Costumi afragolesi nelle testimonianze figurative
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Costumi afragolesi nelle testimonianze figurative
Costumi afragolesi nelle testimonianze figurative del Settecento La pittura di costume ovvero «la rappresentazione dei modi e delle diverse fogge del vestire popolare» costituisce uno dei filoni più ricchi della produzione artistica napoletana dei secoli XVIII e XIX. Stanno a testimoniarlo la grande varietà di incisioni, disegni, litografie, gouaches e fogli a stampa, prodotti da artisti locali e, anche da artisti stranieri, in risposta alle numerose richieste di collezionisti e viaggiatori che in quegli anni raggiungevano il Regno di Napoli nel corso del Grand Tour. A introdurre la stampa di costume nel Regno di Napoli era stato, nella seconda metà del Settecento, un’artista di probabile origine inglese, Pietro Fabris, autore, nel 1773, di una Raccolta di varij Vestimenti ed Arti del Regno di Napoli, patrocinata da un nobile anch’egli inglese, sir William Hamilton, ambasciatore presso la Corte borbonica e noto geologo e raccoglitore d’antichità dell’epoca. La Raccolta che il Fabris aveva realizzato trasponendo su rame le «amabili figurine» popolari dipinte in precedenza, era costituita, secondo le indicazioni del Colas, confermate poi alcuni decenni fa da un ritrovamento sul mercato antiquario napoletano di uno degli esemplari superstiti, da 35 tavole illustrate prevalentemente da rappresentazioni di brani di vita con figure colte per strada, nelle loro attività quotidiane. La Raccolta diventerà ben presto un punto di riferimento imprescindibile per quanti, dal Della Gatta al D’Anna, dal Mörner al Lindström, dal Vianelli al Dura, saranno chiamati, più tardi, a realizzare illustrazioni di costume. Un successo provato, peraltro, oltre che dall’enorme numero di repliche cui furono sottoposte alcune scene, dalla rarità del volume tanto ricercato dai bibliofili «da essere oggi affatto introvabile financo nelle biblioteche pubbliche napoletane». Tra le illustrazioni della Raccolta figura anche un Uomo della Fraola di Napoli (fig. 1). La tavola, fornita di scritta e bordura raffigura un contadino afragolese che si accompagna a un bambino nei campi. Le figure, eseguite con molta plasticità, hanno un impianto piuttosto robusto e massiccio; sullo sfondo si delinea la sagoma del Vesuvio, solo abbozzato. Fanno da quinta, ai lati, sulla sinistra, in primo piano un albero e più in fondo un cespuglio, a destra, una coppia di capre. A fronte di una notevole plasticità ottenuta con un fitto tratteggio e la proiezione delle ombre, la descrizione delle vesti non è dettagliata. All’opera del Fabris guarderanno, più tardi, Alessandro D’Anna (Palermo, 1749-Napoli, 1810) e Antonio Berotti prima, e di nuovo quest’ultimo e Stefano Santucci poi, allorquando, nel 1782, saranno incaricati da Ferdinando IV, di documentare con una serie di gouaches, «le fogge del vestire in uso del suo regno». Numerose sono, infatti, le analogie tra le incisioni del Fabris e le gouaches realizzate soprattutto dal D'Anna, come è dato vedere mettendo a confronto alcuni bozzetti del primo (Napoli, Museo di San Martino) e le corrispondenti gouaches realizzate dal Fig. 1 P. Fabris, Uomo della Fraola di Napoli D'Anna nel 1785, attualmente conservate a Firenze nel Museo di Palazzo Pitti. Scopo della ricognizione ordinata dal sovrano, passato alla storia con il poco lusinghiero epiteto di re lazzarone per le sue inclinazioni popolari e che, tuttavia, al di là della propria scarsa cultura mostrò sempre e comunque un profondo interesse per le terre del proprio regno, era, nelle mire del Marchese Domenico Venuti, direttore della Real Fabbrica di Porcellane della città partenopea e vero ispiratore dell'impresa, la realizzazione di un vasto corpus di illustrazioni, una sorta di moderno reportage fotografico di carattere etnografico, da utilizzarsi, oltre che per diletto del sovrano, come modello per la decorazione dei nuovi servizi da tavola che il Marchese aveva in animo di realizzare per la Corte, di cui uno poi effettivamente composto e noto come 1° Servizio delle Vestiture. In un primo momento, come si accennava, il compito fu affidato, dopo regolare concorso presieduto dallo stesso Ferdinando IV, ai pittori Alessandro D'Anna e Saverio Della Gatta, già esperti nella riproduzione dei costumi, poi sostituiti in seguito perché rinunciatari, da Stefano Santucci e da Antonio Berotti (quest'ultimo, cognato del D'Anna, partecipò praticamente, fin dall'inizio all'impresa, che durò ben quindici anni, per l'inspiegabile e pressoché immediata rinuncia del Della Gatta). La prima provincia a essere visitata, dal febbraio al giugno del 1783, fu, come testimoniano i numerosi dispacci reali conservati nell'Archivio di Stato di Napoli, quella di Terra di Lavoro. Al termine della ricognizione, D'Anna e Berotti realizzarono un congruo numero di figure, ognuna incorniciata da un passe-partout dipinto, oggi variamente conservate a Firenze tra i depositi di Palazzo Pitti e Villa Petraia, di cui una raffigurante, costumi maschili e femminili “Dell’Afragola”, come si legge nella didascalia in margine alla figura stessa (fig. 2). La coppia è raffigurata, con un abbigliamento festivo, su uno sfondo di un paesaggio campestre. La donna è vestita con molta cura: indossa un corpetto scuro decorato sulle maniche con strisce di seta dorate. La sottostante gonnella, ampia e bianca, è coperta da un grembiule anch'esso bianco. Altrettanto curato è l'abbigliamento del maschio che, sopra delle brache lunghe fino al ginocchio, indossa una giubba con ampi paramani. La donna, oltre ad un copricapo trinato indossa un manicotto, una specie di borsa cilindrica, per lo più di pelliccia, imbottita e aperta ai due lati, in cui si infilavano le mani per ripararle dal freddo. Nell’evidenziare quanto questo complemento fosse abbastanza insolito in una comunità d’impronta prettamente contadina giusto qual era quella afragolese alla fine del XVIII secolo, va anche sottolineato che spesso i costumi popolari imitavano quelli signorili, ancorché in una versione rustica, vuoi per la grossolanità dei tessuti, vuoi per la rozzezza delle confezioni. Il maschio invece, insieme al consueto cappello a falde larghe, che è deposto ai suoi piedi, indossa una cuffia, che, utilizzata soprattutto durante il lavoro dei campi per asciugare il sudore, era pure indossata nelle ore di riposo con l’identico scopo di proteggere il copricapo da una più rapida consunzione. Per il resto entrambi i personaggi calzano delle scarpe di cuoio e il maschio regge un lungo bastone leggermente ricurvo. Fig. 2 Firenze, Museo di Palazzo Pitti, A D'Anna, Uomo e Donna dell’Afragola Riproduzione della gouache di D’Anna in un’incisione di Antonio Zabelli Quanto alle ragioni per cui le gouaches, compresa quella in oggetto, si trovano a Firenze va ricordato che gran parte dell'intera collezione vi era pervenuta, unitamente ad un consistente numero di tempere realizzate successivamente in copie all'interno della Real Fabbrica di Porcellane (alcune delle quali sono recentemente apparse in un'asta a Milano), per tramite di un dono che Ferdinando IV e la consorte Maria Carolina d'Austria avevano fatto a Pietro Leopoldo di Lorena in occasione di un viaggio nel Granducato di Toscana. Insieme alle tempere i sovrani napoletani regalarono anche numerose porcellane tra le quali una serie di diciotto biscuit raffiguranti Donne della Provincia di Terra di Lavoro (fig. 3). Questa raccolta è attualmente conservata nel Museo degli Argenti di Palazzo Pitti, collocata su un sostegno piramidale anch’esso in biscuit. Le diciotto statuine, tra cui quella di Donna di Afragola, furono modellate da Filippo Tagliolini ed hanno un preciso riscontro con le figure femminili che troviamo, completate dall’uomo e spesso da bambini, nelle gouaches del D’Anna. Alla guoache del D’Anna con l’immagine dei costumi afragolesi si ricollega anche l’analoga immagine che compare su un rinfrescabicchieri pubblicato negli anni ’60 da Morazzoni e Levy, di cui s’ignora l’attuale ubicazione. Alla tradizionale attività della fabbricazione dei cappelli, molto diffusa ad Afragola nei Fig. 3, Firenze, Museo di Palazzo Pitti, secoli passati, è collegata, infine, l’ultima F. Tagliolini, Donna di Afragola raffigurazione di costumi afragolesi che proponiamo in questo saggio: Il Cappellaro di Afragola. Si tratta di una tempera, realizzata da Francesco Catozzi in un non meglio precisato anno compreso tra la fine del Settecento e i primi decenni del secolo successivo (fig. 4). Il protagonista è raffigurato con in testa una pila di cinque cappelli mentre ne porge degli altri a un possibile acquirente che li sta provando. La scena si svolge in una strada delimitata da alcune case e lastricata con piccoli mattoni simili al tavolato di un palcoscenico. In primo piano, ad acuire l’effetto teatrale, un gruppo di rocce fa da ribalta alla scena, sul cui sfondo è una città che si affaccia su uno specchio di mare animato da poche barche. Il cappellaio che calza un bel paio di scarpe di cuoio con fibbia, è vestito, per il resto, in modo molto semplice: indossa un pantalone e un gilet aperto sotto al quale è una camicia bianca con le maniche avvolte fino ai bicipiti. Fig. 4 F. Catozzi, Il Cappellaro di Afragola L’illustrazione è accompagnata da una didascalia, che recita: Chisto è tropp’astritto, e no mme cape te pigliete chisto ca va tant’oro quante pesa, te mesuratille. Nel complesso l’esecuzione è modesta, il tratto ingenuo: siamo insomma di fronte ad una raffigurazione che alla pari di tutte le scene realizzate dal Catozzi si possono relegare, per dirla con la Causa Picone, nell’ambito delle «monotone calcomanie senza slancio» nella quale «la tipica originaria eleganza si va sperdendo nelle stornellate da osteria». Franco Pezzella