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Adriana Popescu
Stanotte il cielo
ci appartiene
Traduzione di
Lucia Ferrantini
Titolo originale:
Lieblingsmomente
© 2013 Piper Verlag GmbH, München
http://narrativa.giunti.it
© 2014 Giunti Editore S.p.A.
Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – Italia
Via Borgogna 5 – 20122 Milano – Italia
Prima edizione: luglio 2014
Ristampa
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Anno
2018 2017 2016 2015 2014
Prologo
Cara Layla,
ti ricordi la domanda che mi hai fatto una volta? Come sarebbe
andata a finire tra noi? A quanto pare, siamo ancora in cerca di
risposte. Sappi, però, che io rifarei tutto esattamente allo stesso
modo, in qualsiasi momento. Ci sarebbero tante cose da scrivere, ma il tempo è tiranno. Un giorno, proprio all’inizio della
nostra storia, ti ho detto: quando non ce la farai più, o non vorrai più, io me ne andrò per la mia strada. Liberandoti di tutto ciò
di cui non avrai più bisogno, lasciandoti solo quello che ti serve.
Questa lettera è soltanto per dirti che sei stata tu a regalarmi i
miei «momenti preferiti». Adesso però ti lascio andare. So che
mi mancherai da morire, ma devo farlo…
Il tempo trascorso insieme mi ha chiarito tante cose. Per un
breve, indimenticabile periodo ho potuto vedere il mondo attraverso i tuoi occhi. Se solo tu sapessi quanto ha significato
per me. Ma se è questo che vuoi, adesso scomparirò, come una
stella cadente, e ricomincerò a vagare per la galassia.
«Stanotte il cielo ci appartiene.» Forse anche tu non lo dimenticherai mai.
Tristan
P.S. Non sono molto bravo negli addii. Spero che tu possa perdonarmi.
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Pronto soccorso
Come al solito c’è una gran ressa, ma io ho la mia macchina
fotografica a farmi da scudo, e il braccialetto rosa al polso. La
maggior parte della gente mi conosce, mi accenna un saluto e si
mette in posa… se la foto verrà mai pubblicata, sarò io a deciderlo. Gli invitati mi sfilano davanti, ognuno con la sua storia da
raccontare. La cosa più bella del mio lavoro è riuscire a catturare
con uno scatto anche solo un frammento di quelle storie.
La musica è assordante, l’aria tiepida della sera sa di birra,
di sudore, d’estate. La notte promette bene. Una splendida festa
all’aperto con un bravo deejay e una folla scatenata che balla
e canta a squarciagola. È Sky and Sand di Paul Kalkbrenner la
canzone cult della nuova Party Generation. Sembra scritta apposta per questa magica notte d’estate… Ed è in questo clima
di euforia collettiva che nascono le foto migliori: nessuno si
mette in posa, tutti si abbandonano alla musica del momento,
ai castelli in aria e di sabbia del noto ritornello.
Mi sposto lentamente tra la calca, in mezzo a un mare di
corpi in movimento, cogliendo di soppiatto attimi che nella mia
macchina resteranno impressi per sempre.
Tra la folla, in un punto imprecisato, c’è un ragazzo con gli
occhi chiusi, immobile come uno scoglio colpito dalla risacca,
come se fosse in un altro mondo. Soltanto il suo sorriso a fior
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di labbra rivela che il ritmo della canzone non gli è affatto indifferente. Devo assolutamente fargli una foto, per forza, anche
se ho paura di interrompere qualcosa. Sembra così calmo, quasi fuori posto in mezzo a questa rumorosa e variopinta massa
di esagitati. Per una manciata di secondi lo osservo attraverso
l’obiettivo: è ancora lì, un lieve accenno di movimento. Sembra
più alto degli altri, porta una maglietta bianca semplice, nessun
segno particolare. Con lo zoom da 400 millimetri mi soffermo
un breve istante sul suo viso. Così tranquillo. Così intenso. Forse
mi sbaglio, ma all’improvviso avverto qualcosa, una sensazione
che conosco ma avevo in parte dimenticato. Allora torno velocemente alla prospettiva d’insieme: lo spaccato della gente che balla, lui al centro dei lampi di luce colorata. Scatto. Una volta. Due.
Quattro, cinque… Così, quando a casa riguarderò le foto sullo
schermo, potrò fare la mia selezione. Sarà questa la spiegazione
ufficiale, se qualcuno dovesse chiedermela. La verità è un’altra.
E poi è successo. Senza alcun preavviso, senza segni premonitori. Come dal nulla, in un soffio. Anche se me ne fossi
accorta, non sarei riuscita a fermarlo. Un gomito fa irruzione
nell’inquadratura, colpisce il ragazzo in pieno volto e, prima
ancora che riesca a scattare, nell’obiettivo c’è solo gente che
balla. Abbasso subito la macchina e lo cerco, ma nessuno a parte
me sembra aver notato niente. Del resto, come avrebbero potuto? Rimbomba tutto e, una volta che ti sei votato alla musica,
non percepisci più niente intorno a te. Ma dov’è finito? Inizio
a farmi strada tra la folla proteggendo con la mano l’obiettivo
e finalmente sono fuori. Qui l’aria è un po’ più fresca, ma la
musica altrettanto forte. Mi guardo intorno. Eccolo lì, al bar.
Appoggiato al bancone con una mano, l’altra premuta sull’occhio sinistro. Ha il colletto della maglia sporco di sangue, mi
avvicino lentamente, attirata da qualcosa che non so spiegare.
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Cavolo se è alto, ha le scarpe da ginnastica e jeans scuri. Nonostante la cintura in vita per tenerli su in maniera decorosa, si
intravede l’elastico dei boxer bianchi. Cerco di non farci troppo
caso… o almeno ci provo.
«È tutto okay?»
Lui mi guarda sorpreso con l’occhio libero, il volto turbato
da un’espressione interrogativa.
Lo prendo delicatamente per mano, ha le dita appiccicose,
probabilmente di sangue. Continua a guardarmi stupito, ma
mi lascia fare.
È proprio lì, al bancone, in mezzo a tutto quel frastuono, che
lo tocco per la prima volta. Ha la pelle calda, ruvida, ma non
è spiacevole, anzi. In condizioni normali non mi sembrerebbe
un momento così importante, eppure stavolta è diverso. Completamente diverso.
Cerco di ignorare l’inquietante ronzio nella mia testa e mi
avvicino: una piccola ferita sopra l’occhio sinistro, il sangue gli
cola sulla manica.
«Devi farti medicare!» gli urlo in faccia, più forte della musica.
Non sembra ubriaco, ha gli occhi troppo limpidi, di un verde
intenso che mi abbaglia, mentre mi osserva confuso. Annuisce, dubito però che abbia capito. Mi metto in punta di piedi
per guardargli meglio la ferita. Per una frazione di secondo gli
sfioro il viso con la guancia. Ha un buon odore, sa di estate e di
qualcos’altro… qualcosa di eccitante.
«È una brutta ferita. Devi farti vedere da un medico.»
È d’accordo. Stavolta ha capito.
«Grazie, lo farò.»
La sua voce è profonda, calda. E anche sorprendentemente calma, considerato quello che gli è appena capitato. Mentre
mi allontano, mi accorgo del sorriso divertito che ha stampato
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sulle labbra. Labbra meravigliose. Tra i mille pensieri che mi
passano per la testa si fa strada una domanda: Ma cosa diavolo
sto facendo?
Probabilmente lui si sta chiedendo la stessa identica cosa.
Gli lascio la mano, mi giro di scatto verso il bancone e ordino
una bottiglietta d’acqua, come se fossi finita lì per caso, magari
perché avevo sete. Quando lavoro, tipo oggi, non bevo alcolici.
Semplicemente perché le foto mi vengono meglio.
Nel frattempo lui cerca – con una certa goffaggine, a dire il
vero – di pulirsi la faccia sporca di sangue con il colletto sudato.
Conosco certe ferite: lavorando come fotografa alle feste, ne ho
già viste parecchie. Bisogna curarle, altrimenti restano brutte
cicatrici. O almeno disinfettarle. Così chiedo anche due sambuche e un fazzolettino di carta pulito. Il barista resta un attimo
spiazzato, poi mi dà l’occorrente e io mi improvviso infermiera.
«Allora, una per l’occhio e una contro il dolore.»
«Cosa?»
Mentre gli avvicino un bicchierino, ecco un’altra raffica di
occhiate perplesse. Vorrei farmi capire meglio, ovvio, ma mica è
facile con il basso di una canzone di Nico Pusch nelle orecchie.
«Bevilo! È contro il dolore!»
«Quale dolore, scusa?»
Allora gli metto un bicchiere in mano, e lui mi osserva mentre immergo il fazzolettino nell’altro. Poi scuote la testa e cerca
di schermirsi con la mano libera.
«Fidati! So quello che faccio!»
È una bugia. Il mio ultimo corso di pronto soccorso risale
a quasi sei anni fa, sono un po’ arrugginita, ma pazienza. Le
bevande ad alta gradazione alcolica disinfettano. L’ ho imparato
lavorando di notte – e anche da una puntata di Grey’s Anatomy,
ma questo è meglio che lo tenga per me.
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Non gli lascio il tempo di pensare, inizio sfacciatamente a
tamponargli la ferita e come ricompensa il mio paziente storce
la bocca.
«Ahi!»
«Bevi, così senti meno male!»
Guardo il bicchierino di sambuca che tiene ancora in mano.
Finalmente capisce, e lo butta giù tutto d’un fiato.
Continuo a tamponare con mano più leggera, so benissimo che gli brucerà da morire. Chiude gli occhi, aggrappandosi
stoicamente al bancone. Devo alzarmi sulle punte per arrivare
alla ferita. Oddio quanto è alto. Mentre lo medico, lo osservo
meglio. Ha i capelli castano scuro, corti, ma non troppo. Alcuni
ciuffi appiccicosi di sudore gli ricadono sulla fronte, formando
un motivo curioso. Ha le spalle forti, e il resto, sotto la maglietta, posso solo immaginarmelo. All’improvviso, sono tutta un
fremito, e cerco subito di riconcentrarmi sulla ferita.
«Ecco fatto…»
Controllo l’occhio, soddisfatta del mio intervento. Lui annuisce, e io mi rendo conto di quanto sia teso. Tamponare una
ferita ancora aperta con la sambuca non è stato un gran colpo
di genio, ma cos’altro avrei potuto fare, lì per lì? Lui serra con
forza l’occhio sinistro e mi guarda dal destro. Siamo a nemmeno
venti centimetri di distanza.
«Ancora non so se ringraziarti, o dirtene quattro.»
Il suo alito sa un po’ di anice, per via della sambuca.
«L’ho fatto volentieri, ma avresti bisogno di un paio di punti.»
Sembra un commento da addetta ai lavori, invece è sempre
Grey’s Anatomy a suggerirmi la battuta. Appoggio bicchiere e
fazzolettino sul bancone.
«Sei infermiera?»
«Più o meno.»
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Questa sì che è una bugia bella e buona. Il mio lavoro c’entra
con la medicina come i cavoli a merenda, ma se lo ammetto
rischio di essere scambiata per una pazza sadica. Cosa che non
vorrei per niente al mondo.
«Non so nemmeno come sia successo.»
Continua a strizzare l’occhio sinistro, il che lo rende ancora
più attraente.
«No, è che i due tizi accanto a te stavano pogando, e il gomito
del più grosso ti ha colpito in pieno viso.»
«Ah, ecco.»
Si tira un po’ indietro e mi guarda scettico. Come faccio a
saperlo? Oh. L’ ho visto nella macchina, ovvio.
«Sono qui per lavoro, l’organizzatore della festa mi ha commissionato delle foto e… sì, per caso, ho visto tutto.»
Annuisce. Anche questa è una sciocchezza. Ho visto tutto
perché non riuscivo a scollargli gli occhi di dosso e la gomitata
l’ha colpito proprio mentre lo squadravo ben bene. Ma non
posso dirglielo, ovvio.
«Sono cose che capitano, no?»
Si stringe nelle spalle, come se la cosa gli fosse del tutto indifferente. Io al posto suo mi darei da fare per trovare i due tizi. Di
sicuro saranno in qualche foto che ho scattato. Come minimo
dovrebbero pagargli il taxi per l’ospedale.
«Layla, eccoti, finalmente!»
Beccie, la mia migliore amica, che ha spesso, anzi sempre,
l’incredibile talento di arrivare nel momento più inopportuno.
Come adesso. Una bionda mozzafiato, che incanterebbe chiunque. Mi sforzo di sorriderle.
«Ehi, ciao!»
«Mi sono persa nella calca… che ne dici, andiamo?»
Guarda il mio paziente, sgrana gli occhi.
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«Ma tu… tu stai sanguinando…»
Lo prende per un braccio, e io sento una fitta. Di rabbia?
Non voglio che lo tocchi.
«Sì, ho visto.»
«Sembra una gran brutta ferita!»
Lui dice di sì con la testa e mi guarda.
«Ma no, niente di preoccupante.»
«Ah, comunque io sono Beccie, piacere.»
Con la massima disinvoltura gli molla il braccio facendo
scivolare la mano in quella di lui. La strozzerei. Finisce sempre
così, sin dai tempi del liceo. Appena entra in scena Beccie, io per
gli uomini divento improvvisamente trasparente. Ma perché?
Semplice: io rientro nella media, sono bassa, con banalissimi
capelli e occhi castani, un fisico dignitoso ma non certo da top
model, niente chioma bionda fluente, né raggianti occhi azzurri. Con Beccie accanto sono fritta, devo rassegnarmi a passare
inosservata.
«Piacere!»
Poi all’improvviso lui mi guarda di nuovo, ed ecco lo stesso
fremito di prima, anzi più forte.
«E tu sei Layla, giusto? Come la canzone di Eric Clapton…»
Rispondo di sì con la testa, sorpresa. Non solo perché ha azzeccato subito il motivo per cui i miei mi hanno chiamata così,
ma soprattutto perché lo sfacciato tentativo di flirt di Beccie
e il suo exploit di femminilità – vedi lo scollo profondo della
maglietta – sembrano essergli scivolati addosso. Siamo sicuri
che sia un uomo?
«Sì, mi chiamo Layla, come la canzone di Eric Clapton.»
Gli stringo la mano.
«Tristan.»
Il suo nome mi arriva ovattato dal ronzio che ormai mi ha
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invaso le orecchie, ma sorrido. Tristan. Che strano. Mai sentito,
tranne che nei film e nei libri. Adesso invece quel nome ha un
volto, e che bel volto! Di certo non perfetto, non con un occhio
chiuso e sporco di sangue. Ma in fondo così ha un’aria vissuta
che lo rende ancora più affascinante.
Beccie mi trascina un po’ più in là. Non oppongo resistenza,
mio malgrado.
«Dài, andiamo. Dobbiamo fare un salto a quell’altra festa, ci
aspettano. Ciao Tristan, buona serata!»
Parla a nome di entrambe, cosa che mi irrita profondamente.
Io e Tristan ci scambiamo uno sguardo perplesso, Beccie gli
dà un’ultima occhiata civettuola e, un attimo dopo, siamo già
state inghiottite dalla folla. Io non dico niente, neanche mi giro
a guardarlo, sarebbe troppo imbarazzante.
All’uscita, però, ci ripenso. Solo un’occhiatina veloce…
Torno dentro. Lui, però, è scomparso.
Sono in salotto, alle quattro di mattina, con solo il mio MacBook a farmi luce; accanto a me una tazza di caffè. È così che
tiro avanti nelle mie nottate. Più o meno torno a casa sempre
a quest’ora e non riesco a mettermi a dormire. Sono troppo
stanca e spesso ho voglia di sistemare subito le foto. Qui e ora,
non domattina in studio. Una vera impresa, trattandosi come
al solito di oltre quattrocento scatti. Quindi mi limito a dare
un’occhiata, a fare una prima selezione per poi infilarmi nel
letto, all’alba. Così funzionano le mie domeniche, e oggi non
fa eccezione.
Ho gli auricolari con della musica in sottofondo, inserisco
la memory card nel computer e bevo un altro sorso di caffè.
Prima o poi dovrò tornare sul pianeta Terra. Serate come
queste, piene di musica, balli, bevute, colpi di scena e Beccie,
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sono abbastanza faticose. Soprattutto quando la mia migliore
amica non fa altro che vantarsi dei ragazzi che avrebbe potuto
portarsi a casa. E in effetti Beccie è uno schianto, ma con gli
uomini è una specie di cane bassotto. Saltella, abbaia, ma alla
fine conclude poco. Le manca il coraggio. Dice che accetta l’invito a casa di un ragazzo solo al terzo appuntamento, sempre
che lui le piaccia. Quello di un tizio conosciuto per caso a una
festa… mai.
«Anche se per quel Tristan forse un’eccezione l’avrei fatta.»
Non volevo più starla a sentire, ma non ho potuto evitare
di ascoltare la sua accalorata descrizione di Tristan. E ci avrà
parlato forse due, cinque minuti al massimo, mentre dai suoi
racconti sembrava che avessero passato insieme metà serata,
anzi l’intera notte. Che fastidio… Ma perché ho reagito così?
In realtà lo so benissimo, ma cerco di far finta di niente. Con
scarsissimo successo, peraltro. A un certo punto, prima, mentre
tornavamo a casa a piedi, non ce l’ho fatta a trattenermi e me ne
sono uscita con uno dei miei soliti commenti al vetriolo. Beccie
mi ha guardato malissimo, dicendomi: «Ehi, ma che ti prende?».
È sempre così, tra amiche intime ci si conosce fin troppo bene.
Anzi, peggio: il più delle volte loro ti capiscono prima di te.
«Allora. Tanto per cominciare non è il tuo tipo, nemmeno
un po’…»
Ha ragione. Tristan non è proprio il mio tipo, e poi io ce
l’ho già un tipo, cosa che non mi rende affatto orgogliosa. Ho
un «mio tipo» da sempre. O meglio, dai tempi in cui, da bambina, guardando Flipper in tv, mi sono innamorata di Sandy:
sarebbe stato lui l’uomo della mia vita, ne ero sicurissima. Poi
sono arrivati i poster del campione mondiale di surf Kelly Slater,
l’incarnazione perfetta del modello Sandy, a cui sono rimasta
fedele fino a oggi: biondo, occhi azzurri, sportivo, ben rasato.
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I ragazzi con i capelli scuri e gli occhi verdi, un po’ misteriosi,
non mi hanno mai detto nulla. Idem quelli con la barba incolta,
i tatuaggi, la giacca di pelle, l’orecchino e la moto… Le cose
stanno così, e senza bad boys sopravvivo benissimo. Raramente
io e Beccie siamo state in competizione per gli uomini. A lei i
bad boys, a me i principi azzurri.
«… e poi, mia cara Layla, tu hai Oli.»
Già, io ho Oliver. Sono cinque anni che stiamo insieme.
Biiip! Finalmente il mio MacBook mi segnala che le foto sono
state copiate. Apro la cartella, voglio vederle subito. A volte,
appena scatti, sai già che quella diventerà una delle tue foto
preferite. Anche stasera ho avuto questa sensazione, e in genere
non mi sbaglio mai.
Stavolta, però, inizio a cliccare più freneticamente del solito
alla ricerca di una foto in particolare. Anzi, di una serie di foto
in particolare, da cui mi aspetto molto. Le altre per ora le lascio
da parte. Eccole, finalmente. Sono quattro e, non appena le apro,
iniziano a tremarmi le mani.
Doppio clic, all’improvviso lo schermo si riempie e… per un
attimo il mio cuore smette di battere. La folla che balla è sfocata,
si distingue una sola persona, avvolta dalla morbida e calda luce
crepuscolare. Sento di nuovo la musica, riassaporo l’atmosfera
della serata: sono contenta di essere riuscita a immortalare l’essenza di questo momento. Tristan. Con la sua semplice T-shirt
bianca, priva di scritte o di marca in bella vista. Clicco sulla foto
successiva, la ingrandisco. Osservo il mento, il collo, le spalle,
le labbra. Non è quel che si definisce una bellezza classica, le
sopracciglia sono tutt’altro che perfette e la barba incolta di almeno tre giorni di sicuro lo invecchia. Ma è così meraviglioso…
Terza foto, all’improvviso ho di nuovo la sua voce nelle orec-
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chie, sento ancora il suo odore e il calore della pelle ruvida. La
quarta… è lei, lo capisco subito. Le altre posso anche cancellarle.
Difficile spiegarlo a parole, ma al primo sguardo mi si stringe
il cuore: è passato tanto di quel tempo dall’ultima volta che ho
scattato una foto così bella. La osservo ancora, fissando nella
mente ogni singolo dettaglio e ripercorrendo tutto quel che è
successo dopo: la nostra conversazione, il mio eroico intervento
in stile Grey’s Anatomy…
«Ah, sei già qui.»
Oddio, che spavento! Qualcuno alle mie spalle mi ha appena
stampato un bacio sulla guancia. Panico. Nel richiudere d’istinto il mio MacBook, per poco non rovescio il caffè.
«Ti faccio così paura? Non ti ho neanche sentita rientrare.»
È Oliver, in maglietta e boxer, i capelli biondi stranamente
scompigliati. Il mio Oliver, che adesso va verso la cucina trascinando i piedi. L’ uomo con cui condivido quest’appartamento,
questo tavolo e soprattutto il mio letto. L’ uomo che amo e con
cui ho pianificato il mio futuro. Eppure sono riflessioni che, di
colpo, non sento più mie.
Eccolo che fa capolino dalla porta della cucina.
«C’è ancora del latte?»
Oli e il suo latte. Ne ha bisogno ogni mattina, e anche di
notte, quando ha la sensazione di non aver digerito bene la cena,
magari indiana e troppo piccante. La passione per il cibo etnico
è anche il suo punto debole. Fosse per lui, annegherebbe in un
mare di tabasco, olio piccante e sambal, ma il suo stomaco ne
risente da morire. E visto che quando esagera l’unica cosa che
lo aiuta è il latte, a casa non manca mai.
«Accanto al lavello.»
Stiamo insieme da cinque anni e conviviamo da due. Allora
perché sono così sorpresa di trovarlo qui? Spengo il computer,
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resistendo alla tentazione di dare un’ultima occhiata alla foto.
Forse dopo?
Oli torna dalla cucina con il suo bel bicchierone di latte e mi
guarda con occhi assonnati.
«Allora, com’è andata?»
«Bene.»
«Belle foto?»
«Sì, alcune.»
Annuisce. Dopo aver finito di bere, appoggia il bicchiere
sul tavolo e mi bacia sulla guancia. Sento la sua pelle liscia e
rasata. Oli.
«Vieni a letto, no?»
Mi lascia di nuovo sola, lo guardo tornare in camera. Ripenso a Beccie e alla sua predica. Non avevo alcun motivo per essere
arrabbiata, anzi gelosa. Tristan non è il mio tipo e, soprattutto,
io ho Oliver. Ha ragione, è assurdo che sia lei a ricordarmelo.
Come se non bastasse guardarmi intorno per accorgermene: il
bicchiere vuoto sul tavolo, calzini, scarpe, giacche, jeans, tutto
in giro. È una sua pecca a cui all’inizio ho dovuto abituarmi,
ma che ho finito per amare. Mi ricorda che sotto l’Oliver in
giacca e cravatta, responsabile e stacanovista, si nasconde sempre il mio Oli. Che non aveva ancora azioni in borsa, ma in
compenso ogni domenica, nonostante i postumi della sbornia,
mi svegliava con una supercolazione… lasciandosi dietro un
gran disordine… Forse è con questo ricordo che adesso mi alzo,
sorrido e riporto il bicchiere in cucina. Sì, io ho già un tipo. E
quella di stasera è stata soltanto una breve parentesi, di eccitante
evasione, ma pur sempre una parentesi. Niente di più. Com’è
che si dice? Le cose belle piacciono a tutti!
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«Vale sempre la pena credere nei propri sogni, lottare,
amare, vivere pienamente.»
Creativity First, Amazon.de
«Grazie, Adriana, per i momenti indimenticabili
che ci hai regalato con questo libro.»
http://narrativa.giunti.it
Disponibile anche in versione ebook
Margot Friedrich, Amazon.de
STANOTTE IL CIELO CI APPARTIENE
è nata a Monaco nel 1980. È stata sceneggiatrice televisiva, collaboratrice
per diverse testate giornalistiche e
blog. La sua avventura è cominciata
nel 2012 con il grande successo ottenuto dal suo primo libro autopubblicato in rete, a cui è seguito Stanotte
il cielo ci appartiene che l’editore Piper
ha deciso di pubblicare in cartaceo.
Adriana Popescu
Adriana Popescu
«Tristan, obbligo o verità?»
Continua a tenermi abbracciata.
«Verità.»
Il cuore impazzito, la bocca asciutta. Deglutisco
aggrappandomi agli ultimi scampoli di razionalità
che mi restano. La voce ormai ridotta a un sussurro,
finalmente lo dico.
«Tu la ami, Helen?»
Qualcosa, nei suoi occhi, all’improvviso cambia.
«Sì.»
Adriana Popescu
STANOTTE
IL CIELO
CI APPARTIENE
romanzo
Rendi speciale
ogni attimo
della tua vita.
Layla ha un grande sogno: catturare con la
macchina fotografica immagini uniche in
giro per il mondo. Per il momento, però,
si deve accontentare di fare la fotografa di
eventi. La sua storia di cinque anni con Oliver e la loro tranquilla routine in un appartamento nel centro di Stoccarda non le consentono molto di più. Una sera, però, in una
discoteca dove viene chiamata per lavoro, la
reflex di Layla si posa su un ragazzo che,
con gli occhi chiusi e completamente isolato dalla ressa che lo circonda, balla al ritmo
di una musica tutta sua, perso nei propri
pensieri. Layla è ipnotizzata da questa visione e gli scatta una foto proprio nell’attimo
prima che una gomitata accidentale lo colpisca in pieno volto. È così che Layla e Tristan si conoscono. Ma da quel giorno non
possono fare a meno di rivedersi: un giro in
moto per la città, un pic-nic lungo il fiume,
una serata a guardare le stelle cadenti. Da
semplici amici, certo! O almeno, è quello
che si racconta Layla. Ma qual è il confine
tra amicizia e attrazione? E quanto coraggio
ci vuole per buttare all’aria la propria vita?
Una storia meravigliosa ed emozionante
per non smettere mai di sognare.
Progetto grafico: Adria Villa
Fotografia in copertina: elaborazione da
© Daniel Reiter / STOCK4B / Getty Images
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