Camilla e Antonio

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Camilla e Antonio
Simonetta Spinelli
pratiche di ricerca
In teoria 9 - ...o in pratica1
Il problema sarà vetero-femminista ma quando la teoria e la pratica sono scollegate
succede sempre un gran pasticcio e per giunta ingestibile. Invece se teoria e pratica si
intrecciano e l’una fonda sulla materialità delle vite e l’altra si struttura su assunti
provvisori, mobili, ma passibili di aggiustamenti, avviene uno spaesamento
costruttivo, si ipotizzano percorsi paralleli di vita e di pensiero che raffigurano
sperimentazioni possibili.
La meditazione estiva nasce dall’esperienza del Lespride, coraggiosa iniziativa
organizzata dalla collaborazione delle lesbiche di Firenze, Milano e Bologna, che ha
messo a confronto differenti realtà ed esperienze del movimento LGTQ, in
particolare * trans, ma anche dalle polemiche suscitate dal mio articolo in Towanda!
n. 12 contro la centralità del dibattito sulle politiche per i cosiddetti diritti civili. I due
discorsi, apparentemente scollegati, in realtà disegnano una trama, sia pure
problematica, comune.
Le critiche al mio articolo sono state di due tipi: sarei contro le lotte per i diritti e le
mie idee sarebbero antiche e non condivisibili da una generazione più giovane,
agguerrita e moderna.
Mi si contesta, in primo luogo, l’accusa fatta ad Arcilesbica (e a Towanda!) di non
aver compreso quanto sottende Non credere di avere dei diritti e di essere così
refrattaria al problema della tutela delle minoranze che, se fossi nata un secolo prima,
avrei osteggiato persino le battaglie delle suffragiste (Gramolini).
Banalmente mi sembra di poter affermare che le lotte per i diritti devono essere
inquadrate storicamente, con un prima e un dopo. Le suffragiste lottavano per il
diritto essenziale alla parola pubblica – e, considerate le leggi dell’epoca in fatto di
diritto di famiglia (autorizzazione maritale, tutela dei figli al padre, indisponibilità dei
patrimoni familiari et similia), anche alla parola privata che ne derivava. O vogliamo
dire che il diritto al voto, alla libertà personale, o l’abolizione della schiavitù sono
equiparabili per la vita di donne e uomini al diritto alla procreazione medicalmente
assistita o alle unioni civili? Combattere le discriminazioni che impediscono la vita,
la libertà e l’espressione è diritto di tutte/i. Come singole/i prima che come
collettività.Ma combattere le discriminazioni non significa necessariamente voler
condividere una sfera di privilegi, veri o presunti, inamovibili e codificati, come se
fossero l’unico universo possibile al quale accedere. Prima di lottare per un diritto
civile voglio sapere se quel diritto corrisponde all’economia della mia vita e al mio
pensiero sul mondo. O se mi ricaccia nella situazione simbolica di soggetto
1
In Towanda!, IX,16 (gennaio-febbraio 2005)
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subalterno (vedi: Non credere di avere dei diritti), a rimorchio di ideologie
dominanti e di una struttura sociale che è stata costruita nei secoli senza prevedermi.
Voglio essere in grado di ri-negoziare quello che io considero un diritto, non di farmi
passivamente omologare a un codice preconfezionato che parte e ritorna a coppie,
famiglie, Stati, nazioni, sopraffazioni razziali ed economiche, confini materiali e
morali che non corrispondono alla libertà che mi sono presa di essere come sono. E
quindi contesto prima di tutto che lo Stato possa arrogarsi la pretesa di stabilire la
destinazione dei miei rapporti. Amo chi mi pare, sto con chi mi pare, decido io –
ovviamente nel rispetto e non nella sopraffazione – chi e cosa corrisponde ai miei
interessi, e la legge che contribuisco a costruire deve difendere la mia volontà di
singola e non la mia appartenenza o meno a un’istituzione.
Le unioni civili, in quest’ottica, servirebbero solo ad omologare al ribasso, definendo
come cittadine/i di seconda categoria coloro che non possono, per un presunto statuto
biologico codificato da altri, accedere al matrimonio. Cioè sanerebbero in parte la
discriminazione materiale per accentuare pesantemente la discriminazione simbolica
(vedi di nuovo: Non credere di avere dei diritti). Perchè non si può invece lottare,
come singol* per diritti di singol*, indipendentemente dalla tipologia e dallo spessore
dei propri legami, per la modifica delle leggi ereditarie, per favorire le collettività
comunque strutturate, per la libertà di procura a chi deve fare le nostre veci in caso di
decisioni che attengono alla salute, al patrimonio, all’assistenza, alla difesa delle
proprie convinzioni e della propria immagine (vedi opere di gay e lesbiche fatte
accuratamente sparire dai familiari)?
Da un altro punto di vista mi si ricorda che in altri tempi ho auspicato la nascita nelle
lesbiche di una mentalità di minoranza, animata da un’orgogliosa consapevolezza di
sè, contro il perdurare di una mentalità minoritaria, tendente alla rincorsa dei principi
già codificati dalla maggioranza etero, mentre oggi vedrei come sminuente il
desiderio positivo, forte, non rinunciatario, delle giovani che pretendono quello che è
loro dovuto (Ciavarella).
Rivendicherei una coerenza se credessi che la coerenza è un merito, mi limito a
osservare che oggi come ieri non trovo forti, positive e non rinunciatarie le richieste
di gran parte del movimento LGTQ. In quanto al resto: è probabile che io sia antica,
se non altro per età anagrafica, ma mi chiedo di qual* giovan* si parli dal momento
che contestazioni analoghe sono venute nel Lespride dai no-global, ex-tute bianche,
di Antagonismo gay, e che il collettivo universitario Queeringsapienza ha rifiutato la
proposta del Circolo MarioMieli di scendere in piazza per il Pride romano sul tema
unico delle unioni civili, affermando “Nel pride c’è tutto e vogliamo tutti. Il pride è di
tutti e noi vogliamo tutto” dove il tutto è “contestare uno Stato ancora confessionale e
maschilista e ... festeggiare la libertà dei desideri e delle diversità al di là di qualsiasi
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categoria”. Il voler scendere in piazza “per difenderci dai tanti attacchi che mettono
in pericolo i diritti di tutti”, questo mi pare forte, positivo e non rinunciatario.
Mi sembra un controsenso rivendicare un’identità queer, mobile, eccentrica,
autodeterminata e fissare i propri obiettivi prioritari nell’acquisizione di diritti che
tendono a inquadrare in spazi delimitati dalla norma situazioni che nascono dal
desiderio, dall’affettività, dalle fantasie su di sè, dalla voglia di progettare con altr* la
propria vita. Vedo un salto logico nel combattere le discriminazioni che piombano
sulla nostra pelle, solo perchè siamo una minoranza, e richiedere diritti che a loro
volta potrebbero discriminare altre minoranze. Perchè c’è sempre una minoranza.
E qui entrano in gioco * trans che – se si pensa in termini di movimento LGQT –
sono la nostra minoranza. Per nulla assorbita, se non nelle sigle, e non facile da
assorbire. Anche loro, come noi lesbiche, altalenanti tra il desiderio di essere quello
che sono e l’aspirazione alla normalità a tutti i costi. Che, come abbiamo fatto noi,
stanno costruendo pratica politica e teoria sui loro corpi. Pratica e teoria con cui
dobbiamo fare i conti, come l’eterosessualità normativa ha dovuto confrontarsi con la
materialità delle vite di lesbiche e gay.
Oggi l’indicibile che trova parola non siamo noi lesbiche e non sono i gay. Sono loro
* trans, non nella definizione normativa di “chi è transitato - parola definitiva e
chiusa – da un sesso all’altro”, che per molto tempo, con maggiore o minore
estraneità, abbiamo anche noi mutuato dal linguaggio comune, contraddicendo le
nostre stesse teorie sul maschile e sul femminile come costruzioni sociali. Non nelle
capriole intellettualistiche alla Butler sulla performatività per le quali – ridotto a
inessenziale il desiderio – si può essere tutto e il contrario di tutto, in un doppio salto
mortale ripetibile all’infinito nella gamma del possibile: corpi da consumo.
Se si supera l’indifferenza (avevamo da pensare a come costruire le nostre pratiche e
il loro linguaggio), o a volte il malcelato fastidio, e si ascoltano le testimonianze de*
trans, il loro tentativo di costruire discorso, in particolare * FTM, che sono stat* il
nostro rimosso e che, aumentando di numero, ci costringono a guardarl*, ci si trova di
fronte a un soggetto inedito che problematizza le nostre acquisizioni teoriche. Anche
se ancora non sappiamo bene come e in che direzione. Perchè se la teoria dei corpi
‘transitati’ strizzava l’occhio alla norma e quella dei corpi ‘transitabili’ alle
evoluzioni butleriane della teoria queer, non è facile comprendere l’esperienza di
corpi in un percorso di transito perenne. Corpi che proprio sul transito tentano di
costruire pratica e senso della propria vita. Non a caso si moltiplicano i casi di FTM
che non desiderano farsi impiantare un pene e rifiutano la logica dell’adeguamento a
uno stereotipo di corpo e di ruolo, preferendo abitare la dimensione della
contraddittorietà, perchè nei loro corpi il maschile e il femminile, quale che sia
l’accezione biologica, sociale, fantasmatica, posizionale, sono indistricabili pur
contenendo quella che Timothy Koths (testimonianza FTM in Towanda n.14) chiama
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“la frattura intensa fra la mia esperienza femminile... e l’esteriorità modificata, la
lettura pubblica del mio corpo”, che si è sostituita alla frattura, altrettanto intensa, tra
la rappresentazione di sè e la precedente lettura pubblica del proprio corpo.
Come li inseriamo in un progetto normativo strutturato sull’eterosessualità questi
corpi in transito? Sempre Timothy Koths, raccontando la sua esperienza, e l’obbligo
imposto in Germania, per cambiare nome e sesso sui documenti, di farsi togliere
seno, utero e ovaie, per liberare la maggioranza dall’incubo di ritrovarsi con un
uomo incinto, parla di “attuazione di una eugenetica legale”. Che non mi sembra il
massimo delle aspirazioni condivisibili perchè regolarizza una scelta con
un’imposizione. Il problema non è evitare la legge ma contribuire a formarla a partire
dalle nostre vite, dalle nostre esigenze. Una legge che parli anche di noi e non dalla
quale siamo definit* e normat* attraverso stereotipi che nascono da esperienze altre.
Un movimento LGTQ ha ragione di esistere – oltre la formalità delle sigle che poco
significa se non si attua un confronto serio a partire dalle esperienze e dalle pratiche e
non dagli slogans – se pone alternative alla logica normalizzante e alle sue regole
imposte, se ipotizza un sistema di diritti includente e non escludente. Dove invece di
assumere corpi-ruolo socialmente codificati in un’ottica binaria e contrappositiva,
ognun* possa sperimentare e vivere la libertà dei suoi posizionamenti.
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