Azione - Settimanale di Migros Ticino L`anatomia del contrasto

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Azione - Settimanale di Migros Ticino L`anatomia del contrasto
L’anatomia del contrasto
Alla Pinacoteca Comunale Casa Rusca di Locarno le opere dello scultore messicano
Javier Marín
/ 12.12.2016
di Alessia Brughera
Nudi, possenti e imperfetti. Nudi perché è solo così che possono manifestare la loro intensa fisicità,
il loro essere pura forma umana. Possenti perché è solo così che possono raggiungere una
drammatica forza espressiva. Imperfetti perché è solo così che possono diventare emblema
dell’inadeguatezza dell’esistenza. I corpi scolpiti dall’artista messicano Javier Marín si impongono al
nostro sguardo con una veemenza che non lascia indifferenti. Trasgressivi e inquieti, questi esseri
dalle anatomie spezzate e dalle pose esasperate ci obbligano a scrutarli in ogni dettaglio, a
percorrere con occhio attento le loro superfici irregolari per coglierne tutte le corruzioni, generando
in noi un misto di attrazione e repulsione.
Le grandi teste dalle capigliature concitate e dai lineamenti accentuati, i corpi dagli arti allungati e
dalle muscolature espanse non possono non ricondurre il lavoro di Marín a un passato classico e alla
cifra stilistica di alcuni maestri che in epoca rinascimentale, manierista e barocca hanno trovato
nell’enfatizzazione delle forme umane e nelle loro torsioni dinamiche un mezzo espressivo di rara
efficacia.
Tornano alla mente le vigorose figure michelangiolesche, le deformazioni del Parmigianino, le
spregiudicate dilatazioni del Pontormo o del Rosso Fiorentino, le sinuose estensioni del Greco, il
vitalismo plastico del Bernini. Marín impasta questi richiami alla storia dell’arte europea con la sua
sensibilità latino-americana, filtrandoli attraverso le immagini e le reminiscenze legate alla cultura
della sua terra. Una rielaborazione, questa, che ha condotto le sue sculture verso una libertà formale
inedita, verso una sperimentazione ardita capace di allontanarsi da quegli stessi precetti presi a
modello per presentarsi in una prospettiva profondamente contemporanea.
La Pinacoteca Comunale Casa Rusca di Locarno dedica una mostra a questo artista, nato nel 1962 a
Uruapan (nello Stato di Michoacán), portando per la prima volta in territorio elvetico una nutrita
serie di suoi lavori. Vi sono raccolte opere che testimoniano il percorso creativo di Marín dalla metà
degli anni Novanta a oggi, un arco temporale che ha visto il suo nome consolidarsi nel panorama
artistico internazionale con un centinaio circa di esposizioni personali e più di duecento
partecipazioni a collettive un po’ in tutto il mondo.
Negli spazi locarnesi, complice il suggestivo allestimento curato dall’architetto Mario Botta, le
sculture di Marín sanno trasportarci in una dimensione sospesa tra passato e presente, una sorta di
limbo temporale in cui le figure disarticolate e smembrate si sottraggono a un’attribuzione storica
precisa, proiettate come sono in una realtà che sa scomporre l’antico per reinventare il moderno.
Sono opere drammaticamente umane quelle di Marín, lavori in cui il corpo emerge nella sua natura
contraddittoria, contenitore di vita da una parte, organismo sottoposto al decadimento dall’altra.
Perché se è il corpo che attesta l’esistenza dell’uomo è anche ciò che ne prova l’ineludibile
vulnerabilità. Le sculture dell’artista sembrano farsi rappresentazione di questa verità: con le loro
forme imponenti ed espressive, ma vuote, sconnesse e lacerate, ci ricordano la grandezza e la
miseria di ogni individuo.
Marín disgrega i suoi nudi femminili e maschili per poi riassemblarne le varie parti in maniera
approssimativa, quasi a voler curare le ferite che la vita vi ha impresso. Deturpate, rotte, con le
superfici scabre inquinate da residui di elementi plastici e metallici, queste figure sono spesso
tenute insieme da fili di ferro che ne penetrano le carni nel tentativo di ricostituire un’unità perduta.
Anche nella scelta dei materiali l’artista ambisce a esprimere appieno l’umanità delle sue opere. Le
plasma con la terracotta, «un materiale vivo dotato dell’umidità che può avere la pelle», con il
bronzo e, negli esiti più recenti, con la resina poliestere, attraverso la quale riesce a emulare con
effetti di grande realismo la consistenza e il colorito dell’epidermide. Marín mescola questa sostanza
con elementi organici quali petali di fiori, tabacco, amaranto e persino carne essiccata, ingredienti
naturali che vanno ad animare la materia traslucida con delicate sfumature e, al contempo,
simboleggiano con la loro deteriorabilità la caducità del corpo umano.
Por aquí, por aquí, del 1995, è una sagoma femminile monca, forata, rivestita di tagli e incisioni a
sciuparne senza sosta la superficie, che sa però ergersi fiera nella sua incompiutezza come un’antica
dea, in una posa impetuosa che pare congelata nel tempo e che lascia una traccia nella forte
espressività del viso.
Volti ancor più incisivi sono quelli della serie Barbudo, del 2005, con grandi occhi dalle palpebre
colanti, folte barbe dai riccioli svolazzanti e quel piglio austero e imperturbabile che conferisce loro
un’aura enigmatica.
I corpi di Marín giacciono esanimi, distesi rigidamente con le mani dalle lunghe dita appoggiate sul
petto, a farci riflettere sul confine tra essere e non essere; sono ammucchiati l’uno sull’altro,
fondendo le membra in un’unica massa, a ricordarci il comune e tragico destino che ci attende;
vengono ingigantiti in alcune loro parti e poi ingabbiati in cornici di legno, a significare la condizione
umana divisa tra impulso vitale e costrizione.
Nel percorso di mostra colpisce per impatto visivo Mujer Suspendida, un’opera del 2015 in resina
ricoperta di pittura dorata. Appesa al soffitto, questa scultura dalle forme abbondanti mutilate e
ricucite richiama nella parte superiore la figura di una santa martire, con l’espressione devota e le
mani giunte, e nella parte inferiore la figura del Cristo crocefisso. Per metà femminile e per metà
maschile, carnale e spirituale insieme, è metafora e sintesi degli opposti che dimorano nella natura
umana.
Quella di Marín è un’estetica in cui la concessione formale, l’iperbole plastica e il trattamento
difettoso della materia divengono lo strumento per penetrare intimamente la corporeità dell’uomo e
per restituirla in ammalianti e controverse visioni che si fanno territorio d’incontro di sogni e
angosce.