua con i raids
uccidendo, ferendo e distruggendo.
Lotta congiunta, popolare e
autorganizzata nella West Bank
In Cisgiordania prosegue l'Apartheid
neocolonialista israeliano mediante la
realizzazione di una barriera che si estende
per centinaia di chilometri (ultimata
dovrebbe superare i 750 Km, e' costituita
da un muro in cemento alto 8 metri, fossati,
filo spinato e recinzione elettrificata con
telecamere e postazioni di cecchini), con la
confisca di terre e sorgenti d'acqua dei
villaggi palestinesi, l'impossibilità per i
palestinesi di spostarsi liberamente da una
località all'altra mediante la militarizzazione delle vie di comunicazione, la distruzione di abitazioni e campi coltivati, il tutto
secondo una piano di pulizia etnica e
colonizzazione, con uccisioni, ferimenti e
arresti. Ma la lotta dal basso antisegregazione e anti-occupazione non si
arresta davanti alla criminale repressione:
*Sono passati sei anni da quando gli
abitanti di Bil'in - villaggio palestinese
cuore della resistenza dal basso non
violenta - insieme ai loro compagni
israeliani e internazionali, hanno iniziato a
mobilitarsi costantemente - con marce e
azioni dirette - contro il Muro
dell'Apartheid e la confisca delle loro terre.
Sono trascorsi più di tre anni da quando la
Corte Suprema d' Israele ha stabilito che il
percorso del Muro doveva essere cambiato
il più presto possibile: “il popolo di Bil'in
ha aspettato abbastanza”. Il Comitato
Popolare di Bil'in contro il Muro e gli
insediamenti ha organizzato venerdì 18
febbraio una celebrazione dei sei anni di
lotta. Gli abitanti del villaggio, insieme a
molte centinaia di loro sostenitori – venuti
da tutta la Cisgiordania, da Israele e da
tutto il mondo – hanno marciato ancora
una volta verso le terre sequestrate al di là
del Muro. Il corteo, accompagnato da
musica e con simboli contro l 'apartheid e
gli USA, è riuscito ad avvicinarsi al recinto
di separazione nonostante i lacrimogeni e
gli spruzzi di acqua fetida lanciati
dall'esercito israeliano. “I giovani sono
riusciti a tirare giù il recinto esterno in un
paio di punti e ad andare oltre. Poco dopo
l'esercito ha attraversato il muro spalleggiato da lanci di gas. Alcuni manifestanti
sono riusciti a restare a contatto con i
soldati, impedendo ai giovani di tirare sassi
su di loro. Più aumentavano i manifestanti
che pressavano i soldati,
più sono aumentate le sofferenze da
inalazione di gas ed i rischi di essere colpiti
dalle granate sparate da breve distanza
direttamente sul corteo. I soldati hanno
persino sparato sulle ambulanze impegnate nel trasporto delle vittime delle inalazioni di gas letali. Durante il confronto diretto
con i soldati, un manifestante ha scritto con
lo spray uno slogan contro il muro sullo
scudo di un militare e altri due manifestanti sono stati arrestati (uno falsamente
accusato di lancio di pietre, poi entrambi in
giornata rilasciati). Quindi i manifestanti
hanno sciolto la manifestazione e sono
tornati indietro con la maggior parte dei
giornalisti. Ma i soldati sono rimasti là, per
cui i giovani hanno cercato di spingerli alla
ritirata sottoponendoli ad un fitto lancio di
pietre. Per tutta risposta tre soldati hanno
sparato in corsa proiettili veri calibro 0,22,
per poi andarsene. Un ragazzo di 17 anni è
rimasto ferito”. I media israeliani hanno
poi mentito sull'accaduto dicendo che il
giovane ferito avrebbe minacciato i soldati
con un'arma appuntita.
*“Verso le 9 del mattino di venerdì 28
gennaio, due gruppi di coloni armati hanno
marciato attraverso Beit Umar, villaggio
palestinese. I coloni hanno sparato e ferito
due giovani palestinesi: Bilal Al-Qador è
stato colpito a un braccio e Yousef Ikhlay è
stato colpito in testa. Quest'ultimo è morto
più tardi durante la notte all'ospedale di
Hebron.
Yousef non ha mai perso nessuna delle
manifestazioni settimanali contro
l'insediamento dei coloni israeliani di
Karmei Tzur che è costruito su un terreno
della sua famiglia. Era anche un assiduo
volontario per il Progetto Solidarietà
Palestina. A seguito della sua uccisione una
marcia funebre enorme si è tenuta a Beit
Umar il sabato. Migliaia di persone hanno
marciato verso la strada principale
bloccandola per oltre un'ora. L'esercito
israeliano ha invaso il villaggio e ferito
decine di persone.
L' uccisione di Yousefs è stato denunciata
a Jaffa ( cittadina a pochi chilometri da Tel
Aviv, n.d.r. ) il sabato notte in una prima
manifestazione programmata contro gli
insediamenti israeliani.”
*L'11 Gennaio Jonathan Pollak di
Anarchici Contro il Muro ha iniziato un
periodo di tre mesi di reclusione nella
prigione Hermon, nel nord d'Israele.
“L'accusa formale è riunione illegale ma la
11
Internazionale
vera ragione per cui è in carcere è che lui è
intransigente nella resistenza
all'oppressione dello stato israeliano.
Prima di essere condannato Pollak ha
dichiarato in tribunale che l'unica cosa per
cui si rammarica è "non fare di più” per
cambiare la situazione insostenibile degli
abitanti di Gaza, e per far cessare il
controllo d'Israele sui palestinesi. Questo
caso dimostra che il sistema giudiziario
utilizzerà il carcere per sopprimere il
dissenso politico anche nei confronti di
attivisti ebrei relativamente privilegiati
(rispetto ai palestinesi n.d.r). Questa
repressione di solito prende la forma di
un'abitudine a scendere a compromessi
con lo Stato e le sue istituzioni in innumerevoli modi. Rifiutando di pentirsi e anche di
fare appello per il suo caso, Pollak resiste a
questa sistematica forma di repressione.
L'importanza di tali azioni è che hanno un
potenziale che può essere davvero rivoluzionario. Rifiutando di accettare le
convenzioni politiche e giuridiche per
quello che è successo a lui, si può realizzare
un cambiamento molto significativo. Il
successo della sfida di Jonathan al sistema
giuridico dipenderà dal fatto che questo
ispiri altri a fare lo stesso e ad unirsi alla
lotta in cui si è impegnato.” Egli apprezzerebbe ricevere lettere in carcere,
*Il primo gennaio Jawaher Abu Rahma
attivista palestinese del comitato di
villaggio di Bil'in - sorella di Bassem Abu
Rahma, colpito a morte da un candelotto di
gas lacrimogeno sparato ad alta velocità
durante una manifestazione il 17 aprile del
2009 - è stata uccisa per avvelenamento da
gas lacrimogeni sparati dall'esercito
israeliano durante una manifestazione
contro il Muro dell'Apartheid.
Mohammed Khatib, membro del
Comitato Popolare di Bil'in ha dichiarato:
"Siamo scioccati e furiosi per la brutalità d'
Israele, che ancora una volta è costata la
vita di una pacifica dimostrante, la risposta
letale e disumana d' Israele alla nostra lotta
non passerà. All''alba di un nuovo decennio
è il momento che il mondo chieda conto ad
Israele delle sue responsabilità per porre
fine all'occupazione ".
L'avvocato Michael Sfard, che rappresenta il villaggio in un ricorso contro il Muro ha
aggiunto: "Un figlio è stato ucciso da un
proiettile … una figlia soffocata dal gas, due
manifestanti coraggiosi contro un regime
che uccide gli innocenti e non indaga sui
suoi criminali. Non resteremo passivi, noi
non ci arrendiamo, noi non risparmieremo
alcuno sforzo fino a quando i responsabili
non saranno puniti. E lo saranno. " (1)
Dunque la gente dei villaggi continua a
ribellarsi e a lottare contro l'infame
Apartheid assieme al movimento degli
Anarchici Contro il Muro, assieme ad altri
gruppi pacifisti israeliani e assieme agli
attivisti solidali internazionali.
Repressione delle lotte dal basso da
parte di Fatah e Hamas
Ma la repressione è anche interna.
Quando le popolazioni della Palestina
hanno cercato di manifestare a fianco delle
sorelle e dei fratelli egiziani
contro
l'autocrazia di Mubarak, i poteri confliggenti di Fatah e Hamas, ma ugualmente
antipopolari e liberticidi, hanno represso
violentemente le mobilitazioni dal basso
per la libertà e la giustizia sociale.
La collaborazionista Autorità Palestinese
ha manganellato e arrestato chi ha
solidarizzato con la rivolta in Egitto perché
il regime egiziano rappresenta da tempo un
importante interlocutore per Israele
nell'area mediorentale, Abu Mazen nega la
libertà d'espressione alla gente della
Cisgiordania.
Allo stesso modo la polizia della fondamentalista Hamas ha arrestato e percosso i
giovani che manifestavano in favore delle
mobilitazioni egiziane anti-regime.
Il fatto è che – al di là dei vari tatticismi
politici – anche in Palestina chi governa
teme le manifestazioni autorganizzate che
mettono o possono mettere in vario modo
in discussione l'ordine costituito, e le
reprime. In un clima generale d'insorgenza
sociale nel Maghreb e in Medioriente (con i
dittatori Ben Alì e Mubarak cacciati dalle
classi subalterne in rivolta), questi moti
sociali potrebbero infiammare ulteriormente la situazione anche a Gaza e nella
West Bank.
Al centro degli interrogatori subiti dai
manifestanti arrestati, la richiesta
incessante e opprimente di informazioni
sull' “identità” del nuovo acerrimo nemico
di tutti i governi arabi: Internet e i social
network, cioè stiamo parlando della paura
da parte dei poteri costituiti che la gente
possa comunicare dal basso e in autonomia
infrangendo le barriere predisposte dai
governanti, sviluppando opposizione e
alternativa sociale.
Omar Barghouti, analista politico
palestinese indipendente e uno dei
fondatori del Palestinian Campaign for the
Academic & Cultural Boycott of Israel
(Pacbi) - il boicottaggio accademico e
culturale d'Israele - ha così tratteggiato la
situazione fra Gaza e Cisgiordania:
" Hamas e Fatah concordano in così poco,
e quell'unico piccolo denominatore
comune è la repressione del dissenso e la
repressione della libertà”
BDS (2)
Il PSCABI (Palestinian Student Campain
for the Academic Boycott of Israel)
composto da studenti palestinesi, artisti,
intellettuali, insegnanti, e individualità di
varia collocazione politica, ha lanciato una
campagna Anti-Apartheid a partire dal 7
marzo in tutto il mondo (IAW – Israeli
Apartheid Week). Lo scopo della IAW è d'
informare le persone riguardo la natura d'
Israele come un sistema di Apartheid e
costruire campagne di Boicottaggio,
Disinvestimento e Sanzioni come parte del
12
movimento globale BDS, la campagna
chiama ad una forte mobilitazione
internazionale diretta, dal basso e diffusa.
Lo storico israeliano antisionista Ilan
Pappè recentemente ha scritto: “E' tempo
ora per tutti quelli che hanno fatto sentire la
loro voce DOPO il massacro di Gaza due
anni fa, di farla sentire ADESSO, e cercare
di evitare il prossimo”.
Gli organizzatori della IAW sottolineano
come l'esempio delle vicine rivolte sociali in
Tunisia ed Egitto, alimentino la speranza
perché possano aprirsi nuovi scenari di
auto-emancipazione, di libertà e vita anche
per le popolazioni palestinesi dei Territori
Occupati e come queste insorgenze diano
un grande slancio alle stesse campagne
BDS.
A Tel Aviv davanti all'ambasciata USA ci
sono state di recente proteste da parte degli
Anarchici Contro il muro e altri attivisti
anti-apartheid per la complicità del
governo a stelle e striscie con la politica
israeliana degli insediamenti coloniali.
Forte è stato l'appello, con striscioni,
cartelli e slogan contro l'occupazione e per
la campagna BDS!
*(1)Notizie riprese dal sito degli
Anarchici Contro il Muro: www.awalls.org
e da A infos: http://www.ainfos.ca/it/ .
Per sostenere gli Anarchici Contro il
Muro: www.awalls.org
(2)Boicottaggio,Disinvestimento e
Sanzioni
Altre fonti, si veda:
www.peacereporter.net
www.apartheidweek.org
www.pacbi.org
www.bdsmovement.net
http://guerrillaradio.iobloggo.com/
http://www.bilin-village.org/
Internazionale
Migranti: Messico paese di transito.
I soprusi, gli abusi e la violazione dei più basilari diritti umani
di Luca
. Oaxaca: l'oppressione dei migranti
Negli stati del sud della federazione
Messicana si è sviluppato dal 2006 un
movimento popolare di vaste dimensioni.
Sulle pagine di questo giornale abbiamo
già affrontato diversi aspetti di questo
movimento e abbiamo descritto, almeno in
parte, quali settori sociali, fra quelli che si
situano più in basso nella scala dello
sfruttamento, si sono mobilitati.
Un aspetto che non è stato ancora
analizzato riguarda invece la repressione
dei migranti che attraversano gli stati del
sud della federazione messicana per
raggiungere i luoghi dove vi è più “ricchezza”, si intende luoghi dove gli individui
trovano maggiori opportunità di vendere la
propria forza lavoro.
Oaxaca come paese di transito
Il funzionario della Segreteria federale
per la salute pubblica messicana ha
dichiarato a mezzo stampa che il treno che
porta i migranti dal centro america alla
frontiera messicana con gli Stati Uniti
d'America attraversa almeno 25 punti
rossi, nei quali i migranti possono essere
soggetti ad azioni criminali da parte delle
bande malavitose.
Le quattro rotte del treno che attraversa
tutto il messico sono: Arriaga, Chiapas Lechería, Estado de México; Tenosique,
Tabasco-Lechería, Estado de México;
Lechería, Estado de MéxicoReynosa,Tamaulipas, e Lechería Estado de
México-Nuevo Laredo, Tamaulipas.
Nello Stato di Oaxaca sono state segnalate in particolare alcune località dove i
migranti sono soggetti ai maggiori rischi,
sempre secondo il governo, da parte di
attacchi di bande criminali.
Le località sono: Chauites, Juchitán de
Zaragoza, Ciudad Ixtepec, e
Matías
Romero, dove lo scorso dicembre fu ucciso
un migrante proveniente da El Salvador da
un commando armato(1).
La migrazione da El Salvador costituisce
una delle percentuali più alte di migranti
diretti verso gli Usa.
Alimentata da decenni di guerra civile,
instabilità economica e disastri naturali la
migrazione verso gli Stati Uniti ha subito
una vera e propria impennata. 1.1 milioni
sono già residenti negli Usa, quasi un sesto
della popolazione del Salvador, che ad oggi
conta 5.7 milioni di abitanti.
Considerando la notevole incidenza dei
salvadoregni sulle percentuali di migranti
diretti negli Usa dal Centro America
riportiamo alcuni passi dell'intervista
realizzata a Washington con un exguerrigliero del Fronte di Liberazione
Nazionale Farabundo Martin, che per
ragioni di sicurezza mantiene
l'anonimato,ma che descrive dettagliatamente le angherie, i soprusi e le violenze
subite nel cammino verso il nord.
Nell'intervista racconta di trafficanti
voraci, sequestri di massa, funzionari
corrotti, elementi che segnarono costantemente i circa tremila chilometri percorsi.
Tutto questo rende un quadro della
profonda repressione, vessazione e
violazione dei più elementari diritti umani
a cui sono sottoposti i migranti che
attraversano il Messico. Vanno inoltre
ricordati episodi come il Massacro di 72
migranti a Tamaulipas e ed il sequestro di
un gruppo di migranti nello stato di
Oaxaca nel dicembre scorso.
Ma descriviamo succintamente il viaggio
del sotto-comandante .
L'inizio del viaggio: fu il primo momento
in cui subì il primo sopruso. “I poliziotti mi
accusarono di voler andare dal Guatemala
agli Stati Uniti e mi chiesero circa 20 dollari
per lasciarmi prendere l'autobus diretto
verso la frontiera con il Messico”.
Dopo aver pagato varie “mazzette” a posti
di blocco e polizia nel sud della federazione
messicana, Chiapas e Oaxaca, il sottocomandante giunge a Città del Messico,
dove si ferma per qualche ora, ma
nell'Hotel dove alloggiava si imbatte in un
“controllo” della polizia federale. Il
migrante dichiara di aver pagato 2000
dollari ad un agente per essere accompagnato in un'altra città messicana più a nord
vicino alla frontiera dove aveva appuntamento con un “coyote”.
Giunto così al quinto giorno di viaggio
inizia il passaggio della frontiera.
“Alle 4.30 della mattina nuotavo nel
fiume Bravo tenuto a galla dalla gomma di
una ruota insieme ad altre due ragazze
onduregne”. Superato il fiume, elusa la
pattuglia di frontiera giunge ad una casa di
un messicano, un “coyote”, che lo accompagna in una “Casa di Sicurezza”.
Qui viene sequestrato per la prima volta e
racconta: “c'erano 5 stanze
piene di
migranti; c'erano 15 persone in ogni stanza.
C'erano messicani, guatemaltechi,
onduregni, salvadoregni, brasiliani ed
equadoregni” .
“Un messicano arrivò alla stanza e disse
che avremmo dovuto pagare 1500 dollari a
testa, o altrimenti, non saremmo usciti da
lì. Ci ordinò di chiamare le nostre famiglie
negli Usa. Una ragazza onduregna disse
che non aveva nessuno. Il trafficante le
rispose che lui non era disposto a perdere
del denaro. Le disse che avrebbe dovuto
prostituirsi per pagarlo”.
Infine, dopo 10 giorni di viaggio lo
sequestrarono una seconda volta, sempre
solo attraverso il pagamento di 1500 dollari
lo lasciarono definitivamente libero, però il
trafficante, che lo portò con una geep vicino
a Arlington Heights, ad ovest di Los
13
Ángeles, gli chiese altri 500 dollari prima di
rilasciarlo.
Concludendo: il viaggio non solo era
stato “un incubo”, come lo definisce
l'intervistato, ma solo fino alla frontiera
con gli Usa gli era costato più di diecimila
dollari. (2)
I sequestri sui treni
Oltre ai viaggi “di routine” come quello
descritto sopra si sono verificati vari
sequestri di massa come nel caso dei morti
di Tamaulipas(3) e nel dicembre scorso 40
persone sono state sequestrate anche nello
stato di Oaxaca.
Il treno merci, diretto al nord del messico
è stato fermato e assaltato e 40 migranti
sono stati sequestrati.
La dinamica dei fatti presenta però
diverse incongruenze e punti oscuri.
Infatti, in un primo momento, unità di
polizia e membri dell'esercito regolare
hanno bloccato il treno che attraversava
l'istmo di Oaxaca e hanno controllato i
documenti a duecentocinquanta migranti.
Una novantina vengono arrestati e gli altri
fatti ri-partire con il treno merci. Alcuni
testimoni riferiscono che
gli stessi
lavoratori della Compagnia Statale
dell'Istmo di Tehuantepec, sembra che
abbiano compiuto abusi e rivolto minacce
ai migranti perché non li avrebbero
ricompensati con adeguate somme di
denaro. Quando il treno si rimette in
marcia i funzionari della società dicono che
a causa del denaro insufficiente potrebbero
incorrere in problemi nel prosieguo del
cammino. Ed infatti dopo circa mezz'ora il
treno viene bloccato nuovamente, ma
questa volta assaltato da un commando
non identificato. I migranti vengono
derubati e circa quaranta di loro sequestrati, fra i prigionieri, di cui ad oggi non si
hanno notizie certe, vi sono anche dieci
donne e un minorenne.
Due giorni più tardi alcuni migranti,
riusciti a sfuggire al controllo di polizia ed
esercito e all'assalto del commando,
raggiungono l'Albergo per migranti
“Fratelli in Cammino”, nella città oaxaqueña “Ciudad Ixtepec”. Il direttore del centro,
Padre Alejandro Solalinde, un
noto
difensore dei diritti umani dei migranti,
informò le autorità e denunciò pubblicamente il sequestro. Da allora l'attivista ha
ricevuto molteplici minacce di morte. (4)
A partire da questi fatti moltissimi
attivisti, sia di Ong che di collettivi autoorganizzati, hanno intensificato il loro
lavoro dal basso in sostegno ai migranti.
Contemporaneamente l'Alto
Commissariato per i diritti umani delle
Nazioni Unite ha domandato al governo
oaxaqueño e a quello messicano di fare
chiarezza sulla vicenda(5) .
Internazionale
Il lavoro delle Ong e dei gruppi autoorganizzati
Nei primi giorni di gennaio varie ong
hanno indetto una carovana dal titolo
“passo dopo passo verso la pace”, sono
partiti dal Chiapas e dopo un tragitto di 17
chilometri circa hanno concluso la marcia
in una località oaxaqueña, Chahuaites.
L'obiettivo degli attivisti era ottenere
garanzie, da parte di istituzioni statali e
federali, in merito al rispetto di basilari
diritti umani anche per i migranti.(6)
Se il governo messicano ha varato una
legge dove riconosce la necessità di
salvaguardare i diritti umani degli
individui, indipendentemente se siano
“illegali” o meno, questo è dovuto alle
pressioni, blocchi stradali e manifestazioni
susseguitesi anche in queste ultime
settimane in Chiapas e Oaxaca in sostegno
ai migranti(7) .
L'intenzione iniziale del governo
messicano era infatti introdurre forme di
sanzione per il semplice fatto di dare aiuto a
individui ”illegali”, oltre che a stabilire il reimpatrio immediato degli “indocumentados”. Ci ricorda niente?
Chiaro che rispetto alla nostrana penisola
le situazioni di degrado e i livelli di violenza
raggiungono picchi maggiori, ma le volontà
governative in merito ai flussi migratori si
assomigliano. Infatti quello che ambedue i
governi vogliono è continuare a reprimere e
mantenere i livelli di guadagno che dal
traffico di quelle persone ricavano, i
governi come le organizzazioni criminali.
Si pensi per esempio che, oltre alle
mazzette ai funzionari di polizia o ai
funzionari pubblici, ai guadagni dal traffico
di esseri umani finalizzati alla prostituzione, anche gli stessi governi hanno veri e
propri guadagni ufficiali. Come, ad
esempio, riporta in un articolo JOSÉ
SANTIAGO HEALY in merito alle carceri
statunitensi solo per migranti, che
costituiscono un vero e proprio affare per il
governo e le aziende che le gestiscono: più
arresti vengono compiuti maggiore è il
ricavo(8).
Insomma il governo si nasconde dietro
solenni passaggi formali come
l'approvazione di leggi avanzate in materia
di rispetto dei diritti umani dei migranti
(9), ma solo attraverso l'azione quotidiana
degli attivisti sociali che militano in
Organizzazioni non governative come in
collettivi e gruppi non formali, si può
mantenere alta l'attenzione sulla tragedia
che colpisce
ogni anno centinaia di
migliaia di esseri umani.
Concludendo solo negli ultimi sei mesi la
commissione per i diritti umani americana
riferisce che i sequestri in Messico sono di
circa 240 persone.
(1) L. Franco, “Seguridad Pública identifica 25
“puntos rojos” donde migrantes son víctimas de
extorsiones y secuestros”, 21/01/2011.Fonte:
http://www.cronica.com.mx/nota.php?id_nota=5557
48
(2) V. H. Michel, “Subcomandante Ramiro: “Peleé en
la guerra desde los 12 años, pero pasar por México fue
terrible”, 16/01/2011.
“Fonte: http://www.msemanal.com/node/3517
(3)agn.gob.gt, “allan 72 migrantes muertos en
T a m a u l i p a s ” , 2 5 / 0 8 / 2 0 1 0 . f o nte:http://agn.gob.gt/agn/index.php/components/co
m
_
a
c
y
m
a
iling/js/index.php?option=com_content&view=article
&id=417:hallan-72-migrantes-muertos-entamaulipas-&catid=59:america-latina&Itemid=188
(4)Telesur.net, “ONU pide a México celeridad y
transparencia en investigación por secuestros de
i n m i g r a n t e s ” ,
2 1 / 0 1 / 2 0 1 1 .
Fonte:http://www.telesurtv.net/secciones/noticias/8
7657-NN/onu-pide-a-mexico-celeridad-ytransparencia-en-investigacion-por-secuestros-deinmigrantes/
(5) un.org, “ONU pide a México investigar secuestro
de migrantes”, 21/01/2001Fonte:
http://www.un.org/spanish/News/fullstorynews.asp
?newsID=20103&criteria1=secuestro&criteria2=inmi
grantes
(6) E. Flores, “Suspenden paso del tren en Arriaga,
Chiapas, hasta el próximo lunes
“ ,
0 7 / 0 1 / 2 0 1 1 .
F o n t e :
http://www.milenio.com/node/616253
(7)J. De Dios Garcia Davish, “Toman migrantes las
calle en Chiapas”, 22/02/2011. sFonte:
http://www.milenio.com/node/652508
(8) J. Santiago Healy, “Migrantes: un jugoso
negozio”, 28/01/2011. Fonte:
http://www.zeitgeist.com.mx/mexico/index.php?opti
on=com_kunena&Itemid=21&func=view&catid=20&
id=744#744
(9) D. Sempere, “Ley Solalinde”, 28/02/2011. Fonte:
http://www.nssoaxaca.com/migracion/104general/63219-ley-solalinde
Barbarie militariste: la Corea del Nord non ci sta!
di Maco
Era il 1953, quando le due coree ( nord,
sud ) misero fine alle ostilità ,ma il 38°
meridiano (linea che divide queste due
nazioni) è sempre stato conteso tra di loro.
Il 23 novembre 2010, con 50 colpi di
artiglieria , i nordcoreani hanno raggiunto
il bersaglio:ovvero l' isola sud coreana
Yeonpyeong ospitante 600 marines e altre
decine di militari di altri reparti, uccidendo
60 persone tra civili innocenti e militari, e
distruggendo abitazioni.
L'attacco è avvenuto il giorno dopo la
“Houguk Exercise”, la principale esercitazione difensiva annuale sud coreana, che
prevede la partecipazione di oltre 7000
militari.
Inoltre sempre lo stesso giorno, Stephen
Bosworth ( inviato speciale americano in
Nordcorea) giungendo a Pechino ha
dichiarato, dopo aver realizzato un dossier
su Kim Sung (leader nord coreano), che la
Corea del Nord ha uno sviluppato impianto
di arricchimento dell'uranio (si pensa il
migliore a livello mondiale), con il quale
sarebbero in grado di costruire armi
nucleari.
Waschington ha parlato di un'aperta
sfida, Seul si è detta “molto preoccupata” e
Tokyo ha definito la situazione “totalmente
inaccettabile”.
La preoccupazione di Seul non si è fatta
attendere, ha invitato i 6 paesi ( Russia ,
Cina , Giappone, Corea del Nord, Corea del
Sud, Stati Uniti) a tornare ragionevoli,
invocando un colloquio per calmare la
situazione.
Ma gia il 17 novembre 2010 il quotidiano
nordcoreano Rodong Simmun
aveva
affermato che la Corea del Nord era pronta
a negoziare in merito al problema del
nucleare, e che il fallimento su tale
problema era dovuto agli Stati Uniti e alla
Corea del Sud, imputando a quest'ultima di
aver stabilito unilateralmente il rilancio dei
negoziati delle sei nazioni, osservando poi
che l'obbiettivo della denuclearizzazione
riguardava tutta la penisola coreana
mentre erano stati imposti divieti ad una
sola parte (Nordcorea), inoltre che c'era
stata la decisione da parte di Seul di aderire
al piano statunitense per la proliferazione
militare.
A questa notizia Kim Jong II ha risposto
con la cancellazione dell'armistizio firmato
nel 1953 dove venivano dichiarati gli
accordi per la “PACE” tra i due stati .
Intanto il premier giapponese Naoto Kan,
ha riferito ai suoi ministri di “tenersi pronti
ad ogni eventualità, in maniera da reagire a
qualsiasi imprevisto”.
Anche la Russia ha invitato ad evitare
escalation.
Il problema è che sia già in corso una
escalation, dato che i contrasti tra i due stati
asiatici stanno subendo accelerazioni.
Il rischio e che possa scoppiare un'altra
14
guerra tra queste potenze regionali, con
effetti devastanti anche a livello mondiale.
L'attrito tra questi due paesi è ormai
storico, basta pensare che la guerra tra di
loro iniziò nel 1950 e terminò nel 1953, ma
gli strascichi si fanno sentire ancora oggi, a
tal punto che nel 2009 si temeva per un
ennesimo scontro tra Seul e Pyongyang.
Lo scoppio di una guerra a sfondo
nucleare non sarebbe proprio da scartare,
visto gli armamenti di cui dispongono le
due nazioni,ma soprattutto i vari test
nucleari che hanno svolto le due Coree.
Per questo motivo l'Onu ha decretato
nuove sanzioni per entrambi i due paesi.
Intanto gli abitanti dei due stati stanno
pensando di “salvarsi le penne” scappando
dal proprio paese(ma soprattutto la
Sudcorea, visto che nel Nord ci sono ferree
leggi che non permettono l'espatrio) per
paura o semplicemente per sicurezza (non
stiamo ancora parlando di un esodo).
Per ora i due leaders coreani si stanno
ritrovando nuovamente, ma stiamo
attendendo i vari sviluppi che emergeranno.
Molti gruppi pacifisti stanno lottando
per la pace definitiva tra le due fazioni, e
anche noi come anarchici ci dobbiamo
unire a questa lotta.
Lottiamo contro tutte le guerre, contro la
nuclearizzazione statalista e la tirannia
militarista sui popoli del mondo.
Genere
13 Febbraio:
questioni di genere si ri-accende il dibattito
Introduzione
di Berni
Il 13 febbraio 2011 si sono verificate in
tutta la penisola manifestazioni che
avevano come tema centrale la dignità delle
donne, i diritti e la questione di genere più
in generale.
Al bieco tentativo di partiti politici come
il Partito Democratico di strumentalizzare
le lotte di donne, gay, lesbiche, transgender, prostitute e uomini che si oppongono
alle logiche di dominio e di potere che
costituiscono l'impianto su cui si fonda il
patriarcato, sono nati in molte città
spezzoni critici, dai quali sono emersi una
molteplicità di punti di vista, riflessioni e
percorsi di lotta.
Pensiamo che la miglior risposta a chi
cercava di piegare , per l'ennesima volta,
una tematica, come quella di genere, agli
interessi di una elite cercando di far
passare il 13 febbraio come la crociata
contro l'attuale presidente del loro
governo, sia stata mettere in piazza una
molteplicità di soggetti, punti di vista,
forme di protesta e perseguire il tentativo
di ri-accendere un dibattito orizzontale,
pubblico e aperto.
Questo percorso nella città di Pisa è
iniziato con la manifestazione del 13 e sta
continuando anche in vista dell'8 marzo,
giornata nella quale si svolgeranno
molteplici iniziative, organizzate da un
comitato di donne e uomini, provenienti da
orientamenti politici ed esperienze di
mobilitazione anche molto distanti fra loro.
Come contributo al dibattito pubblichiamo su questo numero di Kronstadt le
riflessioni di un compagno
che ha
partecipato alla manifestazione pisana
prendendo parte allo spezzone critico con
gli ombrelli rossi.
Disertiamo il patriarcato!
Il discorso dei disertori
di Lucha
Riguardo alla manifestazione di oggi si è
detto -giustamente- che era opportuno e
necessario che anche gli uomini scendessero in strada, non solo come forma di
solidarietà, ma anche e soprattutto per
rivendicare un diverso modello di uomo.
Vorrei riflettere su questo punto perché mi
sembra che tocchi nel vivo il dibattito che
ha preceduto questa giornata, e anche
perché in generale non si parla abbastanza
delle responsabilità e delle interazioni tra i
maschi ed il maschilismo.
Qualcuno ha ricordato che il maschilismo
e la cultura di discriminazione che vige in
italia non è stata portata da Berlusconi, ma
piuttosto al contrario, che il premier è
sintomo e degenerazione visibile di un
fenomeno diffuso, che la commistione
soldi-sesso-potere è antecedente e
profondamente radicata nella società
occidentale. Il potere maschile, o se
vogliamo chiamarlo il sistema patriarcale,
non è concentrato in un unica persona Berlusconi- ed in un unico luogo -Arcore-,
né discende verticalmente da un'unica
fonte. Se fosse così sarebbe semplice
cambiare
la società, rimuovendo
all'origine la fonte e la concentrazione del
potere maschile.
Al contrario, il potere maschile è un
potere diffuso, distribuito in tutti i rapporti
sociali, col quale ci confrontiamo quotidianamente, costantemente, in ogni ambito
della nostra vita, lavorativa, relazionale,
culturale. Queste relazioni di potere non
sono qualcosa di astratto, ma di estremamente concreto: quando parliamo di
“cultura maschilista”, parliamo dei
comportamenti delle persone, nel modo in
cui parlano, in cui vivono, in cui si spostano, in cui lavorano, in cui amano, in cui
fanno l'amore, in cui si uccidono. Ed in
questi comportamenti, un ruolo lo
svolgono -ovviamente- anche gli uomini.
Non voglio dire che gli uomini -tutti gli
uomini- siano un esercito od un corpo di
polizia dispiegato sul territorio per
controllare e reprimere la popolazione
femminile, ma che di fatto agli uomini
viene proposto -implicitamente- un patto.
Ci viene chiesto di aderire ad un modello,
ad un sistema di relazioni codificato, o se
non si tratta di adesione, comunque ci
viene richiesto di riconoscere che quello è il
modello, quella è la maniera di comportarsi. In cambio ci vengono offerti dei
privilegi, che in qualche modo controbilancino la perdita che abbiamo sofferto
accettando di identificarci, se non di
omologarci, ad un unico modello.
Questo patto, questa adesione, non ci
15
viene proposta da Berlusconi, o da Lele
Mora, o da Emilio Fede. Ci viene proposta
dai nostri padri, dai nostri fratelli, dai
nostri compagni di studio, dai colleghi, dai
conoscenti. Dobbiamo renderci conto che
agli uomini viene chiesto di sorvegliarci
l'un l'altro, perché nessuna polizia politica
potrebbe avere un controllo tanto diffuso
nella società come ce l'ha il potere maschile.
Il modello di uomo che propongono i
quotidiani è degradante, è vero. Ma come è
stato giustamente detto per le donne, non
si tratta di recuperare un ruolo perduto, un
bel tempo che fu, quando le famiglie erano
felici e la società armoniosa, con gli uomini
nelle fabbriche e negli eserciti e le donne
nelle cucine e nei bordelli. Non si tratta di
restaurare niente, perché non è quello il
modello in cui ci vogliamo riconoscere. Se
scendiamo in piazza oggi, non è per
difendere una dignità di uomini offesa, ma
per liberarci da quelle relazioni di omertà
maschile nelle quali hanno provato ad
arruolarci.
Ci hanno armati e ci hanno istruiti per
difendere un sistema, e quello che
possiamo fare noi altro non è che deporre le
armi, che vuol dire rinunciare ai privilegi
che ci sono stati concessi -il che non è
semplice né indolore. Diventiamo disertori
del maschilismo, neghiamo la solidarietà
che ci viene chiesta contro le donne,
decidiamo che la nostra sessualità e la
nostra affettività appartiene solo a noi
stessi e non a qualche pubblicitario con
manie velleitarie.
Lucha
(1)
Tratto dal blog vogliamotuttopisa al link:
http://vogliamotuttopisa.noblogs.org/post/2011/0
2/13/il-discorso-dei-disertori/
Comunicati
No all’aeroporto della morte: NO HUB!
di Kronstadt - redazione di Pisa
Cos’è l’HUB?
Per capire cosa sia questa struttura che
muoverà migliaia di soldati ogni mese
verso i teatri di guerra in lungo e largo per il
pianeta, iniziamo da quei pochi documenti
reperibili.
Tra questi troviamo la nota aggiuntiva
“allo stato della difesa per l'anno 2010”
emessa dal fascista ministro della difesa La
Russa, nel marzo di quest'anno. In questa
nota si trova un'analisi del quadro internazionale che sostiene che per l'Italia e per
l'Europa non ci sono attuali minacce
esterne, ma non importa: è necessario
andare anche a considerare equilibri più
generali e per far questo è bene mantenere
alto il livello di forza, ammodernamento e
struttura delle Forze Armate del paese.
Premesso che le forze armate non
difendono i cittadini, ma gli interessi dello
Stato e dei suoi amici, la domanda che sorge
è: perché tanti soldi (circa 60 milioni di
euro complessivi dicono fonti ufficiali) e
perché tanta necessità di investire in questo
settore che provoca morte e distruzione di
interi popoli?
Vediamo in concreto cosa c'è scritto nella
nota in relazione all'Hub.
Per quanto riguarda i programmi da
realizzare nel corso del 2010 e i “Programmi aerei”, oltre ad un ampio ammodernamento di velivoli, si prevede un “programma di approvvigionamento mezzi,
equipaggiamenti, sistemi, nonché
realizzazione di infrastrutture operative e
di supporto per la costituzione di un HUB
aereo nazionale”.
Per le spese relative ai programmi della
componente aerea, tra cui il più importante
appare quello dell'Hub aereo nazionale, è
prevista per il 2010 una somma di 37,8
milioni di euro (solo nel 2010, ma la
conclusione dell'Hub è prevista per il
2013).
Interessante notare che nessuno dei
signori che siedono in parlamento si è
sognato di fare alcuna domanda al ministro
in merito sulle ragioni di questo progetto.
Infatti, chiunque voglia, può comprovare
che non vi è stata nessuna interrogazione
parlamentare in merito ad una richiesta di
chiarimento sul progetto dell'Hub.
Tutto questo successe a marzo, poi più
niente fino ad il primo agosto 2010, quando
l'ANSA diffonde questo comunicato: “Il
portavoce della quarantaseiesima Brigata
aerea, maggiore Giorgio Mattia ha reso
noto che l'aeroporto militare di Pisa
diventerà un Hub nazionale per le forze
armate, annunciando che ''il maggio
prossimo l'inizio dei lavori all'interno della
base per renderla rispondente alle nuove
esigenze entro il 2013, quando l'Hub
diventerà operativo''.
''L'aeroporto Dall'Oro - spiega Mattia sarà quindi il punto di riferimento per tutte
le forze armate che avranno bisogno di
spostarsi per via aerea per tutte le missioni
nei teatri internazionali. Durante i lavori di
ampliamento dello scalo, realizzeremo
anche una struttura ricettiva che potrà
ricevere circa 30 mila uomini perfettamente equipaggiati, per un arco di tempo di
almeno un mese''.
Per concludere con la poca ma significativa rassegna di documenti abbiamo la gara
d'appalto lanciata sul sito dell'areonautica
militare del 3 agosto e che si chiudeva il 9
settembre. In questa vengono assegnate le
forniture, per il neo costituendo hub
militare nella città di Pisa, come si può
leggere nella gara per sei milioni di euro.
Fonte:
http://www.aeronautica.difesa.it/gareA
ppalto/Pagine/HubPisa.aspx
Pochi giorni dopo, il primo cittadino
Filippeschi ha immediatamente dichiarato
che per lui era tutt'altro che un problema,
anzi un onore ricevere l'Hub nella “sua”
città; dello stesso parere il presidente della
provincia Pieroni. Nel frattempo il progetto
arriva in parlamento dopo la gara d'appalto
e il 30 settembre viene meglio esposto il
progetto che poi approda ad una commissione il 12 ottobre. Il 12 ottobre 2010 viene
presentato alla Commissione difesa del
Senato. Nella sua relazione, il sen. Luigi
Ramponi (generale a riposo, membro del
Pdl), rileva che la realizzazione di un polo
aereo dedicato all'attività logistica e di
supporto era un'esigenza assai sentita dalle
Forze armate. Precisa che si tratterà di una
struttura di grandi dimensioni, la quale
dovrà essere adeguatamente connessa con
le principali vie di comunicazione stradale,
ferroviaria e navale, ed essere in grado di
gestire contemporaneamente più operazioni di imbarco e sbarco di personale e
materiali e le “vie di comunicazione” che
interessano questi progetti, a Pisa,
sappiamo che non mancano: base americana di camp Darby, Porto di Livorno,
CISAM, Folgore etc…
L'impatto sul territorio
Riprendendo le parole pronunciate da un
esponente di Medicina Democratica di
Livorno scopriamo dati molto inquietanti.
Prima di tutto si può riscontrare come
l'aeroporto militare sia inserito in un
contesto territoriale già fortemente
inquinato e con impianti ad alto rischio
d'incidente.
Partiamo da Livorno troviamo le
raffinerie, poi la piattaforma del rigassificatore off-shore in costruzione, poi a Pisa
con la Saint Gobain e i famigerati capannoni di Camp derby.
16
Già troppi incidenti sono avvenuti nella
nostra zona che hanno riguardato la
presenza dell'esercito, della base nato e del
segreto di Stato. La tragedia della Moby
Prince, avvenuta il 10 aprile 1991 diretta in
Sardegna si schiantò contro una petroliera,
e non perché i marinai erano distratti, ma
perché la petroliera non era segnalata
adeguatamente e la ragione risiede nel
fatto che si stavano svolgendo operazioni
militari con alcune chiatte statunitensi di
ritorno dalla guerra del Golfo, e quindi
coperte da segreto militare.
L'intento dell'hub è di meglio collegare il
porto di Livorno, l'interporto di Guasticce,
il canale dei navicelli, dove regione
provincia di Pisa e Livorno e comuni
stanno investendo per l'allargamento, e
quindi di intensificare le manovre militari
dal porto fino all'aeroporto.
Possiamo ricordare, per fare un altro
esempio, l'incidente del 24 settembre
2010, quando un'autocisterna di cherosene
per l'aeroporto di Genova ne perse 5.000
litri tra le case: fortunatamente non vi fu
innesco ma poteva essere un'altra
Viareggio. Decine di cisterne simili per
l'aeroporto di Pisa escono dalla raffineria
tutti i i giorni
Immaginate quanto si intensificherebbe
anche questo traffico e conseguentemente
il rischio.
E' doveroso un accenno al rigassificatore
che ha un potenziale davvero catastrofico.
Se la commissione degli esperti internazionali non si esprime dicendo si o no al
progetto, mantenendo un ruolo tecnico e
non scendendo in quello politico, le
dichiarazioni di questi esperti sono
inquietanti. Sostengono che il rigassificatore potrebbe avere incidenti a catena e la
società che lo gestisce non ha preso in
considerazione questa ipotesi: cosa
succederebbe se questa sequela di guasti
arrivasse a coinvolgere le strutture in
terraferma a partire dalle raffinerie
dell'Eni?
Se abbiamo detto che la perdita di una
cisterna poteva provocare, se veniva
Comunicati
innescata, un'altra Viareggio non è facile
immaginare le dimensioni, sicuramente
devastanti, del danno che potrebbe
provocare il rigassificatore.
Tutto questo è collegato all'Hub in vari
modi.
Chi conosce quali tipi di armi sono
contenute all'interno dei capannoni e dei
“magazzini” di Camp Derby? Nessuno sa
fino in fondo cosa c'è causa segreto militare
e questo sarà la parola d'ordine di tutto
quello che succederà anche dentro il nuovo
aeroporto militare.
L'altra conseguenza immediata che si può
calcolare riguarda l'inquinamento e
riprendiamo anche qui il prezioso aiuto del
membro di Medicina Democratica di
Livorno che ha comparato alcuni dati.
Attualmente l'aeroporto di Pisa che vede
un trafico di 185 voli al giorno (140 civili
+45 militari)., e già inquina moltissimo,
non vi sono però studi sulle emissioi
chimiche attuali. Possiamo però fare un
paragone con l'aeroporto di Venezia, simile
per traffico (192 voli/giorno) e per farla
breve (ma i dati sono pubblici) dieci minuti
di volo di un aereo inquina come circa 2000
macchine in circolazione durante tutta una
giornata. Quindi sul territorio ci uccidono
già adesso, ogni giorno, con questi veleni,
ma anche nei teatri di guerra verso cui
saranno diretti i velivoli, carichi di
armamenti, rifornimenti e soldati. Si
calcola che da questo hub partano fino a
trentamila uomini ogni mese armati fino ai
denti. Inoltre gli aerei da carico potranno
trasportare ulteriori strumenti di morte.
Tanto per fare un esempio ricordiamo
l'incidente del C130, che viene utilizzato
per rifornire i caccia bombardieri in volo e
che durante un'esercitazione, nel novembre 2009, è precipitato rischiando di
provocare una strage e le armi che passeranno da Pisa aumenteranno in quantità
visto che l' Hub risponde ad una nuova
strategia della Nato come accordato nel
summit di Lisbona del 2010.
Un danno questa costruzione lo ha già
fatto: il Sindaco altri loschi figuri stanno
già facendo un tavolo tecnico per decidere
in quale modo gentile radere al suolo 44
abitazioni dove vivono alcune famiglie che
hanno la sfortuna di vivere dove dovrà
sorgere questa utilissima struttura.
Noi diciamo no all'Hub!
Come cittadini e cittadine, ma anche
come compagni e compagne anarchici e
anarchiche, ci opponiamo a questo
ennesimo attacco da parte dei detentori del
potere politico ed economico che con le loro
forze armate mettono in pericolo la vita e la
salute di uomini e donne che vivono tanto
nei territori dove loro decidono di impiantare strutture per le loro manovre di guerra
come ovviamente, ed in quantità enormemente maggiore, in quei territori dove i
loro caccia scaricheranno le loro bombe.
Siamo contrari a questo progetto per
pochi e semplici motivi
siamo contrari a ogni tipo di guerra e
quindi a tutti i progetti che servono a
sostenerla, sia militarmente che logisticamente;
contribuisce ad alimentare, a Pisa come
in ogni altro luogo, una ideologia militare,
gerarchica e autoritaria, dove c'è chi decide
e chi subisce le decisioni altrui (così è
andata anche per la costruzione dell'Hub
Senza confini fisici e mentali
di Kronstadt - redazione di Volterra
I migranti si ribellano continuamente con
forza e coraggio da dentro le istituzioni
totali in cui vengono rinchiusi dallo stato
italiano (come avviene in tutta Europa e nel
Nord Africa), si ribellano, superando la
disperazione, in nome della vita, della
libertà e della dignità e testimoniano
direttamente i soprusi e le violenze di ogni
genere a cui sono sottoposti nei centri
d'identificazione ed espulsione: delle
terribili prigioni!
I CPT-CIE* sono campi di concentramento diffusi in varie regioni italiane in cui
vengono imprigionati i migranti per mesi,
strutture statali di repressione securitaria e
di negazione dei diritti umani - come
affermato anche da organizzazioni
umanitarie moderate come Amnesty
International e Medici Senza Frontiere -,
dalle quali donne e uomini la cui unica
colpa è di essere poveri e “senza documenti”, vengono deportati verso torture,
disperazione e morte. Si pensi a questo
proposito agli scellerati accordi internazionali stipulati - sia dal governo Prodi che da
17
stesso);
contribuisce ad alimentare la falsa idea
che l'esercito è vicino alla popolazione, che
la difende da chissà quali improbabili e
invisibili nemici, quando sappiamo
benissimo cosa significa un aeroporto
militare: armamenti tenuti segreti per
conto di altre nazioni e per supportare altre
guerre che difendono solo interessi
economici di chi le alimenta;
costa un sacco di soldi (ma noi non lo
vorremmo nemmeno gratis) quando la
grande maggioranza dei cittadini non ha
accesso o fa fatica ad accedere ai servizi
essenziali o questi vengono barbaramente
sacrificati (sanità, scuola, servizi sociali);
inquina l'aria e l'acqua con agenti
cancerogeni.
Concludiamo appellandoci a tutti e tutte
a finche si possa sviluppare uniti una lotta
per ri-appropriarci dei nostri diritti come
quello di vivere in un territorio non
militarizzato e non inquinato .
Crediamo che non sia giusto che gli spazi
pubblici, cioè a utilizzo di tutti, vengano
strappati alla collettività in funzione degli
interessi dei potenti.
Infatti chi se non le classi dirigenti degli
stati trae vantaggio da un economia di
guerra?
Noi come individui cittadini e cittadine
riteniamo necessario opporre a questi
interessi di caste politiche ed economiche
le esigenze e i bisogni delle comunità. In
questo senso rifiutiamo ogni intervento
schiacciato sull'opzione militare che
coinvolga l'aeroporto di Pisa. Convinti che
rispondere ai bisogni delle classi subalterne significhi opporsi ad ogni logica di
potere che ha nel militarismo la sua faccia
più cruda.
Comunicati
quello Berlusconi – con il dittatore libico
Gheddafi sulla pelle degli immigrati
cosiddetti “clandestini”, persone alla
ricerca di una speranza di vita.
In questo periodo fra Maghreb e
Medioriente, Tunisia ed Egitto in primis,
colpite dalla devastante crisi capitalistica
globale, estese rivolte sociali sono scoppiate per la libertà e la giustizia sociale, dei
tiranni sono stati cacciati. Si tratta di
avvenimenti di grande rilevanza politica e
sociale, che tendono a mettere in discussione assetti geopolitici dominanti da tempo
strutturati e soprattutto avvenimenti che
alimentano grandi speranze fra le classi
subalterne di quei paesi e non solo. La
situazione generale è comunque piena
d'incognite e trame al vertice: i vari poteri
hanno risposto come al solito con la
repressione omicida e ora sono all'opera
per riciclarsi, con le potenze neocolonialiste che stanno riparametrando il
loro intervento ...
Dalla Libia giungono notizie di massacri
di civili in rivolta contro la dittatura del
“colonnello”, massacrati da forze
dell'esercito e della polizia fedeli a Gheddafi
e da truppe mercenarie, giungono notizie di
fosse comuni. Lo stato italiano e le aziende
italiane da parecchi anni vendono vari
armamenti alla stragista tirannia libica.
I migranti che dalla sponda sud del
Mediterraneo in questo periodo giungono
sulle coste siciliane in fuga dalla violenza
statale, dalla fame e dalla miseria, fuggono
da condizioni di vita drammatiche di cui è
corresponsabile l' “occidente democratico”
foraggiatore di autocrazie.
Molti sono morti e continuano a morire in
mare vittime delle politiche criminali di
clandestinizzazione e respingimento
attuate dal governo italiano. I governi italici
di tutti i colori, quali gendarmi della
fortezza statal/capitalistica europea,
spendono cifre altissime per militarizzare il
mare e i territori, per edificare varie
strutture totali d'internamento in cui
rinchiudere gli immigrati e i profughi,
mentre tante risorse potrebbero essere
usate per i bisogni umani, sulla base di una
vera accoglienza solidale. Ma non esistono
poteri buoni!
E' dal basso, dal crescere di una generale
lotta di classe autodiretta e internazionalista, che sostenga le rivolte sociali sull'altra
sponda del Mediterraneo e le ribellioni
contro il razzismo e lo sfruttamento statalpadronali in Italia ed Europa, che unisca
lavoratori nativi e immigrati, sgretolando
xenofobia, individualismi regressivi e
beceri nazionalismi, che è possibile
conquistare diritti e libertà, che può
affermarsi una vita migliore per tutti e
tutte. Attraverso una solidarietà dal basso
fra le persone, fuori e contro le logiche di
potere, attraverso delle pratiche di mutuo
appoggio progettuali, autonome ed
espansive che superino confini fisici e
mentali per costruire, insieme, percorsi di
emancipazione. Delle trasformazioni
sociali e culturali – rivoluzionarie - di tipo
libertario e socialista sono sempre più
urgenti davanti alla barbarie del decadente
sistema capitalistico, contro la sua
realpolitik sanguinaria e distruttiva.
Tutto dannatamente complicato, ma
tutto estremamente necessario!
Gli immigrati, i profughi non sono “l'orda
nemica” da controllare e respingere - come
propagandano in maniera terroristica i
media di regime del Belpaese “democratico”, che diffondono paure e alimentano fra
la gente gli istinti peggiori d'intolleranza e
discriminazione, rappresentando il
razzismo di stato e diffuso come qualcosa di
“normale e legittimo” - bensì donne,
uomini e bambini alla ricerca di un futuro,
nei quali riconoscere noi stessi! Occorre
sconfiggere la “banalità del male”!
Il movimento anarchico e libertario –
sostenendo le rivolte e le lotte degli
immigrati dentro i CIE e nelle piazze: per la
vita, la libertà e la dignità! - assieme ad
associazioni antirazziste e settori antagonisti, si sta opponendo in varie città d'Italia
all'apartheid istituzional/padronale, al
neofascismo e al retrivo leghismo attraverso la mobilitazione diretta e la controinformazione. Anche in Toscana si sono
sviluppate nei mesi scorsi varie iniziative
libertarie contro l'annunciata apertura di
un CPT/CIE da parte della giunta regionale
di centrosinistra.
NO al razzismo di stato bipartisan!
Il sistema concentrazionario statale
vigente è uno strumento necessario al
capitale per mantenere sotto ricatto i
lavoratori immigrati al fine di poterli
supersfruttare oltre che un business
economico per ditte e cooperative di vario
tipo (spesso cattoliche) nella costruzionegestione di tali strutture concentrazionarie.
Per il potere politico i migranti sono un
capro espiatorio su cui indirizzare il
crescente malcontento per la crisi sociale
determinata dal dis-ordine capitalistico.
La strategia delle élites dominanti è:
internamenti in strutture totali e guerra fra
poveri: dividi et impera! E attraverso le
cosiddette “politiche per la sicurezza” si
determina sempre più un generale stato di
polizia.
L' apartheid istituzionale nei confronti
dei lavoratori immigrati e dei profughi, è
stato iniziato dal centrosinistra con la legge
Turco/Napolitano (CPT) e il voto favorevole in parlamento anche di Rifondazione
Comunista, Niki Vendola compreso (ora
novello “leader alternativo” di SEL) e
proseguito dal centrodestra con l'ultrarazzista legge Bossi/Fini e con normative
successive (CIE). Il centrosinistra, PD e
soci, apparato politico/affaristico liberalconfindustriale che strizza l'occhio al
leghismo razzista, continua – al di là di
meschine sceneggiate - a sostenere
l'impianto di questo sistema infame. E
nell'attuale situazione di fibrillazione
nell'area del Mediterraneo il reazionario e
fascistoide governo Berlusconi – con una
opposizione istituzionale complice, al di là
18
di ipocriti distinguo di facciata - sta
battendo cassa all'Unione Europea per
avere cospicui fondi da utilizzare per
ampliare il sistema concentrazionario e
incrementare ulteriormente l'affarismo
che specula sulla vita di migliaia di
persone.
Opposizioni subalterne
E' funzionale al barbaro sistema
dominante fare oggi dell' “antirazzismoantifascismo” – come fa un'area della
sinistra partitica e di stato intrisa di ipocriti
politicismi e di feticismi legalitari ( SEL,
Rifondazione, PDCI ecc...) - senza mettere
al centro con chiarezza, determinazione e
coerenza, come netta scelta di campo,
senza fare sconti a nessuno, la questione
della lotta risoluta contro il sistema
concentrazionario istituzionale dei CPTCIE, per il suo smantellamento. Anzi a
volte continuando ad appoggiarlo
esplicitamente, vedi Rifondazione al
governo regionale in Toscana, e comunque
restando subalterni ad un potere statale
bipartisan classista e liberticida che
produce tutto ciò. Anche per quanto
concerne l'antifascismo: le logiche
sottostanti al sistema dei campi di
concentramento CPT-CIE sono lo stagno
putrido in cui sguazzano e si alimentano i
fasci di tutte le risme, vecchi e nuovi.
*Centri di Permanenza Temporanea
(CPT) e Centri d'identificazione ed
espulsione (CIE)
Fonti:
fortresseurope.blogspot.com
http://www.ainfos.ca/it/
www.anarkismo.net
http://it.wikipedia.org/wiki/Centro_di_identificazi
one_ed_espulsione
www.peacereport.net
senzafrontiere.noblogs.org
http://www.umanitanova.org/
www.autistici.org/macerie/
Comunicati
Manifesto dei giovani di Gaza
di Gaza Youth Breaks Out
Vaffanculo Hamas. Vaffanculo Israele.
Vaffanculo Fatah. Vaffanculo Onu.
Vaffanculo Unrwa. Vaffanculo Usa! Noi, i
giovani di Gaza, siamo stufi di Israele, di
Hamas, dell'occupazione, delle violazioni
dei diritti umani e dell'indifferenza della
comunità internazionale!
Vogliamo urlare per rompere il muro di
silenzio, ingiustizia e indifferenza, come gli
F16 israeliani rompono il muro del suono;
vogliamo urlare con tutta la forza delle
nostre anime per sfogare l'immensa
frustrazione che ci consuma per la
situazione del cazzo in cui viviamo; siamo
come pidocchi stretti tra due unghie,
viviamo un incubo dentro un incubo, dove
non c'è spazio né per la speranza né per la
libertà. Ci siamo rotti i coglioni di rimanere
imbrigliati in questa guerra politica; ci
siamo rotti i coglioni delle notti nere come il
carbone con gli aerei che sorvolano le
nostre case; siamo stomacati dall'uccisione
di contadini innocenti nella buffer zone,
colpevoli solo di stare lavorando le loro
terre; ci siamo rotti i coglioni degli uomini
barbuti che se ne vanno in giro con le loro
armi abusando del loro potere, picchiando
o incarcerando i giovani colpevoli solo di
manifestare per ciò in cui credono; ci siamo
rotti i coglioni del muro della vergogna che
ci separa dal resto del nostro Paese
tenendoci ingabbiati in un pezzo di terra
grande quanto un francobollo; e ci siamo
rotti i coglioni di chi ci dipinge come
terroristi, fanatici fatti in casa con le bombe
in tasca e il maligno negli occhi; abbiamo le
palle piene dell'indifferenza da parte della
comunità internazionale, i cosiddetti
esperti in esprimere sconcerto e stilare
risoluzioni, ma codardi nel mettere in
pratica qualsiasi cosa su cui si trovino
d'accordo; ci siamo rotti i coglioni di vivere
una vita di merda, imprigionati dagli
israeliani, picchiati da Hamas e completamente ignorati dal resto del mondo.
C'è una rivoluzione che cresce dentro di
noi, un'immensa insoddisfazione e
frustrazione che ci distruggerà a meno che
non troviamo un modo per canalizzare
questa energia in qualcosa che possa
sfidare lo status quo e ridarci la speranza.
La goccia che ha fatto traboccare il vaso
facendo tremare i nostri cuori per la
frustrazione e la disperazione è stata
quando il 30 Novembre gli uomini di
Hamas sono intervenuti allo Sharek Youth
Forum, un'organizzazione di giovani molto
seguita con fucili, menzogne e violenza,
buttando tutti i volontari fuori incarcerandoni alcuni, e proibendo allo Sharek di
continuare a lavorare.
19
Alcuni giorni dopo, alcuni dimostranti
davanti alla sede dello Sharek sono stati
picchiati, altri incarcerati. Stiamo davvero
vivendo un incubo dentro un incubo. E'
difficile trovare le parole per descrivere le
pressioni a cui siamo sottoposti. Siamo
sopravvissuti a malapena all'Operazione
Piombo Fuso, in cui Israele ci ha bombardati di brutto con molta efficacia,distruggendo migliaia di case e ancora più persone
e sogni.
Non si sono sbarazzati di Hamas, come
speravano, ma ci hanno spaventati a morte
per sempre, facendoci tutti ammalare di
sindromi post-traumatiche visto che non
avevamo nessuno posto dove rifugiarci.
Siamo giovani dai cuori pesanti. Ci
portiamo dentro una pesantezza così
immensa che rende difficile anche solo
godersi un tramonto. Come possiamo
godere di un tramonto quando le nuvole
dipingono l'orizzonte di nero e orribili
ricordi del passato riaffiorano alla mente
ogni volta che chiudiamo gli occhi?
Sorridiamo per nascondere il dolore.
Ridiamo per dimenticare la guerra.
Teniamo alta la speranza per evitare di
suicidarci qui e adesso. Durante la guerra
abbiamo avuto la netta sensazione che
Israele voglia cancellarci dalla faccia della
Terra.
Comunicati
Negli ultimi anni Hamas ha fatto di tutto
per controllare i nostri pensieri, comportamenti e aspirazioni. Siamo una generazione di giovani abituati ad affrontare i missili,
a portare a termine la missione impossibile
di vivere una vita normale e sana, a
malapena tollerata da una enorme
organizzazione che ha diffuso nella nostra
società un cancro maligno, causando la
distruzione e la morte di ogni cellula
vivente, di ogni pensiero e sogno che si
trovasse sulla sua strada, oltre che la
paralisi della gente a causa del suo regime
di terrore. Per non parlare della prigione in
cui viviamo, una prigione giustificata e
sostenuta da un paese cosiddetto democratico.
La storia si ripete nel modo più crudele e
non frega niente a nessuno. Abbiamo
paura. Qui a Gaza abbiamo paura di essere
incarcerati, picchiati, torturati, bombardati, uccisi.Abbiamo paura di vivere, perché
dobbiamo soppesare con cautela ogni
piccolo passo che facciamo, viviamo tra
proibizioni di ogni tipo, non possiamo
muoverci come vogliamo, né dire ciò che
vogliamo, né fare ciò che vogliamo, a volte
non possiamo neanche pensare ciò che
vogliamo perché l'occupazione ci ha
occupato il cervello e il cuore in modo così
orribile che fa male e ci fa venire
voglia di piangere lacrime infinite di
frustrazione e rabbia!
Non vogliamo odiare, non vogliamo
sentire questi sentimenti, non vogliamo più
essere vittime. BASTA! Basta dolore, basta
lacrime, basta sofferenza, basta controllo,
proibizioni, giustificazioni ingiuste,
terrore, torture, scuse, bombardamenti,
notti insonni, civili morti, ricordi neri,
futuro orribile, presente che ti spezza il
cuore, politica perversa, politici fanatici,
stronzate religiose, basta incarcerazioni!
DICIAMO BASTA!
Questo non è il futuro che vogliamo!
Vogliamo tre cose. Vogliamo essere liberi.
Vogliamo poter vivere una vita normale.
Vogliamo la pace. E’ chiedere troppo?
Siamo un movimento per la pace fatto dai
giovani di Gaza e da chiunque altro li voglia
sostenere e non si darà pace finché la verità
su Gaza non venga fuori e tutti ne siano a
conoscenza, in modo tale che il silenzioassenso e l'indifferenza urlata non siano
più accettabili. Questo è il manifesto dei
giovani di Gaza per il cambiamento!
Speriamo solo che tu - sì, proprio tu che
adesso stai leggendo questo manifesto!- ci
supporterai. Per sapere come, per favore
lasciate un messaggio o contattaci
direttamente a:
Vogliamo essere liberi, vogliamo vivere,
vogliamo la pace.
LIBERTA' PER I GIOVANI DI GAZA!
Inizieremo con la distruzione
dell'occupazione che ci circonda, ci
libereremo da questo carcere mentale per
riguadagnarci la nostra dignità e il rispetto
di noi stessi. Andremo avanti a testa alta
Kronstadt - 90 anni fa
io kronstadt
l’ho sempre
festeggiata
il 18 marzo!
anche quando ci opporranno resistenza.
Lavoreremo giorno e notte per cambiare le
miserabili condizioni di vita in cui viviamo.
Costruiremo sogni dove incontreremo
muri.
Novantanni fa anni fa veniva repressa
una rivoluzione socialista in cui si manifestò un ideale libertario, anticentralista e
federalista. Era la rivoluzione di
Kronstadt.
Nella primavera del 1917 venne
proclamata la nascita della "Repubblica
di Kronstadt", che già chiariva
l’orientamento anticentralista e federalista dei libertari della cittadina.
Il 1° marzo del 1921 la rivoluzione di
Kronstadt prese una direzione libertaria,
opponendosi tenacemente al potere
bolscevico, in favore di un socialismo più
umano e meno autoritario.
Il regime sovietico non gradì questo
autonomismo decisionale e sin dal 1918
cominciò a mostrare il proprio volto
autoritario, con la “bolscevizzazione” dei
soviet, in virtù della quale vennero espulse
tutte le componenti di opposizione.
Il 18 marzo 1921, il giorno in cui veniva
celebrato il 50° anniversario della
Comune di Parigi, venne sancita dai
bolscevichi la caduta della cittadella,
ponendo fine al sogno di un socialismo
libertario, espressione del popolo e non dei
partiti e della burocrazia.
si vede che
sei stato un
Trotskista!
di Grillo
20
(Da Anarchopedia)
Rubriche
Scienza e anarchia:
Evoluzionismo versus Creazionismo
di Marcello
Evoluzionismo versus creazionismo
La maggiore agenzia demoscopica
statunitense, la Gallup, periodicamente dal
1982 effettua un sondaggio in merito alle
“vostre convinzioni riguardo l'origine e
l'evoluzione dell'uomo”. Tale inchiesta
include nelle opzioni di scelta la frase: “Dio
ha creato l'uomo circa nella stessa forma di
oggi in un momento compreso negli ultimi
diecimila anni”. Resto basito a verificare la
percentuale raggiunta da questa preferenza: il 44% (nel 2008). Quindi, il 44% degli
statunitensi (o sarebbe meglio dire tale
campione censito) nega l'evoluzione e
questo implica che secondo tale fascia di
popolazione il genere umano (ma,
estendendo il concetto, lo stesso mondo)
non ha più di 10000 anni ed è quindi nella
stessa “forma” in cui lo vediamo oggi.
La situazione non è molto diversa in
Europa.
Da un sondaggio condotto da
Eurobaromentro nel 2005 si evince che
larghe fasce di popolazione hanno delle
convinzioni pazzesche in merito all'uomo e
alla sua evoluzione.
Riporto solo alcune cifre.
All'asserzione: “L'uomo, quale lo
conosciamo oggi, si è evoluto da specie
animali precedenti” abbiamo che la
percentuale più alta di veridicità su questa
affermazione tocca l'85% in Islanda, il 79%
in Gran Bretagna, il 68% in Italia, il 55% in
Grecia e solo il 27% in Turchia. La situazione diventa più allarmante se consideriamo
le risposte di veridicità all'affermazione: “I
primi uomini sono vissuti nella stessa
epoca dei dinosauri”, il 28% in Gran
Bretagna, il 29% in Spagna, il 32% in Italia,
il 42% in Turchia. Il 37% degli Olandesi
pensa che Adamo ed Eva siano stati dei
personaggi storici.
Da queste percentuali non possiamo che
trarre una conclusione: la quantità di
persone che crede nel creazionismo è in
forte aumento e tale aumento ha indotto
nel 2007 il Consiglio d'Europa ad approvare una specifica risoluzione con cui ha
invitato gli stati membri ad “opporsi
fermamente” all'insegnamento nelle scuole
del creazionismo come disciplina scientifica.
Vediamo di fare un po' di chiarezza.
Prima del testo “L'origine delle specie”
(1859) di Charles Darwin gli scienziati
concordavano con una concezione
tradizionale, che in particolar modo in
Occidente vedeva nella dottrine cristiana
ed ebraica i suoi capisaldi, per cui il mondo
è stato creato improvvisamente da una
entità superiore nelle stesse condizioni così
come oggi lo vediamo. Per tale credenza, le
caratteristiche del
mondo non sono mai mutate nel passato
né cambieranno in futuro fino al giorno
della
distruzione. Nelle scienze naturali questa
concezione si traduce in una teoria per cui
tutte le
specie (termine creato da Linneo e ancora
oggi utilizzato) sono fisse e immutabili e
quindi
numerabili, o meglio classificabili, tante
quante furono create dall'ente supremo.
Tale teoria
supportata da Linneo prevede che l'ente
21
creatore abbia un'idea astratta immutabile
di ciascuna
specie che si concretizza e si riproduce
immutata nel tempo. Il primo scienziato ad
opporsi a
questa teoria è stato Jean-Baptiste
Lamarck; il primo a parlare apertamente di
cambiamento naturale di una specie e non
di miracolo o di creazione. Egli nella sua
pubblicazione “Philosophie zoologique”
(1809) afferma che gli organismi, così
come si presentano, sono il risultato di un
processo graduale di modificazione che
avviene sotto la pressione delle condizioni
ambientali.
Secondo la teoria lamarckiana, ancora
oggi sostenuta da diversi scienziati, la
variazione (o meglio l'evoluzione) degli
organismi è dovuta a due principi: il primo
è l'azione che l'ambiente esercita su di essi e
questa azione produce variazioni capaci di
trasmettersi ereditariamente ai discendenti (ereditarietà dei caratteri acquisiti), il
secondo è quello di una tendenza al
miglioramento, progresso insito secondo
Lamarck in ogni organismo.
L'impostazione teorica di Lamarck,
rapporto organismo-ambiente, non si
limita a descrivere i fatti ma a interpretarli.
Darwin ebbe subito dei dubbi sull'azione
diretta dell'ambiente, sulla variabilità e
l'ereditarietà dei caratteri acquisiti. Le
differenze fondamentali
dell'evoluzionismo di Darwin rispetto a
quello di Lamarck constano dei seguenti
punti:
a) la riproduzione di una specie e la
disponibilità delle risorse ambientali
b) la variabilità di un tipo all'interno della
Rubriche
stessa specie (una delle caratteristiche
fondamentali per l'evoluzione)
c) la lotta per l'esistenza e la sopravvivenza del più adatto rispetto a questa lotta
d) la selezione naturale.
La teoria di Darwin è prettamente
scientifica, introduce solo fenomeni
naturali osservabili e quindi misurabili ed
esclude qualsiasi tipo di volontà, forza o
impulso creatore. L'evoluzionismo di
Darwin scatenò subito polemiche con lo
status quo, con la Chiesa e con molte altre
istituzioni. I suoi sostenitori sin
dall'inizio furono principalmente atei o
agnostici (ad esempio Thomas Huxley) o
rivoluzionari del pensiero come Karl Marx
o Friedrich Engels che ne criticarono però
l'impostazione malthusiana. Infatti, le tesi
di Thomas Malthus, esposte nel suo
“Saggio sul principio della popolazione e la
sua influenza sul miglioramento futuro
della società” e che influenzarono molto
Darwin, affermavano che con l'aumento
demografico della popolazione i mezzi di
sussistenza disponibili si sarebbero
drasticamente ridotti, come conseguenza il
tasso di crescita andrebbe strettamente
controllato e i poveri sono costretti ad
essere dei “reietti” della società; tale idea
cozzava quindi con qualsiasi politica di
seria assistenza ai poveri e praticamente
assumeva come dato di fatto una inevitabile divisione della società in classi.
Darwin applicò la sua teoria evoluzionistica e la selezione naturale alla specie
“uomo” ed espose nell'opera “Origine
dell'uomo e la selezione sessuale” (1871)
ulteriori idee che sconvolsero in primo
momento l'Inghilterra vittoriana e poi il
mondo intero. Secondo la teoria
dell'evoluzione, i membri dello stesso
gruppo si somigliano perché si sono evoluti
da un antenato comune, nel caso dell'uomo
dalle scimmie.
L'evoluzionismo darwiniano è cambiato
molto con il passare del tempo, aggiungendo al suo interno elementi della teoria
dell'ereditarietà di George Mendel e di gran
parte della teoria genetica, si parla in
questo caso di neo-darwinismo.
Dalla fine degli anni '70 una recrudescenza creazionista (o come preferiscono
chiamarla i neodarwinisti neo-creazionista
o negazionista) si sta sempre più affermando, come precisavo all'inizio dell'articolo.
Tali idee mettono in dubbio le spiegazione
meccanicistica e naturalistica dello
sviluppo della vita che escludono qualsiasi
intervento non creatore, soprattutto dopo
l'evidenza delle scoperte paleontologiche.
È forviante pensare che anche tra gli
scienziati i negazionisti siano pochi, perché
non è così.
Il nuovo creazionismo propone la
creazione improvvisa della vita sulla terra
meno di 10000 anni fa. Uomini e scimmie
hanno antenati comuni. Strati geologici
sono sorti soprattutto in occasione di una
inondazione globale del pianeta, quello che
viene individuato come diluvio universale.
In un primo momento questi adepti
accettavano la “teoria della terra antica”,
sostanzialmente il rifiuto dell'evoluzione
la credenza in un dio pur supportando le
scoperte
geologiche, ultimamente sono sostenitori
della “teoria della terra giovane” una
visione ortodossa
della Bibbia e della Genesi; secondo
questa teoria la terra non avrebbe più di
6500 anni.
I neo-creazionisti rimandano spesso a
tessere mancanti di un puzzle (la natura), ai
cosiddetti
anelli mancanti e affermano che la
complessità degli organismi viventi è
22
troppo grande per
poter dire che sono sorti attraverso
l'evoluzione. L'evoluzione invece procede a
piccoli passi; ma
con molti piccoli passi e con continui
nuovi tentativi molto è possibile: tutta
quanta la ricca
molteplicità della vita sul nostro pianeta.
Una immensa mole di falsità ci sta
inondando.
È chiaro che la scienza procede per prove,
controprove, teorie e falsificazione di
queste ultime.
Nessuno dovrebbe avere un atteggiamento fideistico nella scienza ma le
assurdità dei
creazionisti sono sotto gli occhi di tutti e
tutte. L'evoluzione è oramai un fatto e
cedere alle
pulsioni creazioniste condurrebbe a un
periodo di barbarie senza fine in cui la
religioni,
mistificazioni nate per tenere sotto
controllo il popolo, la farebbero da
padrone, in cui molte
ideologie politiche di stampo sociale
sarebbero inevitabilmente cancellate.
Preoccupante è
anche la nascita di teorie “teisticoevoluzioniste” in cui dio avrebbe scelto
l'evoluzionismo come
pratica creazionista.
Come anarchici e anarchiche non
possiamo in alcun modo sostenere teorie
creazioniste e
oscurantismi di sorta ma dobbiamo
cercare forme di libero pensiero lontane da
stati e dei.
Bibliografia
Helena Cronin, Il pavone e la formica. Selezione
sessuale e altruismo da Darwin ad oggi, Il Saggiatore
Charles Darwin, L'origine della specie, Bollati
Boringhieri
Charles Darwin, L'origine dell'uomo e la scelta
sessuale, Rizzoli
Richard Dawkins, Il gene egoista, Zanichelli
Richard Dawkins, Il più grande spettacolo della
Terra. Perché Darwin aveva ragione, Mondadori
Richard Dawkins, L'orologiaio cieco, Rizzoli
Giuseppe Di Siena, Biologia, darwinismo sociale,
marxismo, in Critica Marxista, n.6, 1972, p. 241253
John C. Greene, La morte di Adamo. L'evoluzionismo
e la sua influenza sul pensiero occidentale,
Feltrinelli
Julian Huxley, Idee per un nuovo umanesimo,
Feltrinelli
Donald C. Johanson, A. Edey Maitland, Lucy. Le
origini dell'umanità, Mondadori
Thomas R. Malthus, Saggio sul principio di
popolazione, Einaudi
Ernst Mayr, L'evoluzione delle specie animali,
Einaudi
George Mendel, Le leggi dell'ereditarietà, Rizzoli
Jacques Monod, Il caso e la necessità, Mondadori
Giuseppe Montalenti, Charles Darwin, Riunti
Giuseppe Montalenti, L'evoluzione, Einaudi
Bertrand Russell, Scienza e religione, Longanesi
Rubriche
Filosofia e anarchia:
Krisis
di Gianluca
Quanto il bombardamento dei mass
media sia influente la percezione della
realtà non è di per sé evidente perché,
appunto, anche il bombardamento stesso
fa parte dell'influenza.
Questo vale non solo per massime tipiche
del linguaggio giornalistico e televisivo per
cui “se non è in televisione non esiste”,
oppure “ripeti tante volte una bugia finché
non diventa vera” (questa massima a dire il
vero già conosciuta ai tempi di Pericle nel V
secolo a.C), ma in modo meno invasivo
come usare un termine tanto spesso da
farlo entrare nel linguaggio comune
facendo contemporaneamente perdere
anche la capacità di analisi nei confronti di
esso: quando un termine lo si usa regolarmente si suppone di conoscerlo bene, di
sapere cosa significa e quindi di controllarne gli effetti nel contesto in cui viene speso e
usato.
Krisis
Tra questi termini uno attira le nostre
attenzioni più di altri, in questi giorni, per
l'abnorme uso che se ne fa: crisi. Tutto è
crisi: crisi economica (che poi è il tema di
questo di numero di marzo 2011 di
Kronstadt), crisi politica, crisi dei valori,
crisi esistenziale etc.
Qualsiasi situazione che non si presenta
per come è immaginata o prevista è una
situazione critica, e quindi ogni situazione è
critica visto che è piuttosto utopico che
l'essere coincida con il dover-essere. Ma
forse in questo senso siamo anche troppo
ottimisti: immaginare come debba essere
una situazione è operazione che richiede
una certa dietrologia che nella vita
quotidiana raramente ci poniamo. Il doveressere è quindi piuttosto una eventualità
che ci viene suggerita da fonti esterne, con
toni molto persuasivi per come questa si
dovrebbe realizzare, e sempre in termini
molto vaghi e poco analitici (in modo da
non doversi fare troppe domande).
C'è una crisi economica? Quali sono le
cause? Perché tutti hanno pronte (a parole)
le soluzioni mentre raramente ci vengono
offerti gli strumenti di analisi? La risposta è
fin troppo ovvia, se si ragiona in termini
politici, ma questa è una rubrica di filosofia
e allora proveremo a dare una risposta
analitica: il sospetto è che la critica non
deve essere fatta neppure allo stesso
significato della parola crisi.
La crisi, infatti, come tutte le parole che
incutono terrore, insicurezza, instabilità
invocano protezione, volontà di sottomissione a chi qualche soluzione (facile) può
offrirla.
Guerre, carestie e peste vi colgano
Nella storia la parola crisi di solito si
associa a un cambiamento, di solito lungo,
o una rottura con un paradigma culturale o
scientifico precedente (le cosiddette “ere
critiche” descritte dall'utopista socialista
Saint Simon) per approdare ad una nuova
era di felice accettazione di nuovi principi.
Si parla ad esempio di “Crisi del 300”, per
parlare di un periodo lungo un secolo
nell'immaginario collettivo infestato di
peste, carestie e guerre devastanti. A parte
che le guerre erano più o meno nella
“norma” della storia dell'uomo precedente
e successiva (sia in quantità che in qualità),
e che peste e carestia normalmente a queste
si accompagnano, è certamente più
interessante vedere quale cambiamento in
atto nel corso di questo secolo ha determinato il bisogno di considerarlo una crisi
così eccezionale. Crisi significa infatti
“separazione”, “piega” e di solito le pieghe
non si prendono da sole ma sono determinate da decisioni e scelte. Questa crisi in
particola non è difficile vederla come un
effetto, lungo, di un cambiamento
dell'economia europea che passando da
una cultura di sussistenza o autoconsumo a
una sviluppata sugli scambi commerciali e
sull'agricoltura intensiva ha reso città e
campagne dipendenti dagli scambi stessi e
quindi soggetta, in nome di più alti profitti
per chi gli scambi li gestisce, a carestie e
malattie conseguenti.
La crisi del 300 può, in quest'ottica,
essere vista come un “semplice” adatta-
mento a una mutata condizione economica
che non nasce per caso e come ogni
adattamento qualcuno ci perde qualcosa,
qualcuno ci guadagna.
La bolla speculativa.
La crisi economica odierna è stata
accompagnata, nei primi mesi in cui se ne
sentì parlare, ad una espressione che
suonava più o meno così: “il capitalismo
non sarà più come prima”. Adesso la
sentiamo un po' meno (segno che a
qualcuno il capitalismo continua a piacere
anche com'era prima), ma è stato un
barlume di lucidità che sembrava accorgersi che forse una crisi economica (cioè
l'incapacità di un sistema produttivo di
produrre come e quanto ci si aspetta che
debba fare sulla carta o nelle speranze di
chi ci investe, sia di capitale che di lavoro
duro) non nasce per caso ma si può, spesso
troppo banalmente, far derivare da scelte
precise, facilmente individuabili nel
sistema produttivo stesso che le produce.
Molto più complicato, in apparenza, ma
preferibile, cercare sempre cause esterne,
contingenti, imprevedibili e quindi
bisognose di interventi di chi sulla reale
causa delle crisi ci mangia: invasioni
straniere, religioni fondamentaliste,
perversioni culturali e politiche di chi osa
criticare anche solo chiedendosi, questa
crisi, che da tutte le parti viene urlata, da
dove la prossima volta arrivi.
C'è grossa crisi
E se l'analisi di un problema si vuol ben
nascondere, basta parlarne, tanto,
infilandolo ovunque e soprattutto in
contesto dove non ci stia a fare niente. Il
suo pronunciarlo sempre e comunque,
anche in situazioni quotidiane, reali,
facilmente risolvibili e con piccole
decisioni ben prese, farà credere che in
fondo, crisi vere e proprie, nemmeno
esistono ma sono solo il frutto
dell'immaginazione delle nostre menti
bacate di consumatori insoddisfatti.
23
Fumetto
Chi di capitalismo ferisce
chi di
capitalismo
ferisce
di Luchetti, Fontana
hacked by thirdman
prato , ultima frontiera delle colline orientali .
citta’ miraggio di molti e loschi uomini senza
scrupoli dagli occhi a mandorla!
boia che palle!
se sapevo che era cosi’
noioso arruolassi nelle
camicie verdi andavo a
gioca’ a risiko col mi
nipote! per difende cosa
poi? quattro sarti
scalcinati che colla
scusa dei cinesi non
sanno piu’ cosa fa’
pe’ vende!
ma da oggi i suoi onesti e laboriosi
cittadini non sono piu’ soli, un uomo
solo e’ pronto a difenderli!
buongiorno
caro miliziano razzista!
e’ permesso? vengo dalla grande
cina e vi porto giusto un po’ di
lavoro anche a voi bifolchi,
che voglia di niente fare
avete!
voglia di
fare niente
a chi? io sto
lavorando,
‘un lo vedi?
proteggo i
confini della
mia patria!
l’hai pagata
la dogana? o
credi di poter
venire qui a fare
i porci comodi
tua? guarda che
a infinocchiare
i poveracci col
miraggio de’
soldi facili
s’e’ inventato noi!
ahio,
vedo vedo!
ecco,
bravo! fai a
far danni con
il tuo sistema
produttivo primitivo
altrove, qui non
e’ piu’ aria!
dogana? credevo
che qui il mercato
fosse libero come ci avete
insegnato ad approfittarne
proprio voi! ma io le
fabbriche le apro in
romania e vi vado
nel culo!
a noi ci basta
ave’ la scusa per lamentacci
della grisi! boia, vi si deve
insegna’ sempre tutto!
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