pigramma ed elegia - i nostri tempi supplementari

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pigramma ed elegia - i nostri tempi supplementari
L'EPIGRAMMA
L'epigramma ha una storia lunghissima che abbraccia tutto l'arco della
letteratura greca.
Nasce nell'VIII secolo a.C. come iscrizione incisa su stele funerarie o
su oggetti votivi. Chiuso di norma nel breve giro di un distico,
impersonale, anonimo, risponde a un'esigenza pratica, ora
commemorativa ora dedicatoria e tende all'edificazione morale
suggerita dall'elogio del defunto e dai meriti del destinatario.
Con Simonide esce dall'anonimato e in epoca classica viene ad
assumere forme più distese e aggraziate.
Nel corso dell'età ellenistica muta il tono che si fa disincantato e
pungente e si dilatano i temi specialmente nella direzione dello
scandaglio dei sentimenti e della rappresentazione della vita di ogni
giorno. Motivi ricorrenti diventano l'amore e il vino, ma non mancano i
sogni bucolici, le miniature di bambini e di animali, le polemiche
letterarie, le battute di spirito. Insomma, l'epigramma da impersonale
si fa soggettivo, da pubblico privato; tutto questo testimonia una
società che vede l'individuo, non più integrato nella polis, affrontare
solo e inquieto i suoi problemi.
Muta anche la genesi. La maggior parte delle volte sono distici che non
nascono più da occasioni concrete, né saranno mai incisi, perché i lutti, i
doni votivi, i destinatari sono fittizi: sono inventati dagli stessi poeti, al fine
di cimentarsi in un genere ritenuto capace di esprimere compiutamente
quell'arte raffinata e dotta che l'età persegue. Di qui l'accurata elaborazione
formale, le variazioni preziose del lessico, le sottili allusioni, il gioco
dei contrasti e delle rispondenze; di qui la particolare attenzione
riservata alla chiusa, la cosiddetta punta, che sigilla la struttura breve,
ma perfetta, con un tocco virtuosistico. Così l'epigramma diventa la
forma letteraria più emblematica dell'epoca.
Naturalmente il numero dei suoi cultori ben presto non si conta e la loro
produzione cresce a dismisura, a essa provvedono alcuni compilatori
che danno vita alle cosiddette antologie o corone.
Tra di esse la prima di una certa importanza è la Corona di Meleagro di
Gadara (I sec. a.C.). Il titolo, divenuto convenzionale, trae spunto dal
proemio, in cui i singoli poeti sono assimilati a fiori o ad arbusti
idealmente intrecciati a formare una corona.
Dopo l'opera di Meleagro ricordiamo la Corona di Filippo di Tessalonica (I
sec. d.C.) e le raccolte di Agazia (VI sec. d.C.) e di Costantino Cefala
(IX-X sec. d.C.).
Di queste raccolte non ci è pervenuto quasi nulla: ciò che conosciamo della
poesia epigrammatica è dovuto in gran parte all'Antologia Palatina, la
raccolta che prende nome dalla Biblioteca Palatina di Heidelberg, dove
fu scoperta nel 1606. Composta nella seconda metà del X secolo d.C.,
consta di quindici libri per un complesso di circa 3700 epigrammi
appartenenti a più di 300 poeti che vanno dall'età arcaica a quella
bizantina. La materia è classificata per argomenti e si conclude con un
sedicesimo libro, l'Appendix Planudea, aggiunto dai moderni per
integrare a Palatina con i nuovi epigrammi provenienti dall'Antologia
Planudea (il nome deriva dal monaco bizantino Massimo Planude che
la compilò intorno al 1300. Meno vasta della Palatina, contiene circa
2400 epigrammi, 388 dei quali sono del tutto nuovi; proprio questi son
stati aggiunti alla Palatina come Appendix Planudea).
Non considerando Callimaco e Teocrito, i nomi di spicco dell'Antologia
Palatina sono le poetesse Anite e Nosside (IV-III sec. a.C.).
L'ispirazione dominate in Anite di Tegea viene dalla sua Arcadia: pastori e
ninfe, prati e boschi, fonti e rivi, presso i quali è dolce sostare,
ristorarsi durante la canicola, ascoltare il suono del flauto di Pan. E
tuttavia più intensi appaiono gli epicedi per bimbi e per animali.
Nosside di Locri, invece, sembra situarsi nella scia di Saffo, come lei
stessa suggerisce in una sorta di autoepitafio che probabilmente
fungeva da chiusa della sua opera. Infatti gli epigrammi migliori
inquadrano alcuni ritratti femminili, nei quali non è mancato chi ha
ritenuto di individuare i volti delle fanciulle amate del suo tiaso.
Di un cenacolo poetico attivo a Samo fanno parte tre poeti fioriti nel III
secolo, già in qualche modo associati da Meleagro nella sua Corona
quando ricorda i fiori di campo di Posiddipo e di Edipo e il Sicelida.
Quest'ultimo è Asclepiade, senza dubbio il maggiore dei tre, senza
dubbio un caposcuola di forte personalità. Oggi la sua fama è affidata a
45 epigrammi, non tutti autentici, che di lui ci ha conservato la
Palatina, per la maggior parte erotici e simposiaci. Il motivo dell'amore
conosce tutta la gamma delle reazioni e delle loro sfumature. Tutto si
risolve nello stato d'animo di un momento effimero e fuggevole, dove l'unica
scelta che conta è quella del carpe diem. E di fronte alle delusioni, di fronte
alle ferite lancinanti aperte dalla passione unico rimedio è affogare la
disperazione nel vino. Sincere sono le lacrime di Asclepiade, sincera la sua
disperazione. Se mai, poco convinto appare il poeta dei rimedi che addita,
perché alla ferita di amore si unisce l'inquietudine inguaribile che nasce
dalla precarietà del destino umano e dall'ineluttabilità della morte.
Questo non vuol dire che bisogna fare di Asclepiade un altro Catullo e meno
che mai un poeta avulso dal contesto dotto e aristocratico dell'ambiente
alessandrino; la sua espressione però è fresca, per nulla appesantita da
pastoie erudite o da preziosismi verbali. Spesso bastano pochi tocchi di
felice immediatezza per ricreare uno stato d'animo, per fissare un
volto.
Per molti versi agli antipodi di Asclepiade si colloca Leonida di Taranto
(IV-III sec. a.C.). Solo, senza famiglia, sradicato a un certo punto dalla
propria città, andò randagio per il mondo menando vita grama, non
senza nostalgie per la propria patria e non senza presentimento di non
potervi più tornare. La nota allegra del motivo simposiaco e quella, pur
sempre piacevole dell'amore che connotano l'opera di Asclepiade sono
pressoché scomparse. Il sentimento che emerge di continuo è quello di
un pessimismo disincantato, che si compiace di una frugalità di vita
perseguita al di fuori di qualsiasi ipoteca metafisica e religiosa. Non mancano a
riguardo tratti di felice autoironia, come quando il poeta caccia dalla propria
"tana" un topo troppo goloso per le "povere cose" che ha. Con Leonida fanno
il loro ingresso nella letteratura gli strati sociali più bassi, dalle
tessitrici alle cortigiane, dai pescatori ai contadini, dai pastori agli
artigiani, tutti ritratti con simpatia, accanto agli strumenti del loro
lavoro, alle prese con la miseria e con la fame. Ciò si iscrive nella
tendenza realistica dell'epoca, che sfrutta il mondo degli umili per
evidenziare il suo senso acuto del nuovo e il suo aperto fastidio per i
tradizionali valori etici ed estetici. La scelta di Leonida è una scelta
letteraria, di certo destinata a trovare udienza presso un pubblico d'élite,
capace di decifrare un codice stilistico per nulla popolare. Diversamente da
Asclepiade e in contrasto con l'umiltà della materia, Leonida fa uso di
un'espressione quasi sempre sfarzosa, ed anzi decisamente barocca, al
punto da risultare spesso oscura nei suoi giochi di consonanze, rime e
antitesi. Anche lo stile non fa che confermare la collocazione di Leonida
nella schiera dei poetae docti.
Dopo Leonida l'epigramma ellenistico entra in una fase di stanca ripetitività dei
vecchi temi fino a quando riesplode, come in una seconda grande stagione tra
il II e il I secolo a.C. La nuova fioritura è legata alla "scuola fenicia",
così chiamata perché i suoi rappresentanti, Antipatro, Meleagro,
Filodemo, sono il primo di Sindone, il secondo e il terzo di Gadara;
Antipatro ne è l'iniziatore, Filodemo (il filosofo del circolo epicureo
napoletano) l'epigono, Meleagro l'interprete più originale.
Meleagro, vissuto all'incirca tra il 130 e il 60 a.C., è l'autore della
Corona, la prima fortunata antologia di epigrammisti, e delle Cariti,
un'opera giovanile sorta ai margini della filosofia cinica. A noi sono
giunti di lui gli epigrammi, che dell'antica lezione cinica non portano
traccia e che, invece, segnano il trionfo di eros. Il repertorio è lo stesso
di Asclepiade; solo che i motivi e i moduli tradizionali tendono a essere
contaminati, variati, stravolti in un gioco ingegnoso di sapore
marinistico; tuttavia ci sono anche momenti felici, in cui fantasia e
arte, grazia e ironia si compongono a formare dei gioielli, come quelli
dedicati a Zenofila e a Eliodora, fanciulle amate dal poeta. In questi casi
gli artifici letterari e il solito sorriso arguto del poeta credono il posto a un
pathos nuovo, più intenso e sincero. In Meleagro si nota, comunque, una
mollezza, una tensione patetica e una ridondanza espressiva che
riescono nuove.
Anche l'epigramma, come le altre forme letterarie risente sempre di più
dell'influenza del fastoso Oriente.
L'ELEGIA
La storia dell'elegia segue da vicino quella dell'epigramma e, come
quest'ultimo, conosce un periodo di particolare fioritura in epoca
ellenistica.
Fin dalle origini e poi nel periodo arcaico l'elegia abbraccia una gamma
tematica molto vasta: dapprima guerresca con Callino e Tirteo, diventa
politica con Solone, erotica con Mimnermo, gnomica (costituita da
sentenze) con Teognide, filosofica con Senofonte.
Una tappa fondamentale della sua evoluzione è segnata dalla comparsa della
Lide di Antimaco di Colofone (tra il V e il IV secolo a.C.). L'opera è una
raccolta di elegie in morte di Lide, la donna amata dal poeta, che
narrano mitici amori infelici, un po' sulla falsa riga della Nanno di
Mimnermo.
L'elegia ellenistica ha uno svolgimento essenzialmente "narrativo" e
suoi temi, pressoché esclusivi, sono leggende e saghe, storie locali,
miti. Grande importanza ha l'amore, non però come esperienza
"soggettiva", bensì come paradigma offerto dal racconto registrato nella sua
impersonale "oggettività". L'originalità e la bravura del poeta
consistono nel riportare alla luce miti poco noti o versioni piuttosto
rare, nell'intessere dotti ragionamenti sulle origini di usi e costumi
locali, nello sfoggiare toni ora appassionati e ora metallici, artifici
retorici e immagini bizzarre, neologismi e glosse. L'elegia ellenistica,
dunque, oltre che mitico-narrativa, è erotica ed eziologica, dotta e
impersonale.
Il campione di questo genere è senza dubbio Callimaco, ma ci sono giunte
anche elegie di altri poeti grandi e minori.
Tra i maggiori bisogna annoverare Filita di Cos, nominato da Callimaco,
Teocrito, Properzio e Ovidio. Chiamato intorno al 300 a.C. ad Alessandria
da Tolomeo I con l'incarico di educare il figlio, si guadagnò vasta
risonanza sia come erudito sia come poeta. Il frutto più cospicuo della
sua erudizione è rappresentato dalle Glosse sparse (Ataktoi glossai),
un commento a 30 parole, ormai desuete e oscure, tratte
prevalentemente da Omero; dell'attività di poeta sono rimasti alcuni
titoli (Demetra, Pigia ecc.) e pochi frammenti insignificanti a causa
della brevità.
Qualcosa di più sappiamo di un suo discepolo, Ermesianatte di Colofone.
Questi, sulle orme degli illustri conterranei Mimnermo e Antimaco, scrisse una
raccolta di elegie intitolata Leonzio dal nome della sua donna, che
riuniva casi di amori infelici, tradimenti, incesti, morti cruente, sia di
dei che di uomini. Noi possediamo un frammento di un centinaio di
versi articolato come un catalogo di poeti e filosofi celebri che hanno
sperimentato la potenza e i tormenti d'amore. A ciascuno è dedicato un
breve riquadro in cui la realtà storica è vistosamente e bizzarramente
distorta: Omero viene fatto innamorare di Penelope, Alceo, in
concorrenza con Anacreonte, di Saffo ecc. Il catalogo procede a prima
vista scialbo e arido, ma Ermesianatte investe le tradizioni venerande di un
deliberato intento parodico, realizzando quello scarto ironico che connota
l'uomo colto e raffinato dell'età ellenistica.
La nota ironica è del tutto assente in Fanocle, di cui non conosciamo né
la patria né l'esatta cronologia. Eppure vari indizi lo collocano sulla
scia di Ermesasianatte. La sua opera, Gli amori o i belli, rappresenta un
po' l'equivalente maschile della Leonzio. Se infatti gli amori cantati
sono tutti efebici, l'organizzazione della materia ripete lo schema del
catalogo.
L'estremo epigono dell'elegia ellenistica è Partenio di Nicea. A Roma
giunse come prigioniero di guerra (73 a.C.) e non tardò a d entrare in
contatto, come amico e maestro, con molti poeti romani: Elvio Cinna,
Cornelio Gallo, Virgilio. Documento diretto della sua funzione
mediatrice tra elegia greca e romana, giunta fino a noi, raccoglie i
soliti esempi di tragici amori e persegue lo scopo, dichiarato nel
proemio, di fornire all'amico Gallo un materiale utile per la sua attività
poetica.
Significativi appaiono, dunque, gli stretti collegamenti tra elegia greca e
latina così come l'evidente contrasto tra il carattere "mitico-oggettivo"
dell'una e "lirico-soggettivo" dell'altra.