Camilla e Antonio

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Camilla e Antonio
Simonetta Spinelli
pratiche di ricerca
Passioni a confronto: Mieli e le lesbiche femministe1
Una passione incontrollata, eccessiva, ironica, spietata. La passione di Mario Mieli e
la passione delle lesbiche femministe. Eppure, rileggendo oggi, dopo più di venti
anni, Elementi di critica omosessuale, mi ritrovo a pensare che, malgrado ciò, negli
anni ‘70 non era possibile un incontro. E che un incontro è, oggi, possibile anche se
conflittuale. Ma la conflittualità non è solo inscritta nelle teorizzazioni di Mieli. Ha
origine anche in una passione – la nostra – che non poteva/non voleva essere
abbastanza ironica e, soprattutto, abbastanza spietata.
Tra le lesbiche femministe e Mario Mieli ci sono stati – e restano – punti di contatto:
ipotesi appena accennate che non sono state esplorate fino in fondo, e che, proprio
per questo, hanno subito evoluzioni pacificanti e normalizzanti; critiche lasciate
cadere che oggi sono divenute barriere o fossati. E una distanza che non è stata
costruita dal tempo. Il tempo ha, se mai, attenuato i contrasti e le rigidità.
Vista da lontano, la gabbia dell’utopia rivoluzionaria di Mieli ricorda – anche se le
donne erano infinitamente più critiche e disilluse, abituate da sempre alle cadute dei
“rivoluzionari” nella quotidianità – certe contorsioni di doppia militanza, tra collettivi
e partiti, o gruppi extraparlamentari, di cui soffriva metà del movimento femminista.
Osservato da oggi, il suo spregiudicato utilizzo della psicanalisi riecheggia certe
critiche del primo femminismo, costruite come un mosaico in cui si infilavano le
tessere, in ragione della loro forma, indipendentemente dalla provenienza,
mescolando stili e colori. Se il superamento dell’Edipo era un’ossessione comune,
analisi sistematiche sono venute molto tempo dopo.
Non è stato il tempo a costruire distanza. Nè il disconoscimento del dibattito
femminista che Mieli seguiva attentamente, con una disponibilità intellettuale e
un’apertura rara negli anni ’70, quando anche la sinistra – più o meno ufficiale –
oscillava tra la condiscendenza, la sintesi approssimativa e la volgarità, che scaricava
equamente sulle donne e sugli omosessuali (come in Elementi di critica omosessuale
è ripetutamente sottolineato).
Per Mieli il movimento delle donne – le lesbiche in particolare - che aveva messo in
luce le stratificazioni dell’oppressione patriarcale di sesso oltre che di classe, e la loro
origine comune, e ricollocato al centro del dibattito la politicità del personale,
rappresentava l’avanguardia della rivoluzione da costruire: “se davvero credessi
nelle avanguardie, direi che l’avanguardia della rivoluzione sarà composta da
lesbiche” (p.119). Del femminismo – dalla cui radicalizzazione era stato influenzato,
a suo avviso, negli USA come in Europa, il nascente movimento gay – pensava si
1
In Mario Mieli, Elementi di Critica Omosessuale, Milano, Feltrinelli, 2002
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dovessero mutuare le pratiche (l’autocoscienza, il partire da sè). Pratiche che,
mettendo in luce il singolo caso di oppressione, permettevano di cogliere, nello stesso
tempo, le implicazioni patriarcali e la parzialità della norma, ma anche ciò che dal
sistema codificato restava fuori e che, negato, ne rappresentava l’eccesso. Un eccesso
da cui si poteva partire per ipotizzare, oltre il modo di produzione capitalistica,
un’economia altra, un’economia del margine.
Mieli conosceva le teorizzazioni femministe. Citava in continuazione gli scritti delle
femministe milanesi che apparivano sul periodico “L’Erba Voglio”. Le sue analisi sul
collegamento tra subordinazione femminile, finalizzazione della sessualità alla
riproduzione, oggettualizzazione della donna, e l’impotenza camuffata da virilismo
violento da parte dei maschi etero, come espressione di un “Eros mutilato”, ricalcava
molte analisi dei collettivi femministi romani2. La sua lettura dei cosiddetti
atteggiamenti virili dei maschi etero - “il fanatismo patriottico rappresenta
un’espressione convertita di desiderio omosessuale”(p.106); “il cameratismo
maschile è la messinscena grottesca di un’omosessualità paralizzata e inasprita che si
coglie [...] dietro la negazione della donna”(p.107); “Il virilismo non è altro che
l’ingombrante introiezione nevrotica, da parte dell’uomo, di un desiderio
omosessuale per gli altri uomini fortissimo e censurato”(p.108)) - risentiva delle
teorizzazioni delle femministe francesi del gruppo parigino “Psycanalyse et
Politique”, che rimbalzavano in Italia dalle registrazioni degli incontri internazionali
e locali pubblicati dal periodico dei gruppi femministi milanesi, “Sottosopra”: “La
sessualità che c’è oggi è pederasta nel senso del rapporto maschile e basta [...] è un
rapporto pederasta perchè è funzionale all’uomo”3; “tutti gli investimenti, tutta la
cosa [il rapporto sessuale etero] partiva da un investimento omosessuale fatto
dall’uomo su se stesso e lui prestava a me gli strumenti perchè io potessi
riconoscergli una sessualità, ma era [...] il suo desiderio che mi offriva, le sue fantasie
[...] [tutto] veniva dal desiderio omosessuale dell’uomo che ci chiedeva di sostenere
la sua sessualità, il suo investimento sul suo corpo...”4.
Che Mieli conosca e condivida le teorizzazioni femministe non è sufficiente a
costruire incontro. Anzi, proprio da qui ha inizio la distanza. Per quanto egli affermi
2
Cfr. Movimento Femminista Romano (MFR) di Via Pompeo Magno, Sessualità maschile –
perversione, Volantino del giugno 1973, in Donnità, a cura di MFR, Roma, 1976
3
Dalla registrazione di una discussione collettiva, Domenica 12 novembre [1972], dopo l’incontro a
Chateau Vieux-Villez (27 ottobre – 1 novembre 1972), in “Sottosopra”, Le esperienze dei gruppi
femministi in Italia, Milano, [1973], p. 35
4
Il corpo politico (registrazione di un incontro tra i gruppi femministi a Milano, 1-2 febbraio 1975),
In “Sottosopra”, sessualità procreazione maternità aborto, Milano, 1975, p. 11.
Si è preferito qui citare stralci di dibattiti di movimento, piuttosto che teorizzazioni più elaborate,
per evidenziare come i termini del dibattito francese fossero diventati patrimonio comune e fossero
dati già dal 1973 per acquisiti.
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più volte che l’omosessuale non è necessariamente al di fuori della logica fallocratica,
e che l’equivalenza tra oppressione delle donne e oppressione dei gay sia una
riduzione semplicistica, egli attua – inevitabilmente e inconsapevolmente – una serie
di semplificazioni. Interpreta, infatti, la pratica dell’autocoscienza, del partire da sè,
come indispensabile mezzo di svelamento dell’oppressione di sesso. Oppressione che
ha la stessa radice dell’oppressione attuata dalla norma eterosessuale, evidenziata
dalla discriminazione e dalla violenza contro i gay. Ma le pratiche del movimento
femminista, mentre svelavano dinamiche di oppressione, erano fondamentalmente
strumento conoscitivo, invenzione di linguaggio, riappropriazione di corpo e,
soprattutto, creazione di rapporto: “ il nostro rapporto con le altre donne, l’imprevisto
della storia che il nostro movimento ha messo in atto”5. Per il femminismo più critico
e attento, al di là delle proposte puramente rivendicative, la sfida è stata
abitare/costruire uno spazio che, pur in bilico tra l’adesione ai modelli dati e
l’estraneità verso gli stessi, sapesse coniugare la fedeltà a sè, alla propria singolarità –
e l’appassionamento a sapersi – con la necessità di appartenenza come legame
simbolico e politico con le altre donne6.
Questo “imprevisto della storia” Mieli – peraltro in ottima compagnia - non lo vede.
Il rapporto personale/politico è per lui un rapporto personale/pubblico. Ha
un’immediata ricaduta nel pubblico, dove il maschio è storicamente l’unico soggetto
visibile da sempre, per omologazione o per contrasto, perchè è all’interno di un
codice dato, costruito su/da un sistema di complicità maschile. Quando Mieli ipotizza
una rivoluzione che scompagini, a partire dalla denuncia e dalla messa in evidenza di
quanto dal codice è sanzionato, rivendica la piena titolarità nei confronti di uno
spazio che già abita, pur pagando prezzi altissimi. La stessa reazione brutale,
soprattutto contro il gay manifesto – come Mieli osserva -, è reazione tutta interna ad
un’appartenenza consolidata, sia pure – o proprio per questo – violentemente espressa
in termini contrappositivi. E’ l’inclusione nel sistema di complicità che impone la
sanzione.
L’esclusione dal sistema codificato di complicità individua, di contro, un’irrilevanza.
Non a caso, nei primi anni ’70, le rivendicazioni femministe venivano liquidate con
un irritato “Tanto sono tutte lesbiche”. Frase consuetudinaria che tendeva a ridurre
all’insignificanza tutte le femministe, relegandole in un ambito di minoranza
marginale e acritica, e a cancellare due volte l’esistenza concreta di quelle donne che
erano lesbiche. Mieli – e fu uno dei motivi per cui il suo saggio passò quasi
clandestinamente tra le femministe lesbiche – fa l’operazione inversa: parla di
femministe e di lesbiche, da una parte sottolineando la portata rivoluzionaria del
5
in “Sottosopra”, 1975, cit. p. 4
Alla fine degli anni ‘ 70 i concetti qui espressi erano frammentari. Una trattazione più organica si
avrà in seguito: cfr. “DWF”, Appartenenza, 1986,4, Editoriale, pp.5-10
6
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pensiero lesbico, dall’altra separando nettamente le lesbiche dalle femministe. Allora,
tale ripetuto distinguo fu letto come una definizione: tutte le femministe sono etero.
Ma questo era inaccettabile in un periodo storico in cui, in Italia, la maggior parte
delle lesbiche politicizzate convergeva nei collettivi femministi e contribuiva a
costruire pensiero femminista. Le parole di Mieli furono lette dalle lesbiche
femministe come un ennesimo tentativo di ricacciarle nell’invisibilità o di darle per
scontate, omologandole acriticamente ai gay, proprio nel momento in cui
costruivamo complicità e appartenenza con le altre donne.
L’analisi di ieri si scontra con la rilettura di oggi. Viene da chiedersi – e qui entra in
gioco la passione di Mieli, che riusciva ad essere spietata, anche nei confronti dei
gay, come la nostra non poteva/non voleva essere nei confronti delle donne – se
quella distinzione non fosse anche frutto di una lungimiranza politica. Ci si domanda
cioè se Mieli, che conosceva da vicino – per frequentazione diretta il movimento
inglese, per conoscenza della lingua i testi americani e delle lesbiche radicali francesi
– le esperienze di altri paesi in cui, fin dalle origini, i collettivi lesbici e i collettivi
femministi si erano separati, e che subiva sulla sua pelle la difficile convivenza dei
gay con i gruppi della sinistra extraparlamentare, non avesse intuito che, a lungo
andare, una separazione si sarebbe prodotta e avrebbe costretto le lesbiche
femministe a una rottura di fatto, non voluta, non detta, ancora non del tutto
analizzata, ma irrimediabile.
Perchè questo è successo, rendendo problematica quella complicità fra donne a tutto
tondo che volevamo costruire7. Quando il discorso sulla sessualità – che era stato la
nostra forza – ha evidenziato differenze di pratiche e di vite che si riverberavano
sull’analisi politica, le stesse differenze sono state ridotte all’irrilevanza e al silenzio,
in nome dell’unità e della differenza di genere. E, parallelamente, il discorso sulla
sessualità è stato chiuso.
Se si cerca di risalire al momento in cui questa frattura ha iniziato a prodursi, il testo
di Mieli torna di grande attualità. Egli, infatti, denunciava, con la solita spietata
passione, la teoria – elaborata all’interno del movimento femminista e che aveva
avuto ricadute nei gruppi extraparlamentari – della omosessualizzazione dei rapporti
tra donne. Tale teoria – solo abbozzata negli anni ’70 e che più tardi, nel 1980, sarà
sistematizzata e articolata da Adrienne Rich nel “continuum lesbico”8 – rappresentava
7
Frattura che sarà polemicamente sottolineata, già nel 1980, da Monique Wittig con il suo
provocatorio “Le lesbiche non sono donne”. M. Wittig, The Straight Mind, in “Feminist Issues”, n.
1 (Estate 1980), trad. it. di R.Fiocchetto, in “Bollettino del CLI”, IX (Febbraio 1990)
8
A.Rich, Eterosessualità obbligatoria ed esistenza lesbica, trad. It. M.L.Moretti in “nuovaDWF”,
1985, 23-24, p. 5. Rich scrive: “Per continuum lesbico intendo una serie di esperienze – sia
nell’ambito delle vite di ogni singola donna che attraverso la storia – in cui si manifesta
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un tentativo di superare le divisioni tra lesbiche ed eterosessuali che si dicevano
indotte dalla cultura maschile, riportando i diversi percorsi di ricerca dell’identità sul
terreno comune della soggettività femminile, individuata attraverso la pratica del
partire da sè.
La proposta – rifiutata con pesanti polemiche da molte lesbiche femministe, ma da
altre appassionatamente condivisa – viene da Mieli tacciata di volontarismo e
giudicata mistificatoria. Egli denuncia, a più riprese, l’ambiguità di un discorso che,
mentre sembra attuare una ricomposizione, azzera l’omosessualità – sia femminile
che maschile – riducendo a pratica intellettualistica una pratica di corpi e di desideri.
Lo stato della questione non sembra da allora essersi sensibilmente spostato. Se si
esclude lo sforzo appassionato di teoriche che lavorano in altri paesi9, sforzo che
peraltro cade nella palude nostrana con scarsissimi riscontri sia tra le lesbiche che tra
le etero, di corpi e di desideri in Italia si parla il meno possibile.
Il saggio di Mieli è tutto incentrato sulla teoria della transessualità come liberazione
dell’Eros, superamento in una nuova sintesi delle categorie oppositive etero-omo,
espressione di una polisessualità originaria, repressa dalla norma, che, finalmente
disinibita, permetterebbe il transito del desiderio sia verso gli oggetti che nel
soggetto. Il soggetto transessuale, in quest’ottica di superamento della polarità dei
sessi, esprimerebbe il nuovo uomo/donna “o assai più probabilmente donna/uomo”
(p.236) della riconquistata “comunità umana”.
E qui, prima di discutere delle perplessità che la teoria ha suscitato – e continua in
parte a suscitare – è opportuna una premessa: l’approccio al suo testo è reso
particolarmente difficile e conflittuale anche per un residuo di perbenismo che
aleggiava – e aleggia – sul femminismo (lesbiche femministe incluse). Ancor oggi,
rileggendo Elementi di critica omosessuale, mi ritrovo a fare i conti con la mia
suscettibilità e con le mie cadute di ironia, faticosissime da superare. Mentre Mieli il
perbenismo non sa dove stia di casa ed è molto difficile che perda l’ironia.
Mieli, ricollegandosi a Freud, e forzandolo –ma altre/i ne parleranno con maggior
cognizione di causa – vede nel polimorfismo perverso pre-edipico lo stato originario
di natura che “l’educastrazione” reprime e che la rivoluzione erotico-politica (politica
perchè erotica) deve portare allo scoperto. Come il polimorfismo perverso ha in sè
tutte le possibilità dell’Eros, la transessualità, nel senso di Mieli, sarebbe lo stato
l’interiorizzazione di una soggettività femminile e non solo il fatto che una donna abbia avuto o
consciamente desiderato rapporti sessuali con un’altra donna”.
9
In particolare v. T. de Lauretis, The Practice of Love. Lesbian Sexuality and Perverse Desire,
Indiana University Press, 1994 [trad. it. Pratica d’amore. Percorsi del desiderio perverso,
Milano, La Tartaruga, 1997]
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naturale liberato in cui tutte quelle potenzialità vengono simultaneamente espresse e
attualizzate.
All’epoca della pubblicazione del saggio, la critica non si appuntava sulla
transessualità come stato di natura, perchè la “natura” era utilizzata a vagoni anche
dalle femministe. Negli anni ’70, infatti, anche se vi erano frange di movimento che
elaboravano altri percorsi teorici, la “natura” era una specie di coperta tirata da tutte
le parti. Ciò che faceva ostacolo è la riduzione all’Uno. La transessualità liberata che,
nella visione di Mieli, doveva rappresentare il superamento della polarizzazione tra i
sessi, veniva letta come un’ ennesima eliminazione delle donne che avevano appena
conquistato la consapevolezza di essere il soggetto cancellato della storia. Il
transessuale di Mieli – uomo/donna o donna/uomo che fosse – poteva solo essere
visto nell’ottica della secolare ossessione del maschile di ridurre tutto all’unità. A
questo si aggiunge un’altra contraddizione interna all’analisi di Mieli, il quale, dopo
aver criticato – acutamente – la mistificazione implicita nel discorso
dell’omosessualizzazione dei rapporti sociali, che riduceva il desiderio ad atto
intellettualistico e volontaristico, ripropone, sia pure ai fini rivoluzionari del
superamento di sè come della norma, un altro volontarismo. Se io lesbica so che il
corpo del mio desiderio è una donna - così come un gay sa che il corpo del suo
desiderio è un uomo -, come si dovrebbe definire, se non intellettualistica e
volontaristica, la scelta di sperimentare rapporti sessuali non in sintonia con il mio
desiderio?
Il fascino di Mieli, malgrado le contraddizioni che nel suo saggio restano irrisolte,
consiste ancora oggi in un pensiero che riesce simultaneamente a essere lucido e
visionario, e a volte lucido proprio perchè visionario. Ad esempio è tutta interna alla
sua analisi totalizzante la consapevolezza che l’oppressione di classe, di sesso e di
razza abbiano la stessa matrice. Una consapevolezza che negli anni ’70 non esisteva,
tutte/i presi come eravamo a raccontarci la favola degli “Italiani brava gente”, poi
smentita dal primo sbarco di immigrati nel territorio nazionale. E per noi lesbiche, in
particolare, dal primo impatto con il vissuto, le pratiche, le analisi delle lesbiche nere
statunitensi.
Alla lucidità di Mieli va ascritta un’altra consapevolezza che il movimento gay e la
maggioranza delle lesbiche non riescono ancora oggi ad acquisire e che anzi
respingono: una minoranza o è oltraggiosamente diversa o non è. La minoranza che
sostituisce all’orgogliosa affermazione di sè l’affanno di essere assimilata e che
ricerca il mimetismo, rincorre l’adeguamento alla norma, media al ribasso per un
posto nel grande circo dell’inclusione, di fatto contribuisce alla sua cancellazione o si
lascia inchiodare nel ruolo – minoritario – di eccentricità culturale.
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Mieli considerava il mondo un luogo suo, un luogo dove la perdita di ogni esperienza
avrebbe rappresentato perdita per tutti. Da qui la sua critica continua, ossessiva,
contro la tolleranza, che interpretava come mistificazione pacificatoria che avrebbe
lasciato inalterata la struttura di potere che sottende i rapporti sociali, e avrebbe, in
nome di un’eguaglianza presunta, impedito la costruzione di un pensiero sincretico
che contenesse in sè la potenzialità, la forza di tutte le diversità. In quest’ottica, era
ostile ad ogni richiesta che tendesse a sistemare il movimento gay sotto l’ombrello
protettivo dei partiti o delle organizzazioni non esplicitamente omosessuali, come alla
richiesta di diritti civili che allora si andava formalizzando e che interpretava come
sconfitta dell’orgoglio gay in nome di una generale eterosessualizzazione.
Eterosessualizzarsi per Mieli significava reprimere l’eccesso di una passione
smisurata – la sua visionaria, ironica passione – nell’argine difensivo di un codice
ampliato ma non stravolto, quindi sostanzialmente immutato nelle sue dinamiche
binarie di inclusione/esclusione. Significava ridurre la visione di un desiderio liberato
alla contraddizione in termini di un’economia della miseria. E Mieli, che voleva
essere il funambolo sospeso su fili infiniti e tutti li voleva percorrere, non poteva
ipotizzare la sua vita, la sua passione, precipitate sul terreno piatto della
normalizzazione.
E’ la lucida, spietata intolleranza che rende ancora attuali le sue pagine. Oggi che
siamo di fronte ad uno scenario in cui la voglia di integrazione è quasi l’unica
protagonista, e ci chiediamo, ancora una volta con una caduta di ironia, se era questo
l’esito verso cui tendeva la nostra passione.
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