Nanook of the north

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Nanook of the north
NANOOK OF THE NORTH
Regia di Robert J. Flaherty
Musica di Stanley Silverman
Protagonisti: Allakariallak, Nyla, Cunayou
Film muto in bianco e nero con titoli in inglese / italiano
Durata 107 minuti
Nanook of the North è un film documentario che ha fatto la storia del cinema.
Realizzato nel 1922 dal regista Robert J. Flaherty, che aveva a lungo vissuto con il popolo Inuit
ed aveva così voluto portare sullo schermo il loro stile di vita, il film ha segnato la nascita del
documentario etnografico, anche se ha sollevato critiche severe per avere distorto la realtà
rappresentandola con sequenze ricostruite: l’ultima scena, per esempio, è interamente girata
all’interno di un igloo, allargato per poter ospitare la cinepresa; Nanook non era il vero nome del
protagonista e Nyla non era la sua vera moglie; inoltre, il protagonista già cacciava con il fucile,
ma Flaherty lo convinse a cacciare secondo i vecchi metodi adottati prima dell’influenza europea.
Flaherty aveva realizzato la pellicola ben prima del 1922 ma gli aveva dato accidentalmente fuoco
con una sigaretta; finanziato dalla compagnia francese di pellami dei Fratelli Revillon, il film è
stato poi nuovamente girato tra l’agosto del 1920 e l’agosto del 1921 vicino Inukjuak, nella Hudson
Bay del Quebec Artico Canadese; il regista-esploratore aveva scelto di girare sul posto, lontano
dal set cinematografico e senza attori protagonisti, dando vita così ad un cinema di innovazione,
“a story of life and love in the actual artic” recitava una delle prime locandine del film.
Nel 1989 Nanook of the North è stato il primo dei 25 film selezionati dalla Biblioteca del
Congresso Statunitense per essere “culturalmente, storicamente ed esteticamente significativo”.
Vengono ripresi i metodi tradizionali del popolo Inuit di cacciare, pescare, costruire il kayak e
l’igloo, lavare i bambini, proteggere i cani… e viene raccontata la storia irresistibile di una piccola
famiglia che lotta per sopravvivere contro le avversità di una natura ostile e fredda ma pur
sempre accogliente e salvifica.
Una delle scene iniziali rimane fortemente impressa: Nanook si appresta a trasferire la famiglia
lungo il fiume per raggiungere il centro commerciale dell’uomo bianco; dal kayak avvicinato alla
riva scendono quindi Nanook, il figlio più grande disteso sul ponte anteriore, la prima moglie Nyla
infilata a prua con il bimbo neonato nel cappuccio di pelle, la seconda moglie Cunayou imbarcata a
poppa ed infine un cucciolo di huskye.
Il kayak deve essere restaurato ogni anno, al massimo ogni due, ed il lavoro può essere eseguito
soltanto durante la bella stagione; in estate viene sostituita la pelle di foca che riveste la
struttura interna di legno e le donne, cui è demandata la concia delle pelli e che consumano i denti
fino alle gengive per ammorbidirle con la saliva, cuciono con aghi di avorio e con fili di pelle.
Il kayak viene utilizzato per la pesca al salmone e per la caccia al tricheco ma l’occhio attento
noterà alcune curiosità: la pagaia lunga con gli sgocciolatoi, la pagaiata bassa e veloce, il pozzetto
largo, la pelle di foca sul ponte posteriore che scompare nelle scene successive, la pagaia infilata
sotto le cime del ponte anteriore prima di ogni sbarco… nonostante la stagione estiva, potevano
prendere il mare senza tuilik, il tipico giaccone con cappuccio e paraspruzzi incorporato?
Colpisce sopra ogni cosa il contrasto tra la dolcezza del piccolo gruppo di uomini e donne Inuit e la
durezza della vita quotidiana tra i ghiacci, tra l’esiguità delle cose a loro disposizione e la
grandezza del mondo che li circonda, tra la brutalità della caccia a mani nude e la genialità delle
tecniche adottate.
Affascina la scoperta di tanti piccoli stratagemmi che rendono la vita meno dura: il muschio
utilizzato come combustibile, i pezzetti di avorio usati come esca nella pesca, la stuoia di rametti
secchi come giaciglio per non rimanere incollati al ghiaccio, la saliva usata come sciolina per la
slitta, il lungo coltello multiuso reso tagliente e ghiacciato leccandolo con la lingua.
Incuriosisce la costruzione dell’igloo, la capacità di saper scegliere il luogo adatto e la maestria
nel tagliare i blocchi di neve e di ghiaccio, l’arte di sovrapporre pezzi ad incastro e la magia nel
creare dal nulla uno spazio chiuso ma bianco come l’immenso spazio circostante, caldo ma non
troppo, tanto che il fiato si condensa in nuvolette che si disperdono velocemente, una casa solo
per qualche giorno lasciata poi a qualche altra famiglia giunta da qualche altro luogo.
Seduce lo sguardo dei bambini, sia quando mangiano i biscotti guarniti di lardo e sia quando
bevono l’olio di ricino… i sorrisi delle donne, sia quando lavano i bambini con la saliva e sia quando li
imboccano tenendoli nel cappuccio di pelliccia… il volto fiero del grande cacciatore, sia quando
prepara la muta dei cani per trainare la slitta e sia quando gioca con arco e frecce con il suo
primogenito.
Conquista lo stile narrativo adottato, simile a quello del cinema muto europeo degli anni
immediatamente successivi: 80 campi neri con poche parole esplicative, nessun dialogo scritto,
nessuna voce fuori campo; solo una colonna sonora omogenea, una musica strumentale suonata da
un ristretto complesso di sei musicisti e composta sulla trama del film, il contrabbasso nelle
scene di caccia, il pianoforte nelle scene familiari, un violino, un clarinetto e delle percussioni di
tanto in tanto. Un film mai noioso e sempre poetico, istruttivo ed appassionante.
Scheda filmografica a cura di Tatiana Cappucci