Primavera araba un anno dopo

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Primavera araba un anno dopo
Primavera Araba: Work in progress
di Carolina Vigo (Studentessa di scienze diplomatiche a Udine, ex msacchina di Lodi)
La voglia di cambiamento proveniente dalle Piazze di alcuni Paesi mediorientali e nordafricani
è senza dubbio la notizia dell'anno: il 2011 sarà sinonimo di tempo di transizione, grazie alle
tante persone che hanno reclamato, scendendo nelle piazze, una maggiore tutela per i diritti
umani, civili, sociali ed economici.
La scintilla è scoccata in Tunisia e si è propagata nella regione circostante, portando alla
caduta due dittatori (Ben Ali, in Tunisia, e Mubarak, in Egitto), alla promessa di ritiro di un
terzo (Saleh, in Yemen) e all'uccisione di un quarto (Gheddafi, in Libia), dopo una guerra
voluta fortemente dalla Francia e portata avanti dalla Nato e da alcuni Paesi arabi; tuttavia, è
bene ricordare che altrove, in Siria, chi è al potere, Bashar Al-Assad, tenta di rimanervi ancora
ed ovunque l'esito è incerto.
Ma vediamo di ripercorrere velocemente le tappe di questa “primavera” che dura, in modo
“anomalo”, da oltre un anno e che non sembra voler terminare.
Dal 18 Dicembre 2010, quando un tunisino si diede fuoco come atto di protesta contro il
regime, si è cominciato a leggere su tutte le testate giornalistiche mondiali che la democrazia
sarebbe stata di casa anche nel Nord Africa: “Le réveil tunisien” (da “Le Monde diplomatique”),
“Arab spring: an interactive timeline of Middle East protests” (da “The Guardian”), “Rivolta del
pane in Tunisia” (da “Corriere della Sera”), …
Presto, infatti, la Tunisia è scesa in piazza per protestare contro il governo di Ben Ali, che fu
costretto ad abbandonare il Paese il 14 Gennaio 2011 (dopo essere stato per 23 anni al potere).
Così la rivolta è proseguita in Egitto, dove Mubarak, l'11 Febbraio, decise di seguire la sorte del
“collega”, dimettendosi dopo 30 anni di governo.
Nonostante queste prerogative, attualmente i giovani rivoluzionari non hanno preso il potere in
nessun Paese: non l'hanno voluto. Alle elezioni hanno trionfato i partiti islamici: organizzati,
ben radicati nella società, legittimati da decenni di opposizione politica, difensori di quei valori
religiosi e conservatori condivisi dalla maggior parte della popolazione, hanno saputo
conquistare molti più voti rispetto al numero dei loro militanti perché si sono presentati come
dei veri partiti di governo. Insomma, abbiamo di fronte due immagini contrastanti delle società
arabe: da un lato i giovani, in cerca di libertà e di democrazia, individualisti, tolleranti e
progressisti, ma anche inesperti e minoritari, dall’altro gli elettori dei partiti islamici,
conservatori, tradizionalisti, preoccupati dei rischi legati al disordine e, almeno in parte, attenti
ai precetti islamici e alla sharia. Tuttavia, sarebbe un errore pensare che questi due
schieramenti siano ben definiti e in lotta tra loro: quello a cui stiamo assistendo è un processo
a lungo termine, in cui le trasformazioni delle società arabe e l’evoluzione della religione (il
“postislamismo”) faticano a prendere forma in uno scenario politico dominato da figure del
passato. Così come negli Stati Uniti i Tea party sono una reazione all’elezione di Barack Obama,
nei paesi arabi l’ondata conservatrice è una reazione a mutamenti sociali e culturali irreversibili
e allo stesso tempo destabilizzanti.
Se questa è la situazione attuale in Egitto e in Tunisia, ancora nebuloso risulta il capitolo
intitolato “Libia”: pur cominciando con la medesima introduzione, la trama è diventata più
complicata del previsto e un numero più elevato di personaggi ha preso parte al racconto.
L'ex-dittatore, Gheddafi, "impreparato" a lasciare il potere "così presto" ha infatti cominciato a
soffocare le proteste con dei raid aerei. Il Consiglio di Sicurezza dell'Onu per tutta risposta ha
autorizzato la creazione di una no-fly zone su tutto il Paese e così la Nato, la Francia, il Regno
Unito (che saranno poi affiancati dall'Italia ad Aprile) con l'operazione Unified protector hanno
preso le difese dei ribelli del Consiglio Nazionale Transitorio (CNT), assieme ad alcuni Paesi
arabi (in primis, il Qatar che, con la sua TV, Aljazeera, ha documentato e manipolato gli eventi,
scherandosi da subito a favore dei rivoluzionari e divenendo protagonista indiscusso della
politica mediorientale). Il conflitto si è concluso solo a fine Ottobre, quando il colonnello fu
ucciso nei pressi di Sirte e il figlio, considerato l'erede politico dell'ex-dittatore, catturato.
Seppur meno tinto di rosso, anche il quadro yemenita si è rivelato difficoltoso da ultimare (ed
ancora mancano certe sfumature da aggiungere qua e là per potersi dire completato): la
rivolta contro il presidente Saleh, al potere dal 1978, ha dovuto affrontare una durissima
repressione che si è risolta con la promessa dello stesso di ritiro dalla presidenza in cambio di
totale immunità. Tuttavia, data l'inaffidabilità dimostrata del capo di Stato dimissionario, il
futuro di Sana'a (la capitale) rimane tutt'ora un'incognita.
Insomma, sembrerebbe che tutte le tele siano per essere ultimate e tolte dal cavalletto, tutte
meno quella siriana: il presidente Bashar al-Asad continua ancora oggi a reprimere nel sangue
le proteste. Secondo le stime ONU, solo a Dicembre si contavano più di cinquemila morti,
dall'inizio delle rivolte e nonostante le pressioni internazionali (promosse dall'Assemblea
generale delle Nazioni Unite, che ha condannato il regime il 16 Febbraio 2012, e dalla Lega
araba) ed interne, il dittatore non dà cenni di cedimento: il massacro sembra essere senza fine.
Questo è un riassunto sommario di quello che è accaduto nell'ultimo anno, ma prima com'era
la situazione? Qual è stata la causa (o meglio le cause) di tutto ciò? Ed è corretto parlare di
rivoluzioni nordafricane, mediorientali?
Rispondiamo subito a quest'ultimo interrogativo: certamente il 2011 ha visto alzarsi una (a
tratti) inattesa "tormenta", tuttavia sarebbe sicuramente improprio (e prematuro) parlare di
"rivoluzione araba". Sarebbe infatti scorretto azzardare parallelismi storici con il 1789 francese
o il 1919 russo, perché, per ora, manca quell'elemento di "regime change" necessario per far
proprio un termine di così rilevante importanza.
Sarebbe, invece, più interessante associare il 2011 arabo al 1848 europeo, quando movimenti
di élite e di popolo sfociarono in tutto il "vecchio continente" per dar sfogo a quei bisogni di
democrazia e di riconoscimento dei diritti necessari per l'istituzione di soggetti internazionali e
intergovernativi, nati nel secolo scorso, per il mantenimento della pace e della sicurezza.
I movimenti popolari sono stati causati da infinite situazioni, ma tra le cause evidenti che
hanno portato all'accensione della miccia non possiamo non citare l'impiego dei social network
(da Facebook a Twitter). Questi potrebbero rappresentare, infatti, la goccia che ha fatto
traboccare il vaso: i giovani hanno potuto confrontare la loro situazione sociale con quella di
alcuni loro coetanei occidentali; hanno perciò compreso che la realtà politica poteva e doveva
essere diversa, in nome di tutti quei diritti tanto proclamati ed inneggiati già a partire dalla
guerra di secessione americana. Perché, se i "colleghi europei" erano riusciti ad ottenere una
qualità di vita migliore dopo i moti del '48 non potevano farlo anche loro?
La situazione economica-politica-sociale, già di per sé precaria, è diventata insostenibile con la
crisi mondiale e il rincaro dei prezzi di beni di prima necessità; così è bastato un "niente",
perché si accendesse la rivolta, quasi come un tassello del domino fatto cadere
accidentalmente su altri a lui contigui.
Il tassello in questione era il tunisino arso vivo per protesta; la mano (o il dito) che ha causato
la caduta degli altri era la crisi economica, la mancanza di diritti, l'impiego di social network.
L'ONU, ad un anno dalla caduta dei pezzetti di plastica bianchi ed i puntini neri, in vista della
presentazione del rapporto annuale a Beirut ad opera della Commissione economico-sociale
per l'Asia occidentale (Escwa), ha dichiarato che "quello attuale è un momento critico per
tracciare un nuovo corso di sviluppo più inclusivo e sostenibile [...]. Gli eventi della Primavera
Araba mettono in risalto la necessità di un cambiamento nella natura sociale e politica delle
società di questi Paesi attraverso la creazione di posti di lavoro come base di crescita
sostenibile post-rivolte" (Nadim Khouri, vice segretario esecutivo dell'Escwa). Il suggerimento
primario dell'ONU è quindi basato su una maggiore diversificazione economica, una più
efficacie competizione e competitività, un'integrazione regionale e un rafforzamento dei
mercati finanziari per favorire gli investimenti.
Per concludere, risulta ancora difficoltoso e quanto mai ostico cercare di prevedere cosa
accadrà in futuro (già il passato si è dimostrato più volte mutevole): il 2011 ha certamente
segnato e scritto la Storia, ma è ancora troppo presto per definire e comprendere appieno ciò
che sia realmente accaduto, perché il sipario non è stato ancora calato e non tutti gli attori
hanno lasciato il palcoscenico. C'è ancora qualche battuta da ascoltare, prima di quello che si
spera possa essere uno scroscio d'applausi.