Beatrice Barbalato

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Beatrice Barbalato
Beatrice Barbalato ed., Le carnaval verbal d’Ascanio Celestini
Chapitre III
Telos, il senso della fine
BEATRICE BARBALATO
Abstract : Celestini traduit en méta-récit les mille composantes du raconter
du bas, reconstruisant un telos, un sens de la fin concrétisé dans l'acte même
du narrer. Différentes techniques rapprochent ses œuvres d'éléments
constitutifs de l'atmosphère épique, joyeuse et exubérante, de Gargantua et
Pantagruel de Rabelais : 1) La dynamique de l'abaissement de la figure du
pouvoir ; 2) Le mouvement haut >< bas >< haut, comme subversion des
hiérarchies ; 3) Le concept de vide, à la manière des trous de Baktine conçus
comme des lieux de réaménagement du monde; 4) Les défilés comme
formes de destitution de l'autorité, de mise à zéro de la verticalité. Des
registres qui exaltent donc par contraste la réalité de violence que Celestini
dénonce. On voit des récits structurés dans une conception épique de
l'actualité où à travers des mnémotechniques on peut reparcourir les
chambres de la mémoire dans une langue nomade, de frontière (selon la
définition de Deleuze-Guattari), liée à des enchaînements spécifiques.
Langue générative par excellence dans laquelle aucun discours ne se
transforme en parole d'ordre parce que - comme le rappelle Foucault - les
paroles d'ordre deviennent rapidement des ordres muets et inversement,
débouchant ainsi sur le fascisme.
It.: Celestini traduce in meta-racconto le mille componenti del raccontare
dal basso ricostruendo un telos, un senso della fine, un compimento che si
concretizza nell’atto stesso del narrare. Diverse tecniche avvicinano le sue
opere all’epica gioiosa ed esuberante di Gargantua et Pantagruel di
Rabelais: 1) la dinamica dell’abbassamento delle figure del potere ; 2) il
movimento alto > < basso > < alto come sovvertimento delle gerarchie ;
3) Il concetto di vuoto, come i buchi descritti da Bachtin quali luoghi di
facimento del mondo ; 4) le sfilate come forme di detronizzazione,
azzeramento della verticalità. Registri che finiscono per esaltare per
contrasto la realtà di violenza che Celestini denuncia. Racconti
strutturati in un’epica dell’attualità, dove attraverso delle mnemo¬
techiche si ripercorrono le stanze della memoria in una lingua nomade
(secondo la definizione di Deleuze-Guattari), sul confine, soggetta a
concatenazioni. Lingua generativa per eccellenza, dove nessun discorso
di questa lingua dal basso ricostruita, reinventata, può diventare una
parola d’ordine, perché - come ricorda Foucault - le parole d’ordine
passano rapidamente a ordini muti, e viceversa. E in fondo al fascismo.
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B. Barbalato, Telos, in senso della fine, Le carnaval verbal d’A. Celestini
Rabelais mobilita tutti i mezzi della lucida
imagerie popolare per estirpare da tutte le idee
sull’epoca e sui suoi avvenimenti qualsiasi menzogna
ufficiale e serietà limitata, dettata dagli interessi
delle classi dominanti. [... ] distruggendo la falsa
serietà e il falso pathos storico, egli prepara il terreno
per una nuova serietà e per uno nuovo pathos storico.
Michail Bachtin1
1 - Gettare l’amo
Al di là della fluidità e delle smarginature volute, la struttura di
fondo delle narrazioni di Ascanio Celestini è fortemente organizzata,
ciò che facilita la trasposizione della fabula e dell’intreccio in un altro
tessuto narrativo, in un’altra lingua. Meno semplici, meno mimetiche
risultano le trasposizioni per quanto riguarda il discorso2, inteso come
contenuto aderente ad una determinata forma. Risultano infatti
irriproducibili nel loro insieme: il tono popolare, l’idioma, il patto
autobiografico testimoniale dovuto alla presenza di Celestini sulla scena
come narratore che ri-racconta storie ascoltate.
Blocchi di narrazione si susseguono in una studiata logica
drammaturgica : a) le voci che confluiscono in un’unica narrazione sono
simili al modo di raccontare del narratore di Benjamin3 ; b) la postura
riconduce a regole prossemiche del raccontatore seduto4 ; c) la velocità
e il grain de la voix a tecniche della trasmissione orale. Anche se
singoli episodi possono essere accorciati, allungati, e perfino omessi, la
costruzione dell’intreccio resta immutata, così come la polifonia che ne
orchestra le componenti. Le opere sono nutrite da varie eco su episodi
accaduti realmente, dando voce alla memoria del vissuto e non
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Bachtin, Michail, L’opera di Rabelais e la cultura popolare-Riso, carnevale e festa
nella tradizione medioevale e rinascimentale, trad. di Romano, Mili, Torino, Einaudi,
1995 (1979), p. 483. (1° ed. 1965).
Eco, Umberto, « Traduzione. Un problema di pragmatica », in (a cura del Corso di
Laurea specialistica in “Traduzione dei testi letterari e saggistici”), La traduzione
d’autore, Pisa, Edizioni Plus-Pisa University press, 2007. Eco afferma che la
traduzione del discorso « superficie lineare linguistica che comporta anche
caratteristiche stilistiche », (ivi, p. 32-33) può incidere anche sulla fabula (gli
avvenimenti, la storia), e sull’inteccio (i modi del tempo e dello spazio nella vicenda
narrata).
Benjamin, Walter, « Le narrateur. Réflexions sur l’œuvre de Nicolas Leskov», in
Essais 2- 1935-1940, (trad. dal tedesco di De Gandillac, Maurice), Paris, Denöel et
Gontier, 1983/1971. Frankfurt 1955.
Vanoye, Francis ; Mouchon, Jean ; Sarrazac, Jean-Pierre, Pratiques de l’oral, op.
cit.
Beatrice Barbalato ed., Le carnaval verbal d’Ascanio Celestini
dell’accaduto in sé, favorendo la rimemorazione e la destabilizzazione
di immagini stantie e sedimentate.
Celestini traduce in meta-racconto le mille componenti del
raccontare dal basso ricostruendo un telos, un senso della fine, un
compimento che si realizza nell’atto del narrare. Questo senso del
compiuto nel racconto, non induce ad una visione chiusa e conclusa
della realtà, ma si lascia intendere come una lettura elettiva su infiniti
fatti che intuiamo poter essere veramente accaduti. Lyotard parla della
distruzione del telos nella nostra epoca post-industriale5, di distruzione
di quel filo conduttore che attraverso la struttura del racconto
attribuiamo alla vita.
Kermode parla di senso della fine6 nelle costruzioni letterarie.
Questo periplo, questo termine ad quem è assai riconoscibile in
particolare nella circolarità del racconto di Storie di uno scemo di
guerra. Il bambino Nino che, dopo aver osato fare la pipì sull’elmetto
di un soldato tedesco, scampa miracolosamente al suo tiro di pistola, è
il punto centrale di un passato (realmente accaduto), del suo presente
(perché lui è vivo), di una speranza, perché il giovane soldato ha un
senso di sollievo per non aver ucciso un ragazzino. Questo evento di
Nino è fondativo (la sua vita è salva), non è puramente cronologico
perché attraversa tutta la vita, e resta un punto di vista esplicito
all’inizio e alla fine della narrazione come filo conduttore. La viva voce
di Nino ormai malato e anziano fatta ascoltare in scena7 contribuisce
non tanto a transporre il racconto in un fatto di cronaca, quanto, al
contrario, a renderlo oracolare. La voce di Nino che evoca l’episodio
chiave della sua vita, quello cioè di un bambino che l’ha scampata
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La crisi della post-modernità non è dovuta secondo Lyotard tanto a fattori economici,
quanto alla crisi del metaracconto capace di conferire un senso compiuto alle azioni
umane : Lyotard, Jean-François La Condition Postmoderne: Rapport sur le Savoir,
Paris, Les Editions de Minuit, 1979. Cf. : Lefort, Claude, The Age of Novelty, Telos
29 (Fall 1976). Telos Press, New York.
Cf. : Kermode, Frank, The Sense of an Ending. Studies in the Theory of Fiction,
Oxford University Press, 1966. [Ed. it.: Il senso della fine. Studi sulla teoria del
romanzo, (trad. di Montefoschi, Giorgio), Milano, Rizzoli, 1972].
Come Tadeusz Kantor che inserisce in Wielopole, Wielopole le voci registrate di
amici defunti e di membri della sua famiglia. Queste voci di assenti permette a
Kantor di riportare nell’attualità un passato di un tempo che diventa sospeso per
sempre. Alcuni aspetti dell’opera di Kantor : l’autobiografismo, l’ossessivo
permanere della memoria, la percezione poetica di alcuni eventi, la relazione con la
morte, il rifarsi a linguaggi diversi, permette di individuare un’alleanza (non
intenzionale) del lavoro di Celestini con quello del teatro autobiografico di Kantor [il
termine allenza è qui preso secondo l’interpretazione dell’opera di Carmelo Bene da
parte di Deleuze, Gilles, Superpositions, Paris, Gallimard, 1979, p. 94, - cioè
alleanza versus filiazione -].
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B. Barbalato, Telos, in senso della fine, Le carnaval verbal d’A. Celestini
bella, eternizzano la narrazione, che, oltre a rinviare a una realtà
veramente vissuta, diventa evocatrice di un telos, e conferma il senso
della parabola.
Il narrare sulla scena di Ascanio Celestini, il costituirsi porte-parole
di ciò che (gli) è stato narrato da più voci, il situare questi racconti in
una struttura dove lo spazio e il tempo non sono sottomessi alla
disciplina di categorie convenzionalmente oggettive, porta
nell’interpretazione di Celestini a far percepire il carattere mitico che
alcuni avvenimenti assumono nella memoria di una collettività. Porta,
come si è appena sottolineato, a entrare nel racconto come spettatori
attivi, potenzialmente ri-raccontatori di versioni altre. Questo carattere
epico, in senso largo, favorisce, probabilmente, la transponibilità dei
suoi testi in altri adattamenti, in altre lingue, che possono privilegiare
una voce, più voci insieme, o una delle piste presenti in un racconto dai
mille fili intrecciati. Adattamenti infedeli, perché in questo teatro
plurivocale, aggiungere e sottrarre, designare con le parole di una
lingua altra alcuni particolari, porta a dei percorsi necessariamente
autonomi, ma che possono salvaguardare la struttura origiaria e il senso
della narrazione .
2 - Fabula e intreccio
In Storie di uno scemo di guerra la narrazione ha uno sviluppo
circolare, in Pecora nera, e soprattutto in Fabbrica, a spirale,
utilizzando caratteri letterari che possono essere avvicinati alla serie dei
cinque romanzi di Gargantua et Pantagruel di Rabelais, che costruisce
attraverso il grottesco un’epica anti-autoritaria e vitale, i cui caratteri
popolari sono stati messi in luce da Michail Bachtin.
Celestini-narratore attraverso una struttura circolare e reiterata,
basata su dei lietmotiv, costruisce una fabula8 racchiusa fra un inizio e
una fine, e gioca più liberamente sull’intreccio, cioè omette o aggiunge
informazioni o tranches di discorso durante le diverse repliche.
Questa testualità elastica riguarda la presenza e la durata di singoli
elementi, ma non l’impalcatura, l’ingegneristica del funzionamento
delle narrazioni. Non è un’opera aperta, in altri termini, l’epilogo non
può essere cambiato. Però chi vede e ascolta può nella sua mente
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I termini fabula e intreccio sono qui intesi secondo la definizione dei formalisti
russi. Il discorso rinvia allo stile. Tomaševskij, Boris, «La costruizione
dell’intreccio», in (a cura di Todorov, T., I formalisti russi, op. cit., p. 311-326.
« Per la fabula hanno rilevanza solo i motivi legati, per l’intreccio, invece, sono a
volte proprio i motivi liberi (le ‘digressioni’) ad avere le funzioni più importanti,
determinando la struttura dell’opera .», p. 316.
Beatrice Barbalato ed., Le carnaval verbal d’Ascanio Celestini
interagire : riprendendo per analogia le tecniche di dialettizzazione9
presenti nel suo lavoro come meccanismi generativi, oppure allungando
le liste relative alle descrizioni (come i cartelli immaginari degli affitti
della bassetta di Radio clandestina, il corteo in Storie di uno scemo di
guerra, ecc.), sostituendo qualche tessera del mosaico. Bachtin ha
descritto il funzionamento narrativo del mettere in parallelo una sequela
di denominazioni (vicinati) in Gargantua et Pantagruel. Anche
leggendo il Pentamerone abbiamo la stessa possibilità di entrare nella
vertigine della lista, per usare un’espressione di Umberto Eco10.
L’asse verticale (cioè i contenuti, come il bombardamento di San
Lorenzo in Storie di uno scemo di guerra, o le testimonianze degli
operai in Fabbrica) può arricchirsi di particolari, o essenzializzarsi, ma
le stanze della memoria11 si succedono nell’ordine previsto, topoi di una
struttura che non cambia.
3 - Epica eroica e epica ironica
Epica significa racconto, racconto di un passato fondatore e mitico,
dai tempi antichi in versi e orale, con accompagnamento musicale, e
facente ricorso alla mimetica, cioè riferendo il parlato diretto dei
personaggi. È fondamentalmente il racconto omerico.
Possiamo ritrovare alcune di queste tecniche nell’opera di Celestini:
la mimetica, il dare voce ad altre voci, sempre di più l’intervento della
musica e del canto, il carattere figé di personaggi senza psicologia
interiore (che impedisce l’identificazione dello spettatore) che sono
quasi delle icone : la bassetta di Radio clandestina, lo scemo di guerra,
ecc.
Bachtin, riportando il pensiero di Goethe12, afferma che l’epica
propone un passato assoluto. L’epopea sarebbe cioè slegata da quei
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Si tratta infatti di un modulo dialettale, e non di parlata dialettale. Cf.: cap. VIII, e
IX..
Umberto Eco si riferisce alla compilazione di cataloghi che, soprattutto a partire dal
XVI secolo, testimoniano della ricerca di un’identità culturale attraverso
l’individuazione di determinati criteri, come, ad esempio, le collezioni naturaliste del
XVI secolo. Troviamo liste anche in Omero e Joyce. E poi con altri intenti in Andy
Wharol. Eco, U., La vertigine della lista, Milano, Bompiani, 2009.
Si tratta di tecniche molto antiche che presiedevano all’arte della retorica (come
spiega Cicerone in Ad Herennium), e come illustra : Yates, Frances A., L’arte della
memoria, (trad. di Biondi, Albano), Torino, Einaudi, 1993. Con lo scritto « In
memoria dell’opera di Frances A. Yates » di Gombrich, Ernst Hans, trad. di Serafini,
Aldo. Ed. originale The art of memory, London, Routledge & Kegan Paul Ldt, 1966.
Bachtin, M., L’opera di Rabelais e la cultura popolare-Riso, carnevale e festa nella
tradizione medioevale e rinascimentale, op. cit., p. 454-482.
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B. Barbalato, Telos, in senso della fine, Le carnaval verbal d’A. Celestini
passaggi graduali cronologi, e non lascia scappatoie per il futuro. Né la
durata della tranche di storia-leggenda che l’epica racconta ha una
grande importanza. L’Odissea e l’Iliade di Omero sono dei brevi
percorsi di epopee più varie, più lunghe e più complesse : sono le
romanzizzazioni scritte o filmiche successive che danno al viaggio di
Ulisse, ad esempio, una conclusione determinata. Non è così nella
creazione epica delle origini13. Mille storie continuano al di là della
tranche de vie narrata nell’Odissea. Ne sono testimonanza racconti
meno noti, disegni su antichi vasi, ecc.
L’epica di Celestini si riferisce a fatti realmente accaduti, ad un
passato dove tutto è ormai compiuto (Fabbrica, Radio clandestina),
ecc.).
Ciò che resta in vita è l’interpretazione sull’accaduto
nell’attualità.
Celestini dice di riraccontare ciò che ha ascoltato (e di non ambire
all’oggettività14), di adottare delle mnemotecniche, e di costruire delle
storie sulla base anche dell’elaborazione fantastica (che è ugualmente
viva e vera) dell’ avvenuto. È un’epica risonante delle voci della gens
de peu15. Celestini si fà autore-cantore di un passato concluso, ma vivo
nei racconti (vissuti o ascoltati e riascoltati), adottando il registro
dell’ironia e del sorriso che fa pensare a tratti, anche se alla lontana,
all’Orlando furioso, con le sue deformazioni, inverosimiglianze proprie
del sentito dire delle fonti secondarie, dell’intreccio di varie piste.
Un’opera che aveva dato inizio ad un nuovo modo di intendere la
meraviglia, diverso dal medioevo che precede il poema e dal barocco
che lo segue.
Questo teatro di narrazione possiamo avvicinarlo a Gargantua et
Pantagruel di Rabelais, esemplare per come si appropria di molte
strategie del raccontare della cultura popolare, studiate analiticamente
da Bachtin.
Si possono stabilire dei precisi paralleli fra quest’opera di Rabelais e
i lavori di Celestini :
1) la dinamica dell’abbassamento delle figure maggiori che
ritroviamo nella descrizione della resurrezione di Cristo e le mosche in
Storie di uno scemo di guerra16. Tema presente in Gargantua et
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Barbalato, B., « Littérature et modèles culturels - L’aventureux, menteur, immuable
Ulysse homérique a mis à rude épreuve les modèles éthiques de la littérature
occidentale », in Aventures et voyages au pays de la Romane, Cortil-Woton (BE),
E.M.E., 2002, p. 15-25.
Cf.: De Gregorio, Concita, « Prefazione », in Celestini, A., Pecora nera, op. cit., p.
V-VIII.
Espressione di Sansot, Pierre, Les Gents de peu, PUF, 1991.
Celestini, A., Storie di uno scemo di guerra, op. cit., p. 106-110.
Beatrice Barbalato ed., Le carnaval verbal d’Ascanio Celestini
Pantagruel, per esempio, nell’episodio
della resurrezione di
Epistemone (cap. XXX), ritenuta da Abel Lefranc17 una versione
parodica del miracolo di Lazzaro e della figlia di Giairo18.
2) Il movimento alto-basso: si veda il bambino Nino (in alto su un
albero) di Storie di uno scemo di guerra che detronizza la figura
dell’occupante (in basso) facendo la pipì sull’elmetto del soldato
tedesco. Questa dinamica basso-alto, il capovolgimento di un ordine del
mondo è al centro dell’analisi di Bachtin. Anche la lingua è capovolta
letteralmente e figurativamente in Ascanio Celestini : la cacca
rovesciata, il tema dei cessi che occupano tutta la casa, la merda
cosmica, il fratello che dice le parole al contrario in Appunti per un film
sulla lotta di classe19.
3) Il concetto di vuoto, i buchi descritti da Bachtin sono luoghi di
facimento del mondo. Il buco nella terra corrisponde alla fecondità, in
Rabelais è il bacino di Proserpina20. La pancia di Pantagruel (I libro)
dove Alcofribas, il narratore, entra e vi trova campi e boschi curati da
chi vi vive. Il ventre di Pantagruel è il cronotopo di eventi che
avvengono in un hortus clausus, lontano da ogni concezione metafisica
o del Potere.
Di luoghi-buco è piena l’opera di Celestini : la casa di Assunta, il
buco dove affonda la testa Fausto, il pozzo, le stanze dei figli morti del
vecchio che coltiva le pere, in Fabbrica. E anche l’alto forno è un altro
buco un po’ misterioso e inconoscibile che richiama un certo modo
oscuro dei racconti di Conrad. Una sorta di antro è l’abitacolo
dell’uomo dal braccio secco, e ancora il buco dove vive il maiale e dove
vi muore in Storie di uno scemo di guerra. Il buco è anche una
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Lefranc, Abel Jules Maurice, Rabelais : études sur Gargantua, Pantagruel, le Tiers
livre / avant-propos de Marichal, Robert Paris, Albin Michel, 1953. (1° ed. 1905)
Bachtin, M., L’opera di Rabelais e la cultura popolare, op. cit., p. 417-419.
Celestini, A., Appunti per un film sulla lotta di classe, è un lavoro composito che
assembla delle idee, dei ricordi, delle trovate; al centro il lavoro precario, i cui
contratti sono definiti con sigle improbabili come co.co.co e co.co.pro . Tre musicisti
accompagnano questo lavoro: Roberto Boarini, violoncello, Gianluca Casadei,
fisarmonica, Matteo D’Agostino, chitarra.
« Per Paniurge il luogo più terribile non è affatto la gola di Satana, ma il bacino di
Proserpina, nel quale essa fa i suoi bisogni ». Bachtin, M., L’opera di Rabelais e la
cultura popolare, op. cit., p. 415. La beatitutine del corpo proviene dal basso in
contrapposizione parodica col movimento ascensionale dal basso verso l’alto del
medioevo, come in Dante, per esempio. Il basso è in Rabelais il vero avvenire
dell’umanità.
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B. Barbalato, Telos, in senso della fine, Le carnaval verbal d’A. Celestini
speranza21 e la sua negazione (luogo di conservazione e poi di morte del
maiale, e allo stesso tempo il vuoto).
Il buco in Rabelais nell’interpretazione di Bachtin è il basso, e dal
basso in alto vi è anche un percorso di beatitudine dall’ano al cuore al
cervello22. In Celestini il buco è una zona focale di un cominciamento
non sempre positivo, ma che sancisce un cambiamento di rotta della
storia.
4) La carnevalizzazione : con questo termine Bachtin23 designa la
parata degli dei detronizzati e rovesciati. Una componente presente
nelle opere di Celestini con varie processioni : il corteo della
cooperativa del maiale, la sfilza dei seppelliti24 in Storie di uno scemo
di guerra ; la suora che scoreggia col suo piccolo seguito di squinternati
in La Pecora nera ; la fila degli scolari gerarchizzata secondo la
rilevanza etnica (agli occhi della maestra) ne La fila indiana. Il razzismo
è una brutta storia25. Queste parate carnevalesche nella tradizione
popolare ne degerarchizzano i facenti parte. Si tratta di un’antica
tradizione del raccontare popolare suscettibile presso l’ascoltatore di
prolungare la lista26, lo si è già accennato, e di ribaltare e deridere, il
carattere celebrativo delle sfilate ufficiali27.
Inoltre, non possiamo non pensare in questo mondo rovesciato al
Mistero buffo di Dario Fo, al suo mondo capovolto. Tuttavia, la
funzione del raccontare non è la stessa e si possono solo indirettamente
stabilire delle alleanze fra l’opera di Celestini e di Fo. Il termine mistero
rinvia ad una rappresentazione sacra, nata intorno al III-IV sec. dopo
Cristo. Il giullare, che si rivolge agli spettatori coinvolgendoli con varie
tecniche, capovolge il tema sacro attraverso una chiave grottescosatirica, deridendo i potenti e denunciandone le sopraffazioni.
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Deleuze, G.-Guattari, F. nell’Anti-oedipe, Paris, Les éditions de Minuit, 1972, fanno
riferimento ai buchi non come luoghi di assenza, ma luoghi dove le particelle - come
dicono i fisici - vanno più veloci della luce. Metaforicamente luoghi di desiderio :
« Des physiciens disent : les trous ne sont pas des absences de particules, mais des
particules allant plus vite que la lumière. », p. 45.
Bachtin, M., L’opera di Rabelais e la cultura popolare-Riso, carnevale e festa nella
tradizione medioevale e rinascimento, op. cit., p. 416.
Ivi, p. 432.
Celestini, A., Storie di uno scemo di guerra, op. cit., p. 39-40.
Celestini,A., La fila indiana. Il razzismo è una brutta storia, accompagnamento
musicale D’Agostino, Matteo, trad. Bebi, Patrick, Théâtre Nationalde Bruxelles, 24
ottobre 2010.
Si veda la p. 138, in Storie di scemo di guerra, op.cit. dove alla fine della narrazione
tutti sono in qualche fila.
Celestini parla in La Pecora nera di santi, che trasmigrano fra la chiesa e la sagrestia,
e appaiono agli occhi del protagonista dei preti mascherati a carnevale.
Beatrice Barbalato ed., Le carnaval verbal d’Ascanio Celestini
Se alcuni aspetti di questo teatro di narrazione, di affabulazione,
sono ripresi da Celestini28, tuttavia la sua postura sempre fissa, il non
coinvolgere il pubblico, il non dirimere il campo fra buoni e cattivi, fra i
nostri e gli altri, non permette di stabilire un’allenza diretta, e tanto
meno una filiazione, non consente di andare al di là di un’appartenenza
generica allo stesso tipo di teatro di Fo. Celestini dribbla il teatro
brechtiano (a cui per esempio per qualche aspetto si rifà La Fabbrica
nell’interpretazione di Charles Tordjman29), nel senso che supera la
necessità di far cadere la quarta parete raccontando in prima persona, e
sostenendo il suo ruolo di atto-autore. Né intende interloquire con il
pubblico, non lo coinvolge, non vuole essere didattico. Anche quando
sembra rivolgersi al pubblico non fa che ribadire il suo ordine del
discorso.
La giocosità che apparenta Celestini all’epica di Rabelais, è un
registro che fa da contrasto alle vicende di violenza sociale che racconta.
I suoi lunatici come in La Pecora nera conservano, pur nel dolore
della loro condizione di reclusi, una loro leggerezza nel senso in cui ne
parla Ermanno Cavazzoni30, malgrado siano vittime dell’autoritarismo
delle istituzioni.
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Anche alcune battute come ‘mio mio mio’ che Pietrasanta può pronunziare
finalmente dalla finestra (Cf. : Celestini, A., Fabbrica, Roma, Donzelli, 2007,
(2003), p. 9) ricordano direttamente una battuta di Mistero buffo.
Celestini, A., La Fabbrica, regia di Charles Tordjman, op. cit.
Cavazzoni, E. « La parola lunatico in italiano è diversa dall’inglese, che dà più l’idea
del matto, in italiano il lunatico è uno che cambia opinione, uno un po’ nervoso che
ha un umore che varia, non proprio matto del tutto. È un essere nella luna, che ha la
mente persa. Anche per questa via di mezzo mi piaceva molto la parola lunatico, è
molto bella, perché è una parola un po’ antica, una parola ancora ben conosciuta,
esatta, ma non più di moda. E poi è una parola molto evocativa perché richiama sia la
pazzia, sia l’umore che cambia, la varietà dell'umore, che fa sì che una persona cambi
opinione velocemente, insomma non è qualcosa di fisso, ma qualcosa di
inafferrabile. La parola lunatico mi è sempre piaciuta perché indica un po’ lo stato
degli uomini, dell’umanità, che non sono matti, ma mezzi matti : è questa l’idea.
L’idea è che la luna sia come il luogo, la capitale dei matti, dove va Astolfo
dell’Orlando furioso dell’Ariosto, cavaliere mezzo matto, e anche un po’ gay, un po’
così bel bello, un po’ leggermente omosessuale, un po’ effeminato, un cavaliere che
non usa la forza, ma usa le magie, ed è una bellissima figura in Ariosto. Ed è quello
che cavalca proprio il cavallo alato, che è il cavallo della fantasia, va sulla luna, è il
più matto dei cavalieri e quello che trova è il senno di Orlando, che è stato matto
davvero, e glielo ridà. Questa idea della luna mi è sempre piaciuta molto, l’idea del
lunatico che, secondo me, non è come dire un “matto“, parola più adatta ad una
diagnosi medica che dà forza alla malattia. La parola lunatico può dire che la pazzia
può essere una cosa transitoria, che passa attraverso la vita di tutti, ecco per questo
mi è più simpatica come parola, che è più nella tradizione letteraria… ». «Un paìs
de lunaticos », in « La mia Italia », INTRAMUROS (monografia a cura Barbalato,
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B. Barbalato, Telos, in senso della fine, Le carnaval verbal d’A. Celestini
4 - Lingua impavida e gioiosa, capace di fronteggiare le
tragedie della storia
Scrive Bachtin che in Gargantua et Pantagruel il linguaggio non è
mai neutro, come per il linguaggio parlato è sempre indirizzato a
qualcuno, ha a che fare con un interlocutore, parla con lui o di lui. La
struttura dialogica (come quella immaginata con la bassetta di Radio
clandestina) ha anche la funzione di riportare le parole ad un parlato
diretto, non gerarchizzato, in opere dove il narratore unico in scena, a
rigore, dovrebbe usare lo stile indiretto quando riferisce la parola altrui.
Inoltre:
Più il linguaggio è ufficiale, più questi toni (lodi e ingiurie) si differenziano,
perché il linguaggio riflette la gerarchia sociale instaurata, la gerarchia
sociale dei giudizi (in rapporto alle cose e alle nozioni) e le frontiere statiche
fra le cose e i fenomeni stabilite dalla concezione ufficiale del mondo.
Ma quanto più il linguaggio è familiare e meno ufficiale, tanto più
frequentemente e sostanzialmente questi toni si fondono e tanto più debole
diventa la barriera fra lode e ingiuria; esse cominciano a mescolarsi in una
sola persona e una sola cosa, come rappresentanti di un mondo intero in
divenire. Le rigide barriere ufficiali fra le cose, i fenomeni e i valori,
cominciano a mescolarsi e a scomparire. Si risveglia la vecchia ambivalenza
di tutte le parole e le espressioni che racchiudono in sé l’auspicio di vita e di
morte, di semina della terra e della rinascita31.
È una visione da Antioedipe, di cui parlano Deleuze e Guattari32, che
non riguarda il desiderio del singolo, ma un desiderio, una tensione
sociale, che esprime potentemente la speranza di cambiare il mondo.
« Le désir n’est jamais à interpréter, c’est lui qui expérimente »33. La
machine desirante è l’inconscio non ridotto a schemi fissi, ma una sorta
di boîte à outils di risorse, una fabbrica di energia34.
Anche la lingua di Celestini piena di astuzie, vince su un
dogmatismo linguistico. È una lingua impavida e gioiosa (in Gangantua
31
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92
B.), op. cit., p. 16. Cf. : Cavazzoni, E., Il poema dei lunatici, Milano, Feltrinelli,
1987. A questo libro si è ispirato Fellini per il film La voce della luna, 1990.
Bachtin, M., L’opera di Rabelais e la cultura popolare, op. cit., p. 463.
Deleuze, G. - Guattari, F., L'Anti-Œdipe - Capitalisme et schizophrénie, op. cit.
Deleuze, G. - Parnet, Claire, Dialogues, Paris, Flammarion, 1977, p.115.
« Reconnaitre le désir, c’est précisément remettre en marche la production désirante
sur le corps sans organes, là même où le schizo s’était replié pour le faire taire et
l’étouffer. Cette reconnaissance du désir, cette position du désir, ce Signe, renvoie à
un ordre de productivité réel et actuel, qui ne se confond pas avec une satisfaction
indirecte ou symbolique, et qui, dans ses arrêts comme dans ses misères en marche,
est aussi distinct d’une régression pré-œdipienne que d’une restauration progressive
d’Œdipe ». Deleuze, G. - Guattari, F., L’anti-œdipe, op. cit., p. 155.
Beatrice Barbalato ed., Le carnaval verbal d’Ascanio Celestini
et Pantagruel è felicemente esagerata), e si genera all’interno di usi
riconosciuti e attuali della lingua (come imparare per insegnare ad
esempio in Celestini), stravolta nel suo uso standard, rimessa in circolo
con una nuova energia, attraverso un gioco fra regola e innovazione. È
una lingua in grado di fronteggiare le tragedie della Storia : « Tutti gli
atti del dramma della storia mondiale si sono svolti davanti al coro
popolare che ride. Senza ascoltare questo coro non si può comprendere
il dramma nel suo insieme »35.
Varie tecniche in Celestini destituiscono la lingua da un tono
celebrativo e codificato, e ne fanno un vero strumento di ribaltamento,
capovolgimento di senso. È una lingua inventata (non riproduce
l’espressione dialettale, ne riprende piuttosto le modalità, lo abbiamo
già detto), generativa, piena di salti di palo in frasca (almeno così vuole
apparire). Una lingua che vuole ricreare il mondo, proprio come scrive
Bachtin per Rabelais :
In un’epoca di sfaldamento totale dell’assetto gerarchico del mondo e di
costruzione di un nuovo ordine, mentre si stavano rimodellando ex novo
tutte le vecchie parole, cose e idee, il coq-à-l’âne36, come forma capace di
liberarle temporaneamente da ogni legame semantico, come forma del loro
libero svago, veniva ad assumere un significato fondamentale. Era una sorta
di carnevalizzazione del linguaggio che liberava dalla serietà grave e
unilaterale della concezione ufficiale del mondo, dalle varietà correnti e dai
punti di vista comuni. Questo carnevale verbale liberava la coscienza umana
dalle secolari catene di concezione medioevale del mondo, preparando una
nuova sensata serietà37.
La distruzione della gerarchia verbale è una modalità linguistica dei
lavori di Celestini. Il padrone, i padroni di Fabbrica, il gerarca, non si
esprimono differentemente dagli operai. Questo traghettare fra codici
linguistici diversi, riportati interclassisticamente al discorso orale, sfuma
come in una dissolvenza i confini delle categorie, deterrorializzandole.
Questo passaporto linguistico, tuttavia, non affranca i sottomessi dalla
loro condizione.
Inoltre i confini fra sacro e profano sono infranti, cosí come la
distinzione fra classi sociali. Le funzioni di luoghi o di persone sono
sovvertite. La vita e la morte si interscambiano:
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Bachtin, M., L’opera di Rabelais e la cultura popolare-Riso, carnevale e festa nella
tradizione medioevale e rinascimento, op. cit., p. 523.
In italiano: saltare di palo in frasca. Le coq-à-l’âne è un modo di dire riferito ad una
serie di frasi, di battute messe insieme senza un legame logico fra di loro.
Bachtin, M., L’opera di Rabelais e la cultura popolare, op. cit, p. 469. Il corsivo è
mio.
93
B. Barbalato, Telos, in senso della fine, Le carnaval verbal d’A. Celestini
Certe volte co’ l’altri ragazzini ce l’andavamo a guardare dal campanile quel
cimitero burino, ma ci andavamo solo per respirarci l’aria buona e verso i
lumini del camposanto ci buttavamo soltanto l’occhio, ce lo smicciavamo
con un miscuglio di pietà e distrazione come uno guarderebbe un acquario
di pesci morti.[...]
Il Verano è una robba grossa, è il quartiere con le strade in mezzo e per
raccapezzarci ci vuole una carta geografica... il mappamondo. E poi la
guerra l’ha trasformato in una cosa viva. O forse ha trasformato Roma in
una robba morta. Mo’ la città che sta costruita attorno di notte è più
silenziosa di questo sterminato camposanto. Mo’ i cristiani stanno più zitti
dei morti e il brulichio delle lucette in mezzo alle tombe pare l’unica cosa
viva, come se i morti potessero permettersi di non rispettare il coprifuoco,di
non tacere manco davanti al nemico che ascolta. I morti si prendono la
rivincita e festeggiano senza paura dei bombardamenti, lasciano tutto acceso
pure di notte e trasformano il Verano in una casbah di lapidi38.
5 - Il pensiero circolare
Celestini attore e autore adotta un dispositivo linguistico e
prossemico che favorisce la presenza fantasmatica dell’altro : « La
conscience de soi n’est possible que si elle s’éprouve dans le
contraste»39. In una polarità di un io e di un tu, si instaura un processo di
comunicazione.
L’uomo ricco d’astuzie raccontami, o Musa, che a lungo/ errò dopo
che ebbe distrutto la rocca sacra di Troia ; / di molti uomini le città vide
e conobbe la mente, / molti dolori patí in cuore sul mare, / lottando per
la sua vita e pel ritorno dei suoi40. Omero si rivolge nel suo presente ad
una musa per raccontare la storia di Ulisse. Vi è la stessa ouverture
nell’Iliade (Cantami, o diva, del divino Achille). La stessa mise en scène
accompagna i poemi eroicomici. L’epica, la lirica, incorniciano il
passato nell’attualità del raccontare41.
Questa scena dialogante dell’inizio accompagnerà in filigrana il
lettore, e il poeta narratore porte-parole della musa sarà in grado di farsi
mimeticamente portavoce di altri protagonisti.
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Celestini, A., Storie di uno scemo di guerra, op. cit., p. 28-29.
Benveniste, É., « La nature des pronoms », in Problèmes de linguistique générale,
op. cit., p. 252. Diversi capitoli sono dedicati in questa opera da Benveniste alla
tipologia dell’uso dell’io, pronome personale, che include secondo Charles Morris ricorda Benveniste -, non solo il segno, ma colui che ne fa uso.
Omero, Odissea, trad . Rosa Calzecchi Onesti, Torino, Quaderni RAI, 1968, Canto I,
vv 1-5.
« chi non capisce il presente non ha passato », Celestini, A., Fabbrica, op. cit., p.
XIX.
Beatrice Barbalato ed., Le carnaval verbal d’Ascanio Celestini
Celestini nei suoi lavori ha il ruolo di atto-autore (ciò che non può
accadere nelle traduzioni e trasposizioni) che figura sulla scena un alterego o un destinatario (in Fabbrica attraverso la madre che riceve le
lettere ; in Radio clandestina, la bassetta, in La Pecora nera, l’io
doppio, schizofrenico di Nicola, lo si è già detto, ecc.).
Questo è lo scenario in cui si srotola il racconto, dove date e luoghi
sono menzionati con riferimenti precisi, per impedire che i fatti vengano
percepiti come irreali. Fabbrica è per antonomasia una fabbrica durante
il XX secolo. I giganti operai della prima parte interpretano una visione
da realismo socialista dell’uomo-operaio. La collocazione in uno spaziotempo indeterminato degli avvenimenti raccontati non impediscono di
andare con la memoria a situazioni concrete, malgrado il racconto non
possa essere ingessato come fatto isolabile nella cronaca, né si incastoni
in una Storia già scritta. La traiettoria circolare di Storie di uno scemo
di guerra, la descrizione topografica di vari luoghi in Fabbrica (l’alto
forno, la casa inquietante e misteriosa del padrone, il pozzo, la spianata
macabra col pero) permettono di risalire a nostre esperienze analoghe,
smarginate42 nella nostra memoria, ai bordi.
Inoltre, la cronaca riportata in scena in inserti con la voce diretta,
registrata, di alcuni protagonisti (come lo struggente ascolto della voce
di Nino, papà di Ascanio) invece di ricondurci al genere della cronaca e
dell’attestazione della verità, porta all’evocazione, ad una specie di
oracolarità, autorità infallibile, che segnala la strada maestra.
Tutto il contrario dalla falsa immagine-verità, così sfruttata dai
media : « L’image n’est plus là que pour donner du poids au
commentaire, pour occuper les yeux »43. Le immagini nella nostra
contemporaneità sono diventate un puro supporto a discorsi già fatti. Il
sogno dello storico di avere degli archivi allo stato primordiale, di pura
fonte, è totalmente smentito dallo stato delle cose. Nel lavoro di
Celestini è proprio la fonte che delocalizza la verità intesa come
riconducibile ad un puro mostrare, dimostrare la sua oggettività. Le
evidenze non hanno bisogno di dimostrazioni (come l’eccidio delle
Fosse ardeatine, o l’entrata degli americani a Roma, o la realtà delle
fabbriche). È importante, invece, attivare la memoria, la percezione
emotiva dei fatti. Si tratta di una memoria affettiva e non tanto di una
42
43
Sul concetto di stare ai bordi, ai margini, cf. : Bene, C. – Artioli, Umberto, Un dio
assente-monologo a due voci sul teatro, Milano, Ed. Medusa, 2006, p. 94 ; e
Derrida, Jacques, Marges de la philosophie, Paris, Editions de Minuit, 1972.
Bourdon, Jerôme, « L’Historien devant l’audiovisuel. Préambules méthodologiques », in Image et histoire. Actes du colloque de Paris-Censier, Mai 1986, in
Sources. Travaux historiques, Paris, Publisud, 1987, p. 79.
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B. Barbalato, Telos, in senso della fine, Le carnaval verbal d’A. Celestini
memoria intellettuale44, che ha a che fare col sentire e ri-sentire della
gente, ciò che si è voluto o potuto cogliere non solo al momento dei
fatti, ma nell’après-coup45. Lo spazio-tempo della memoria non ha a che
fare con la cronologia dello storico e neanche con dei metodi
strettamente scientifici antropologici e sociologici. Ciò non vuol dire
che il lavoro di Celestini sia asistematico : al contrario destabilizza le
funzioni rigide frutto di idee figées intorno alla cronaca, alla storia, ai
simboli, per stimolare a leggerli in un ordine nuovo. Come le voci dal
vivo che non sono inserite per supportare nessun discorso confezionato,
ma al contrario parlano della e alla nostra memoria sensibile.
6 - “Spaziale”
La narrazione su scena è scarna : Celestini su una sedia non si
muove, racconta. Il mondo che evoca ha spazi non stanziali, è nomade,
in movimento, va verso altri luoghi, si trasforma. Gli spazi ai quali
rinvia sono deterrorializzati, proprio nel senso indicato da Deleuze e
Guattari46. Si tratta di spazi da cui si esce (che sono sempre a un certo
punto disabitati deterritorializzati), e dove i personaggi come i nomadi
vivono in dei tragitti, in degli intermezzi, in degli entre-deux47. Nelle
opere di Celestini non troviamo alcuna stanzialità, né temporale, né
spaziale. Né alcun discorso diventa una parola d’ordine. Come ricorda
Foucault48 le parole d’ordine passano rapidamente a ordini muti, e
viceversa.
La fabbrica è un mondo a parte - scrive Celestini - e ci vuole una lingua
diversa per poterlo raccontare. Marco, lo sloveno che fa il capoturno alla
ferriera di Servola, ogni volta che si trova a dover raccontare qualcosa che
supera i limiti della normalità dice “spaziale”. Sia quando si tratta di una
44
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96
Jean Pierre Vernant ha scritto che a seconda delle diverse epoche e di diverse
culture
vi è solidarietà
fra la pratica di tecniche di memorizzazione,
l’organizzazione interna di questa funzione « sa place dans le systhème du moi et
l’image que les hommes se font de la mémoire ». Vernant, Jean Pierre, Mythe et
pensée chez les Grecs. Etudes de psychologie historique, Paris, François Maspero,
1965, p. 51.
Sull’après-coup, il post-traumatico : Cf. : Bollas, Christofer, 2006, « Les
transformations amenées par l’inconscient. Créativités de l’inconscient. Christofer
Bollas répond aux questions de Vincenzo Bonaminio », EPF Bulletin 60, 22 oct.
2006; e Heenen-Wolff, Susann, « Petite métapsychologie de l’écoute analytique »,
Carnets PSY, n° 131, 2008.
Deleuze, G. - Parnet, C., Dialogues, op.cit., p. 163-176.
Deleuze, G. - Parnet, C., Mille plateaux - Capitalisme et schizophrénie, Paris, Ed. du
Minuit ,1980. Cf. in particolare la p. 471.
Foucault, Michel, L'Ordre du discours (leçon inaugurale au Collège de France,
1970), Gallimard, Paris, 1971
Beatrice Barbalato ed., Le carnaval verbal d’Ascanio Celestini
cosa molto bella, sia quando si tratta di una situazione drammatica.
“Spaziale” è ciò che non si può raccontare. Qualcosa che rischia di perdersi
prima di arrivare a un’elaborazione completa. Ho cercato di riportarla verso
un racconto epico come nei racconti della lotta partigiana. Ho cercato nel
patrimonio della letteratura orale, nelle fiabe e nelle leggende. Ma una
parola che non esiste ancora in forma di parola, forse, non deve essere
detta. Deve restare ai margini del dicibile . È lontana come la Rivoluzione
russa per l’operaia della lettera “16 marzo 1974”. È “spaziale”49.
In Storie di uno scemo di guerra siamo a Roma il 4 giugno 1944, i
luoghi evocati raccontano di episodi reali (come il rastrellamento del
Quadraro), eppure rinviano anche a mille episodi analoghi. In Fabbrica
con i suoi spazi-ventre, i personaggi sono mentalmente e fisicamente
sempre di passaggio da un luogo all’altro, sul limitare. In La Pecora
nera il protagonista schizofrenico - e già doppio, dunque -, esce per
andare al supermercato e facendoci osservare con i suoi stessi occhi il
mondo “normale” esterno, finisce col farcelo apparire più pazzo di
questo protagonista disturbato. Il suo essere per antonomasia un altro ciò che è escluso, ex-clausus - un essere fuori dal sé, singolarizzato -,
permette di guardarsi intorno con nuovi occhi.
La tecnica del capovolgimento a cui si è accennato ha qui il suo
pieno dominio. La morte entra nella vita attraverso la trasmissione dei
nomi (si veda Fausto nella Fabbrica), i vivi che sanno di essere
continuatori del morto (“Il vivo porta il morto”). Ho trovato quasi le
stesse parole - les morts sont nos enfants -, nel racconto autobiografico
di Adolphe Nysenholc, uno dei bambini ebrei nascosti da famiglie
belghe, i cui genitori sono stati sterminati. « Quella notte [...] Léa è
venuta in me per reclamare di vivere. Ero gravido di mia madre. Mi
chiedeva di darla alla luce, di riparare alla sua morte. Testarda, mi dava
dei colpi da montone, dall’interno. Parlava la mia voce, vedeva con i
miei occhi »50.
7 - Capovolgere il tempo
Questo è anche il tempo capovolto di Ascanio Celestini, che non
evolve nel senso di una vera e propria cronologia, ma in un
49
50
Celestini, A., Fabbrica, « Nota introduttiva », in Racconto teatrale in forma di
lettera, Roma, Donzelli, 2007 (2003), p. XII.
« Cette nuit là […] Léa est venue en moi réclamer de vivre. J’étais gros de ma mère.
Elle me demandait de lui donner le jour, de réparer sa mort. Têtue elle me donnait
férocement des coups de bélier de l’intérieur. Elle parlait de ma voix, elle voyait par
mes yeux .», Nysenholc, Adolphe, Bubelè, l’enfant à l’ombre, Paris, L’Harmattan,
2007, p. 126 (penultimo paragrafo della narrazione).
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B. Barbalato, Telos, in senso della fine, Le carnaval verbal d’A. Celestini
dispiegamento temporale ciclico che riporta alla centralità del narratore
e della narrazione. Del vissuto come un telos.
La nostra attenzione viene indirizzata verso azioni che implicano
una compartecipazione suscettibile di generare altre azioni
soprasegmentate da un filo rosso di tic, ripetizioni, immagini ricorrenti.
Il superfluo (ciò che appare nella narrazione come al di là del
necessario) diventa il nesso stesso del raccontare. Ciò che dovrebbe
(secondo canoni standard) stare fuori dalla storia costituisce l’essenza
del racconto, rivelando e mettendo a nudo così il funzionamento del
raccontare, e cioè che ciò che conta non è il cosa, ma il come. Questo
spazio-tempo, questo cronotopo, non si basa su uno spazio e un tempo
sdoppiato fra un dentro e un fuori, come accade in molti romanzi o
pièces teatrali a carattere psicologico. Non vi è la storia / Storia e chi
pensa. L’io come dice Benveniste « est ’ego’ qui dit ego »51, e
ricordando Charles Morris sottolinea che l’io non è solo segno, ma
proprio colui stesso che ne fa uso. Il protagonista-narratore coincide
con ciò che dice. La mancanza di tratti psicologici, di cui anche
Benjamin parla ne Il narratore52, evita di marcare una singolarizzazione,
una connotazione, una figurazione concreta.
Foucault ricorda ne L’herméneutique du sujet che Seneca riflette su
un’esistenza « ponctuelle dans l’espace, ponctuelle dans le temps ».
Niente a vedere con l’arcana conscientiae del cristianesimo53. Il dentro
del soggetto per gli stoici doveva essere sistematicamente curato (cura
te stesso ricorda Foucault era tanto importante come il più conosciuto
motto conosci te stesso) e rapportato costantemente al suo fuori.
Nessuno sdoppiamento, dunque, fra il tempo pensato dal soggetto e
il tempo della sua storia, cioè della sua vita. Così l’opera di Celestini
non propone un cronotopo interno al raccontatore, dissociato dal suo
fuori.
Il principio della cronotipicità dell’immagine letteraria per la prima volta è
stato scoperto con tutta chiarezza da Lessing nel suo Lacoonte (Laokoon).
Egli stabilisce il carattere temporale dell’immagine letteraria. Tutto ciò che
è statico-spaziale deve essere descritto in modo non statico e trascinato nella
51
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98
Benveniste, É., Problèmes de linguistique générale, op. cit., p. 260.
Benjamin, Walter, «Le narrateur. Réflexions sur l’œuvre de Nicolas Leskov», in
Essais 2- 1935-1940, (trad. dal tedesco di De Gandillac, Maurice), Paris, Denöel et
Gontier, 1983/1971. Frankfurt 1955.
Foucault, M., L’herméneutique du sujet - Cours au Collège de France, 1981-1982,
Hautes Etudes. Paris, Gallimard-Seuil, 2001, pp. 266-267.
Beatrice Barbalato ed., Le carnaval verbal d’Ascanio Celestini
serie temporale degli eventi raffigurati e dello stesso raccontoraffigurazione54.
Nella cultura del mondo antico55 non venivano individualizzati
interiormente i personaggi, non ci si avvaleva di un tempo parallelo fra
l’io interiore e l’io esterno. Così Lessing porta come esempio fra altri i
versi dell’Iliade dove la bellezza di Elena è descritta attraverso le
osservazioni dei venerabili vecchi che dicono fra di loro che non
bisogna stupirsi che Troiani e Greci abbiano sofferto per una tale
bellessima donna56.
La stessa immagine riflessa riceviamo di Fausto e dei Fausti che si
susseguono per generazioni in Fabbrica, del soldato tedesco in Storie
di uno scemo di guerra, la cui macchia rossa sul suo viso la troviamo
anche in Giubileo.
Una metodologia dello scambio e della trasmissione di un io
multiplo che permette ad altri interpreti di riprendere come staffette il
testimone.
54
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56
Bacthin, M., Estetica e romanzo, Torino, Einaudi, 1979, p. 398.
Generalmente fino al romanzo ellenistico, come L’asino d’oro di Apuleio.
Lessing, Gotthold Ephraim, Laocoon, presentazione di Bjalostocka, Jolanta, Paris,
Hermann, 1964, p. 116-117. Lessing si riferisce ai versi 156-158 del canto III. (1° ed..
1766).
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