i prodotti dell`italia liberata
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in questo mondo non vi è nulla di sicuro tranne la morte e le tasse la “recensione” ha perso il senno. noi no esercizio della “recensione” non ha più senso. Ridotto alla torsione atletica del tennista che fa tic e toc contro al muro, lui, la racchetta, la pallina e il crepato rettangolo di cemento, perché nessuno lo vuol più come avversario. Eccolo rifilato, il senso della “recensione”. Agonismo puro. A scrivere del libro di un altro te le davi di sana pianta. La letteratura, roba millenaria, è schietta competizione, e chi muore è perduto per sempre – salvo ripescaggi dell’ultima ora. Insomma, affare di giochi sporchi, ma pur sempre viso contro viso, capoccia contro capoccia. Oggi, semmai, i giochi sporchi si trescano sotto il desco. E ci sono editori che pagano per avere la “recensione”, e giornali che pagano per avere l’“anteprima”. Con tutta la libertà di scazzottare che ne sovviene. Cioè, polsi mozzati di netto e bocche cucite, anzi, con il sorriso stampato in volto. La “recensione” è divenuta il covo dei mercanti nel luogo di culto. Tu dai una cosa a me e io a te, tu mi fai pubblicare un libro e io ti faccio un tot di recensioni. E a chi rivolta il banco a tali usurai, gliele suonano. È la storia del “politicamente corretto”, per cui hai la libertà di dire solo ciò che suona bene. L’ COME E PERCHÉ LA STRONCATURA È STATA SOSTITUITA DALLA MARCHETTA alle pagine 4 e 5 Altrimenti, si scatenano le belve dall’anima bella, e diventi l’agognato capro da far spirare. Con il risultato che per essere uno scrittore alla luce del sole, con lauro annesso, o divieni un “caso”, cioè scrivi delle boiate tremende, o sei un giornalista, cioè hai un sacco di amici e una quota di crediti da riscuotere. Noi, che non abbiamo amici e semmai facciamo di tutto per toglierceli di torno, diciamo le cose come sono. Abbiamo in odio, oltre alle truppe dei recensori in divisa, anche quelle dei lagnoni del “si stava meglio quando di stava peggio”. Sì, diabolici fino in fondo. O con noi o contro di noi. • Davide Brullo POSTE ITALIANE SPA SPED.ABB.POST. - 45% ART.2 COMMA 20/b LEGGE 662/96 D.C. MILANO REGISTRAZIONE TRIBUNALE DI MILANO N.362 DEL 17/06/2002 REDAZIONE E AMMINISTRAZIONE VIA SENATO 12, 20121 MILANO TELEFONO 02 36560007 E-MAIL: [email protected] [email protected] [email protected] al foro traiano c’è la “bottega dei sapori della legalità”. come fossimo nella colombia del “cartello di medellín” I PRODOTTI DELL’ITALIA LIBERATA venda salsicce prodotte nelle zone del Merseyside recuperate alla legalità? Nemmeno il più acceso leghista avrebbe potuto immaginare una tale dimostrazione di disprezzo per le regioni meridionali. di Emilio Mordini arco Ulpio Traiano, primo imperatore non italiano, nacque in Spagna il 18 settembre del 53 d.C. La sua fu una carriera da soldato: mentre era governatore della Germania fu scelto come erede da Nerva al quale subentrò il 27 gennaio del 98, all’età di 45 anni. Fece il suo ingresso a Roma a piedi, come un cittadino qualunque. Qui scelse come dimora un palazzo modesto dove visse sobriamente per tutti i venti anni durante i quali governò l’Impero con saggezza e discernimento. La sua fama è dovuta principalmente alle imprese militari. Le campagne di Traiano si svolsero in Armenia, in Arabia e in Dacia. La Dacia era un problema per i Romani. Solo il possesso di questa regione, infatti, poteva permettere di creare una stabile linea difensiva contro le invasioni barbariche. Nei primi cinque anni del proprio impero Traiano riuscì a conquistare la Dacia. Questa M tra caciocavalli democratici e salamelle antimafia, l’impresa di traiano imperatore impresa è celebrata dalla Colonna traiana, alta 40 metri, scandita da un fregio a spirale ornato da 2500 figure che rappresentano gli episodi della spedizione. La colonna, uno dei più noti e affascinanti monumenti della Roma imperiale, sopravvissuta grazie a papa Gregorio Magno, oggi è ospitata ancora dove fu originariamente eretta, nell’omonima piazza di Roma compresa tra il Campidoglio, il Quirinale e il Colosseo. Quale dio li ha accecati? Dinanzi alla colonna traiana l’alacre solerzia dei nuovi governanti dell’Urbe ha voluto ora ricordare un’altra vittoriosa campagna militare. Dal 17 novembre scorso, al numero 84 di piazza Foro Traiano, in un locale ricavato sul retro del cinquecentesco Palazzo Valentini, sede della Provincia, sorge infatti la “Bottega dei sapori della legalità”, un negozio riservato esclusivamente alla vendita di prodotti alimentari provenienti dai terreni confiscati alla mafia. Il progetto – spiega un comunicato stampa della Provincia – nasce da un protocollo d’intesa siglato dal prefetto di Roma, Achille Serra, dal presidente della Provincia, Enrico Gasbarra, e dal presidente di “Libera”, don Luigi Ciotti. Dietro a una robusta grata (non si sa mai), le vetrine espongono caciocavalli democratici, salamelle antimafia, melanzane sott’olio etiche e solidali. Accanto all’ingresso due colorati pannelli bilingue – italiano e inglese – spiegano al cittadino romano e al turista che i Colonna traiana a Roma, © Royalty-Free/Corbis - elaborazione grafica ANNO 5 NUMERO 48 SABATO 2 DICEMBRE 2006 A 1,50 Benjamin Franklin (1706-1790), lettera a J.-B. Leroy del 13 novembre 1789 prodotti venduti nella bottega provengono da province delle terre del Sud Italia faticosamente riconquistate alla legalità: «I cittadini della Provincia di Roma non vogliono più violenza, sangue e morte. Gridano alle donne e agli uomini della mafia e della criminalità organizzata che non c’è più spazio per i loro favori, per il loro denaro, per il loro terrore». Un elenco di cooperative e associazioni senza scopo di lucro responsabili della produzione delle gourmandise, e un avvertimento che i prodotti sono reperibili anche nel circuito Coop (à la guerre comme à la guerre), completano le informazioni. Ho scoperto per caso questa botteguccia, nel corso di una passeggiata mattutina. Quel giorno Roma era bella come non mai. Nell’aria tersa di novembre un sole tie- pido illuminava Via dei Fori imperiali e scaldava i cavalli delle carrozzelle che usano sostare proprio accanto alla Colonna Traiana. Un gruppo di seminaristi domenicani, con la tonaca bianca svolazzante e il domino nero, si affrettava per le scale di via Magnanapoli. Una coppia di ragazze giapponesi fotografava da lontano il Vittoriano e un anziano turista americano – capelli argentati, blazer blu, scarpe da ginnastica bianche – leggeva i pannelli della “Bottega dei sapori” o, forse, s’interessava ai formaggi. Quale dio – mi sono chiesto – ha così accecato i nostri amministratori per far loro compiere un misfatto tanto ignobile ai danni del proprio Paese? Quale demone ha indotto un integerrimo uomo delle istituzioni come il prefetto Serra a voler dare della settima potenza industriale un’immagine degna della Colombia del cartello di Medellín? Che follia ha colpito il presidente Gasbarra per spingerlo a cercare di convincere il turista di passaggio che l’Italia è a tal punto controllata dalla criminalità organiz- forse credono che a parigi si legga tutto il dì “micromega”, e in giappone si discuta di santoro zata che si possa parlare di “territori liberati”? Ve lo immaginate un negozietto a Place Vendôme che spacci formaggi prodotti nei territori liberati della Corsica? O una bottega a Piccadilly Circus che Inguaribilmente provinciali Una parola mi venne alla mente. Provinciale non è solo ciò che riguarda un’unità amministrativa chiamata “provincia”, ma si dice anche di una visione ristretta delle cose. “Provinciale” è pensare che il mondo sia piccino come il proprio limitato orizzonte. Certo, so bene che quella bottega è anche frutto del solito piacere fatto agli “amici degli amici” (i confini del familiarismo amorale si estendono ben oltre Cosa Nostra), ma temo che la faccenda sia più grave dell’ovvia “marchetta” politica. Quanti locali inutilizzati ha la Provincia di Roma, quanti posti diversi si sarebbero potuti trovare? Non c’erano una scuola abbandonata, un palazzotto inutilizzato dove rendere felici i giovanotti di don Ciotti senza produrre troppi danni all’immagine dell’Italia? Ahimè, la scelta del Foro Traiano denunzia una volontà salda, una convinzione pervicace. Costoro credono davvero che il telegiornale più visto in California sia il Tg3, che in Giappone nessuno si perda una trasmissione di Santoro e che i parigini si appassionino leggendo Micromega. Forse non sono in malafede, ma certo sono inguaribilmente provinciali. Il cielo azzurro di Roma imitava un quadro di Annibale Carracci, la Colonna traiana si ergeva impudica celebrando le gesta dell’antico imperatore e le cupole barocche delle chiese di S.Maria di Loreto e del SS. Nome di Maria incorniciavano il Quirinale. I miei occhi caddero di nuovo sulla “Bottega dei sapori della legalità” con le sue inferriate grigio topo finto rococò, così simili a quelle di una villetta brianzola. In lontananza un gruppetto di suonatori sudamericani stava montando gli amplificatori con cui avrebbe diffuso tutto il giorno El Condor pasa. I venditori ambulanti di cianfrusaglie stavano già, tra i fumi del traffico e l’indifferenza dei vigili, coprendo con le proprie mercanzie monumenti e rovine. All’altro capo della piazza un affresco trecentesco, residuo di una chiesa costruita sopra una delle poche insulae romane rimaste quasi intatte, era ormai da qualche settimana imbrattato di feci senza che alcun restauro fosse ancora iniziato e che nessun colpevole fosse stato nemmeno cercato. Pensai a Rodolfo, il mio amatissimo nipote di undici anni che abita a Ferrara, e alla sua deliziosa sorellina Ginevra, e – chissà perché – mi venne in mente che era quasi tempo che i genitori cominciassero a ragionare su dove far fare loro il liceo: se in Francia o in Inghilterra. • Reportage di una bella giornata romana. Ovvero, come deturpare le bellezze della capitale con una sagra dei sapori contro Cosa Nostra. Solito buonismo, condito di stupidità, all’italiana PRIMA GUERRA L’inizio della fine dell’Europa Massimo Introvigne a pagina 2 SECONDA GUERRA Bombe inglesi su Milano Federica Saini Fasanotti a pagina 3 FINESTRE APERTE Viaggio nel terrore: Hezbollah al servizio di Teheran Gian Micalessin alle pagine 6 e 7 CINEMA Sempre meglio il “Farinotti” Luisa Cotta Ramosino a pagina 9 ORGASMICA Tutto sui piaceri della carne Luigi Mascheroni a pagina 10 ARTE Arturo Martini Beatrice Buscaroli a pagina 11 PAPALE PAPALE Se la Turchia vuole entrare in Europa, che ascolti Benedetto XVI IL CIRCOLO ue mesi fa sul viaggio del Papa in Turchia il più sguaiato era stato Prodi. Poi, di fronte al libro thriller apparso giorni addietro nella patria di Ali Agca, Chi ucciderà Benedetto XVI a Istanbul?, la tensione giungeva al culmine. Ma nessuno osava denunciarlo in un’Europa impegnatissima da qualche anno a censurare della Turchia codice penale, repressioni di diritti umani, procedure illiberali. Seppure dettata da tutt’altre sensibilità, anche l’iniziativa del Vaticano è parsa muoversi fra colpi e colpetti del gelido ping-pong diplomatico in atto sul Bosforo. Luogo-simbolo, Santa Sofia: l’antichissima chiesa cristiana, trasformata in moschea nel 1453, alla caduta di Costantinopoli e divenuta museo Da Montecatini l’eredità di Berlusconi. Che passa attraverso i Circoli D negli anni Trenta del XX secolo per volere di Kemal Atatürk. Perché Istanbul non apparisse la seconda Roma, proprio a Santa Sofia i nazionalisti più duri e i fondamentalisti islamici hanno cercato di saldare le loro proteste. Ma la contestazione non ha coinvolto la nazione in profondità. Oggi che la Turchia non combatte più per sottomettere Budapest e Vienna, ma combatte per diventare essa stessa Europa e farsi accettare dagli europei, ai nazionalisti e ai fondamentalisti non si può concedere nessuna freddezza nei confronti di questo Papa. Meno che mai da parte del governo. La moderna nazione turca non è più quella evocata dalla massima autorità religiosa del Paese, il gran muftì Ali Bandakoglu. Geograficamente essa oggi coincide col rettangolo anatolico; storicamente è creazione di quel partito “europeo” dei Giovani Turchi dal quale proveniva Atatürk. Negli ultimi ottant’anni il nazionalismo turco ha mostrato all’Europa muscoli riformisti, fin troppo artificiosi, e orgoglio islamico abbastanza tradizionalista: l’uno contro l’altro, certo, ma talvolta pure l’uno stimolato dall’altro. Secondo Bernard Lewis, la Turchia kemalista si sarebbe “europeizzata”, senza riuscire a “occidentalizzarsi”. Ma un’europeizzazione, isolata da una “occidentalizzazione” a tutto campo è insufficiente. Lo stesso Erdogan talvolta l’avverte. Non si è capito perché abbia temuto di prestare massimo ascolto e massima attenzione alla parola di Ratzinger e al significato profondo del suo viaggio. Integrarsi in Europa per la Turchia implica d’integrarsi ancor più in Occidente. L’agenda del presidente del Consiglio aveva previsto il vertice NATO di Riga. Benissimo. Ma verrebbe garbatamente da ricordargli come l’Alleanza Atlantica altro non sia se non quella scelta di civiltà con la quale l’Occidente ha sconfitto Stalin e i suoi eredi, i quali, per irridere al Papa, amavano chiedere quante divisioni avesse, salvo poi accorgersi che ci sono missioni che si svolgono meglio senza alcuna divisione. Ad esempio, quella di Benedetto XVI in Turchia. • Luigi Compagna Silvio Berlusconi, Marco Respinti, Stefano Caliciuri, Vincenzo Vitale, alle pagine I, II, III e IV POLIS 2 IL DOMENICALE LETTERE FIRMATE Caro Direttore, ho sfogliato con attenzione l’inserto “Speciale Arte e dintorni” al quale, il tuo scritto, conferisce un valore che va oltre la promozione di un’iniziativa “culturale”. Mi inquieta che si pensi che l’arte deve essere “edificante”, che debba piacere alla “gente comune” ed essere ”facile da capire”. Credo che ci sia molto di discutibile su troppe manifestazioni dell’arte contemporanea e non solo dell’arte, ma farlo con pregiudizi e spiegarlo partendo da CatelARTE O lan zigzagando su NON ARTE? Caravaggio e Mantegna per arrivare a insignire “Nove Maestri della nuova figurazione” ce ne passa. Sono certo che tra i nove maestri molti non saranno contenti di vedersi appiccicata questa logora etichetta. Quello che le tue argomentazioni fanno ricordare è un dibattito superato da decenni e comunque non certo appartenente alla cultura di Destra e, forse neanche alla cultura. Franco Sciardelli Caro Franco, hai ragione il mio pregiudizio estetico ed etico nei confronti dell’arte contemporanea è talvolta inqualificabile. Ma vedo con gli occhi le schifezze dell’arte contemporanea e le interpreto col cuore. Certo se usassi la ragione, dovrei ammettere che questa che chiamano ius iniuria Caro Direttore, nel riordinare la mia piccola biblioteca domestica ho verificato, non senza un certo sconforto, come buona parte dei miei costosissimi manuali di diritto siano ormai del tutto superati. È la conseguenza dell’attivismo del governo Berlusconi che, in cinque anni di legislatura, ha riformato il diritto societario, quello fallimentare, la procedura civile, il diritto penale d’impresa, l’ordinamento giudiziario e chissà quali e quante altre materie di cui, per mia fortuna, non mi occupo. Il signor Prodi ci farà pagare certamente più tasse ma, a giudicare da quello che ha fatto il suo ministro di Giustizia nei primi sei mesi di attività, credo proprio che almeno risparmierò sull’acquisto dei testi giuridici. AGG arte è davvero l’arte contemporanea, e che se così viene definita lo è di certo, ma non riesco davvero a rassegnarmi. E poi è ovvio che i nove maestri della figurazione esposti a Milano sono anch’essi contemporanei, essendo ancora vivi. Caro Direttore, vorremmo brevemente cogliere l’occasione dell’interessante dibattito sollevato dall’articolo del Domenicale “Fine delle trasmissioni” del 14 ottobre e poi riaperto questa settimana con “Il peggio della tv italiana”, portando la nostra esperienza di Focus Documentaries, distributore di contenuti audiovisivi su territorio nazionale e internazionale. Di ritorno dal MIPCOM 2006, mercato di riferimento mondiale per contenuti Tv e nuovi media, possiamo affermare e confermare quanto viene scritto nel vostro articolo. Esiste un fermento nuovo e sempre più marcato che mette le tv generaliste mondiali di fronte a scelte di campo sempre più nette. La sfida a cui già oggi, ma soprattutto nel vicino domani, le tv generaliste non potranno sottrarsi sarà fidelizzare e trattenere la propria audience che, sempre più, verrà incuriosita e attratta a migrare verso le nuove tv, IPTV (o web Tv) e la “Tv tascabile” (o mobile Tv). Nonostante esistano ancora oggettivi limiti soprattutto per la mobile tv (di costi - per il traffico generato quando questa è in streaming o downloading, e di formato – per le ridotte dimensioni del display), questi nuovi media stanno vivendo una prima fase di sperimentazione e di divulgazione che apre scenari inediti nel mondo del broadcasting. E, certo, fossimo “qualcuno” all’interno di una tv generalista, non esiteremmo a investire in una direzione: qualità. È una preziosa regola del mercato: quando aumenta la competizione, quando entrano in gioco nuovi players, è la qualità che fidelizza il consumatore ovvero nel nostro caso l’audience. Però, esiste un però per l’Italia. In Italia l’anomalia si riscontra nell’insufficiente capacità (volontà?) del broadcaster nazionale pubblico di investire in coproduzioni e partnership con produttori indipendenti italiani che non appartengano già alla “schiera dei pochi eletti”, stabilendo un unicum – ahimé in negativo – rispetto ai suoi pari anche solo in Europa. Ciò comporta che nel campo della produzione televisiva, spesso, si verifichi una fuga di cervelli con progetti di produzione di qualità verso l’estero (Europa, Stati Uniti) in cui la qualità sembra trovare più ascolto e maggior credito. Del resto, la cartina di tornasole di quanto diciamo è ancora una volta confermato dall’ultimo MIPCOM. Mentre risulta agevole intercettare ed incontrare networks del calibro di ZDF (Tv di Stato tedesca) e WGBH-NOVA (Tv di prestigio scientifico statunitense) e discutere di un progetto di produzione di valore scientifico sul global warming, risulta inverosimilmente complicato – per non dire impossibile – incontrare le nostre Tv di Stato che, per vocazione, dovrebbero essere divorate dall’ansia di “informare, educare e intrattenere”. Mariachiara Martina Roberta Colangelo (www.focusdocumentaries.com) Ora sta finendo il secolo XX In morte di uno degli ultimi combattenti francesi della Prima guerra mondiale, Jacques Chirac ha sbagliato ancora una volta commento. E, ancora una volta, a vederci giusto è Benedetto XVI di Massimo Introvigne PARIGI, NOVEMBRE – Ti svegli a Parigi, in una mattina di novembre baciata da un sole primaverile, e la radio ti comunica che sta finendo il secolo XX. Ci sarebbero molte altre notizie per animare l’attualità, eppure i giornali radio si aprono parlando della morte di Maurice Floquet (1894-2006), che avrebbe festeggiato 112 anni a Natale. Floquet non attira l’attenzione perché è vissuto più a lungo del normale, ma perché, morto lui, rimangono in Francia solo quattro ex combattenti della Prima guerra mondiale, il più giovane – si fa per dire – dei quali (l’unico che può partecipare, al fianco di Jacques Chirac e di tutto il governo, al funerale di Floquet) si chiama René Riffaud e ha 107 anni. In Europa i veterani di quella che per i nostri vecchi era l’unica vera Grande Guerra sono solo una decina. Quando morirà l’ultimo – e hanno tutti più di 106 anni – sarà davvero finito il secolo XX. Sento Chirac affermare, così di prima mattina, che la Prima guerra mondiale è stata la pagina più gloriosa della storia francese dell’ultimo secolo, e provo un senso di disagio. Devo dire che non ho niente contro gli ex combattenti della Grande Guerra, non solo perché – per quanto forse un po’ abbellite dai media – le gesta di Floquet, due volte ferito gravemente e due volte tornato in prima linea, sembrano proprio quelle di un bravo e valoroso soldato, ma anche perché mio nonno paterno fu tra quei discendenti d’immigrati italiani, con passaporto argentino, che anziché rimanere tranquillamente in Sudamerica, forse entusiasmati anche dagli spettacoli patriottici dove danzatrici vestite – anche qui si fa per dire – con il solo tricolore invitavano i giovani di origine italiana ad arruolarsi, decise di venire a combattere come volontario e per poco non lasciò la pelle a Caporetto. Il valore individuale dei combattenti non è in questione, né mi sognerei mai di offendere il nonno. Tuttavia ancora una volta la retorica di Chirac mostra una nozione della storia europea profondamente sbagliata. Per capire perché basta confrontarla con la speciale attenzione alla Prima guerra mondiale del cardinale Joseph Ratzinger, prima e dopo di diventare Papa Benedetto XVI, un nome che tra l’altro ha scelto sia in omaggio a san Benedetto (480-543) – perché si tratta, come ai tempi del santo di Norcia, di ricostruire una civiltà sulle rovine di un vecchio mondo che sta morendo – sia a Benedetto XV (1854-1922), che insieme a Carlo d’Asburgo (1887-1922) – l’ultimo imperato- il papa di oggi si chiama come il papa che, con il beato carlo d’asburgo, fu l’unico a cercare di fermare «l’inutile strage» re d’Austria proclamato beato da Papa Giovanni Paolo II il 3 ottobre 2004 – cercò di fermare quella che chiamava «l’inutile strage». Il fatto che il Papa e l’erede del Sacro Romano Impero non fossero presi sul serio quando avanzavano obiezioni morali contro quella guerra (non contro le guerre in genere, così che sarebbe improprio presentarli come antenati del pacifismo), dà già di per sé una misura di quanto fosse grave la crisi morale dell’Europa. Per Benedetto XVI la Prima guerra mondiale non solo è molto più importante della Seconda per capire le radici della crisi dell’Europa, ma è anche alle origini della Seconda e delle altre guerre mondiali, le quali derivano tutte da cambiali non pagate della Grande Guerra. Il risentimento delle popolazioni di lingua tedesca dopo la Prima guerra mondiale porta al potere Adolf Hitler (1889-1945) e genera la Seconda guerra mondiale. Le vicende della Prima guerra mondiale consentono ai comunisti di prendere il potere in Russia e di scatenare, dopo la Seconda, la Ter- Caro Direttore, con mio grande piacere da circa un anno acquisto e leggo con gusto il Dom, uno di quei pochi giornali capaci di affrontare in maniera non sempre convenzionale, ma sicuramente acuta le più interessanti tematiche di attualità politica, artistica e sociale. Volevo esprimerle il mio rammarico nel leggere le pubbliche dimissioni di Filippo Facci poiché ritengo che il suo modo di scrivere pungente e talvolta tagliente sia sicuramente una importante risorsa culturale per il Domenicale e di ottimo stimolo per i suoi lettori. Spero (mi permetta l’illusione) di poter leggere Contraltare come ogni settimana e di leggere ancora la firma di Facci. Mauro De Chiara aro Direttore a proposito della Commissione Mitrokhin, di cui è stato presidente, Guzzanti scrive:«Lo scandalo di cui mi sono occupato io è stato sepolto da “misure attive” e nessuno nel centrodestra, neanche Berlusconi, ha usato i risultati della mia commissione non dico come clava, ma neanche come uno stuzzicadenti». Ebbene, se Berlusconi non ha “usato” in alcun modo le meraviglie della Mitrokhin, forse ciò si deve al fatto che la commissione non ha prodotto molto di spendibile sul piano storiografico, giudiziario, culturale e politico. Una Commissione parlamentare che non usa, col fine di conseguire risultati probanti e inconfutabili, i poteri di cui dispone (rogatorie internazionali, magari in quel di Praga, Sofia e Washington, dove risiedono informati generali dell’ex Kgb; acquisizione degli atti della commissione parlamentare tedesca sull’impero economico gestito dalla Stasi; escussione di altri testi-chiave, incriminazione di testimoni reticenti o falsi...); una Commissione che non giunge a legittimare i propri lavori con un voto finale, ebbene tutto ciò ci ha lasciato delusi. In più, la situazione di un presidente di commissione in conflitto d’interessi, visto che da giornalista di razza, nonché vicedirettore de il Giornale, Guzzanti non riuscì a non far trapelare notizie sui lavori. Quando però gli giunsero notizie in apparenza esplosive su Prodi, Guzzanti appose il segreto; dopo di che, adesso, a segreto vigente, firma articoli in cui di quei segreti parla («i rapporti fra Prodi e le autorità sovietiche erano nati intorno al 1978 e poi si erano sviluppati con grande ampiezza e in molti campi, funzionando come una continua promozione politica, sociale ed economica»), tant’è che riporta la soffiata secondo la quale Prodi, da presidente Ue, avrebbe mantenuto «relazioni segrete con le strutture dell’ex Kgb». Perché mai, allora, la secretazione? Infine, che cosa ha scoperto la Mitrokhin? Scrive Guzzanti:«...durante i lavori della Commissione Mitrokhin avevo già sco- C S A B AT O 2 D I C E M B R E 2 0 0 6 za guerra mondiale, la cosiddetta Guerra fredda. Né ha torto chi sostiene che l’abolizione del califfato da parte di Kemal Atatürk (1881-1938) nel 1924 dopo il crollo dell’Impero Ottomano – un altro “prodotto” della Prima guerra mondiale – ha un ruolo decisivo nella nascita del moderno fondamentalismo islamico e quindi nelle cause remote della Quarta guerra mondiale, quella scatenata dall’ultrafondamentalismo islamico contro l’Occidente. Nel suo La cattedrale e il cubo. Europa, America e politica senza Dio (trad. it. Rubbettino, Soveria Mannelli [Catanzaro 2006]), il teologo cattolico statunitense – amico di Benedetto XVI come lo fu di Giovanni Paolo II – George Weigel ricorda le parole, pronunciate all’inizio della Prima guerra mondiale, dal ministro degli Esteri britannico sir Edward Grey (1862-1933): «Le lampade si stanno spegnendo in tutta Europa, e nella nostra vita non le vedremo mai più accese». E quelle di Winston Churchill (1874-1965) in una lettera alla moglie: «Un’ondata di follia ha sconvolto la mente della Cristianità». Per Weigel, come per Benedetto XVI, la domanda cruciale non è solo «Perché la guerra comincia?», ma «Perché nessuno la ferma? Perché non c’è nessuno con la volontà, l’autorità, o l’immaginazione morale e il coraggio necessari per tirare il freno d’emergenza quando è chiaro che il treno della civiltà europea sta marciando verso uno scontro di dimensioni catastrofiche?». Eppure, come argomentavano Benedetto XV e il beato Carlo d’Asburgo, qualunque scopo ragionevole invocato dalle nazioni per continuare il conflitto avrebbe potuto essere raggiunto per altra via, evitando milioni di morti. Il nazional-laicismo Mentre un “complottismo” di bassa lega riduce l’estrema complessità della storia a un unico grande macrocomplotto, esistono certamente nella storia microcomplotti con obiettivi specifici. Una vasta letteratura cattolica attribuisce l’ostinazione nel promuovere e continuare la Prima guerra mondiale alla volontà dei nazionalismi e delle massonerie di orientamento anticlericale di volere non solo sconfiggere, ma eliminare per sempre dalla carta geografica quanto sopravvive dell’ultimo impero sovranazionale e cattolico, l’Impero Austro-Ungarico. Una parallela letteratura diffusa nel mondo islamico attribuisce più o meno alle stesse forze – i nazionalisti (questa volta arabi) e le società segrete – l’uso strumentale e tragico della Prima guerra mondiale per distruggere nell’area a maggioranza musulmana l’ultimo impero sopranazionale e religioso, quello Ottomano, con conseguente fine del califfato. Il discredito in cui sono giustamente cadute le teorie sui macrocomplotti non esclude che vi siano elementi di verità nella ricostruzione storica dei microcomplotti. E tuttavia la domanda che pongono il regnante Pontefice e autori come Weigel va oltre, e potreb- be essere così riformulata: ammesso che vi siano complotti, perché nascono e perché si servono di uno strumento così intrinsecamente perverso come la Prima guerra mondiale? La risposta deve andare indietro nel tempo, e risalire alla nascita dei nazionalismi europei come apologie della nazione che si costruiscono separandola dalla religione (considerata pericoloso fermento di sentimenti di appartenenza a comunità più ampie di quelle nazionali, in specie la Cristianità), anzi combattendo la religione. Nazionalismo e laicismo in Europa sono indissolubilmente legati, fin dalla Rivoluzione francese, nonostante l’esistenza di pensatori – minoritari – che cercano di fondare nazionalismi su basi religiose. Il nazionalismo francese e tedesco che è alla base della Prima guerra mondiale (e la sua versione un po’ parodistica dell’Italia nazional-massonica di Francesco Crispi, 1819-1901) avanza strettamente legato alla laïcité e al Kulturkampf, tentativi di espellere la religione dall’agone pubblico, in teoria confinandola alla sfera privata ma in pratica inseguendola e combattendola tramite l’educazione e la scuola laicista anche in quella sfera. Con la Prima guerra mondiale maturano le conseguenze inevitabili del laicismo. Aveva ragione Benedetto XV: un’Europa senza Cristo non è in grado di fermare la guerra, per ragioni anche politiche ma anzitutto mora- è la prima guerra mondiale, più che la seconda, la vera origine della crisi europea che ancora impera li. Il nazionalismo, continuando a procedere abbracciato al laicismo come fanno due storpi che cercano di sostenersi a vicenda, è diventato nazionalismo senza nazione, dunque – nei termini di Benedetto XVI – nichilismo. Per questo, la Prima guerra mondiale – se nella vita individuale di tanti nostri nonni è stata un momento di coraggio e di gloria che li ha segnati per tutta l’esistenza – per la storia collettiva dell’Europa non è stata quella promessa dolorosa ma ultimamente feconda di pace e di felicità permanente che una certa propaganda esaltava, ma una strage inutile e non necessaria, che ha preparato i grandi crimini del XX e del XXI secolo: il nazionalsocialismo, il comunismo, l’ultrafondamentalismo islamico. Ancora una volta, ha torto Chirac e ha ragione Benedetto XVI. La morte degli ultimi combattenti della Prima guerra mondiale, la vera fine del secolo XX, dovrebbe essere l’occasione perché, oltre che in linea di fatto, un secolo denso di crimini e di stragi, dai gas asfissianti della Grande Guerra fino ai lager e ai GULag, finisca finalmente anche in via di principio. • Alcune considerazioni sulla Commissione Mitrokhin Giancarlo Lehner critica i risultati dell’inchiesta parlamentare condotta da Paolo Guzzanti e che oggi torna d’attualità perto che la sede sovietica della società Nomisma a Mosca era in joint-venture con l’“Istituto Plehanov”. E che questo istituto altro non era che il nome di copertura della sezione economica del Kgb». A dire la verità, della Nomisma a Mosca, ospitata in un ufficio statale, si venne a sapere quasi tutto nel 1991, benché nessuno – Sismi, classe politica, Procure – trovasse il coraggio di chiederne conto a Prodi, già graziato dalla Commissione Moro e dalla Procura di Roma per la bufala della seduta spiritica e poi salvato anche dal manipulitismo a senso unico. La stessa appendice della Commissione non è stata un modello: il dottor Agostino LA MITROKHIN RISCHIA DI ESSERE CONTROPRODUCENTE PER IL CENTRODESTRA. MENTRE POTEVA ESSERE UN DURO COLPO PER PRODI & C Cordova, in qualità di consulente, stende una relazione, ben articolata e, talora, con gustose puntualizzazioni ironiche, evidenziando i risvolti penali. Guzzanti, senza consigliarsi magari con lo stesso Cordova, invia la relazione alla Procura di Roma, la quale decide, com’era prevedibile, di richiedere l’archiviazione. Tuttavia, non risulta che Guzzanti abbia proposto opposizione. Intanto, però, emergono altre spiacevoli circostanze che autorizzano ulteriori dubbi sul rigore delle attività investigative, vedi le derive di Carlo Scaramella, sedicente professore “colombiano”, finito nel 1991 nel mirino delle Procure di Napoli, Salerno e Santa Maria Capua Vetere per millantato credito, abuso di titolo e abuso di potere. Uscitone indenne, lo stesso Scaramella si ritrova, il 12 marzo 2004, al centro di una misteriosa sparatoria ad Ercolano sulle pendici del Vesuvio. Davanti alla puzza di bruciato di uno che vanta mille titoli e delicate incombenze sin dalla più tenera età, Guzzanti, invece di prendere le distanze, dichiara: «Sono solidale con il professor [sic!] Scaramella». Fatto è che questo sedicente esperto addirittura di “mine atomiche” parla troppo e magari, come dicono a Caltanissetta, a matula, attribuendo all’universo mondo degli 007, Fsb russi, Sismi italiani e quant’altri presunti agenti internazionali, deviati e non, confidenze e rivelazioni che non stanno diritte in piedi su alcun riscontro. Così quanto è provenuto da Scaramella su Prodi, Br e altro, di per sé, non ha affatto danneggiato Prodi e la sinistra, arrecando, invece, danni alla credibilità della Mitrokhin. Mafie e servizi quasi ossessionati dall’imperativo di assassinare Scaramella e Guzzanti è l’ulteriore corollario. Tuttavia, come in una comédie de boulevard, anche questa notizia venne fatta passare per buona, tant’è che il presidente della Mitrokhin dichiara: «... viaggio sotto scorta di secondo livello, come l’ambasciatore israeliano». La Commissione “Scaramella” ha nociuto non solo alla verità, alla storiografia, financo alla cronaca, ma anche all’immagine di Forza Italia e del Centrodestra. Chiunque avesse posseduto conoscenza delle regole della Lubjanka doveva ben sapere che dopo il niet di Putin all’apertura di certi archivi, solo venditori di fumo potevano promettere rivelazioni sensazionali. Oppure, si dovevano sborsare somme certo non alla portata di Scaramella. Parlo di 200-300 mila dollari, non i 2/300 euro offerti a Litvinenko. Scara- mella, inoltre, ha speso invano, millantando, anche il nome di Berlusconi, quando il leader di Forza Italia non sa neppure chi sia il “professore colombiano”. Scaramella e Guzzanti, peraltro, non hanno badato al pericolo incombente, sulla Mitrokhin, di strumentalizzazioni e polpette avvelenate provenienti da quanti combattono ben altra battaglia, quella diretta, da parte degli ex oligarchi perseguiti, cacciati o scappati dalla Russia, a demonizzare e criminalizzare Putin. Guzzanti, senatore della Repubblica, si presta, così, a far sua la guerra privata di Berezovskij e soci verso il capo di uno Stato attualmente amico dell’Italia, senza neppure porsi la domanda se siano davvero gli oligarchi (già padroni dell’intera economia russa grazie a privatizzazionitruffa) i “buoni” e le “vittime”. La stessa “fonte”Litvinenko, uno dei combattenti dalla parte degli oligarchi, nonché vittima di un avvelenamento mortale, mostrò il suo fastidio verso Scaramella: «Con Mario siamo andati in un ristorante giapponese vicino a Piccadilly. Io ho ordinato il lunch ma lui non ha mangiato niente. Sembrava molto nervoso. Mi ha consegnato un documento di quattro pagine. Voleva che lo leggessi subito... Il documento era una e-mail, non un documento ufficiale. Non ho capito perchè sia venuto a Londra per darmelo quando avrebbe potuto mandarmelo con una e-mail». Certo, Scaramella non può entrarci nell’avvelenamento dell’ex ufficiale Fsb, tuttavia, è finito in un maledetto affare troppo più grande di lui. Infine, lo stesso Guzzanti, forse travolto da siffatti consulenti, ha denotato di non saper utilizzare dati arcinoti, come l’intervista di Prodi al Corsera il 20 agosto 1991. In quell’infelice esternazione, tutta favorevole ai neobolscevichi golpisti, Prodi ammise la presenza a Mosca della sua Nomisma e l’amicizia col capo dei putschisti, Valentin Pavlov. Ecco le avventurose affermazioni di Prodi: «Conosco bene Pavlov... Direi che per certi versi quella che ha fatto in queste ore è una scelta coerente. Mi aspetto entro pochi giorni passi decisivi per quanto riguarda la gestione dell’economia». Dalle sue parole, insomma, sembra che non sia accaduto nulla di importante, in Urss, il 19 agosto 1991: «Il telex che abbiamo avuto stamattina dal nostro istituto [Nomisma, ndr] parla chiaro. L’anno accademico, la cui inaugurazione era prevista proprio per oggi, è regolarmente iniziato». Prodi aveva già preso una terribile cantonata pochi giorni prima, affermando che non c’era al mondo Paese più stabile dell’Urss, ma, davanti al golpe, la sua miopia tocca livelli inauditi: «Non mi pare il caso di aspettarsi una sollevazione popolare a favore di Gorbaciov... E secondo i nostri analisti [della Nomisma, ndr] nemmeno Boris Eltsin, che è assai più popolare dispone di una rete capace di promuovere una sollevazione [sic!].» Insomma, Prodi s’era impiccato da solo. Bastava leggere l’intervista e citarla. Guzzanti, avendo fretta, s’inventò che Prodi avesse affermato «di essere intimo amico del signor Kriutshiev, capo sia del Kgb che della cricca golpista...». Un falso inutile. Prodi non rivelò mai contiguità col Kgb, pur essendo ovvio che, senza il consenso della Lubjanka, nessuna Nomisma, ma neanche una pizzeria, sarebbe mai approdata a Mosca. Per questo ritengo che la Mitrokhin sia stata un’occasione gettata al vento. Mi dispiace per Mario Scaramella, a cui auguro ogni bene, e ancor più per Paolo Guzzanti, a cui seguito a non voler affatto male. • Giancarlo Lehner Caro Lehner, il Domenicale ha seguito con molta attenzione i lavori della commissione Mitrokhin cercando di pubblicizzarne i risultati, anche con una lunga intervista al presidente, Paolo Guzzanti. Oggi, come tu stesso noti, l’affare si è molto ingrossato e ha preso vie pericolose, sono convinto in contrasto con le buone intenzioni di Guzzanti di fare luce su un capitolo oscuro dei rapporti tra i servizi segreti russi e la politica italiana. Dare un parere informato nel pieno dello svolgimento dei fatti, alla luce anche del tragico caso Litvinenko, è cosa per me impossibile, nonostante abbia seguito i lavori fin dall’inizio con passione storica e diligenza professionale. Sono convinto che Guzzanti potrà rispondere, dalle nostre pagine, alle tue precise considerazioni. Angelo Crespi L’ALTRA STORIA S A B AT O 2 D I C E M B R E 2 0 0 6 IL DOMENICALE 3 LO SCAFFALE DELLA SAGGISTICA Quella tragica notte di San Valentino e certe “sante” bombe alleate MILANO, QUANDO PIOVVE FUOCO L’aviazione britannica attaccò la città 60 volte in meno di 6 anni. Ma quel 14 febbraio 1943 resta difficile da dimenticare di Federica Saini Fasanotti sultò che l’effetto delle bombe dirompenti fu devastante sulle antiche case in muratura, prive di collegamenti in cemento armato (come in via Mario Pagano, con edifici abbattuti su un’area di 600 metri). Purtroppo per Milano, i giorni di paura non finirono con i bombardamenti di quella notte. Ad agosto le missioni divennero ancora più intense: tra il 12 e il 13, furono ben 504 gli aerei a volare su Milano. Gli incendi divamparono ovunque, distruggendo il Castello, la Questura e la chiesa di san Fedele. Altri due attacchi, nelle notti tra il 14 e il 15, e tra il 15 e il 16, colpirono anche l’Archivio di Stato, causando la perdita di numerosi documenti. Stolto tra i mortali è colui che distrugge le città e abbandona alla desolazione i templi e le tombe, sacre dimore dei morti; egli stesso in seguito è destinato a perire. Euripide ncora prima dell’entrata dell’Italia in guerra a fianco della Germania, l’intero Paese fu sorvolato da aerei inglesi in ricognizione. Già nel giugno 1940 iniziarono infatti i primi bombardamenti sulla città di Milano, anche se non furono disastrosi come i successivi. Milano, da sempre città all’avanguardia nell’industria italiana, fu ritenuta da subito un obiettivo militare sensibile: gli inglesi erano infatti riusciti a procurarsi notizie da dettagliate mappe della città e della sua provincia, con particolare attenzione alla location delle fabbriche più importanti: Alfa Romeo, Officine Galileo, Magneti Marelli, Pirelli, Officine Borletti, Breda, Ansaldo e Isotta Fraschini, tanto per citarne alcune. Milano, inoltre, era uno snodo ferroviario vitale: 21 linee ferroviarie si diramavano sul territorio permettendo scambi commerciali e di persone. A conflitto iniziato, Milano contava poco più di un milione di abitanti, la maggior parte dei quali concentrata nel centro storico, la parte della città più vulnerabile in termini militari, proprio perché fortemente abitata, con case le une vicine alle altre, e strade strette. Fu così che i bombardamenti sulla città da parte degli inglesi si concentrarono, fino a tutto il 1943, sulla città “civile” e poi, dal 1944, su quella industriale. A IL CIELO SOPRA MILANO Il testo qui riportato è un ampio stralcio della relazione che Federica Saini Fasanotti ha tenuto ieri, venerdì 1° dicembre, al convegno di studi “Milano & il cielo. L’aviazione in Lombardia tra mito e realtà”, organizzato da Ares presso il Museo Nazionale della Tecnica e della Tecnologia “Leonardo da Vinci”. Dove non si è parlato solo di guerra e distruzione, ma anche e soprattutto della grande passione che da sempre lega la città e le sue terre all’affascinante pratica del volo. Dalla collezione aeronautica custodita presso il Museo alle odierne problematiche degli aeroporti lombardi, attraverso il ricordo di quei milanesi che hanno scritto la storia dei nostri cieli, come Paolo Andreani (primo italiano a volare in pallone, un anno dopo i fratelli Mongolfier) e Rosina Ferrario, prima italiana col brevetto di pilota. E ancora, economia e impresa, grazie alla presenza di Augusta Westland, leader mondiale del settore elicotteri. GLI ATTACCHI Gli attacchi furono inizialmente notturni, preceduti dal passaggio di aerei pathfinder, i segnastrada, che lanciavano bengala per illuminare il cielo e mostrare la rotta ai bombardieri. Dopo il 1943, invece, si passò a incursioni anche diurne: gli aerei di solito partivano dalla Puglia. Il primo attacco su Milano fu dopo solo un giorno dall’entrata in guerra: l’allarme suonò alle 2,02 della mattina e cessò dopo quasi due ore, alle 3,44. Alcuni razzi provocarono la caduta di un cornicione a San Barnaba. Dall’11 giugno al 31 ottobre, gli allarmi furono ben 30, anche se alcuni, per fortuna, andarono a vuoto. Se il 1941 trascorse tranquillo, il 1942 vide due grossi bombardamenti a fine ottobre, tra il 24 e il 25. Secondo il rapporto della Prefettura furono danneggiate le zone di via Pantano, dell’allora Corso Roma (oggi porta Romana) fino a corso Buenos Aires. Anche il carcere di San Vittore venne colpito, tanto da permettere la fuga a un centinaio di detenuti. Il 1943 fu un anno duro, e la guerra fece sentire tutta la sua crudezza: la razione di pane giornaliera scese a 150 grammi, i buoni del tesoro persero valore e ci si diede al baratto per cercare di sopravvivere. Nella notte tra il 14 e il 15 febbraio ci fu una pesante incursione aerea, ben documentata nella relazione della Prefettura milanese, stilata dal generale di Divisione Giovanelli e indirizzata al ministero della Guerra, il 25 marzo 1943. Va detto che Milano non era semivuota come Torino anche perché, sino ad allora, l’unica incursione pesante era stata quella del pomeriggio del 24 ottobre 1942. Era domenica e la popolazione era pressoché al completo: 1.250.000 abitanti, perché due giorni dopo si sarebbe dovuta riprendere la scuola. I FATTI Il cielo era sereno, con buona visibilità su tutta l’Italia Settentrionale e Centrale, e vento debole proveniente da ovest. Le condizioni ideali per una incursione nemica, tanto che non sarebbero serviti neppure i bengala per illuminare la città. In effetti, nelle prime ore della sera ven- nero segnalati passaggi aerei da Troyes e Auxerre. Alle 21,15 l’MCA comunicò che Berna era in allarme e un minuto dopo entrarono in all’erta anche Milano e provincia. Un’ora dopo, alle 22,06, in seguito alla segnalazione di diverse squadriglie dalla Valle d’Aosta, fu dato l’allarme. Il cielo venne subito difeso e alle 22,30 il lancio di razzi illuminanti segnalò l’arrivo dei velivoli. Lo sgancio delle prime bombe avvenne dopo solo 2 minuti. La relazione è alquanto vaga sul numero degli aerei da bombardamento, ma è estremamente precisa sui tipi di bombe e sugli effetti che causarono. Vennero lanciate 85 bombe dirompenti da 250, 500, 1.000 e 2.000 libbre, oltre che bombe incendiarie al fosforo e circa 15.000 spezzoni incendiari che caddero in particolare nella zona del centro e sui popolosi quartieri di Porta Sempione, Porta Romana e Porta Vigentina. Gli aerei arrivarono sulla città da due direzioni diverse: i primi da nord a ovest, passando a oriente del Monte Rosa, lungo la linea del confine italo-svizzero, e sorvolando Varese; i secondi da est, sfilando a occidente del Bernina e scendendo da Bergamo e Brescia. L’attacco di numerose pattuglie nemiche, durato poco più di un’ora – 68 minuti per la precisione – fu incredibilmente distruttivo, forse anche per il fatto che l’azione era stata svolta da oltre 50 apparecchi da bombardamento pesante, di diverso tipo: Halifax, Stirling, Lancaster. Paradossalmente, la zona industriale di Sesto San Giovanni, Monza e Rho non fu oggetto di alcun attacco. Il cessato allarme venne dato alle 0,05. Come già nella precedente incursione del 24 ottobre 1942, la città apparve circondata da un’enorme corona di incendi (circa 1500), quasi il doppio di quelli verificatisi nell’incursione precedente. L’AZIONE DI DIFESA Alle 22,35, la 5^ e la 25^ Legione della Milizia Artiglieria Contraerea, entrarono in azione svolgendo tiro da caccia e da interdizione. Quest’ultimo venne effettuato 8 volte successive, usando proiettili incendiari e ordinari. Oltre, ovviamente, alle armi automatiche. In tutto si ebbe una frequenza, a cielo difeso, di 195 proiettili al minuto. Va detto, però, che al primo consistente impiego di proiettili da 90/53, fatto proprio il 14 febbraio, si ebbe un risultato negativo, perché la contraerea sparò a “ombrello” anziché a “sbarramento in caccia”. I DANNI INFLITTI AL NEMICO Dopo un mese, in base a diverse segnalazioni pervenute da vari Comandi, venne accertato l’abbattimento non di 2 (in base alle indicazioni iniziali), ma di 3 aerei nemici: uno, caduto in fiamme in via Boffalora, nelle vicinanze del Molino della Polvere, esplodendo nell’impatto a terra, aveva proiettato i resti su vasta zona. Vennero rinvenuti un cadavere intatto e i corpi maciullati di due aviatori. Il resto dell’equipaggio, un pilota e due sergenti inglesi, fu catturato il giorno dopo. Un secondo apparecchio venne visto cadere tra Mercallo e Inveruno, ma non essendo stati trovati i resti, sorge spontaneo qualche dubbio. Come per il terzo, caduto a ovest. LE VITTIME Le vittime furono 217 (molte più delle 133 stimate inizialmente) delle quali 214 identificate. Tra loro, ben 197 erano civili: gente che con gli obiettivi militari non aveva nulla a che vedere. I feriti furono 504: 473, anche in questo caso, civili. I DANNI E I SOCCORSI Gli edifici danneggiati furono in numero di gran lunga superiore rispetto a quelli colpiti nella precedente incursione dell’ottobre 1942: allora ne vennero completamente distrutti 23; a febbraio, invece, ne furono rasi al suolo ben 203! Furono distrutte case signorili e popolari, laboratori, teatri, depositi, chioschi, edicole, cinema, ristoranti, impianti sportivi, uffici, scuole e musei. A incrementare i danni si aggiunsero quelli causati dall’onda di scoppio e dal fuoco che si era velocemente propagato. Gli edifici non abitabili vennero stimati in 423, in 956 quelli che lo erano parzialmente e in 2.784 quelli ancora vivibili. Non rimasero incolumi neppure alcune aziende, la sede del Genio Civile, l’Archivio di Stato, il Collegio delle Fanciulle e la Caserma Medici, oltre a numerose scuole di ogni grado. Gravissimi, e stimati in 3 milioni di lire, furono i danni che l’antico Ospedale Maggiore riportò in seguito a quell’attacco. Come il Palazzo dell’Arte (1.350.000), il Museo di Storia Naturale e i Giardini Pubblici (170.000), la Villa Reale e via Palestro (200.000). Interessante per comprendere l’atmosfera di quei momenti è un brano della In via Espinasse cadde una bomba del calibro superiore a 500 kg che provocò un imbuto di oltre 10 metri per 3 di profondità, e il crollo di un intero stabile. Il rifugio nello scantinato era affollato da una sessantina di persone suddivise in due celle diaframmate di tavolati con interstizio di sabbia. Le 22 persone sistemate nella prima cella rimasero uccise sul colpo, e altre 20 persone trovarono la morte nella seconda, violentemente sbattute dal soffio propagatosi attraverso la parete di comunicazione. Solo grazie alla parete di sabbia, gli altri ebbero via di scampo. A essere colpiti, inoltre, furono i servizi pubblici: l’acquedotto, il cui funzionamento però, grazie al tempestivo intervento delle squadre specializzate, venne ripristinato già il 16; l’azienda del gas, quella elettrica e quella tranviaria, oltre, ovviamente, ai telefoni e ai telegrafi. Che dire poi della Stazione Centrale? Il suo complesso sistema era un bersaglio scontato, facilmente distinguibile dal cielo: una rilevante quantità di spezzoni incendiari cadde sopra le grandi tettoie, distruggendo vetri e assi in legno, forando la volta e finendo nelle sale di attesa, nella galleria della biglietteria, in quella del deposito bagagli e in quella delle carroz- IPOTESI DI GIUDIZIO Uno studio di Franco Budriesi, citato da Massimo Cartone su Storia Militare, presenta dati sconcertanti: se Milano nel 1940 annoverava 969.354 locali abitativi, nel 1945 quelli distrutti risultano essere circa 250.000, per un totale di 3 milioni di mq distrutti, la maggior parte dei quali in centro e non nella periferia industriale. Dal giugno 1940 alla primavera 1945 le incursioni aeree furono quasi 60 e provocarono circa 2.000 morti, 3.600 feriti e mezzo milione di senza tetto. Argomento sfruttato anche dalla propaganda della RSI: in una vignetta del disegnatore Enrico Gianeri, detto Gec, tratta dal satirico Codino Rosso di Torino, una ragazza piange; a consolarla due soldati americani e uno sovietico: «Perché ti disperi? Ti abbiamo liberata dai fascisti, ti liberiamo dai tuoi ciarpami artistici e dal grasso superfluo. Poi il compagno Ivan provvederà che tu lasci questo sole troppo caldo e vada a rinfrescarti in Siberia». Gli ordigni aerei incendiari, non espressamente vietati dai codici di guerra, furono impiegati nel modo più distruttivo possibile contro palazzi e abitazioni, andando oltre il disegno di paralizzare i collegamenti e l’economia di un paese. M.L. Berneri, anarchica, scrisse nel giugno ’43: «Quando viene bombardato il porto di Napoli, a soffrire è soprattutto il quartiere operaio e densamente popolato nei suoi dintorni. Le bombe non colpiscono le ville sontuose dei ricchi fascisti lungo le spiagge della baia napoletana; colpiscono gli alti edifici a più piani talmente ammassati l’uno sull’altro che le strade si riducono a stretti passaggi bui». Vera Brittain, scrittrice e femminista inglese, profetizzò di fronte ai bombardamenti alleati del ’44 : «la fredda crudeltà che ha causato la distruzione di vite innocenti nelle città europee più popolate, e il vandalismo che ha annientato i tesori storici in alcune delle città più belle, apparirà alla civiltà futura come una forma ars italica L’urbinate Barocci e gli emuli suoi Influenze di un “libero” pittore n artista sul quale abbiamo riflettuto poco è Federico Fiori, detto il Barocci (Urbino 1535 – 1612). Pittore dallo stile e dalla tecnica personalissimi, libero come nessun altro, ritenuto da Federico Zeri e altri storici un anticipatario precursore dei tempi nuovi, incarna quell’ideale di artista che la Riforma cattolica andava cercando allo scadere del Cinquecento e che, invece, difficilmente trovò. Egli è lontano da ogni schematismo iconografico e dal conformismo devozionale, e la sua pittura emotiva e ricca di dolcezza risentì anche dell'influenza del Correggio e del cromatismo veneto. Indimenticabili sono alcune pale d’altare come il Martirio di San Sebastiano (1557, Urbino, ANNA MARIA AMBROSINI, cattedrale), il PerMARINA CELLINI dono di Assisi (A CURA DI), (1569 – 69, UrbiNEL SEGNO no, Galleria NaDI BAROCCI. zionale delle MarALLIEVI E SEGUACI che), l´AnnunciaTRA MARCHE, zione della VergiUMBRIA, SIENA, ne (1582 – 84) e la Federico Motta Visitazione (1583 Editore, Milano, pp. 456, ¤75,00 – 86, Roma, Chiesa Nuova). Per scelta trascorse la sua vita nella natìa Urbino, se si eccettua il breve periodo romano (1561 – 1563) in cui lavorò insieme a Federico Zuccari nel casino di Pio IV in Vaticano. Eppure, questo artista che potrebbe sembrare così provinciale, ebbe vastissima influenza soprattutto nell’Italia Centrale, tra allievi, seguaci, epigoni, imitatori… Un importante libro scandaglia ora il panorama di questo influsso: Nel segno di Barocci. Allievi e seguaci tra Marche, Umbria, Siena, a cura di Anna Maria Ambrosini e Marina Cellini. Una mappatura di assoluto interesse storico, che ingloba pittori anche mediocri insieme a bellissimi pennelli che per molti lettori saranno una sorpresa. Per esempio, Antonio Viviani detto Il Sordo di Urbino; oppure Alessandro Vitali, forse il più dotato e famoso per la Natività della Pinacoteca Ambrosiana e per Il perdono di Sant’Ambrogio, gioiello del Duomo di Milano. Anche Terenzio Terenzi, detto il Rondolino, ha lasciato dei raffinati lavori nelle Marche. Michele Dolz U gervasate Un novello Pierino sui grandi del ‘900 Lietamente politically uncorrect on è un diario, non è una raccolta di articoli, non è un insieme di aneddoti. Per certi versi è tutte e tre le cose, per altri è un’autobiografia di uno dei più abili e narcisi giornalisti italiani. E non è un caso che il titolo, Ve li racconto io, sfiori la dimensione colloquiale e le dia una certa venatura solipstica. In questi libri ci sono tutti: da Montanelli a Prezzolini, da Reagan a Kohl, da Craxi a Berlusconi, da La Capria a Bevilacqua, da Agnelli a Bertinotti. Tutti, raccontati nel modo più parziale e soggettivo possibile, frammentario, ma abbastanza rappresentativo. C’è Eco, ad esempio, che dice che i nostri intellettuali devono sputare nel piatto in cui mangiano. E Gervaso, che gli risponde che ROBERTO «i nostri intelletGERVASO, tuali, nel piatto VE LI RACCONTO IO, in cui mangiano, Mondadori, Milano, non sputano: pp. 442, ¤18,00 vomitano. Per averci mangiato troppo». C’è Biagi, che per l’autore è «un bicchiere di lambrusco, che bevi anche se non hai sete. E, dopo averlo bevuto, lo ribevi, fino a vuotare la bottiglia. Ma senza conseguenze: non sei neanche brillo». C’è Longanesi, che pubblica un libro giapponese che non aveva mai letto, solo per il nome dell’autore: Orinawa Suimuri. E c’è perfino Cuccia, che dice che «un banchiere può commettere due peccati: uno veniale e uno mortale. Quello veniale è scappare con la cassa. Quello mortale è dare un’informazione riservata». Nel momento in cui appaiono pamphlet su venerati maestri e cataloghi di italiani notevoli, questo di Gervaso è forse il migliore libro sui protagonisti della cultura nostrana del Novecento. Si può sopportare o no il suo narcisismo, ma gli vanno riconosciute l’irriverenza e l’inopportunità che in altre opere non ci sono. Gervaso se ne frega. E questa specie di colto «pierinismo» rende una raccolta di testi una miniera di divertissement intellettuali e godibili calembour. Filippo Maria Battaglia N In alto al centro: i primi soccorritori arrivano in via Darwin, la mattina del 25 ottobre 1943, dopo una notte di bombe Qui sopra: la stessa mattina, un caseggiato di via Osella A destra: i colpi dei bombardieri britannici non risparmiarono nemmeno la chiesa di Santa Maria delle Grazie (sopra) e l’Ospedale Niguarda (sotto) già citata relazione, che descrive la distruzione di via Disciplini (23 abitazioni completamente distrutte e 500 vani annullati). Cito, nello specifico, il testo riferito a un singolo vecchio edificio (al civico 12) con i solai in legno che, colpiti dalle bombe, avevano rovinosamente ceduto: «Un gran volume di macerie è stato proiettato dentro lateralmente e nella direzione della strada lo stesso terrapieno è stato smosso. Nonostante la gravità del crollo, cinque persone furono salvate mediante un difficile lavoro di penetrazione attraverso le cantine del numero 14, condotto con abnegazione da operai che per due giornate e due notti hanno insistito, con grave pericolo proprio e procedendo cautamente mediante successiva puntellazione, fino a raggiungere i sepolti rimasti illesi in vari punti delle due celle». ze. Ci volle un giorno per spostare il materiale caduto, ma alle 8 della mattina dopo i treni ripresero lentamente a circolare. A muoversi (prima, durante e dopo l’incursione) furono innanzitutto la Questura con i propri agenti, i carabinieri e gli uomini della Milizia Volontaria. Vennero poi impiegati 1.639 tra ufficiali e vigili del fuoco affluiti in città da Bergamo, Como, Varese, Pavia, Brescia, Cremona e Piacenza. La Croce Rossa, come d’altro canto l’UNPA, fu ostacolata nel suo lavoro dalla mancanza di linea telefonica. Il collegamento coi gruppi rionali, allora, venne fatto attraverso staffette. L’esercito venne impiegato nello spegnimento degli incendi, nel salvataggio dei feriti, nel recupero delle salme e nello sgombero delle macerie. Molti soldati, come si vede nelle foto, si distinsero per abnegazione. In seguito agli accertamenti fatti, ri- estrema di malattia criminale dalla quale i nostri leader politici e militari hanno volontariamente scelto di venire colpiti». In realtà, questa civiltà futura inizia a riflettere su ciò soltanto ora e nessuno ha mai osato pensare che Churchill o Roosevelt fossero malati criminali. La Seconda guerra mondiale è passata alla storia come la guerra giusta delle democrazie contro i malvagi fascismi. Se questo è vero, non vanno dimenticati i mezzi con cui è stata combattuta: quelli usati dai regimi totalitari. Il democratico George Orwell, addirittura, nei suoi interventi sulla Partisan Review e alla BBC disse che il pacifismo inglese era una sorta di filo-nazismo. Qualcuno dirà: occhio per occhio, dente per dente. Ma è un vero peccato che una terza posizione non sia mai stata presa in considerazione. • LA REPUBBLICA DELLE LETTERE 4 IL DOMENICALE LO SCAFFALE DELLA CRITICA belle scritture Il Lucentini e le donne S A B AT O 2 D I C E M B R E 2 0 0 6 Quanto era bello giudicare: eutanasia Sinfonia azzeccata di abili pettegole iciamo così: Lucentini ha deciso di scrivedi Beppe Benvenuto re un giallo, e non un romanzo, solo per el 1974 Guido Piovene, in occauna predisposizione innata verso il gesione dell’avvio de Il Giornale nere. Ma il suo libro, del giallo, ha pochissimo. È nuovo di cui è uno dei fondatori, infatti – perdonate la parolaccia – un romanzo accanto a Indro Montanelli, Enzo Bettipolifonico. La sua qualità più interessante sta za, Cesare Zappulli etc., ma di cui sopratproprio in questo. Otto voci, otto donne: la bitutto è il responsabile delle parti culturadella, la barista, la carabiniera, la figlia, la miglioli, dichiara che la critica giornalistica è, re amica, la giornalista, la volontaria, la vecchia oramai, entrata in uno stato che è ardito contessa. Più la vittima, anche lei donna: Milena definire confusionale. Più precisamente, Martabazu, «anni ventidue, arrivata clandestina nel proporre una sorta di dichiarazione in Italia dalla Romania quattro anni fa. E poi il sodi intenti di quella che sarà la “terza” del lito curriculum». Considerata l’originalità della quotidiano milanese, dice di avere come struttura, che si traduce in una forma dietetica la sensazione, quando osserva il panoragodibilissima, l’autore tranquillizza subito il letma della cultura sui media, di assistere tore: il morto, anzi la morta, la mette subito nel allo spettacolo «di una perpetua incensaprimo rigo. Poi, per tuttura, come nelle funzioni sacre, dove si to il libro, si diverte nelCARLO FRUTTERO, DONNE INFORMATE vede sempre un prete che gira con turila descrizione (da un SUI FATTI, bolo e incensa gli altri a turno». angolo prospettico eviMondadori, Milano La spiegazione? Oscilla fra la considedentemente maschile) 2006, pp.196, e16,50 razione amarognola, il dato di costume, la di una vicenda tutta al constatazione che tempi e condizioni femminile. Ed è il solito cambiano ma non sempre in meglio. Lo Lucentini quello che riesce a ritrarre i tic di queste scrittore e giornalista vicentino aggiunge protagoniste che si autodescrivono in brevi capiche una volta «ogni grande giornale, per toli, ovvero in memorie investigative nelle quali ogni ramo importante della cultura, la letsono sempre in conflitto con un maschio o con la teratura inventiva, la saggistica, le arti, il propria parte virile. Così, la bidella se la prende teatro di prosa, la musica, più tardi il cinecol marito Cesare, «un fifone e un vigliaccone», ma, aveva un critico autorevole e la carabiniera col proprio capo, «uno stronzo insindacabile, su cui nemmemaligno», la figlia con l’ex compagno, e o i p no il direttore osava intervia proseguendo, perché «le donne s co i r venire. La sua era una sono più sensibili, più delicate, ci pe NOI SENTIAMO cattedra, di cui difensanno fare coi sentimenti, le disfortemente l’eticità della deva il prestigio, sograzie, i lutti, quelle cose lì». Un stenuto dalla città giallo che non è un giallo con vita intellettuale, e ci muove il intera. Oggi, in alpochissimi uomini e moltissivomito a vedere la miseria e l’ancuni rami, al posto me donne, le uniche, pare, gustia e il rivoltante traffico che si di quel critico ve che valga la pena di racconfa delle cose dello spirito. n’è uno sciame, la tare. Del resto, come ci dice la Giuseppe Prezzolini, da La nostra promessa, cattedra è svanita, bidella a inizio romanzo, in La Voce, 27 dicembre 1908, ora in la città ha altro per «tutti gli uomini sono grosso Il secolo dei manifesti. Programmi delle la testa, nessuno modo così, niente grane, per la riviste del Novecento, a cura di vuole compromettercarità, niente complicazioni. È G. Lupo, Aragno, Torino si in queste condizioni. per questo che vanno con le putta2006, p.51 Gli interessi premono. Le ne: un momento di dolce intimità in case editrici e i giornali sono macchina, paghi il dovuto e chi si è visto, ormai diventati vasi intercomunisi è visto, anche se poi salta fuori che si sono canti. Il critico di giornale è autore di rubeccati il virus». Filippo Maria Battaglia D N così va il mondo Da Platini al trogolo Come una vincita può rovinarti la vita latini si mosse al piccolo trotto in senso diagonale. Guardò la palla in possesso di un avversario e poi guardò all’indietro verso la difesa. Si spostò verso la fascia destra del campo. Fece qualche passo in avanti e qualche passo indietro. Poi chiamò la palla su una rimessa laterale…». Questo è l’attacco di un racconto che si muove ai confini dello sport, ma poi affronta nodi dolorosi che sono oggi argomento di un acceso dibattito. Platini FRANCESCO RECAMI, dà come il calcio d’iniL’ERRORE DI PLATINI, zio a un libro duro, imSellerio, Palermo 2006, pietoso, in cui il calcio, e12,00, pp.112 lo sport, funge come da sfondo quotidiano. Più avanti incontreremo di nuovo Platini: «solo nel prato dietro al Consorzio Agrario. Era moderatamente soddisfatto della sua giornata, aspettava che lo riportassero al suo trogolo»: evidentemente non si tratta più di Michel, il magico 10 della Juventus. Questa trasformazione è come la metafora dell’intero testo. Una notevole vincita al Totocalcio cambia l’esistenza di una coppia “normale”, due trentenni come tanti, Gianni e Sabrina, un lavoro sicuro. Sarà il denaro, eterno demonio, a dilaniare le loro vite precipitandole nel buio. Una scrittura asciutta, fredda, racconta questa perdita progressiva dell’umanità. Cosa accadrà nelle ultime pagine è un dramma che qui non si può raccontare. A.B. «P noir d’Africa Khadra, voce dell’erg Deliri kafkiani in paesaggio magrebino ambiente suggestivo dell’ondeggiante erg magrebino è l’unico elemento referenziale nel romanzo breve dell’algerino Yasmina Khadra, pseudonimo di Mohammed Moulessehoul. In un’atmosfera noir e misteriosa, l’anonimo protagonista coinvolge il lettore nel proprio vorticoso flusso di coscienza, riportando alla luce la propria adolescenza di reietto, escluso da ogni rapporto umano, anche famigliare. L’inconsistenza dell’essere è dunque esaltata dalla mancanza di realtà contingenti: il giovane non ha nome – persino la madre lo chiama come il fratello – ed è YASMINA KHADRA, sostituito nel ruolo di fiCUGINA K, glio dall’amata e odiata Edizioni Lavoro, cugina K, il suo potenRoma 2006, ziale alter ego. I monopp.75, e8,00 loghi del giovane, relegato in un’angosciante solitudine, svelano una psiche lacerata e tormentata dall’assurdità di una vita che lo emargina. Le umiliazioni subite nell’ambiente di donnetiranno in cui è cresciuto scatenano in lui violenti raptus che lo conducono a compiere atti brutali nei confronti della piccola cugina K e, in età adulta, di una giovane contadina. Riproponendo alcuni canoni del romanzo moderno, quali l’introspezione psicologica alla Arthur Schnitzler (La signorina Else) e la poetica dell’assurdo kafkiana, Khadra conclude la narrazione dal ritmo litanico, spesso interrotta da inaspettati flashback, con un episodio cruento, risultante di una climax di angosce e d’inquietudini irrisolvibili. L’ farsi capire a una serie di domande retoriche, per poi alla fine toccare il punto. Accettare ogni cosa Ecco le domande: «Chi ha il coraggio di prendere una posizione critica di fronte alle avanguardie, ammettendone (con larghezza) quello che è interessante e nuovo, ma rifiutando le idiozie pure, semplici ed evidenti? Chi distingue più l’erotismo, anche sboccato, che ha la sua ragione espressiva, da quello già stanco di tanti, noioso pedaggio pagato a un rito obbligatorio? La critica dovrebbe scoraggiarlo, non la censura! Chi si oppone agli arbìtri di certi registi?». E così via discorrendo, scivolando, scivolando giù giù sempre più verso il basso. In realtà, spiega sempre l’autore di Lettere a una novizia, bisogna mettersi nell’ordine di idee di «accettare (o ammirare) tutto quello che avviene». Il giudicare allora diventa un optional, quasi una forma di malagrazia, un’espressione di cattivi umori, una maniera, persino sgarbata, per mettersi fra parentesi o addirittura fuori gioco. Difatti ciò cui normalmente si assiste è una sorta di «rifiuto di giudicare, mascherato vecchia solfa quella del non prendere mai posizione, male atavico. e che ingarbuglia orde d’intelletti nostrani di elogio, un elogio con fondo gelido, pieno d’indifferenza, spavento, magari disprezzo». Il discorso poi si conclude con una generica dichiarazione di «buona fede» e di impegno a «lodare solo ciò che ha un valore» (Guido Piovene, Incensatura, in Il Giornale nuovo, 15 giugno 1974). Storie di antico servaggio Insomma, quella descritta da Guido Piovene altro non è che una sorta di situazione da semi paralisi del pensiero. Una forma speciale di mancanza di volontà nell’esercitare sino in fondo quel determinato mestiere, appunto, di critico, che si è scelto di svolgere. Nelle parole dello scrittore vicentino c’è però anche dell’altro: la presa d’atto che il non prendere posizione, possibilmente mai, è, a sua volta, un male antico. Ha alle spalle secoli di servaggio, tanto da apparire quasi un’attitudine, innervata nel Dna, degli intellos dello Stivale. Un male quasi identitario. Un misto di conformismo naturale cui va aggiunta una sorta di allergia a parlar chiaro, a ma- Beppe Benvenuto è docente di Storia del giornalismo nelle Università di Milano (Iulm) e Palermo. Giornalista professionista, collabora a diversi periodici ed è autore e curatore di numerose pubblicazioni, tra cui si ricordano Elzeviro (2002), Giuseppe Prezzolini (2004) e La malinconia del critico (2005). In basso: particolare, raffigurante l’apostolo Luca, di un manoscritto del sec. X degli Atti degli Apostoli e dell’Apocalisse eseguito a Costantinopoli a destra: Guido Piovene (1907-1974) briche fisse in riviste settimanali delle case editrici, direttore di collezioni, lettore, consulente. Tutti ammirano, ne sono certo, la raffinatezza raggiunta dai ‘risvolti’ pubblicitari che accompagnano i libri, vere e sottili critiche elogiative. L’autore è qualche volta lo stesso del libro, ma più frequentemente un critico. Nessuna meraviglia se gli articoli di giornale assomigliano poi ai risvolti». Eppoi a seguire c’è ancora dell’altro. Quest’altro, Guido Piovene, lo bolla come terrorismo culturale. Una forma di pressing, più o meno indiretto, che crea ambiente, determina atmosfera, ma soprattutto che “funziona”. Esempi? Molti. Guido Piovene ricorre (sono passati più di trent’anni da quella denuncia che, per tanti versi, sembra attualissima) per Qualche riflessione sulla necessità della stroncatura In un’epoca in cui molti sconsigliano di bastonare gli scrittori perché questi morirebbero di crepacuore, quattro critici “moschettieri”, in un pamphlet edito da Donzelli, riportano in auge un genere. E noi ci rallegriamo assai ualcuno la considera un genere letterario. Fra i più complessi e delicati cui dedicarsi. E che di solito non gode di molta popolarità. La stroncatura. L’arte della critica negativa di un’opera letteraria, o artistica in genere. Spauracchio degli scrittori, anche di quelli più navigati, e sadica soddisfazione per i critici. Un gioco di equilibrio fra umori e oggettività dello stroncatore, fra gusti e finezza di naso nello stornare il vero talento da furbesche approssimazioni. La farina dalla crusca, insomma. Oggi c’è chi la rimpiange e chi invece se ne rammarica. Questo a giudicare da recenti appelli e prese di posizione che hanno animato il nostro asfittico panorama letterario. Prima il buon Baricco, su la Repubblica del primo marzo scorso, si lamenta del fatto di non ricevere la dovuta attenzione da critici professionisti del calibro di Pietro Citati e Giulio Ferroni. Non essendo oggetto nemmeno di una stroncatura come si deve, ma solo di frecciatine acide (ma in seguito otterrà la giusta soddisfazione). Poi Roberto Cotroneo, sull’Unità del 5 settembre scorso, chiede venia per il suo passato di feroce stroncatore, mettendo in guardia sulle conseguenze nocive per l’autostima e per il progredire della pratica letteraria che tale malsana attività, se non adeguatamente arginata, può ingenerare. Q Dolce esibizione di nulla I due episodi sono l’antecedente e la reazione più “celebre” a un libricino edito da Donzelli, in cui quattro noti critici letterari mettono Sul banco dei cattivi autori italiani di notevole successo di pubblico. Giulio Ferroni, docente di letteratura italiana a “La Sa- pienza” di Roma e autore, fra l’altro, della Storia della letteratura italiana edita da Einaudi Scuola, inaugura il libello riflettendo sul mancato affondo critico di Baricco, nei suoi saggi e in particolare ne I Barbari, pubblicati da quest’estate su Repubblica, che fa da pendant alla superficialità in materia di contenuto e di intenti dei suoi romanzi: in sostanza «una dolce esibizione di nulla». Massimo Onofri, invece, docente di critica letteraria presso l’Università di Sassari e collaboratore di diverse riviste letterarie, punta il dito contro l’ultimo Campiello, Salvatore Niffoi, e mostra di non apprezzare neppure Erri c’è chi la guarda con sprezzo e la vorrebbe innocua, ma l’arte dello scudisciare è il sale del pensiero De Luca e Isabella Santacroce. Criticando, nel primo, il tentativo fallito di raggiungere il sublime dal basso, in modo quasi grottesco; nel secondo riconoscendo un «eclatante caso di estetismo degradato di massa»; infine, per quanto riguarda la Santacroce, Onofri parla di un caso di «giovanilismo». Esempi di come miti e ideologie (rispettivamente la Sardegna arcaica, la lotta di classe e le vite allo sbando) vengano ripensati in letteratura in base a esigenze di mercato. Segue Filippo La Porta, saggista e collaboratore de L’Unità, che fa il contropelo a un intero genere letterario: il Nuovo Giallo Italiano. Obiettando sulle ragioni del suo successo con un ca- talogo dei motivi per i quali il NGI non riesce a essere all’altezza della tradizione inaugurata da Sciascia né a rinnovarsi, essendo privo di un personale modo di concepire il giallo e il noir. In ultimo, Alfonso Berardinelli, critico letterario e scrittore, una delle firme del Sole 24 Ore e del Corriere della Sera, indirizza una lettera accorata all’ex allievo Tiziano Scarpa, cui rimprovera l’esibizionismo che gli fa indossare maschere e adottare artifici con cui inquina la propria prosa letteraria. Invece che culturale, propone un modello narcisista. Salvare il grano dal loglio Sul banco dei cattivi. A proposito di Baricco e di altri scrittori alla moda (G. Ferroni, M. Onofri, F. La Porta, A. Berardinelli, Donzelli, Roma 2006, pp.96, ¤10,90) è un pamphlet onesto, vergato in modo garbato e rispettoso. Infatti gli aspetti della personalità degli autori non vengono mai presi di mira in modo fine a se stesso, ma sempre in funzione del discorso letterario. Che non si risolve in una presa di posizione contro la persona, bensì in opposizione ad alcuni modi di concepire e fare letteratura. E infatti Berardinelli lancia lo strale infuocato quando afferma che «il problema oggi non è il giudizio, ma la carenza o mancanza di giudizio». Questo è il nocciolo della questione. Che dà ragione di un’iniziativa editoriale come Sul banco dei cattivi. Per la quale non si può certo parlare di posizioni critiche d’avanguardia, ma della volontà di mostrare anche le ombre di autori “inflazionati”, forti di un pubblico e di un sistema che li tutela. È il significato dell’operazione in sé che dovrebbe essere considerato co- me sprone a utilizzare l’acume critico anche per andare controcorrente. Valutando il bello e il brutto, il buono e il cattivo, dei grandi così come dei piccoli. Recuperando la sana vecchia stroncatura in funzione autenticamente culturale. Infatti, perché si stronca se non per stimolare e far progredire il dibattito culturale, rendendo anzitutto un servizio al pubblico? Se poi ci manca lo spirito giusto e non ci sostengono le gambe, guardandoci alle spalle, possiamo rivolgerci a un intero secolo. Quello da poco passato. Per esempio, Stroncature di Giovanni Papini, Scoperte e massacri di Ardengo Soffici e Plausi e botte di Giovanni Boine nascevano e si alimentavano quando le polemiche letterarie e la battaglia sui testi disegnavano il panorama culturale d’inizio secolo. Quando c’era spazio per riviste come la Voce. Quando crisi dell’intellettuale significava porsi con urgenza delle domande sul suo ruolo. E in un modo o nell’altro lavorare per non fargli perdere la dignità. Parlare sempre di sé Scrittori e critici erano sempre più battaglieri, fino a mettere in atto un ulteriore approfondimento durante il secondo dopoguerra, quando nuove riviste letterarie (che sono lo specchio del tempo; si veda a proposito Il secolo dei manifesti. Programmi delle riviste del Novecento recentemente pubblicato da Aragno), come Il Politecnico, Il Menabò, Paragone, dettavano il passo. Quando stroncare non significava solo dar sfogo a malcelati livori. O porgere il tergo a interessi superiori. Fino ad arrivare in qualche caso a prostituirsi. Oggi, invece, che cosa rimane? A parte il dibattito su fiction e faction, emblema di come il nume dello spettacolo abbia sostituito il sacro dio dell’arte, a parte la voglia di farsi pubblicità a ogni costo, l’importante è far parlare di sé, anche male va bene, e a parte falsi moralismi che celano l’asservimento a logiche di potere e di mercato che pre- è ora di smetterla di lustrare il tergo ai potentini e dire le cose come stanno. con arguzia e onestà tendono di dettare i gusti del pubblico, spesso purtroppo riuscendoci? Qualche Blog e poche sbiadite stroncature. E di posto ce ne sarebbe. A partire dalla Terza pagina dei quotidiani. Forse il luogo più adeguato, prima ancora di raccoglierle in saggi e consegnarle alla grande distribuzione libraria. Senza dimenticare che lo scrittore ha una responsabilità culturale, e quindi implicitamente e indissolubilmente morale, nei confronti del suo pubblico, così come chi è chiamato a esprimere un parere professionale in merito. Convinti di questo, crediamo sia giusto valutare in modo positivo la provocazione dei quattro di Donzelli. Senza con questo voler inaugurare la moda della stroncatura, auspicando piuttosto di ritrovare la giusta fermezza per dire ad alta voce cosa e perché si consiglia di leggere come, per esempio, i bei romanzi di Irene Nemirovsky, oppure si sconsiglia come, sempre per esempio, l’ultimo romanzo di Andrea De Carlo. • Elena Inversetti LA REPUBBLICA DELLE LETTERE S A B AT O 2 D I C E M B R E 2 0 0 6 della critica letteraria italiana Aveva già capito tutto, all’incirca trent’anni orsono, Guido Piovene quando, muscolarmente, bacchettava la “terza” e cos’era diventata, poco più che un risvolto pubblicitario. Da allora, chi non lo sa, molto è peggiorato. Analisi d’autore sul senso di un mestiere da reietto, il critico nifestare senza troppi indugi ciò che effettivamente si pensa. Un vizio talmente antico da essere perfettamente registrato da Voltaire nel suo Candide quando mette in bocca al senatore veneziano Pococurante la seguente e profetica frase: «In tutta la nostra Italia, si scrive solo quello che non si pensa». Eppure non bastano vizi e servitù di vecchia posta (quelle insomma denunciate da Guido Piovene) per spiegare la difficoltà crescente in cui si dibatte la cosiddetta critica militante. Una situazione così al meno che persino le discussioni che, di tanto in tanto, si accendono fra gli addetti ai lavori, non riescono a nascondere. La guerra alle Liale, Carlo Cassola e Giorgio Bassani, ne è l’esempio più clamoroso e conosciuto. Su questo terreno già così dissestato, il Sessantotto, l’onnipresenza e onniveggenza della politica, accanto al trionfante, fra gli accademici, tentativo di fornire statuto scientifico a una disciplina così labile e per- E dopo i pontefici? Il nulla Si sa, la critica, da anni, a fasi alterne, viene data per finita o quantomeno agonizzante. Capita così che alcuni prendano lo spunto per dichiarare la partita chiusa a partire dalla sua progressiva marginalizzazione rispetto ai gangli effettivi del potere culturale. Altri più volenterosi suggeriscono invece delle vie d’uscita che però appaiono ben presto vie di fuga (è ad esempio il caso dei molti presi dalle varie sociologie letterarie, oppure di coloro che ricorrono a grafici, freccette e tendenze di mercato). Per la maggioranza si tratta di un dato di fatto attribuibile a cause che sono, più o meno, riconducibili alla già citata (ai tempi dell’ottimo Guido Piovene) invadenza degli editori (a cominciare dai doppi e tripli lavori di tanti critici), al venir meno della centralità sociale del ruolo del letterato (sia nelle vesti del creativo che in quelle del critico) e così via. Va notato inoltre che la crisi del mestiere, curiosamente, coincide anche con la progressiva uscita di scena di quel gruppone di critici-critici (Giuseppe Antonio Borgese, Pietro Pancrazi, Emilio Cecchi eccetera) e dei loro eredi più prossimi (Luigi Baldacci, Geno Pampaloni eccetera) che ha dominato le patrie lettere dagli anni Venti in avanti. Ai quei pontefici e al loro modo di intendere la professione in effetti non sono subentrate individualità altrettanto spiccate. Sono scomparsi cioè senza lasciare veri eredi, al massimo qualche brillante epigono. Nel frattempo la stagione dell’impegno aveva fatto i suoi bei guasti, seguita dal cosiddetto avanguardismo che aveva tagliato quasi alla radice i primi sistematici germogli di romanzo all’italiana. sonale come la critica, hanno fatto il resto. Spiaccicate le uova e la frittata l’è bella e pronta. In parallelo intanto giocava la sua partita il giornalismo generalista, che col pretesto di svecchiare, metteva in forse l’esistenza di quella terza pagina tradizionalmente sinonimo di approfondimento culturale e di spazio riservato alla critica. Si attribuiva facilmente basta un personaggio di voltaire a dirci tutto: «in tutta la nostra italia, si scrive solo quello che non si pensa» alla terza ogni sorta di nefandezza, a cominciare dall’essere astratta, avulsa dalla realtà di tutti i giorni (peggio: campana di vetro), ultima spiaggia del vecchio gazzettismo nostrano. Da eliminare quindi al più presto per far posto a quel giornalismo culturale che avrebbe finalmente riportato lettere e belle arti dentro il grande alveo della cronaca e dell’informazione tout-court. Imperativo: adattarsi all’andazzo A questo punto, in mezzo a tante negatività, sarebbe quasi straordinario pensare che la funzione classica del critico non sarebbe entrata in una crisi radicale. Non ha più ragion d’essere per certi versi, per altri non ha motivo quasi di esistere. Si aggiunga poi il carattere nevroticamente paralizzante che il boom della televisione ha avuto sull’intero universo della carta stampata. EVVIVA LA “CONGREGAZIONE DEGLI APOTI”, LO DICE ANCHE SCHOPENHAUER he l’istituto, vero e proprio edificio un tempo austero e un tanto demoniaco, della recensione sia ormai inutile, patria di orde di senzatetto, lo scriviamo da ere. È esercizio da passacarte, ai tempi d’oggi. O da portaborse, che è uguale. Tu dai una cosa a me e io ti ricambio con una recensione. Che non smuoverà truppe di lettori (e quando mai...), e che al limite, ripiegata nell’album apposito, farai sbirciare ai nipoti prima della fine dei tempi. La recensione, in soldoni, non traghetta pensiero, ma è il banco sbancato dove si riscuotono crediti o si ripaga un favore. I geni, come sempre, avevano capito tutto da se- C coli. William Faulkner, a cui le recensioni non importavano nulla, stimolava l’arte del “passaparola” per ricavarci qualcosa da quei libri illeggibili. Arthur Schopenhauer, nello spocchioso ingresso alla prima versione del Mondo come volontà e rappresentazione, dopo aver dato grosso modo del fesso al suo lettore, gli dice punto che se non capisce un’acca del libro, questo sarà ben utile a «riempire un vuoto nella sua biblioteca», o bella mostra farà «sul tavolino da tè della sua colta amica». Infine, ed «è la soluzione migliore» che il filosofo consiglia, «egli può [...] farne una recensione». Che è, come dire, il fondo del barile. Ben venga dunque questa puntuale scudisciata di Beppe Benvenuto. Che abbiamo raccolto, fresca fresca, da un bella rivista di cultura varia, che usa «il dubbio come strumento e stimolo (non come vergogna)», Gli Apoti (Gasm, Termini Imerese, PA, 2006, pp.72, e7,00; [email protected]). Che vuol dire la sigla? La si ricava da un articolo di Prezzolini del 1922 in cui egli auspica a una «Congregazione degli Apoti», ovvero, «di “coloro che non la bevono”». La rivista, diretta da Filippo Maria Battaglia, ospita un articolo di Giulio Andreotti e una serie d’interviste, tra le molte a Massimo Fini, Giorgio Galli e Sergio Romano. • Con l’effetto non tanto collaterale di scatenare una formidabile gara a non essere da meno, a inseguire affannosamente, punto per punto, deliri inclusi, il piccolo schermo in ogni sua nuova avventura. Fra tali giganti, in mezzo a problemi più grandi di lui, in una situazione ambientale da sempre non votata all’ardimento e alla cristallina geometria delle idee, al povero critico resta ben poco da fare. Forse solo cercare di non scomparire, magari tenendosi a galla, magari adattandosi all’andazzo corrente. I suoi commenti non fanno mercato, così almeno si dice, i suoi rari giudizi negativi sanno più di guerra per bande che di opinioni liberamente espresse eccetera eccetera. Ripartire dalla “buona fede” Eppure la critica resta. I critici tutto sommato non abbandonano il campo, qualcuno risulta non del tutto incoerente, magari persino capace di farsi intendere e, perché no, rispettare. Insomma, c’è nella grigia uniformità dell’informazione cultural-letteraria qualche spiraglio di luce, qualche segmento in grado di offrire notizie che siano attendibili, non gridate, ma non perciò noiose e talora brillanti. Tuttavia anche queste nicchie, questi microcosmi talentuosi non riescono ad annullare il messaggio di negatività e marginalità che proviene dall’intera categoria. Non appartengono a una rete a sistema, non hanno vera riconoscibilità. Non fanno soprattutto tendenza. Sono piuttosto realtà disperse e accidentate, alla fin fine, abbastanza eccentriche. Forse non può essere diversamente. Ritengo invece che proprio dal piacere bisognerebbe far ripartire il mestiere, magari ricorrendo addirittura a una parola usuratissima come “buona fede” dei singoli ma non solo dei singoli, per immaginare una situazione futura meno disarmante dell’attuale. Le caratteristiche di cui parlava all’inizio Guido Piovene, in fondo restano i soli vaghissimi, ma non eludibili, architravi di un mestiere, il cui massimo benefit altro non è che la credibilità da spendere presso i lettori, insomma la capacità di essere persuasivi nell’opera di mediazione fra chi scrive e il suo potenziale pubblico. • EXTRA-VAGANZE Reportage dal Noir Fest L’assalto dei Mirmidoni Scherzo in forma di cronaca sulla kermesse che inizierà. Che tanto è sempre la stessa cosa Pensiero con buffetto su un poemetto di gran stazza che fa accostare Tacito a Nabokov nche quest’anno si è svolta una st’anno sponsor del Noir Fest, ha deciso “nuova” edizione del Noir Festi- di chiamare la redazione di Chi l’ha vival: dal 5 all’11 dicembre i vertici sto? e di Studio Aperto, ma una volta sadel giallo all’italiana si sono ritrovati co- puto che le telecamere non si muovevame sempre al Gran Hotel Royal di Cour- no se non c’era il morto o se non s’inscemayeur per incontrarsi, salutarsi, ritirare nava una battuta di sommozzatori pronpremi, grolle e caffè caldi. In un’atmosfe- ti a dragare i laghetti della zona, hanno ra serena e conviviale come quella che si deciso di sospendere le ricerche. Altro colpo di scena l’11 dicembre: può ritrovare soltanto nei filmati promozionali dell’Azienda Promozione Turi- un notissimo giornalista ha creduto di smo, i migliori giallisti italiani hanno in- vedere nella “Casa di Barbie” di una trattenuto il pubblico, di soli giornalisti, bambina tedesca ospite del Gran Hotel sul mistero della propria presenza. An- Royal il plastico della villetta di Cogne. che quest’anno “Ma io che ci faccio Ne ha scritto sul suo giornale e subito si è qua?” è stata la domanda più sentita sia scatenato un vespaio. I vertici della Rai tra gli scrittori che tra gli addetti ai lavori. hanno smentito sottolineando che il plastico di Porta a Un primo moPorta si può vedemento di autentiE UN NOTO GIORNALISTA re soltanto su preco giallo si è avuto SCAMBIÒ LA CASA notazione e solo quando, nella hall DI BARBIE PER IL PLASTICO su visita guidata del Grand Hotel DELLA CASA DI COGNE dal criminologo Royal, un giovane Guido Bruno. giornalista free L’ufficio stampa lance alle prime armi e alla prima edizione, ha iniziato a del Noir Fest ha invece tenuto a sottolisaltare sui divani giurando di aver visto neare che non si trattava della “Casa di Agata Christie in compagnia di Arsenico Barbie” ma della “Casa Napapijri”, anche quest’anno sponsor del Noir Fest. e i vecchi merletti. Gli organizzatori, nell’ultima serata, Subito sedato con i gas di scarico dell’ultimo modello della Mini Bmw, anche hanno ringraziato gli sponsor per aver request’anno sponsor del Noir Fest, il gio- so possibile l’evento. Dopo circa due ore vane è stato coperto con un maglione hanno ringraziato i giornalisti per aver della Napapijri, anche quest’anno spon- dormito e mangiato per sei giorni e gli sor del Noir Fest, e subito portato al caldo scrittori intervenuti per essere da anni dei saloni del Casino della Vallee, anche sempre gli stessi. Giornalisti e scrittori quest’anno sponsor del Noir Fest. Appe- hanno ringraziato a loro volta l’organizna rinvenuto gli è stato spiegato che non zazione mostrando fieri i tatuaggi degli erano né Agata Christie né Arsenico e i sponsor in ogni angolo del corpo. Al tervecchi merletti ma soltanto due delle or- mine della conferenza gli organizzatori ganizzatrici più giovani del festival. Al hanno ribadito di sentirsi orgogliosi, in giovane giornalista free lance alle prime un mondo dove non esistono più le mezarmi e alla prima edizione non è restato ze stagioni e dove i valori non sono più che fuggire terrorizzato. Ad oggi non si quelli di una volta, di organizzare ogni conosce il suo destino. Con l’occasione il anno un festival che è sempre uguale. • Comune di Courmayeur, anche queGian Paolo Serino urante una serata piacevolmente mente, si è testé plasmato a misura della informale e assai gradevole, dopo propria giacca. La sua nuova prova, I aver declamato le lodi della sua Mirmidoni (con, a mo’ di sottopancia, la poesia, quasi per un atto di autodifesa, sigla «Poemetto in tre tempi»; con prefafacemmo osservare a Federico Italiano zione di Giancarlo Majorino e nove disecome una lirica di Paul Celan possa so- gni di Andrea Boyer, Il Faggio, Milano vrastare un poemetto di Ted Hughes o di 2006, pp.32, e10,50; www.ilfaggio.it), è Seamus Heaney. Si scherzava, per l’ap- località lirica piena di “esiliati”. Dall’«arpunto, con garbo – Italiano è un sapiente gentino Rosenstolz, custode d’origine lettore sia di Celan che di Heaney – su ebraica,/ per un quarto italiano» ad Andue grandezze incomparabili. Banaliz- caeus Slocum, da Automedonte a «Maerzando: la schietta ambiguità del tedesco ten, figlio di Roman dai bei capelli». Non contrapposta alla magmatica narratività sarà sfuggito l’andazzo omerico, che c’è, dell’irlandese. Eppure, ed era questo il benché impiastricciato, scosso e antidesenso della nostra provocazione, ci pare clamatorio, al modo con cui Ulisse navistia qui il dilemma, l’incrocio, il solido ga viso a poppa nell’Ulysses di Joyce. C’è, insompitagorico della ma, molto mondo poesia di Italiano. PUÒ UNA LIRICA PASSARE in questo poemetChe è poeta prodiDAL BALTICO ALLA TERRA to dalla navigagioso e felicissiDEL FUOCO, DAI RAY BAN A zione tortuosa e mo, ma che, ci sia OTELLO? SÌ, SE SI È BRAVI complessa, il Balconcesso il buffettico e l’Atlantico, to, manca di icastiil Kazakistan e la cità. Ovvero, si riemerge dal sublime pasto senza sapere Terra del Fuoco, «i Ray Ban/ di Cousteau e i Rolex cinesi», ma anche Otello e Taciperché il cuoco ci abbia invitato a cena. Tant’è, fortunatamente la letteratura to, di cui si riporta una notizia gustosissinon è affare da oscuri padri della religio- ma. È questa zuppetta di spezie la poesia ne, e a noi, se merita, piace il mangiar be- nuova? Chissà, la poesia nuova è fatta da ne in quanto tale. E poi, se la vogliamo genietti del verso, ed è questo che conta. mettere giù dura, Ungaretti ha già fatto E noi non abbiamo notizia di altri che ritroppi danni. Non lui, sia chiaro, ma gli escano a filare così bene l’arazzo della ungarettini a cui bastava un bel senti- propria poesia e per così tante, vaste pamento per tirar fuori qualche sbadato gine come Federico Italiano. Che, ci semverso. Ma torniamo al principio. Italiano bra, vada scrivendo un unico, difforme è poeta dell’“esilio” (essendo, peraltro, romanzo. Si rilegga il precedente libello, egli stesso in esilio quasi permanente a Nella costanza (2003), e si comprenderà Monaco di Baviera). Intendendo, è ov- l’oracolo. In cui pare, altro spaesamento, vio, tale parola nella qualità adamantina mescolare Nabokov a Naipaul, ennesimi e intera di “stato dell’anima”. E qui tor- scrittori dell’esilio, con, rinverdiamo nano a getto Celan e Heaney, moschet- l’unghia, quel difetto lì: e se sotto la glastieri di tale condizione esistenziale, as- sa facesse capo il nulla? Embè, si dirà, sieme ad altri che costituiscono la “tradi- stornando il malocchio, chissà cosa c’era zione” – quasi una sorta di “legge orale” mai dietro la siepe del Leopardi! • – che Italiano, come ogni poeta sano di Federico Scardanelli A D IL DOMENICALE 5 LO SCAFFALE DEI PICCOLI E GRANDI EDITORI a cura di Fabio Canessa ECCO IL PRIMISSIMO GUARESCHI. CHE È GIÀ UN VERO SPASSO già iniziato il conto alla rovescia per festeggiare, nel 2008, il centenario della nascita di Giovanni Guareschi (1908-1968). L’annuncio delle celebrazioni viene dai figli Alberto e Carlotta, che hanno da sempre curato l’opera del padre con grande affetto e passione, seguendo tutte le ristampe dei testi guareschiani. Si tratta in questo caso del primo libro del creatore di don Camillo, pubblicato a puntate su rivista e poi raccolto in volume nel 1941: un romanzo autobiografico, da leggere con gran gusto d’un fiato, nel quale si racconta l’infanzia di Giovannino, l’incontro con l’amata Margherita (nella realtà, la moglie EnGIOVANNINO na) e l’avventuroso GUARESCHI, trasferimento dalla LA SCOPERTA natia Parma alla meDI MILANO, Rizzoli, tropoli milanese. Il Milano, pp.228, e8,40 tutto trasfigurato in una fiaba dal ritmo accattivante, governata da un irresistibile senso dell’umorismo, con risvolti surreali e un fondo di poetica malinconia. Mentre nella provincia parmense, con una sola lira in tasca, bastava guardare una ragazza, un cavallo o una bicicletta, per imbastirci sopra un racconto, limitarsi a pensarlo e tornare a casa contento dopo avere speso quell’unica lira per un caffè, la scoperta di Milano consiste nel capire che «più che avere un’idea, l’importante è non rimandare a domani quel che puoi fare oggi». In provincia per essere felici basta l’immaginazione, a Milano sei «come un ingranaggetto che capiti fra gli ingranaggioni di una macchina in movimento. O si va a È infilare, alla sveltina, all’apposito alloggiamento e comincia a girare assieme agli altri ingranaggi, o ci rimette i dentini». La macchina è la Rizzoli di piazza Carlo Erba, dove Guareschi lavora al Bertoldo, il settimanale umoristico ideato per fare concorrenza al romano Marc’Aurelio. Dopo un geniale incipit fiabesco, dove il Tempo, la Vita, la Morte, la Bugia, la Speranza, la Verità e la Fortuna si accostano alla culla di un neonato, destinato a diventare in futuro il ladro della bicicletta di Giovannino, il romanzo racconta le tappe di un’esistenza insieme comune e speciale dal 1916 al 1941. Numerosi gli episodi spassosi, come quello, rocambolesco, che, attraverso l’annuncio sul giornale della vendita di una caldaia, porta il protagonista a trovare lavoro, o quello del ritorno a Parma, dove gli amici al bar massacrano con cattiveria la voglia di riscatto del reduce. Fino alla conclusione, quando Giovannino, stufo della routine, vorrebbe ripartire da capo e cambiare vita, ma è esortato dalla moglie a godersi quel «piccolo mondo» che si è faticosamente conquistato. La lettera finale alla Morte, sobria e struggente, lamenta la legge che ci condanna, un bel giorno, ad abbandonare tutto, tranne i ricordi («e questo mi renderà più triste»). Tra le varie profezie sul futuro, delegate a un’immaginaria testimonianza del nipote datata 1998, molte si sono avverate. Ma non quella che «i figli non si ricordano dei padri»: Alberto («il mascalzoncello» di questo romanzo) e Carlotta ne rappresentano la smentita vivente. BONVESIN DE LA RIVA: QUANDO MILANO ERA UNA MERAVIGLIA en prima di Guareschi, Milano fu scoperta da Bonvesin da la Riva, che espresse l’orgoglio e l’amore per le meraviglie della sua città, in un capolavoro dimenticato e oggi meritoriamente ristampato, grazie a una preziosa edizione curata da Maria Corti e tradotta splendidamente da Giuseppe Pontiggia (con il testo latino a fronte). Scritto nel 1288 da questo intellettuale di Ripa Ticinese, maestro di grammatica, sul modello medievale del panegirico della città, l’oBONVESIN DE LA RIVA, pera celebra la posiLE MERAVIGLIE DI zione e la natura, le MILANO, Bompiani, abitazioni e gli abiMilano, pp.224, e26,00 tanti, la fertilità e la forza, la fedeltà e la dignità, la libertà e l’economia di Milano, che, «come il sole tra i corpi celesti», svetta sopra ogni altro luogo del mondo. Bonvesin esagera nelle catalogazioni per rendere adeguatamente l’idea di abbondanza di questa paradisiaca realtà urbana: gli elenchi delle professioni e dei mestieri nel terzo capitolo, la descrizione della felice conformazione della città nel primo, l’accumulazione iperbolica dei cibi e delle materie prime che ne comprovano il benessere nel quarto, tanto che «qualsiasi uomo, purché sia sano, può ottenere guadagni e dignità secondo il proprio stato», il B cauto accenno ai conflitti politici che non ne intaccano la supremazia nell’ottavo, sono pagine che uniscono all’alta qualità letteraria l’analisi puntigliosa di quella Mediolanum, così perfetta anche linguisticamente da contenere tutte le vocali. Fra digressioni suggestive e aneddoti spassosi, vanno segnalati i ritratti dei cittadini eccezionali, come il saggio Guglielmo della Pusterla e il forte Uberto della Croce, così valoroso da fermare con le braccia i cavalli in corsa e trasportare le giumente per le scale fino al solaio, da vincere dodici uomini e da sgominare da solo, a colpi di clava, una folla di pavesi, per poi rifocillarsi con una scorpacciata di trentadue uova fritte in padella. L’ambiguità di aver taciuto il male è avvertibile nell’intenzione di responsabilizzare i milanesi, per metterli in guardia dal non degenerare «considerando di quale patria siano figli». Spergiurando di non aver abbellito la verità dei fatti, si spinge fino ad augurarsi che il papato si trasferisca da Roma a Milano e sostiene di rivolgersi non solo ai turisti, ma anche ai suoi concittadini, perché «aprendo gli occhi, vedano e, vedendo, capiscano che città sia la nostra e quanto sia degna di ammirazione». Corredano il volume bellissime silografie di stampe popolari d’epoca, miniature milanesi e il colorato ciclo di affreschi della Rocca di Angera. IL CALENDARIO ANCESTRALE DEL “MONDO PICCOLO” iacerebbe tanto a Guareschi questo antico lunario popolare, stampato ancora con i caratteri e il gusto di un “mondo piccolo”. Una guida dell’agricoltore che si apre con il calendario delle feste cattoliche d’intero precetto e che, mese IL VERO SESTO per mese, accomCAJO BACCELLI, pagnato da illustraOfiria, Firenze zioni d’epoca, se(tel.055/50621), gnala giornalmente pp.100, e2,00 i santi e le fasi lunari, dando consigli per la coltivazione della campagna e dei frutteti, per travasare il vino in cantina e seminare nell’orto e in giardino, per l’allevamento degli animali da cortile e la potatura del vigneto. Con indicazioni sulla cucina adatta a ogni stagione e sul modo P migliore di ottenere olio buono dagli oliveti. Grande spazio è dedicato alle date dei mercati, delle fiere e delle sagre, ma ci sono anche un elenco ragionato delle erbe campestri commestibili e una guida a chi va per boschi, sestine, giochi, barzellette parrocchiali e la tabella delle tariffe postali. Il tutto segue rigorosamente la formula della prima edizione del fiorentino Sesto Cajo Baccelli, uscita sessant’anni fa. Ma, a sfogliare queste pagine, il tempo sembra essersi fermato. Novembre è segnalato come il mese dedicato alle anime del Purgatorio e guai a travasare il vino col freddo di gennaio, agosto è il mese migliore per la conserva di pomodoro, marmellate e sottaceti, mentre «seminare decembrino vale meno di un quattrino». PER GIRARE IL MONDO INTERO SFOGLIANDO DUE PAGINE al libro di Bonvesin da la Riva prende le mosse, settecento anni dopo, Roberto Ruozi, presidente del Touring Club Italiano, in questo volume che raccoglie una nutrita serie di lettere, indirizzate al lettore, spedite dai più disparati angoli del pianeta Terra. Un’antologia di viaggi, compilata non secondo una graduatoria geografica, ma seguendo i gusti di un turista d’eccezione, che ha voglia di conoscere il mondo, ma anche di raccontarlo. Senza sussiego accademiROBERTO RUOZI, co, anzi con l’affabiISTANTANEE DAL MONDO, Touring lità discorsiva di chi, Club Italiano, Milano, al ritorno, ha voglia pp.320, e14,00 di comunicare agli altri ciò che lo ha emozionato. Ruozi parte dalla sua Milano perché è convinto, come Bonvesin, che sia una città straordinaria «sconosciuta ai più». La regina del marketing ha la colpa di fare «un pessimo marketing di se stessa»: per questo Ruozi ne ripercorre le tappe più significative, senza dimenticare i grandi che l’hanno abbellita (da Leonardo a Bramante), ma soffermandosi anche su D curiosità più segrete (la ciocca di capelli di Lucrezia Borgia all’Ambrosiana). Da Milano si passa a Piedicavallo, vicino Biella, località di montagna poco conosciuta, ma a cui l’autore è affezionato per motivi biografici. E poi la Nizza di Nietzsche, Berlioz, Cechov e Matisse, ingiustamente considerata «una città di anziani e per anziani», la San Pietroburgo nella quale Ruozi si mette sulle tracce di Dostoevskij e del suo Raskolnikov, andando alla ricerca di piazza Sennaja, dove il protagonista di Delitto e castigo uccide la vecchia usuraia; la Danzica di Günter Grass. Chi invece alle seduzioni letterarie antepone le emozioni della natura, può perdersi «in orizzonti sconfinati e in tramonti che non finiscono mai» a Reykjavik. E poi veniamo condotti per mano dall’Armenia alla Bulgaria, dalla Libia al Sudafrica, da Tombouctou all’Egitto, fino oltreoceano, alla fine del mondo, in Patagonia e nel Messico della civiltà maya. Ogni viaggio dura poche pagine e non è il caso di leggere il libro come un romanzo, dalla prima all’ultima pagina. Sarà un piacere invece consultarlo, saltabeccando qua e là. FINESTRE APERTE 6 IL DOMENICALE S A B AT O 2 D I C E M B R E 2 0 0 6 HEZBOLLAH, LA REGIA • Sono tutte sue quelle stragi di militari statunitensi e francesi che nel 1983 mandarono a monte la prima missione di pacificazione condotta dall’ONU in Libano • Le sue ambizioni sono da sempre grandi, le sue aspirazioni pure. E chi si frappone nel mezzo ne subisce l’ira, la violenza e le ritorsioni, musulmano od occidentale che sia Un bel libro per andare alle radici del terrorismo islamista l “Partito di Dio”che ha lanciato la strategia mondiale del terrorismo islamista non è per nulla un fenomeno estremo sì, ma fortunatamente locale. È invece il figlio legittimo e diretto della rivoluzione scatenata in Iran dall’ayatollah Ruhollah Khomeini, quindi lo strumento più utile che Teheran ha da anni a disposizione per perseguire i propri interessi geopolitici nel Medio Oriente. Lo racconta e lo dimostra bene Gian Micalessin, esperto di questioni mediorientali e da anni inviato di guerra sui fronti più caldi dello scacchiere internazionale, nel suo Hezbollah. Il partito di Dio, del terrore e del welfare (postfazione di Maurizio Stefanini, Boroli, Milano I 2006), che sarà in libreria a giorni e del quale anticipiamo qui alcune pagine salienti. Nato in seno alla comunità sciita libanese, Hezbollah inizia le proprie vicende a Teheran e si sviluppa durante l’invasione israeliana del Libano nel 1982. L’Iran ripone infatti nelle mani armate e pesanti dei suoi militanti tutti i propri sogni strategici che mirano alla costituzione di un asse sciita in grado di congiungere il Meridione del Libano con la Siria e il Meridione dell’Iraq con l’Iran. A Hezbollah si deve dunque la primogenitura del terrorismo islamista come arma di guerra internazionale, di fatto l’invenzione della guerra asimettrica in nome di Allah e il primo uso, in am- bito musulmano, del rapimento, della tortura e dell’omicidio come arma politico-militare. Insomma è al “Partito di Dio” degli sciiti libanesi che si deve guardare per comprendere la logica della guerra irregolare e sporca combattuta da certa parte del mondo ultrafondamentalista musulmano per colpire anzitutto gl’islamici “tiepidi” e le loro classi dirigenti, quindi gli odiati “crociati” occidentali. Il libro di Micalessin ne ripercorre allora vicende, protagonisti e orrori con la verve del reporter e il piglio di chi non si accontenta delle ricostruzioni superficiali. Un bel libro, insomma, che illumina con intelligenza alcuni angoli oscuri del complesso mondo in cui viviamo. • • La strategia dei terroristi sciiti libanesi è sottile: da un lato morte e orrori, dall’altro case, scuole, ospedali. La propaganda è tutto, il consenso pure Viaggio tra i fatti e i misfatti di quello che è il simbolo stesso degli orrori del terrorismo di marca religiosa. Cioè di cosa succede quando la religione impazzisce, si fa ragion geopolitica di Stato e sull’altare dei propri folli sogni di rivoluzione sacrifica chi gli capita a tiro. Il tutto rivenduto come “servizio pubblico” per le masse diseredate UN PROLOGO IRANIANO lla fine fu Jawad a riuscirci. Quel ragazzo era un fenomeno di concentrazione… magro, barbuto, nervoso, ma anche profondo. Il suo entusiasmo e la sua mente matematica unite all’ottima dimestichezza dell’inglese ne facevano la persona giusta per quel lavoro. Jawad mise a punto un metodo per ricostruire quei frammenti di carta. Un pomeriggio afferrò una manciata di quei coriandoli dal barile li allineò su un pezzo di carta, incominciò a dividerli per tipo e qualità. Lavorammo con lui e dopo alcune ore riuscimmo a mettere insieme alcuni frammenti appartenenti ad uno o due documenti. Era un lavoro massacrante: solo allineare i frammenti uno accanto all’altro era un’impresa. Dopo cinque ore avevamo ricostruito il 20/30 per cento dei due documenti. Jawad non si diede per vinto. Il giorno dopo tornai a fargli visita con un gruppo di compagne. “Vieni a vedere – mi disse con un sorriso –. Con l’aiuto di Allah e tanto sforzo potremmo riuscire nell’impossibile”. Aveva completamente ricostruito il primo documento e incollato assieme ciascuno di quei coriandoli. Ora potevamo leggere il testo: conteneva informazioni militari e una fonte identificata da un codice. Allora telefonammo al comitato centrale. Arrivarono subito assieme a un religioso l’hojjatoleslam Mousavi Khoeiniha. Lui diede un’occhiata ai documenti ancora in frantumi, ci incoraggiò a proseguire quel lavoro, disse che sarebbe diventato importante per la difesa della rivoluzione. «A La strategia del terrore che punta tutto sui rapimenti fu una invenzione del 1982 Pieno d’ottimismo Jawad reclutò una squadra di studenti, li mise a lavorare al progetto. Il giorno dopo c’erano già altri venti volontari. Jawad spiegò la procedura. Ciascuno avrebbe iniziato con una manciata di quei coriandoli classificandoli con molta attenzione. Poi preparò delle tavole piatte... per tenere ben fermi i frammenti. Era un lavoro lungo, noioso. Dopo un mese il primo gruppo di studenti era già stufo. Chiamammo altri volontari e il lavoro continuò... Una volta preso il ritmo gli studenti ricostruivano dai cinque ai dieci documenti per settimana... Il lavoro continuò fino al 1985. Un totale di 3000 pagine e di almeno 2300 documenti vennero ricostruiti e pubblicati in 85 volumi. Un grande numero di spie e fonti d’intelligence vennero identificate». Quando descrive la ricostruzione dei documenti distrutti dai diplomatici americani di Teheran prima di cadere ostaggi degli studenti iraniani Massoumeh Ebtekar non è più una ragazzina. Non è più la Mary dal volto velato. Non è più la studentessa che traduce in inglese per gli inviati di tutto il mondo i comunicati diffusi dal comando studentesco impossessatosi della sede diplomatica americana. Da quei 444 giorni di assedio iniziati nel novembre 1979 sono passati 20 anni. Mary è cresciuta. Mary ha continuato a far poli- DI GIAN MICALESSIN tica. Mary è diventata, come molti ragazzi, andati a conquistare l’ambasciata americana quella mattina di novembre, un’esponente di punta dei riformisti iraniani. Mary, alias signora Massoumeh Ebtekar, ha fatto più carriera degli altri. Nel 2000 è una dei vicepresidenti della Repubblica Islamica, uno dei vice di Mohammed Khatami ed ha appena finito di scrivere un libro su quei 444 giorni all’ambasciata. Un libro sincero e spassionato. Un libro in cui manca il nome di una persona che pagò a caro prezzo l’ingegno e l’impegno di Jawad e degli altri studenti rimasti per mesi a dare un senso a tonnellate di coriandoli disintegrati. L’AFFARE BUKLEY La mattina del 16 marzo 1984 il colonnello William F. Bukley non immagina nemmeno che il suo nome sia emerso dalla montagna di carta divorata e fatta a pezzi cinque anni prima dai macchinari distruggi documenti della sede diplomatica di Teheran. È arrivato a Beirut subito dopo l’attentato all’ambasciata americana. Ha il compito di rimettere in piedi l’ufficio della Cia. La strage ha fatto piazza pulita dei migliori esperti di Medio Oriente. Lui è uno degli ultimi sopravvissuti, deve ripartire da zero, rimettere in piedi una squadra degna di quel nome, far funzionare di nuovo quell’ufficio. Si chiude alle spalle la porta di casa, entra nell’ascensore, preme il bottone del parcheggio interrato. Le scorte non gli piacciono. Meglio girare da soli. Meglio non dare nell’occhio. Lo ha sempre fatto. Anche in Vietnam. L’esperienza non gli manca. Ha 56 anni. È in giro per l’agenzia da almeno una ventina. Dicono abbia lavorato ad un programma segretissimo per l’eliminazione di alcuni leader stranieri. Lui, a chi glielo chiede, racconta solo di guidare l’ufficio politico dell’ambasciata. Il lavoro riempie le giornate. Beirut è di nuovo in fiamme. La guerra civile è in piena ripresa nonostante il cessate il fuoco concordato in Svizzera. In tutto questo bisogna coordinare il ritiro dei marines, l’addio al Libano. Sicuramente qualcuno sta studiando un ultimo colpo. E poi ci sono quei due sequestri misteriosi. Il professor Frank Regier dell’Università americana di Beirut è scomparso poco lontano dal suo edificio. Erano in tre, armati, l’hanno fatto salire in macchina e portato via. Una settimana fa, il 9 marzo, è scomparso anche un giornalista, si chiama James Levin, è l’inviato della Cnn, una nuova televisione via cavo che ha da poco iniziato a trasmettere negli Stati Uniti. La moglie ha detto di averlo lasciato in bagno mentre si radeva… Che gli siano entrati in casa? L’ascensore si apre. William attende un attimo. Come tutti quelli che fanno il suo lavoro. Segue le procedure. Controlla con la coda dell’occhio i lati del garage. Esce con le chiavi in mano. Le procedure stavolta non bastano. Sente la canna del kalashnikov infilata nel costato. Fa appena in tempo ad alzare le mani, il cappuccio gli cala sugli occhi. Sente le voci in arabo, il bagagliaio che si chiude, il rumore dell’auto che lo porta via, poi quello del traffico di Beirut all’ora di punta. A tarda sera l’ufficio Cia dell’ambasciata americana ammette di aver perso il proprio capo. La scomparsa del colonnello William F. Bukley è solo la punta dell’iceberg che si sta per abbattere sugli occidentali. Il primo segnale dell’incubo destinato a prolungarsi per otto anni. Il rapimento del capo ufficio Cia non è il primo caso di sequestro, ma costringe gli americani e le altre nazioni occidentali ad aprire gli occhi. A fare i conti con la nuova minaccia. La guerra degli ostaggi, iniziata in sordina nel 1982 con il sequestro del presidente dell’università americana David Dodge, sta raggiungendo il suo apice. Alla sua conclusione nel giugno 1992 conterà 87 stranieri rapiti di cui almeno dieci uccisi o morti per le sofferenze della prigionia. Qualcuno, come Bukley, si spegne per le devastanti conseguenze delle torture inflittegli per mesi. Qualcun altro – come il 64enne uomo d’affari italiano Alberto Molinari sequestrato l’11 settembre 1985 – muore stroncato da un infarto ancor prima di raggiungere il luogo di detenzione. L’elenco per nazionalità dei rapiti conferma le istruzioni per l’uso contenute nel “manifesto” di Hezbollah. In cima alla lista vi sono i 17 stranieri con il passaporto americano, 15 francesi, 14 britannici, sette svizzeri, sette tedeschi e poi tutti gli altri tra cui russi, spagnoli, olandesi, ciprioti e italiani. Attribuire tutti gli 87 rapimenti ad Hezbollah significherebbe da una parte amplificarne le capacità, dall’altro ridimensionarne la serietà attribuendo al Partito di Dio anche atti maldestri o sprovveduti, anche se ugualmente pericolosi o addirittura fatali per le vittime. La guerra dei sequestri, avviata dal Partito di Dio e manovrata dai suoi protettori iraniani, si trasforma ben presto in un redditizio filone in cui sguazzano per opportunità, denaro o convenienza gruppuscoli in cerca di pubblicità, criminali comuni a caccia di prede umane da commerciare, clan familiari decisi a ottenere il rilascio dei propri cari detenuti all’estero. Il florilegio di sigle, il moltiplicarsi di rivendicazioni dopo ogni prelevamento aumentano la disperazione, la confusione e le difficoltà dei servizi di sicurezza occidentali impegnati nella caccia ai se- 444 infiniti giorni di prigionia finirono per stroncare il cuore di Bukley, agente CIA questratori. La competizione sleale tra agenti e gruppi d’intelligence, pronti ad affossare anche gli alleati pur di portare a casa i connazionali, contribuisce a regalare punti al nemico. Per capire ragioni e finalità di questo commercio di umani capace di tenere in scacco l’Occidente per otto anni bisogna considerare almeno due episodi. Il primo risale all’inizio del luglio del 1982, un mese dopo l’invasione israeliana del Libano. In quei giorni di guerra le Forze Libanesi, la milizia cristiana di Samir Geagea, fermano un’automobile scortata dalla polizia libanese ad un posto di blocco una quarantina di chilometri a nord di Beirut. Forse si tratta di un’informazione israeliana, forse di semplice fortuna, ma la preda è grossa. Dentro quell’auto ci sono Ahmad Motevaselian, addetto militare dell’ambasciata e comandante dei Pasdaran nella valle della Bekaa, Mohsen Musavi incaricato d’affari in Libano, Kazem Akhavan Allaf giornalista dell’Irna, l’agenzia di stato iraniana, e l’autista Mohammed Taghi Rastegar Moqadani. I quattro scompaiono nel nulla e Teheran non riesce ad averne più notizia. Il mistero sulla loro sorte, benché ignorato dalla stampa occidentale, è così fitto che non più tardi del 7 luglio del 2005, nel 23simo anniversario dalla loro scomparsa, il ministro degli Esteri Kamal Kharrazi torna alla carica con il governo libanese sollecitandolo «a velocizzare le indagini sul caso dei quattro iraniani rapiti». In quei giorni del 1982 non esistono né governi, né autorità a cui appellarsi. Vale solo la legge del taglione. Il primo a farne le spese, il 19 luglio, è il presidente dell’Università Americana di Beirut David Dodge. L’accademico viene prelevato nei locali dell’Università per iniziativa di un clan sciita della Valle della Bekaa. Il gruppo, al confine tra malavita e militanza politica, patteggia per un po’ la liberazione dell’ostaggio poi si stufa e accetta l’offerta d’acquisto dei Pasdaran iraniani. Passando di mano in mano e di confine in confine Dodge si risveglia una mattina in una cella del carcere di Evin, la prigione a nord di Teheran dove sono detenuti i dissidenti e gli oppositori del regime di Teheran. I funzionari iraniani e gli uomini dei servizi segreti che si alternano al suo interrogatorio sono decisi a strappargli qualche informazione sui connazionali scomparsi in Libano. Quando capiscono che Dodge è solo la sfortunata vittima di un baratto gli iraniani cedono alle pressioni del presidente siriano Hafez Assad, trasferiscono l’accademico in Siria e la mattina dopo lo consegnano all’ambasciata americana. GLI AMICI DI MUGHNIYAH Il secondo episodio che fa da sfondo e innesco alla guerra degli ostaggi prende il via nell’emirato del Kuwait il 12 dicembre 1983, meno di due mesi dopo il massacro dei marines e dei paracadutisti francesi. Quel giorno una serie d’attentati suicidi accuratamente sincronizzati colpisce in sequenza l’ambasciata americana e quella francese, la torre di controllo dell’aeroporto, la principale raffineria del Paese e un’area residenziale riservata ai lavoratori americani. Sei persone vengono uccise e più di ottanta ferite. A rivendicare l’attentato ci pensa l’organizzazione clandestina di “Al Dawa”. Il gruppo diventato nel 2005 partito di governo in Iraq è, a quel tempo, un’organizzazione clandestina finanziata e armata dai servizi segreti iraniani al cui interno gravitano esponenti sciiti iracheni e libanesi. Nei giorni seguenti i servizi segreti kuwaitiani mettono le mani su 17 sospetti. Tra di loro c’è anche Mustafa Youssef Badreddin il cugino, cognato e braccio destro di Imad Mughniya. Cinquanta giorni prima era assieme al suo capo sul tetto dell’edificio prospiciente la caserma dei marines di Beirut. In Kuwait ci prova da solo, ma non gli va altrettanto bene. La sincronizzazione funziona, camion e autobombe colpiscono quasi tutte allo stesso tempo, ma la ritirata si rivela più difficile del previsto. A questo punto il ritorno in scena dell’amico e sodale è quasi obbligato. Non che Imad Mughniyah sia uomo di grandi emozioni. I pochi che l’hanno conosciuto e ammettono di ricordarsene rammentano soprattutto quello sguardo freddo glaciale impenetrabile Tutto il resto è nulla. Un signor nessuno, «Un americano deve morire, un americano deve morire». Il volo Twa 847, una tragedia grassoccio e bassotto, con un volto da bambino. Uno che se l’incontri per strada manco ti volti. Ma non sarà un caso se gli istruttori di Forza 17, la guardia presidenziale di Arafat, la forza d’élite palestinese, l’hanno mandato a 16 anni a fare il cecchino sulla Linea verde di Beirut. Lì o impari o muori presto. Imad è sopravvissuto si è fatto le ossa, si è guadagnato un posto in corso d’esplosivi. Un posto da futuro terrorista in un’organizzazione palestinese senza futuro nel Paese dei cedri. Mughniyah nell’82 avrà anche solo 20 anni, ma sa che in Libano si sopravvive solo al fianco dei più forti. Molla i vecchi maestri, ritorna alla fede sciita, va a fare la guardia del corpo dello sceicco Mohammad Hussein Fadlallah. Forse, come sostengono gli americani, è la vicinanza con il padre spirituale di Hezbollah a fargli fare il salto di qualità. Forse è il predicatore sciita a suggerire il suo nome inserendolo nella rosa dei prescelti per l’attentato agli americani. Come vada esattamente non lo sa nessuno. La doppia strage di marines e paracadutisti francesi cambia però la sua vita. Non vive più in Libano. I pasdaran lo portano in Iran, gli procurano una nuova identità e un nuovo passato. Quello precedente lo fa cancellare lui. In Libano iniziano a scomparire i documenti a lui intestati e le sue foto. A venti anni di distanza rimane solo quella ingiallita e datata conservata negli archivi dell’Fbi. Ad Ayn al Dilbah, suo villaggio natale del Sud, è sopravvissuta solo la memoria del padre, un giudice sciita di un certo livello. Tutto il resto è nebbia. Nessuno ritrova il suo atto di nascita. Nessuno riesce a far saltare fuori una sua nuova foto. Quella rimasta negli incartamenti dell’Fbi ha più di 30 anni ed è forse l’immagine di un volto che non esiste più. Le voci suggeriscono chirurgia plastica, lineamenti modificati, faccia irriconoscibile. Questo, però, succede lentamente, con gli anni. Nel dicembre 1984, quando il suo fratello d’armi Badreddin s’impegola in quell’avventura iraniana costatagli una condanna a morte, Mughniyah secondo le informative americane, è semplicemente un uomo prezioso trasferito a Teheran, dotato di nuova identità e nuovo passaporto e messo alla testa di un’unità speciale dei pasdaran. La sua è solo una condizione transitoria. Mentre Badreddin attende nel braccio della morte lui è già pronto a trasformarsi nel demiurgo dei sequestri, nel carnefice degli umani scomparsi a Beirut, nell’aguzzino delle decine di creature senza speranza prelevate a Beirut e incatenate ai quattro angoli della Valle della Bekaa. MORTE DI UN AGENTE Come il nome di William F. Bukley arrivi nelle mani di Mughniyah e diventi il suo primo obbiettivo nessuno lo spiega con precisione. Le analogie con l’attacco all’ambasciata che qualche mese prima ha decimato i migliori analisti dell’agenzia sono però inquietanti. Quella volta la notizia della riunione di Robert Ames capo analista della Cia per il Medio Oriente con le migliori menti dello spionaggio americano in quella zona era stata intercettata dai sovietici e discussa con i siriani considerati a quel tempo i migliori alleati di Mosca nell’area. Secondo le ricostruzioni dell’intelligence americana una soffiata dei servizi segreti aveva fatto arrivare la notizia a Teheran e poi nella Valle della Bekaa. Ora l’arrivo del nuovo staff di funzionari a Beirut è stato sicuramente controllato e qualcuno, a Teheran, ha scoperto il nome di Bukley. Un nome contenuto nell’elenco di spie redatto grazie ai documenti distrutti nell’ambasciata di Teheran. Bukley è una preda preziosa. Interrogandolo si può scoprire la nuova rete stesa dall’agenzia in Medio Oriente, eliminare gli infiltrati e alla fine utilizzarlo per un baratto con il Kuwait in cambio di Badreddin e dei suoi 16 compagni. Bukley è un osso duro, ma non può resistere più di tanto. Mughnyah si presenta nella sua prigione, lo interroga e lo tortura per- FINESTRE APERTE S A B AT O 2 D I C E M B R E 2 0 0 6 IL DOMENICALE 7 A È TUTTA DI TEHERAN • Nel “partito di Dio” Israele ha trovato un nemico potente e difficile da vincere. Nel 2000 Tel Aviv fu costretta al ritiro dal Libano, nel 2006 ha subìto per 34 giorni dannato all’ergastolo, viene rilasciato agli inizi del 2006. Oggi vive libero e indisturbato in territorio libanese nonostante le domande d’estradizione delle autorità statunitensi. sonalmente. Per carpirgli più segreti possibili mobilita Aziz Al Abub, uno psichiatra laureatosi all’università Patrice Lumumba di Mosca. A Beirut è già conosciuto come “dottor morte”. La leggenda vuole sia lui a fornire le anfetamine per i primi attentatori suicidi. Di certo viene utilizzato per gli interrogatori più importanti. È lui a controllare che le torture a Bukley non vadano mai oltre il punto di non ritorno. È lui a fargli ingurgitare o iniettargli il miscuglio di droghe indispensabile per aggirare gli sbarramenti mentali di un agente addestrato a resistere a lunghi interrogatori. Il cerchio intanto si stringe. William Casey leggendario capo della Cia dell’epoca, vuole Bukley indietro a tutti i costi. Del suo caso si occupa Oliver North, il colonnello destinato a diventare famoso nel 1987 quando emerge come principale protagonista del caso Iran Contras. Il complicato schema basato sulla fornitura di armi all’Iran attraverso Israele e la vendita di altre armi ai contras attraverso la Repubblica islamica viene inizialmente studiato per ottenere la liberazione di Bukley senza trattare con i suoi rapitori. Le armi da sole non bastano. A febbraio i colleghi e i familiari di Bukley vedono le sue immagini in un filmato consegnato all’agenzia inglese Visnews. Sono 56 secondi di video Gli USA puntano il dito contro lo sceicco Mohammad Hussein Fadlallah, terrorista tremolante e sgranato. Il capo ufficio della Cia appare stanco e provato, ma assicura di star bene. «I miei amici Benjamin Weir e Jeremy Levin stanno anche bene» – aggiunge prima di chiedere al governo di agire per un veloce rilascio. Sono le sue ultime immagini. Secondo la Cia poche settimane dopo Bukley viene trasferito in Siria e da lì portato in Iran. Gli iraniani vogliono da lui notizie sui diplomatici scomparsi. Le trattative con il Kuwait per un suo scambio con i 17 in carcere vengono cancellate dal secco “no” kuwaitiano. Le torture e le privazioni e i 444 giorni di prigionia hanno intanto messo a dura prova il fisico di Bukley. Il cuore dell’agente della Cia si ferma per tre volte di seguito. Alla terza i tentativi dei medici ira- niani di rianimarlo si rivelano inutili. Nei mesi successivi la Cia riacquisterà dagli iraniani il dossier di 400 pagine sottoscritto da Bukley e le videocassette con le sue rivelazioni sulla struttura dell’agenzia in Medioriente . Nel 1991 le ossa del capo dell’ufficio Cia di Beirut vengono fatte ritrovare in un sacco abbandonato su un lato della strada tra Beirut e l’aeroporto. TWA 847, ODISSEA NEI CIELI Mentre Bukley muore dimenticato dopo 444 giorni di prigione e torture il mondo è sintonizzato in diretta con un altro dramma libanese. Le televisioni di tutto il mondo quella sera di venerdì 14 luglio 1985 trasmettono le immagini della pista deserta dell’aeroporto di Beirut. All’improvviso nella torre di controllo risuona la voce del capitano John Testrake, comandante del volo Twa 847. «Ha tirato la sicura della bomba a mano, è pronto a far saltare l’aereo… dobbiamo, ripeto dobbiamo atterrare a Beirut non ci sono alternative». Sugli schermi ritorna il silenzio rotto dalle voci incerte dei commentatori. La pista è ingombra di autobus, camion e jeep allineate alla meglio per impedire l’atterraggio di qualsiasi aereo. All’aeroporto non vogliono grane. Basta la guerra civile. Basta l’aeroporto senza più recinzione, circondato dalle milizie sciite. Non vogliono quell’aereo pieno d’americani dirottato qualche ora prima sulla rotta Atene-Roma. Ora l’aereo è lassù nel cielo di Beirut. Dalla torre di controllo ancora silenzio. Dalla cabina un altro disperato appello. «Twa 747 a torre emergenza, dobbiamo atterrare». Altri minuti di silenzio, prima della risposta: «Molto bene atterrate, atterrate… Atterrate con molta calma». L’aereo è giù sulla pista, si ferma. Trascorrono alcuni minuti e la voce del capitano Testrake risuona di nuovo nella torre di controllo. «Stanno bastonando i passeggeri, minacciano di ucciderli, vogliono il pieno di carburante, lo vogliono immediatamente, tra cinque minuti al massimo… se no iniziano a ucciderli». Prende il via così l’odissea del volo Twa 847 dirottato il pomeriggio del 14 luglio 1985 da Hassan Izz-al-Din e Muhammad Ali Hamadi, due terroristi del gruppo di Mughniyah saliti a bordo dell’aereo con armi e munizioni approfittando degli scarsissimi e inefficienti controlli di sicurezza all’aeroporto di Atene. Da Beirut l’odissea continua per Algeri. Nel frat- tempo i dirottatori scoprono tra i passeggeri un gruppo di sommozzatori della Marina americana. Nella capitale algerina l’atmosfera si fa drammatica. L’allora 38enne maggiore Kurt Carlson è inginocchiato a terra, separato dagli altri passeggeri, assieme al gruppo di sommozzatori americani. Hamadi, uno dei due dirottatori è affacciato al finestrino della cabina di pilotaggio, inneggia a Khomeini e alla Rivoluzione islamica. «Ogni volta che pronuncia quel nome Izz al Din mi colpi- Quando Parigi fornì armi a Saddam Hussein, l’Iran ordinò il sequestro di ostaggi sce alla schiena» – ricorda ancora oggi Carlson. Ogni volta che la torre di controllo rifiuta il pieno di carburante le bastonate aumentano. «Un americano deve morire, un americano deve morire» – quell’urlo risuona ancora negli incubi del maggiore Carlson. Succede due giorni dopo. Il Boeing è ritornato a Beirut. Izz al Din e Hamadi sparano alla testa del sommozzatore Robert Stethem, buttano il suo corpo sulla pista. «Avete visto, ora ci credete, se non date retta alle nostre richieste ce ne sarà un altro tra pochi minuti». La notte di quella domenica di terrore e sangue un gruppo di guerriglieri raggiunge l’aereo muovendo dai sobborghi sciiti. Tra quei volti mascherati che scrutano i passeggeri ancora rimasti e ordinano di trovare qualche ebreo c’è, secondo l’Fbi, anche Imad Mughniyah. Gli agenti federali sono certi di aver trovato le sue impronte digitali in una delle toilettes del Twa 747. Sicuri che sia lui a dirigere le ultime fasi del rapimento quando viene concordata la liberazione di 50 prigionieri sciiti nelle mani di Israele in cambio dei 40 ostaggi ancora a bordo dell’aereo. Quegli uomini portati giù dall’aereo e trattenuti in garanzia da Amal, la fazione non fondamentalista del movimento sciita, torneranno liberi il 30 giugno. Le impronte, nella toilette dell’aereo consentiranno ai giudici americani di condannare per terrorismo Imad Mughniyah. Né Mughniyah, né Hassan Izz al Din verranno mai catturati. Muhammad Ali Hamadi, arrestato in Germania nel 1987 e con- CACCIA APERTA Dopo il dirottamento del volo 747 e dopo la morte in prigionia di Bukley gli americani cercano in tutti i modi di metter le mani sul nemico numero uno. A convincerli che l’unica arma efficace sia la determinazione contribuisce la vicenda dei quattro diplomatici sovietici rapiti dagli uomini di Mughniyah nel settembre del 1985. Gli scopi di quel sequestro non vengono mai chiariti, ma rientrano negli intricati rapporti tra servizi segreti siriani il Kgb e i movimenti terroristici dell’area tra cui Hezbollah. Pochi giorni dopo il corpo di uno dei diplomatici viene fatto ritrovare nei pressi dello stadio. Il Kgb risponde con i propri metodi. Una dozzina di esponenti del “Partito di Dio” – tra cui il fratello di uno dei suoi capi – vengono rapiti e torturati. Il capo di Hezbollah riceve all’indomani un pacco con gli organi genitali del fratello e le istruzioni per trovare il resto del corpo. Il biglietto avverte che in caso di mancato rilascio dei diplomatici gli altri undici sequestrati faranno la stessa fine. I diplomatici tornano liberi in capo a qualche settimana e Mughniyah è costretto a lasciare Beirut per sfuggire alla vendetta del Kgb. La fuga da Beirut gli serve per volare a Parigi e cercar di negoziare il rilascio del giornalista Jean Paul Kauffman, dei diplomatici Marcel Carton e Marcel Fontane e del ricercatore Michel Seurat. Fontane e Carlton sono nelle sue mani dal 22 marzo 1985. Jean Paul Kauffman e Michel Seurat sono stati rapiti sulla strada dell’aeroporto due mesi più tardi. La Jihad Islamica continua in tutti i suoi comunicati a chiedere la fine delle forniture militari francesi all’esercito iracheno in guerra con Teheran in cambio della liberazione degli ostaggi. Le elezioni legislative del prossimo marzo sono alle porte e i socialisti francesi hanno un disperato bisogno di riportare a casa i quattro rapiti. Così Mughniyah vola a Parigi per seguire personalmente la trattativa. Gli americani gli stanno alle costole e trasmettono i dati del passaporto falso usato dal terrorista alla polizia francese. In poche ore il nascondiglio parigino di Mughniyah viene rintracciato. A quel punto interviene François Mitterand. Il presidente nega la presenza di Mughniyah e vieta qualsiasi intervento americano. Kauffman Carton e Fontane torneranno a casa il 5 maggio 1988 grazie ai negoziati segreti di Parigi. Del ricercatore Michel Seurat stroncato da un’epatite virale fulminante non tornerà neppure il corpo interrato, si dice, nel cimitero di Rawdat al-Shahidayn, accanto ai martiri di Hezbollah. I tre anni di detenzione dei tre francesi diventano poca cosa rispetto all’interminabile prigionia del giornalista americano Terry Anderson, capo della sede di Beirut dell’Associated Press. Il giornalista scompare dopo aver accompagnato a casa un suo collega al termine di una partita di tennis. I sequestratori se lo caricano in macchina in scarpette da tennis e maglietta. Resterà così per sei interminabili anni trascorsi incatenato ad un calorifero o in compagnia di altri ostaggi. A volere Anderson è lo stesso Mughniyah. Quel giornalista ficcanaso non gli piace. Il suo nome gli è arrivato alle orecchie subito dopo la strage dei marines e paracadutisti francesi. Quella volta Anderson – un fegataccio formatosi come addetto all’informazione tra le fila dei marines nelle battaglie vietnamite – è andato a chiedere informazioni sull’attentato nella Valle della Bekaa. Il giorno prima del suo rapimento ha compiuto l’errore fatale andando a cercare lo sceicco Mohammad Hussein Fadlallah alla periferia sud di Beirut. Fadlallah, accusato dagli americani di essere l’ispiratore dei rapimenti di occidentali, mantiene in quegli anni un atteggiamento ambiguo. Non condanna, ma dichiara di esser intervenuto inutilmente per ottener il loro rilascio. «Ho lanciato più di 50 appelli… rifiuto completamente la presa degli ostaggi. C’è una differenza tra la mia opposizione alla politica americana e il colpire fisicamente gli americani». FADLALLAH LA SINGE Del resto anche Hezbollah a parole è «inequivocabilmente contrario alla presa d’ostaggi sia sul piano morale che su quello religioso». Lo sceicco, a parole, lo è anche di più. «Non consideriamo il rapi- • A Beirut Aziz Al Abub era chiamato “dottor Morte”. Psichiatra, laureato all’Università Patrice Lumumba di Mosca, era fondamentale per gl’“interrogatori” mento un atto umano. Pensiamo non sia giusto per un essere umano privare della propria libertà un altro essere umano. Di recente durante la preghiera del venerdì abbiamo lavorato per educare le persone contro questi metodi». La posizione di Fadlallah sull’argomento ostaggi è, in verità, più complessa che ambigua. Il padre spirituale di Hezbollah sa che la sua influenza è destinata a restare esclusivamente spirituale e non può in alcun modo influenzare la realtà delle cose determinata dal grande padre iraniano. Assumere una posizione netta, pretendendo un impossibile rilascio sminuirebbe soltanto la sua autorità senza aprire le segrete in cui sono custoditi gli ostaggi occidentali. Il profeta di Hezbol- Ma l’Iran era furbo: trattava segretamente con gli USA, spiazzava gli alleati libanesi... lah lo fa capire con il suo classico tono da sfinge in un’intervista al quotidiano francese Le Figaro pubblicata il 17 settembre 2004. «La Francia – spiega Fadlallah – è davanti ad una cassaforte chiusa. Ci sono tre chiavi per aprirla. La più piccola è quella libanese. Quindi se anche avessi i vostri concittadini non potrei liberarli da solo. La mia piccola chiave da sola non basta. La chiave siriana è più larga, ma non è ancora abbastanza. Dovete procurarvi la terza chiave, quella dell’Iran». La parabola è chiarissima. Gli ostaggi francesi sono la conseguenza delle forniture d’armi francesi al regime di Saddam Hussein in guerra con l’Iran. L’unica via per liberarli è trattare con Teheran e trovare una soluzione. Fadlallah ripeterà con ancor più chiarezza il concetto il 21 gennaio 1987 all’indomani del rapimento di Terry Waite inviato dell’arcivescovo di Canterbury. «Temo che nessuno possa liberarlo se non l’intelligence iraniana. La sola persona a Beirut capace di fare qualcosa è l’incaricato d’affari dell’ambasciata iraniana. Non perdete tempo con nessun altro» – consiglia Fadlallah ad un medico sciita amico di Waite subito dopo la sua scomparsa. Terry Waite era diventato famoso per aver ottenuto, tra il 1985 e il 1986, la liberazione del reverendo Benjamin Weir, di padre Martin Jenco e di David Jacobsen amministratore della clinica dell’Università Americana. Fadlallah ammette insomma di non avere autorità sufficiente per dare ordini a Mughniyah e alla Jihad islamica. Il padre spirituale di Hezbollah può però intralciare o render più difficili da giustificare le mosse di Mughniyah e dei suoi manovratori iraniani. Il rapimento di Terry Anderson, scomparso all’indomani della visita allo sceicco, è un modo per spezzare i legami tra i giornalisti occidentali e lo sceicco. Sollecitando l’intervento di Fadlallah e forzandolo a prender posizione i giornalisti come Anderson finiscono con portare alla luce il dissidio tra la guida spirituale e il braccio armato di Hezbollah, rendendo più difficili le mosse di Mughniyah. Del resto anche il signore del terrore ha i suoi motivi per sentirsi frustrato. I suoi tentativi di ottenere la liberazione dell’amico Badreddin sono stati fagocitati dal ben più ampio schema della politica iraniana in cui neppure Mughniyah ha voce in capitolo. Il rapimento di Bukley ha innescato l’affare Iran Contras e ha inevitabilmente legato la sorte degli scomparsi alle forniture d’armi esiziali per i destini della guerra con l’Iraq. Lo stesso Terry Waite si rende conto che la liberazione dei tre ostaggi, ottenuta tra il 1985 e il 1986, è stata non il frutto dei suoi sforzi, ma degli accordi segreti messi in piedi dal colonnello Oliver North con il governo di Teheran. «A quel tempo non potevo comprenderne il perché, ma ora lo so – ricorderà anni dopo la sua avventura di mediatore rapito –. Loro (gli iraniani) erano già in contatto con North. Ora è chiaro. Loro seguivano i loro obbiettivi politici per la guerra con l’Iraq e quegli obbiettivi erano con l’America. Allo stesso tempo spiazzavano i loro alleati libanesi.” MUGHNIYAH RAPITORE INSODDISFATTO In questa scatola cinese di responsabilità Mughniyah sa che la sua forza e il suo potere dipendono dal numero e dal rango dei rapiti in suo possesso. Teheran inserirà anche le sue richieste nelle trattative soltanto se presenterà un pacchetto d’ostaggi rilevanti ed importanti come Anderson ed altri giornalisti e diplomatici. Il rapimento di Waite è invece una vendetta per le promesse che l’inviato dell’arcivescovo di Canterbury non è riuscito ad esaudire dopo la liberazione dei primi tre ostaggi. Durante la trattativa Waite, ignaro di agire solo come la copertura dello schema Iran Contras, si sbilancia promettendo di impegnarsi per la liberazione dal Kuwait di Badreddin e dei suoi 16 compagni dal Kuwait. Mughniyah non è stato informato di aver a che fare con un mediatore di facciata. Sa solo di aver consegnato a Terry Waite con l’autorizzazione dell’Iran il reverendo Benjamin Weir, padre Martin Jenco e David Jacobsen. E di non aver avuto nulla in cambio. «Mughniyah conosceva tutte le dichiarazioni dei kuwaitiani riguardo ai tentativi di Waite di visitare il loro paese e il loro rifiuto di trattare con lui o di accettare qualsiasi pressione … aveva accettato il fatto che Waite non fosse in grado di risolvere il problema. L’inviato non era stato, però, neppure in grado di rispettare l’impegno a trasmettere lettere ai prigionieri in Kuwait e ottenere notizie sulle loro condizioni. Per di più giravano strane voci sui presunti legami tra Waite, North e l’amministrazione americana. Mughniyah aveva rinunciato a tre dei suoi ostaggi per le armi iraniane e non era ancora riuscito a muovere un passo sulla strada della liberazione dei tre suoi compagni. Detto molto semplicemente Mughniyah non era contento». A far felice Mughniyah, a rendere più disponibili i suoi controllori iraniani e a permettere la liberazione degli ostaggi saranno solo gli eventi storici. Solo l’elezione a presidente di Alì Akbar Hashemi Rafsanjani (3 agosto 1989), la fine della guerra con l’Iraq (20 agosto 88), la scomparsa dell’imam Khomeini (3 giugno 1989), e l’ invasione del Kuwait(2 agosto 1990) seguita dall’operazione Desert Storm e dalla resa di Saddam Hussein (28 febbraio 1991), renderanno possibile il ritorno a casa del giornalista Terry Anderson, di Terry Waite e di tutti i loro compagni di prigionia. Alla morte dell’Imam Khomeini il presidente Alì Akbar Hashemi Rafsanjani è il vero dominatore della scena politica iraniana. La sua prima preoccupazione è metter da parte gli elementi più estremisti del regime capaci di mettergli i bastoni tra le ruote. Uno dei primi della lista è l’ambasciatore a Damasco Alì Akbar Mohtashemi Pur, il padrino di Hezbollah diventato nel frattempo ministro degli Interni. Per Rafsanjani la mancata vittoria nella guerra con l’Iraq è dovuta all’isolamento internazionale che ha impedito l’accesso alla tecnologia indispensabile per raggiungere la supremazia sui campi di battaglia. Il suo primo obbiettivo è Alla fine fu l’acerrimo nemico irakeno a fermare la strategia sciita del terrore rompere quell’isolamento, normalizzare le relazioni con gli Stati Uniti, migliorare quelle con l’Europa e ritornare a giocare un ruolo da grande potenza nella politica regionale. Tutte mosse negate ad una Repubblica Islamica considerata l’ispiratrice e la manovratrice del terrorismo internazionale. «Il problema del Libano ha una soluzione, il problema degli ostaggi ha delle soluzioni, ragionevoli e prudenti soluzioni» – dichiara ai primi d’agosto 1989 il presidente iraniano. Quelle parole da sole potrebbero non bastare se la Storia non ci mettesse lo zampino. Lo zampino decisivo lo mette, per ironia della sorte, proprio Saddam Hussein, il peggior nemico degli iraniani. Uno dei primi atti dell’invasione del Kuwait è l’apertura delle prigioni dove sono detenuti Badreddin e gli altri terroristi sciiti che Mughniyah cerca da anni di liberare. L’inconsapevole clemenza nei confronti di un gruppo che ha colpito a nome di Al Dawa, la più attiva formazione dell’opposizione sciita anti Saddam, fa piazza pulita di una delle principali condizioni poste per il rilascio degli ostaggi occidentali nelle mani della Jihad Islamica. • Giugno 1986. Corteo di Hezbollah nelle strade di Ourai, nei pressi di Beirut © Maher Attar/CORBIS SYGMA LABIRINTI DELLA COMUNICAZIONE S A B AT O 2 D I C E M B R E 2 0 0 6 IL DOMENICALE 9 STORIE DA TAVOLA di Luisa Cotta Ramosino eggendo la maggior parte degli articoli sfornati dai giornali (quotidiani o periodici quasi senza eccezioni) si ha spesso la sensazione che ai giornalisti incaricati il cinema piaccia davvero poco. Il gusto della visione è infatti rimpiazzato dall’amore smisurato per idee astratte che nel migliore dei casi portano il segno delle proprie personali fissazioni, nel peggiore quello di ideologie fastidiose e invadenti. Poco da stupirsi se i pezzi trasudano esibizione di colti riferimenti cinefili o, all’opposto, si compiacciono nell’esaltare l’ultimo scandalo o la bruttura del momento, nella speranza (vana) di essere i primi a scovare un fenomeno con cui riempire le pagine, poco importa se tra qualche giorno o mese anche questo L Piacere della critica o piacere del cinema? Fra tanta fuffa pseudocolta e compiaciuta, il “Farinotti” propone giudizi ricchi e motivanti. L’estensione sul web per il lettore libero di spirito le recensioni di cinema sono brutte: o astratte o marchette, o ideologiche o fissate, disorientano chi legge sarà passato. Per chi legge non è strano allora sperimentare un curioso senso di disorientamento una volta che in sala ci si trovi di fronte la pellicola infamata/esaltata/ignorata e si fatichi a ritrovare le coordinate di giudizi capaci spesso di concentrarsi su particolari minimi perdendo il senso dell’insieme e soprattutto il senso comune di chi – per istinto ancor prima che per consapevole decisione – in una pellicola si aspetta di incontrare una storia, un mondo, personaggi capaci di comunicare un’avventura umana più o meno interessante. È chiaro che compito del critico dovrebbe essere andare oltre il senso di curiosità e meraviglia che presumibilmente guida chi si reca a spendere euro in una sala cinematografica più o meno attrezzata, per cogliere e indicare al suo lettore ciò che di buono o cattivo (in termini di linguaggio, di idee, di originalità) una pellicola sa offrire. È un servizio che richiede disciplina e misura nel combinare gusto, passioni e simpatie (che soli sanno dare reale profondità e sostanza a uno sguardo altrimenti clinicamente sterile, ma ugualmente arbitrario) con una valutazione degli elementi comunicativi di un film, dall’efficacia della scrittura a quella della regia, dalla qualità delle interpretazioni alle novità di linguaggio, rassegnandosi a constatare talvolta che il regista o l’attore preferito sono rimasti al palo, o arrendendosi all’evidenza che quello da sempre snobbato/disprezzato ha (forse e raramente) prodotto il suo capolavoro. Cambiare idea su basi razionali a volte è più difficile che mantenere le proprie convinzioni per testarda cecità di fronte all’evidenza; e così questa benedetta disciplina mette spesso alla prova l’attitudine annoiata di chi, dopo anni di recensioni destinate a cadere nell’oblio di tutte le pagine di giornale, finisce per sacrificarla alla banalità di giudizi a effetto che rimbalzano da un quotidiano all’altro, da un ufficio stampa a una pagina internet in una curiosa eco. Ancora più importante è allora la misura che in ogni critica comporta, con filosofica memoria, la capacità di ponderare nel proprio giudizio. Intendiamoci, sviste ne prendiamo tutti, accecati dalla bellezza di un’immagine o intrigati da un intreccio di personaggi che magari promette più di quanto poi realizzi prima dei titoli di coda; e spesso chi scrive lo deve fare proprio sull’onda dell’emozione regalata dal buio della sala, andando a pescare dalla propria memoria (o da misericordiosi supporti informatici) quel riferimento che spiega la genialità di un accostamento o la curiosa scelta di un interprete. E meno male, perché forse è proprio questa fretta che, paradossalmente, talvolta impedisce di obliterare la storia appena vista a favore di un’opinione pre(post)costituita. • Il Farinotti 2006 di Pino Farinotti, Edizioni San Paolo, e29,90 I compiti della critica A una critica, ovviamente, non si chiede di essere infallibile, definitiva, esaustiva. Nessun lettore vuole sentirsi dire cosa deve provare di fronte ai virtuosismi di un regista o allo stile essenziale di un altro; non vuole sentirsi dire, poniamo, che è un’ingenua vittima dell’imperialismo culturale americano perché si lascia commuovere dall’ultimo film di Oliver Stone mentre si annoia a morte di fronte ai rivoluzionari marxisti dell’ultimo Loach; non vuole sentirsi dire che l’uso di una luce o di un colore è più importante della necessità di costruire un racconto che dica qualcosa di significativo e possibilmente vero sulla propria esperienza di essere umano, anche quando quello stesso spettatore se ne va al cinema solo in cerca di un onesto intrattenimento. L’INSIDER Lo Stato paga, Comencini gira, Milano fa le spese uale Comune ha visto approvare il piano regolatore lo scorso anno in una ventina di giorni? Qual è la città dove i due quotidiani locali sono entrambi di proprietà di costruttori? In quale contesto hanno mosso i loro primi passi i vari “furbetti del quartierino”? In quale città si trova Corviale, quartiere simbolo di periferie disumane e devastate da scelte urbanistiche impron- Q Sì, 1,4 milioni di euro provenienti dalle tasse di tutti gli italiani, e quindi anche dei milanesi, vanno a finanziare il film, a cui il ministero dei Beni culturali, appena insediato Francesco Rutelli, ha in fretta e furia riconosciuto il titolo di produzione di “interesse culturale nazionale” e dunque il sostegno economico dello Stato. Se applichiamo però vecchi schemi gramsciani, la lettura L’operazione dimostra peraltro quanto sia importante il cinema nell’economia gramsciana della cultura. Con buona pace del cinema, che non ci guadagna affatto tate al mattone senza qualità? Roma è la risposta esatta per tutti. Tranne che per Francesca Comencini, regista che ambienta in una Milano spettrale – almeno quanto lo era Pankow ai tempi del socialismo reale – la sua ultima opera A casa nostra. Ora, è chiaro che non si poteva chiedere alla Comencini di ambientare la pellicola all’ombra del Colosseo. Dovendo presentare il film alla Festa del Cinema nella capitale, sarebbe stato sgradevole schizzare di fango l’immagine della Roma veltroniana. Quest’ultima si basa , come è noto, sui peana di intellettuali lautamente foraggiati e su inspiegabili amnesie dei media locali su tutto ciò che non funziona: praticamente tutti i servizi pubblici. Quello che però proprio non si capisce è perché, per appioppare a Milano l’etichetta di città senza valori e senza morale, in mano ai palazzinari e ai corrotti, lo stato debba spendere un milione e 400mila euro. degli eventi è più chiara. La cultura come strumento di propaganda e consenso viene prima di qualsiasi preoccupazione per il rilancio in sala del cinema italiano. E naturalmente viene prima di quegli interventi strutturali a favore dell’arte come fattore di sviluppo del Paese. Ecco perché mentre per musei, gallerie e siti archeologici il governo Prodi non è riuscito a recuperare soldi, per il mondo dello spettacolo e per il cinema in particolare c’è stato un aumento degli stanziamenti. E si capisce anche il clima di agitazione permanente che il mondo del cinema ha riservato al governo Berlusconi, colpevole di aver timidamente voluto legare i finanziamenti statali a criteri meno discrezionali, cioè il cosiddetto reference system. Per concludere, una magra consolazione: il film è già sparito dalle sale. Ma questa è la costante del cinema italiano assistito dallo Stato negli ultimi trent’anni. • Hyeronimus Ciò che uno spettatore curioso vorrebbe dal “suo critico” è, forse, qualcuno capace di venire incontro, con la sua competenza, al suo desiderio di meravigliarsi, divertirsi, emozionarsi; informando, suggerendo connessioni, offrendo ipotesi di interpretazione, e, perché no, facendo venire voglia di esplorare nuovi mondi. Per questo ci piace la nuova edizione de Il Farinotti, che è una certezza, ma anche una bella sorpresa nel mondo delle ormai numerose guide ai film. Una certezza non solo perché è mostruosamente completo (oltre 33.000 voci con tutti i film usciti nei cinema italiani, ma anche dettagliati elenchi di premi e riconoscimenti), ma anche perché, sfruttando i vantaggi delle nuove tecnologie, ha l’umiltà e l’intelligenza di integrarsi preventivamente grazie al collegamento con il sito internet www.mymovies.it che, condividendo del Farinotti filosofia e impostazione, permette di non rimanere mai indietro, come pure di coltivare con maggior efficacia quello che è uno dei segni distintivi di questa rassegna. Il Farinotti, infatti, lungi dal restare rinchiuso nei limiti di una critica più o meno dettagliata, considera l’apprezzamento da parte del pubblico (valutabile in termini quantitativi, leggi incassi, e qualitativi, leggi giudizi espressi) un elemento fondamentale per costruire una valutazione che aspiri a non restare l’effimera espressione di una preferenza. Ci piace la spavalda scientificità con cui Farinotti e i suoi collaboratori intrecciano, come in un’equazione matematica della bellezza e del divertimento, giudizi dei critici, premi internazionali, incassi e valutazioni del pubblico per sfornare elenchi transgenerazionali capaci di accostare opera di ieri e di oggi, elenchi che suonano come un irresistibile richiamo alla visione. Nelle poche righe (a volte non poi così poche, si veda in casi di film che evidentemente devono aver conquistato lo scrivente, come nel caso di Master and Commander) dedicate a ogni titolo, il lettore trova tutto ciò che gli viene presentato, come auspicavamo poco fa, insieme a ciò che rende ottimo ogni servizio, gentilezza e competenza: una trama comprensibile, uno spunto di letture, una sintesi (grazie a infiniti e dettagliati simbolini) dei valori aggiunti della pellicola: premi, apprezzamento della critica e del pubblico e così via, oltre alla possibilità di tuffarsi nell’equivalente elettronico per esplorare quella che in tempi più felici per il nostro cinema si chiamava la “valigia dei sogni”. • Poco da star allegri con la tv che tira imbolo di mansuetudine e d’innocenza, con forti valenze nella religione cristiana, l’agnello è un animale che accompagna la vita dell’uomo sin dagli albori dei tempi. Amato dai Greci e dai Romani che, oltre a leggerne le avventure nelle fiabe di Esopo e Fedro, lo sacrificavano sugli altari degli dei, è ricordato in innumerevoli luoghi della letteratura. Spesso Dante, nella Commedia, lo ricorda come simbolo di Gesù Cristo («Io sentìa voci e ciascuna pareva/pregar per pace e misericordia/l’Agnel di Dio che le peccati leva»), mentre Marsilio Ficino lo utilizza per spiegare i suoi concetti filosofici: «Certamente l’agnello non ha in odio la vita e figura del lupo: ma la distruzione di sé che dal lupo seguita; e il lupo non per odio dell’agnello, ma per amore di sé, l’agnello divora». Giovanni Botero, nella Ragion di Stato, ricorre alla similitudine per stigmatizzare la violenza che regola i rapporti fra gli uomini: «l’insolenza è per tutto compagna della viltà, come si vede nel lupo, feroce con gli agnelli, timido co’ cani». Grande spazio ha in cucina: preparato in occasione delle festività pasquali, arrosto o anche fritto, l’agnello possiede una carne morbida, un po’ grassa, con soave aroma di selvatico che non riscontra il gradimento di tutti. Non ci sono poi dubbi sul luogo ove gustare il miglior agnello d’Italia. All’imbocco della Val Trompia, a Concesio, sorge uno dei ristoranti più eleganti, misurati e civili di tutta la Penisola: il Miramonti l’Altro (tel.030/2751063). In un ambiente di gusto e pacatezza potrete gustare gli squisiti piatti di Philippe Léveillé che affondano le radici nella tradizione locale ma escono dalla cucina ingentiliti dall’ottima mano francese dello chef. Ricordiamo il caldo-freddo di cavolfiori e aringa affumicata con le sue uova, il risotto ai funghi e formaggi dolci di montagna (straordinario!) e il magistrale crescendo di agnello con finale di suo carrè. Quest’ultimo, arrostito con una leggera panatura di erbe aromatiche, viene servito accompagnato da tutte le interiora dell’animale (fino a 14 preparazioni, cotte singolarmente una per una): dal cuore rosolato nel suo grasso, al fegato con le cipolle, alla guancia, alla trippa, al groppello (grasso dell’intercostata), al cervello fritto, fino al rognone, alle budelline, alla coda (preparata alla vaccinara) e al piedino gratinato. Gianluca Montinaro S IL FUMETTONE Un cowboy del Texas nell’abisso della fratricida Guerra Civile ov’era, che faceva Tex Willer all’ora tale, nel giorno tale, nell’anno tale, nel posto tale? Sì, perché i personaggi dei fumetti sembra che vivano sempre in un tempo sospeso nel nulla, impermeabili a quel che accade attorno, fissi in una timeline parallela che scorre attraverso la storia senza però lasciarsene scalfire. Sarà forse per questo che, nel 1985, prendendo di petto la questione suggerita da qualche vago riferimento disseminato non casualmente in alcune tavole di qualche vecchio albo, lo sceneggiatore Claudio Nizzi – l’erede letterario di Gianluigi Bonelli, il papà di Tex – ha deciso d’indagare per scoprire dove caspita fosse o cosa diamine facesse – «Peste!», direbbe ora Kit Carson se fosse qui – il più grande cowboy dei comics durante l’atroce, assurda, sciamannata Guerra Civile. Ne nacque allora una storia a puntate e di grande respiro, che oggi la squadra Bonelli ripropone in un albo di grande formato edito da Mondadori, Fiamme di guerra. Per la verità, la Guerra Civile fa solo da sfondo a un’altra vicenda, una sorta di giallo intriso di varianti al gusto di “tragedia familiare”. Ma è bene che sia così. D La tentazione di fare di un personaggio forte come Tex un eroe che nella vita ha fatto tutto, ha visto tutto, ha incontrato tutto, insomma un Tex già supereroe prima che tutto fosse, renderebbe la cosa stucchevole. Invece no. Durante la Guerra Civile, Tex era un cowboy qualunque, uno di molti. Tanto che nemmeno l’amico Carson sa di quelle sue lontane avventure. Viene però un giorno l’occasione perché Tex racconti a Kit di quei lontani trascorsi; ed è una di quelle occasioni che così, per serendipità, riesumano il passato sepolto, riportandolo prepotentemente a scontrarsi con l’oggi. Quasi trasponendo l’espediente narrativo alla Canterbury Tales nel selvaggio West, è un lungo viaggio in treno verso Richmond che permette, tra una sigaretta e l’altra, a Tex di riportare tutto alla memoria, raccontandolo a Kit. Il finale non ve lo racconto. Leggetelo nell’albo, ché vale la pena. Colgo invece l’occasione per qualche sottolineatura. La prima è che Tex Willer, figlio orgoglioso del Texas, quindi del Sud (anche se di un Sud che sta nell’Ovest degli Stati Uniti, è che non è lo stesso della Virginia, dell’Alabama, della Louisiana o del PAROLE & MUSICA Etichette e libri indipendenti o scorso fine settimana Faenza ha festeggiato il decimo compleanno del Meeting delle Etichette Indipendenti (MEI), l’annuale rendez-vous dove si dà convegno il meglio – ma forse anche il peggio – della scena “underground” italiana. Quella, insomma, che riesce a fare musica (e a venderla) anche al di fuori dei soliti circuiti dominati dalle majors e dalla “cupola” dei circuiti radiotelevisivi più conosciuti e potenti. Come di consueto, quindi, l’orgoglio di esserci e la voglia di farsi sentire l’hanno fatta da padrone, in un cartellone ricco di appuntamenti canori, concerti, jam-session e chi-piùne-ha-più-ne-metta. Con tanto di convegni, tavole rotonde e presentazioni. L Di dischi, naturalmente, ma non solo, con grande spazio alla parola scritta in tutte le sue vesti di rivista, fanzine, saggio, biografia o romanzo ispirati al mondo della musica. Ma la parte del leone, quest’anno, l’ha giocata la casa editrice Arcana che, per festeggiare il suo trentacinquesimo anno di attività, ha presentato in anteprima due succulenti volumi che racchiudono e snocciolano tutto lo scibile della musica nostrana. Il primo, l’Enciclopedia del rock italiano (a cura di Gianluca Testani, pp.425, ¤22,50), coinvolge la grande famiglia del Mucchio Selvaggio e parte da Celentano e dai mitici "urlatori" degli anni Sessanta per arrivare al recente trionfo della scena alternativa, passando dagli eterni Vasco e Ligabue e dalla rivoluzione punk-pop dello scorso decennio, in un percorso di vite e discografie di piacevole consultazione. E se questo dà conto delle distorsioni “made in Italy”, Voci d’autore – La canzone italiana si racconta (di Federico Guglielmi, pp. 360, ¤16,50) è un itinerario in dodici tappe attraverso quella musica “impegnata” e dai toni più intimistici che ancora oggi sa conquistarsi una larga fetta di pubblico e appassionati. Non solo i vecchi Battiato, Fossati e Guccini, infatti, ma anche Manuel Agnelli (Afterhours), Vinicio Capossela e Cristiano Godano (Marlene Kuntz), vengono intervistati e raccontati attraverso le loro vite “da palco”. • Ruggero Felino SPOT&GO Il manifesto e l’arte che si fa pubblicità reatività e comunicazione: un rapporto che si è fatto stretto e inconfutabile a partire dai primi del Novecento. Oggi come allora ci sono artisti che, nei loro lavori, operano sia “per”sia “con” la pubblicità. E così, nel contemporaneo, spot, carta stampata e gigantografie sono entrati a far parte della sfera artistica al punto che alcuni famosi manifesti, tra cui quelli di Lautrec e Depero, sono esposti in musei come il Louvre. A partire dalla metà del ‘900, infatti, con il riconoscimento del valore iconico dell’opera d’arte, si assiste alla lettura del fatto artistico come vera e propria forma di comunicazione. Un’interpretazione dell’arte come insieme di segni capaci di raccontare valori socialmente rilevanti. L’opera, parallelamente alla funzione estetica che si esprime nel generare piacere per la sua espressività, svolge anche la funzione di filo conduttore nel veicolare aspetti che rappresentano i valori fondanti della comunità. Come insegna il caso del manifesto. Che comunica, negli anni storici della fase industriale, sia la velocità di utilizzo delle immagini sia la rapida consumazione da parte del pubblico, imponendo così una virata repentina nei modi di pensare e di creare la pubblicità. In pratica, il manifesto diventa l’emblema della società moderna e della sua rivoluzione nel creare oggetti grazie alle nuove tecniche apportate dall’era industriale. Di conseguenza, assistiamo alla crescita delle committenze verso quegli artisti che operano nel mercato pubblicitario e che, in quegli anni, producono messaggi promozionali che getteranno le basi di un futuro rapporto fra le due discipline. Quindi, un manifesto doppiamente interpretabile: come strumento pubblicitario e come “faccia” speculare della società del momento, di cui vengono esaltate certe caratteristiche attraverso escamotage espressivi come l’appiattimento delle tinte e delle figure: a scapito di una maggiore descrittività, ma a tutto vantaggio di una comunicatività più immediata. E “pubblicità e arte” diventa il binomio nuovo che caratterizzerà il linguaggio della cultura di massa del ’900. Francesca Galli C Mississippi), sta dalla parte dell’Unione, i “nordisti” insomma. Perché? Perché Abraham Lincoln ha promesso di liberare gli schiavi. Bene. È bello che, quanto all’emancipazione dei neri, nell’albo si parli di “promessa”. Ci mise infatti ben due anni, Lincoln, per decidersi a liberarli, questi schiavi, e questo va sempre tenuto presente. Secondo. Il bello di Tex è che Tex è Tex. Nell’albo dice che ogni e ulteriore ragionamento è, per lui umile cowboy del Texas, troppo sofisticato. Gli pare che la schiavitù sia una scemenza, lo dice e poi si mette dalla parte di chi lo ripete. Punto e basta. Ottima cosa. Nell’albo vi sono infatti altri, spregevoli, che, pure del Sud, stanno con il Nord perché conviene. Terzo, la prigione “sudista” di Andersonville in Georgia, che nell’albo è Anderville, è un lager per internati “nordisti: una sorta di Auschwitz, anche nel nuovo “Texone” (soprattutto nel saggio di Renato Genovese che precede le tavole del fumetto). Addirittura, il comandante del campo, Henry Wirz, venne impiccato alla fine della guerra per violazione delle leggi belliche, unico ufficiale confederato a subire tale sorte. Ma, al tempo! Forse Andersonville è un altro di quei nodi che conviene sciogliere bene prima di gettarsi lancia in resta. Aiutano molto a farlo due libri, History of Andersonville Prison di Ovid L. Futch (University of Florida Press, Gainesville 1968), ma soprattutto The True Story of Andersonville Prison: A Defense of Major Henry Wirz di James Madison. Lo pubblicò nel 1908 un ex internato “nordista”. Che spiega che le atrocità avvennero per le condizioni pietose in cui la guerra aveva ridotto tutti e tutto, condizioni igieniche e derrate alimentari comprese. • Samwise VARIE 10 IL DOMENICALE S A B AT O 2 D I C E M B R E 2 0 0 6 Che cosa accade alla storia dell’Occidente se la si suddivide in fasi di repressione e di liberazione sessuale? Prova a dirlo uno storico francese STORIA CULTURALE DELL’ORGASMO I fatti della carne di certo toccano gli spiriti: ipotesi non nuova ma interessante, specie se alimentata da una curiosità indagatrice Esiste anche una brutta scimmia, si chiama pornodipendenza di Luigi Mascheroni l mondo guardato dal buco della serratura. L’atteggiamento di un popolo di fronte al sesso spiega molte cose, dalla struttura della società alla produzione artistica, dal diritto all’economia (i rapporti tra tensione ascetica del puritanesimo e ascesa del capitalismo, da Max Weber in poi, sono stranoti). E l’atteggiamento di fronte ai piaceri della carne, tabù e trasgressioni comprese, può spiegare anche le differenze culturali tra la nuova America e la vecchia Europa. Anzi, tra la vecchia e bigotta America e la nuova ed emancipata Europa. Così , almeno, secondo lo storico Robert Muchembled, il quale ha abbando- I l giorno d’oggi accade spesso che imbattendosi in un fatto increscioso si tenti di eluderlo senza risolverlo. La virtù di cui un uomo necessita in questi casi è quella del coraggio. Ne ha avuto in abbondanza Vincenzo Punzi per poter spalancare la sua anima o, per dirla con Baudelaire, per mettere a nudo il suo cuore. Laureato in economia, con un lavoro stabile – non un disadattato, dunque – si è scoperto pornodipendente: una sudditanza di cui sui media si parla poco in virtù della non troppa preoccupazione che essa provoca a prima vista. Questo testo fondamentale dimostra che invece l’argomento riveste importanza per tutti, dal ragazzo adolescente al cinquantenne in carriera. Si scopre un mondo – un vero e proprio incubo – che fino ad oggi è rimasto chiuso nei pensieri di pochi. Una manciata di persone che grazie al lavoro di Punzi e del suo psicologo hanno incominciato a parlare del loro problema per trovare una via d’uscita. Mezzo fondamentale di questa catarsi è stato un blog sul quale era possibile aprirsi senza lasciare nominativi compromettenti. Si incontrano alcune lettere commoventi in cui vengono a A nella firenze rinascimentale l’omosessualità era ampiamente tollerata nato la sua Francia edonista e libertina, dove insegna all’Università Paris-Nord, per rinchiudersi un anno intero nel monastico e puritano Institute of Advanced Study di Princeton a scrivere una monumentale storia del piacere dal Rinascimento a oggi (L’orgasmo e l’occidente, Raffaello Cortina Editore, pp.368, e29,00) le cui conclusioni dimostrerebbero che mentre l’Europa ha ormai trionfalmente, e orgogliosamente si direbbe, imboccato la via del permissivismo più disinvolto in fatto di sesso, i nostri cugini americani (più i tradizionalisti della Bible-Belt e del profondo Sud, meno i liberal di New York e del Nordest) si sono invece infilati nel vicolo cieco della pruderie. Se insomma noi europei non abbiamo mai disposto nella storia di una così grande libertà di scelta «per realizzarsi, godere del proprio corpo e vivere pienamente i propri desideri in un’eguaglianza erotica diventata possibile tra uomo e donna e anche tra partner dello stesso sesso» – scrive Muchembled – al contrario «gli eredi del nuovo mondo restano visceralmente legati a un modello occidentale repressivo in cui religione e famiglia nata dal sacramento del matrimonio sono i due pilastri della tradizione». Da una parte dell’Oceano un continente in balia del piacere (con tutti gli eccessi che ne derivano), dall’altra un enorme paese sotto il tacco della morale (con tutte le schizofrenie che ne conseguono). Tra repressione ed esplosione Difficile dire se Muchembled abbia ragione. La tesi, come ogni spiegazione che tenda a semplificare eccessivamente fenomeni così ampi dal punto di vista storico e così complessi dal punto di vi- l’amore che fa girare il mondo, il sesso serve solo a tenerlo popolato”, suona una celebre massima. Non si sa esattamente chi l’ha detta, e spesso viene da pensare che non sia neppure vera. In realtà, semmai, “è il sesso che fa girare il mondo”. Almeno, così sembra pensarla lo scrittore Thor Kunkel, classe 1963, autore nel 2004 del romanzo intitolato Endstufe, in Germania al centro di un caso editoriale che ha valicato i confini nazionali, è sbarcato in Inghilterra tra il cancan della stampa e ora approda in Italia con il titolo – perfetto dal punto di vista del marketing – Pornonazi (Fazi, Roma, pp.544, e21,00; traduzione di Madeira Giacci) impreziosito dal risvolto di copertina firmato da un elegiaco Pietrangelo Buttafuoco reduce dall’ennesima abbuffata dell’opera omnia di Leni Riefenstahl. Il libro-scandalo va detto subito, è un bellissimo romanzo. Nel senso che è provocatoriamente originale, scritto bene, curato nell’intreccio della trama, nell’ambientazione e nei personaggi, furbo ma non sfrontato, documentato nella ricostruzione storica. Ma se il suo collega americano (natura- • Vincenzo Punzi Io, pornodipendente sedotto da internet Costa & Nolan, Milano, 2006, pp.318, E8,60 Michelangelo da Caravaggio (1571-1610), Maddalena in estasi, particolare, 1606, collezione privata sta sociale, è azzardata e da più parti contestabile (lo stile di vita di un “mondo a parte” come la California, ad esempio, fa saltare tutti gli schemi), ma ha il merito di indicare l’elemento – il rapporto individuo/sessualità appunto – che più di ogni altro spacca in due metà differenti quell’Occidente che troppo spesso consideriamo come una realtà unica e omogenea. Più interessante, piuttosto, nello studio dello storico francese appare la suddivisione delle diverse “epoche del sesso”: ricostruendo il modo in cui lungo i secoli l’uomo occidentale si è trovato tra repressione dei desideri ed esplosione degli istinti a fare i conti con quell’oggetto ancora oggi misterioso – figuriamoci mezzo millennio fa – che si chiama orgasmo, Muchembled propone un’inedita periodizzazione che alterna fasi maggiormente repressive (dove prevale la virtù) e fasi più liberatrici (dove l’ha vinta il vizio). In sostanza, appena uscito da un lungo Medioevo dove micidiale era stato il controllo da parte della Chiesa delle pulsioni sessuali, l’Occidente cristiano si trova a vivere una breve stagione, quella che coincide con l’Umanesimo e il Rinascimento, nella quale la sessualità – i cui eccessi sono sempre comunque condannati dalla Chiesa e temuti dagli Stati – si rivela più “libera” che in passato, soprattutto tra i regnanti e nelle corti, se avesse curato di più le faccende di letto, l’occidente cristiano si sarebbe insanguinato meno le mani e a volte persino dentro i Sacri Palazzi del Vaticano, ma anche tra il popolino e la “classe” degli artisti: è l’epoca in cui nell’arte si riscoprono modelli pagani, l’individuo cerca di emergere da una rigida dimensione collettiva e si abbozzano le prime autobiografie letterarie e gli autoritratti in pittura, aumentano il numero di Divisa di SS, bella presenza e un bel giro cinematografico: così stupisce Pornonazi, caso internazionale che varca le Alpi “È galla difficoltà di relazione, scarso rendimento sul lavoro e – risvolto ancora più impressionante – situazioni di ragazzi quattordicenni già iniziati a questo inferno. Insomma, i racconti di un’anabasi dalle viscere degli inferi della dipendenza da pornografia, in cui i protagonisti, uomini che sembrano aver perduto la propria anima, hanno faticato, scalando una sorta di monte del purgatorio, per ritornare alla vita normale. Uno scritto educativo che non lascia il tempo di obiettare con i ma, e che descrive un fatto della realtà poco conosciuta così come esso si compie: dalla nascita alla morte, combattutissima, di una schiavitù mostruosa che si impossessa della mente di una persona e le cambia radicalmente la vita. Leggere queste pagine significa gettare luce su un angolo buio e, al tempo stesso, apprezzare un inno al coraggio. • Alessandro Gardini lizzato francese) Jonathan Littell è stato di recente premiato con il prestigioso Premio Goncourt per il romanzo Les Bienveillantes con al centro un ufficiale delle SS coinvolto nell’Olocausto che racconta la sua guerra, orrenda e disumana, senza tentativi di giustificazione e senza neppure mostrare segni di rimorso, il tedesco Thor Kunkel è stato prima boicottato e poi criticato (anche se, come è noto, critiche e boicottaggi di solito fanno vendere di più). Pornonazi – basato su un inedito lavoro di ricerca dell’autore sui “leggendari” film pornografici girati durante la guerra dai nazisti – narra la vicenda del giovane Karl Fussmann, SS poco convinto e assistente scientifico all’Istituto di Igiene di Berlino, che si trova – non del tutto suo malgrado, anzi – coinvolto negli affari del suo superiore, il conte Ferfried Gessner (forse la figura meglio riuscita del romanzo) il quale si rivela essere la mente (il braccio invece è il suo assistente-cameraman, l’irresistibile e cocainomane Aurel Hosten) della casa di produzione cinematografica Sachsenwald-Naturfilm GmbH, peraltro realmente esistita: i film, interpretati preferibilmente da biondi e prestanti ariani ma anche da ambigue aristocratiche italiane, hanno scopi patriottici (risollevare il morale delle truppe della Wehrmacht), bellici (approvvigionare di acciaio, con il denaro ricavato dalla vendita all’estero delle pellicole, la macchina da guerra nazista) e di puro business (l’arricchimento personale dei gerarchi). Senonché il nostro protagonista finisce per cadere vittima del fascino sia della propria divisa da SS capace di aprirgli tutte le porte in cui vale la pena di entrare sia della perversa pornostar antelitteram Lotte capace di aprirgli tutte le porte che invece sarebbe meglio non varcare. Come ha scritto del libro un autorevole columnist del Guardian: «Un romanzo con tutti gli ingredienti giusti: sesso, molto sesso, nazismo, ancora più nazismo, e uno spettacolare finale romantico» (intuibile, ma che non sta a noi svelare). Basti dire che in Germania, nel 2003, Rowholt, l’editore di Thor Kunkel, si è improvvisamente rifiutato di pubblicare il romanzo, accusando il suo stesso autore di revisionismo (troppo poco spazio dedicato alle persecuzioni degli ebrei e troppo sugli stupri alle donne tedesche da parte delle truppe dell’Armata Rossa piuttosto che ai bombardamenti alleati sulle città della Germania) finendo col sollevare un nugolo di polemiche nella stampa tedesca fino a che il romanzo è uscito da Eichborn nel 2004. Certo, di tutto si può accusare il libro (revisionismo storico, morbosità letteraria, furbizia editoriale), ma non di irradiare una insana fascinazione per l’ideologia nazionalsociali- Ironia, sesso, furbizia, dissacrazione e affabulazione: tutto tranne che apologia del nazismo sta. Se qualcuno avesse dubbi, basterà segnalare – uno tra tanti esempi nelle oltre 500 pagine – i dissacranti e grotteschi giudizi che i giovani dandy dissipati dell’associazione Wochenscheuen (anch’essa realmente esistita) e un azzimato conte Ciano «genero di Mussolini, autoelettosi patrono di Cinecittà, costretto per necessità al ruolo di ministro degli esteri italiano» riservano al Reich, ai suoi gerarchi e al Führer. Tutta gente, a loro dire, che avrebbe fatto meglio a darsi al porno. L.M. figli illegittimi e quindi delle relazioni pre o extramatrimoniali, l’omosessualità in città come Firenze risulta ampiamente tollerata. Ma è un fuoco di paglia, perché la morsa repressiva si stringe in fretta, e già dalla metà del Cinquecento, in pieno clima di Controriforma e guerre di religione, si assiste a un ritorno all’ordine ancora più rigido che in passato: si afferma, in antagonismo alla ricerca della voluttà, una sorta di culto del dolore e del castigo; per tutto il Seicento sia in ambito cattolico che protestante, tra censure tridentine e rigori puritani, l’Europa è soffocata da una cappa di moralismo e proibizioni che negano ogni tipo di piacere fino al punto che i manuali a uso dei confessori stabiliscono con minuzia ciò che è lecito, ossia pochissimo, e cosa no, cioè quasi tutto, nella sfera della sessualità (l’unica posizione ammessa dai teologi, e spesso dai medici, era quella del missionario, ossia la moglie supina e l’uomo sopra, mentre le posizioni “more canino” e “mulier super virum” erano ritenute contro natura); si scatena violentissima la caccia alle streghe (maledette “figlie di Eva” sessualmente troppo disinibite); si impone quello che Muchembled chiama l’«istituto del doppio standard maschile» (l’uomo che cerca nella prostituta il piacere che non può provare con la moglie, “utilizzata” solo per procreare); il corpo è sempre più circondato da paure e inibizioni, l’orgasmo in definitiva è o negato o nascosto. «Questa sorta di sublimazione collettiva alimentata dalla rimozione sessuale individuale contribuisce – nota Muchembled, aprendo il campo al tema dei rapporti tra liberazione degli istinti e creazione artistica da una parte e repressione delle pulsioni ed esplosioni di violenza sociale dall’altra – a generare, o quanto meno ad accompagnare, l’aggressività che il continente europeo mostra sulla scena mondiale». Insomma, se si fosse dedicato di più alle faccende di letto, l’Occidentale cristiano non si sarebbe insanguinato così tanto le mani. Ma anche in questo lo storico francese forse pecca di semplificazione. Allegria illuminista La cronologia del piacere e della morale batte un’altra ora. Il Settecento – con un’anticipazione nella filosofia libertina del secolo precedente – vede aprirsi un nuovo ciclo. Lentamente si affaccia una libertà di matrice epicurea che si affermerà poi nel periodo illuminista: a partire dalla Restaurazione inglese nel 1660 e dalla fine del regno oppressivo di Luigi XIV nel 1715 in Francia, il piacere carnale non è più visto – almeno dalle élite aristocratiche e filosofiche – come un peccato mortale ma come una trasgressione che libera il pensiero e infrange le convenzioni, il “fottere” al pari del mangiare e del bere diventa qualcosa di naturale così come insegnano i sempre più numerosi manuali di educazione sessuale che troveranno nell’opera letteraria del marchese De Sade il loro naturale compimento e già a partire da metà Seicento si assiste a una “svolta pornografica” che sdogana – almeno sul piano teorico delle parole e delle immagini – tutta una serie di perversioni fino ad allora inimmaginabili (amore lesbico, masturbazione femminile, sodomia, sesso orale, orge) concedendo timidamente alla donna – addirittura! – un primo diritto all’orgasmo. Ma quella libertina e illuminista non è che una breve seppure intensa ondata liberatoria prima di un frettoloso ripiego. L’età vittoriana incombe e avvolge coi suoi veli le nudità di Eva e i pensieri impudichi di Adamo. I modelli sono la buona educazione, l’autocontrollo, il culto del letto coniugale. L’ideale borghese – in una società come quella inglese nella quale la severissima legislazione contro gli omosessuali, i celebri mollies, non contemplava pene per le lesbiche perché la regina Vittoria si rifiutava di credere che gli amori saffici potessero esistere – ha come parole d’ordine moderazione, probità e monogamia. “Il grande gelo della pruderie vittoriana” (prendendo a prestito l’espressione con la quale il critico d’arte Kenneth Clarke bollò i gusti dell’epoca) scende su ogni forma del vivere sociale: la vista della nudità diventa scioccante, i medici mettono in guardia dagli eccessi nei rapporti coniugali (ancora in pieno ’900 c’è chi sconsiglia una durata del coito superiore ai dieci minuti), l’onanismo è considerato peccato mortale dai teologi e potenzialmente letale dai fisiologi, i casi di divorzio sono sempre più rari e il sesso in generale un tabù tale che dopo due generazioni di rigore morale e repressione, all’alba della psicanalisi, Freud e KraffEbing si trovano a curare individui che non osano utilizzare i loro organi genitali credendo di rischiare la morte per gli eccessi del piacere. Ci vorrà un nuovo secolo, due guerre mondiali e la “bomba atomica” del Rapporto Kinsey sul comportamento sessuale degli americani del 1948 prima che i rigori vittoriani (quan- l’era vittoriana getta un’ombra lunga quasi fino a noi. gl’inglesi coprivano anche i piedi del pianoforte do gli inglesi coprivano per pudore anche i piedi dei pianoforti) inizino ad attenuarsi. E bisognerà aspettare il vento di libertà del ’68 per vederli spazzati via definitivamente. Per l’Occidente, la rivoluzione erotica dei Sixties ha avuto sui costumi e la società la stessa carica dirompente, la stessa influenza in termini di cambiamenti apportati e le stesse conseguenze per gli stili di vita degli individui, di quanti ne ebbero la Rivoluzione francese sul piano politico e la Rivoluzione industriale inglese su quello economico. È superfluo, visto che ne viviamo ancora gli strascichi, ricordare l’effetto devastante della liberazione sessuale dei “favolosi anni Sessanta”, del femminismo, della pillola anticoncezionale, della rivendicazione dei diritti del “terzo sesso”, dell’esplosione del fenomeno porno (Gola profonda esce negli Usa nel 1972 e cinque anni dopo arriva in Italia), della diffusione del Viagra e della possibilità del sesso virtuale 24 ore su 24 in Internet. Benvenuti al giorno d’oggi Il ciclo è così compiuto. L’orgasmo è di tutti e per tutti: uomini, donne, anziani (spesso purtroppo anche bambini), omosessuali, transessuali, transgender&affini. Senza limitazioni di fantasia, senza sensi di colpa, senza più i lacci, o quasi, della morale. Almeno nell’edonista Europa, mentre l’America (che pure è e l’america? resta così “virtuosa” da scandalizzarsi per un seno che sfugge in diretta tv stata capace di riconoscere per la prima volta il matrimonio omosessuale, in Massachusetts nel maggio 2004) è ancora così “virtuosa” da scandalizzarsi per un seno furtivamente mostrato in diretta tv, come accadde con Janet Jackson durante il Super Bowl Halftime Show del febbraio 2004. Come dire che sulla strada della piena liberazione sessuale manca sempre un ultimo passo. Ma la storia dell’orgasmo e della sessualità è anche quella dei desideri proibiti e del corpo nascosto, delle vergogne e dei tabù legati alle funzioni organiche. E in questo senso, a ulteriore dimostrazione di come non sempre il sesso lasciato agli accademici debba per forza annoiare, particolarmente curioso (anche per la ricchezza dell’apparato iconografico: dipinti, stampe e incisioni sui temi del nudo, del bagno, del voyeurismo, dell’autoerotismo e del sesso dentro e fuori dal letto coniugale) è il saggio di Paolo Sorcinelli Avventure del corpo. Culture e pratiche nell’intimità quotidiana (Bruno Mondadori, pp.198, e15,00) che dal Medioevo alle soglie del ’900 – tra abitudini igieniche dei secoli sporchi e scandalosi “oggetti d’amore di quelli illuminati” manuali di teologia sui peccati sessuali e letteratura libertina, prescrizioni mediche e credenze della tradizione popolare – ripercorre il difficile rapporto, a lungo snobbato dagli studiosi, tra l’uomo e tutto ciò che riguarda la sfera sessuale. Un campo a volte imbarazzante da attraversare ma che finisce per insegnare sui cambiamenti della società e l’evoluzione del pensiero molto più di cento manuali “tradizionali”. Fermarsi a riflettere sul fatto che rispetto ai secoli “bui” in cui ci si spidocchiava in famiglia a lume di candela, il Settecento libertino per favorire l’abluzione delle dame ebbe il genio e l’ardire di inventare il bidet – o violon, alla francese – può aiutare a comprendere, grazie alle piccole innovazioni della “carne”, anche le grandi Rivoluzioni dello spirito. • ARTE E DINTORNI S A B AT O 2 D I C E M B R E 2 0 0 6 IL DOMENICALE 11 DANZA Qui accanto: Il poeta Cechov, 1921 – 22, terracotta, cm. 50x80x50, Rovereto, Mart – Collezione Pallini In alto a destra: Ofelia (particolare), 1922, gesso, cm. 135x89x39, collezione privata Sotto: La pisana (particolare), 1928, pietra di Vicenza, cm. 142,5x73x57, collezione privata Inaugura la Scala ed è subito “Aida”. Anche in mostra Nelle lettere di quegli anni si percepisce l’avversione quasi fisica per l’arte che aveva intrapreso fin da bambino: «un Artista completo si sente offeso nel fare lo scultore, come se a lui fosse imposto un istrumento di una sola nota, mentre lui sente quanto sia smisurata la sua urgenza», scrive all’amico Gino Scarpa nell’agosto 1944. Sta pensando soltanto al libro: «io non farò più una scultura a costo di fame e di qualsiasi altra conseguenza». Classico anche nella modernità A vent’anni dall’ultima rassegna pubblica di Arturo Martini, una grande mostra aperta a Milano e poi a Roma raccoglie oltre cento opere per rievocarne la grandezza, intera e troppo dimenticata. Mentre a Milano, oltre alle sale espositive, è stato organizzato un percorso guidato alle opere monumentali – la Ca’ Granda, il Cimitero Monumentale, il Palazzo di Giustizia, l’Università Bocconi, l’Arengario – la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, che conserva una delle raccolte più significative delle sue opere, ne presenta una vasta e rara antologica. «L’arte è la cosa più facile di questo mondo [...] è un’operazione naturale [...] averla in testa non significa niente. L’arti- za accademismi né l’ossessione di una modernità schiava dell’avanguardia. Agli inizi della sua avventura artistica espose con i futuristi, conobbe Umberto Boccioni, frequentò assiduamente Parigi, assimilò l’opera di Medardo Rosso. La sua indole più profonda gli suggerì tuttavia le regole di una personalissima concezione plastica che sembra superarsi di scultura in scultura, di periodo in periodo, da quello “di Ca’ Pesaro” (1908 – 13) con influenze indirette di Gauguin, PRIGIONIERO DELLA PROPRIA ARTE Milano e poi Roma celebrano il talento plastico di Arturo Martini. Che iniziò a scolpire bambino, e con somma maestria, per raccontare l’uomo e la sua storia, pur odiando la sua musa e sminuendola in ogni dove. Ma lei non gli volse le spalle di Beatrice Buscaroli n giorno, il maestro a scuola, legge il “Cuore”: Dagli Appennini alle Ande. […] Gli altri, finito il racconto, sono usciti di scuola come niente fosse, tutti lieti. Io ho dovuto essere accompagnato a casa dal bidello, e per sette giorni ho pianto. Questa era la misura tra il mio sentimento e quello degli altri». La sua vita, le sue lettere, i ricordi di chi ha scritto di Arturo Martini parlano di un personaggio diviso, macerato, spezzato a metà. Fu spezzato dal fascismo, cui aderì da giovane, prima della marcia su Roma; fu spezzato nella famiglia, diviso tra due donne che l’amarono e finirono con l’essergli accanto, fisicamente vicine al suo letto di morente; e fu spezzato nell’arte. Fu inquieto, tormentato: a metà degli anni ’40, quando tutto era al culmine, la guerra, la sua vita privata, il futuro incerto per tutta l’Europa, decise di farla finita con la scultura. Pubblicò il libro Scultura lingua morta, che uscì nel 1945. Da qualche anno aveva cominciato a dipingere: nel 1940 aveva tenuto la sua prima personale alla galleria Barbaroux presentando solo opere di pittura: «Io farò assolutamente il pittore […] La mia conversione non è un capriccio, ma è grande e forte come quella di Van Gogh», scriveva in quel febbraio. «U In quegli anni, Arturo Martini (Treviso 1889 – Milano 1947) era un artista importante, chiaramente riconosciuto tra i primi scultori italiani. Pensieri duri come frecce, taglienti come dardi, si scagliano contro la scultura nella forma di aforismi: «Riprova della serietà della scultura al soggetto l’impos- sibilità di metafora»; «Poesia pittura e musica si giovano frequentemente di questa risorsa; per esempio L’ aurora dalle dita di rosa è immagine che si potrebbe esprimere anche in pittura o in musica»; «Così, per far comprendere che quel vecchio dalla barba irsuta è un Nettuno, sarà d’obbligo mettergli in mano il tridente». ARTURO MARTINI, MILANO, MUSEO DELLA PERMANENTE E FONDAZIONE STELLINE, FINO AL 4 FEBBRAIO, INFO: 02/6551445 POI A ROMA, GALLERIA NAZIONALE D’ARTE MODERNA, DAL 25 FEBBRAIO AL 13 MAGGIO, www.arturomartini.info sta è un operaio. Non ha qualità particolari a sua disposizione se non questo sacco poetico: quando ci mette le mani, tira fuori». Basterebbe questa dichiarazione per riassumere la naturale urgenza fisica nell’intendere la scultura, in cui l’emozione, la spontaneità e il mestiere divengono condizione essenziale per lavorare. Sono forse questi presupposti, una naturale e invincibile inquietudine, che porteranno Martini a superarsi di continuo, sempre alla ricerca di una“modernità” che fosse realmente figlia dei tempi senza l’ossessione dell’originalità che, secondo l’artista, «è la più tremenda delle prigioni: come la prostituta che deve apparir vistosa per attrarre l’estraneo». Guardando alla sua indole passionale e romantica da un lato e alla lezione della classicità dall’altra, l’artista si trova al centro di una costante ricerca dell’assoluto, in una sequenza inesausta di episodi espressivi, di riduzioni, di schiacciamenti ed eruzioni telluriche nelle forme plastiche. Il dramma della sua vita fu quello di riuscire a restare un classico, pur sentendo che la scultura aveva esigenze nuove che cominciavano a farla uscire dalla forma, reagire con lo spazio: «Mio padre aveva la siringa per dare la forma al burro. Io vorrei fare la scultura così: allargarla, stringerla spingendo». La sua conquista è quella di essere rimasto nell’ambito dell’umana figurazione sen- Matisse e Boccioni, al “periodo di Valori Plastici” che richiama volumi geometrici puri; dalla crisi creativa (1924 – ’28) al trionfale “periodo del canto” (1935), in cui raggiunse la sua poetica più alta, ma sempre e comunque legato al racconto plastico dell’uomo come storia. Dopo la guerra fu epurato dall’insegnamento; soffrì orribilmente: «siccome morivo di fame col giolittismo ho creduto a questo movimento, cioè al fascismo, per il miglioramento delle sorti mie e dell’Italia». Nel 1950 Orio Vergani scrisse: «l’epurazione lo aveva stroncato. Per guardar la gente faccia faccia, beveva dieci aperitivi prima di ogni pasto e consumava un tubetto di simpamina al giorno». Era un animo nobile, capace di aspirare soltanto alla purezza. Le ultime lettere sono tutte alla moglie. L’aveva abbandonata, tradita, ferita, ma desiderava tornare con la sua famiglia. «Carissima Brigida il mio programma è questo: [...] Ultimo e più importante che tu mi scriva che la mia venuta ti fa contenta e che seppellito il passato non se ne parli più. Insomma, ho una gran voglia di vita nuova». Lei gli chiese di aspettare, lui continuava. Il 22 marzo 1947 morì improvvisamente a Milano, senza aver rivisto la sua casa. «Speriamo nella costituente, speriamo nella bomba atomica, speriamo e spereremo sempre che finiscano le chiacchiere e le promesse...». • AVANGUARDIE Il Novecento e l’anima sua Scultura e pittura nella raccolta di un insolito mecenate li austeri spazi del piacentino Palazzo Farnese ospitano L’Anima del Novecento. Da De Chirico a Fontana. La Collezione Mazzolini. Una mostra nata dal gesto di generosità di Rosa Domenica Mazzolini e dalla curiosa storia del suo passato. Infermiera presso lo studio dentistico milanese Giovanni Battista Simonetti, ubicato in Brera, la donna ha infatti donato alla Diocesi della sua città la cinquantennale collezione d’arte che ereditò dal medico. Il quale, come documenta Renato Barilli nel suo saggio in catalogo, fu una sorta di mecenate per gli artisti che frequentavano il suo studio e che spesso lo ricompensavano con le loro opere. L’Anima del Novecento rappresenta un unicum di eccezionale valore in quanto documenta il susseguirsi di tutti i movimenti della tradizione figurativa italiana del secolo scorso. Gli 872 quadri e le 27 sculture della collezione, per volontà della Diocesi, sono esposte a Piacenza presso il Museo Vescovile di Bobbio (insieme a preziosi oggetti di arte sacra solitamente non visibili al pubblico) e nelle sale del Palazzo del podestà di Castell’Arquato (per informazioni: Cenacolo srl, tel. 0523/590372). Fino al 4 febbraio 2007, l’emozione della scoperta, lo stupore di un silenzio di fronte a un quadro, la libertà inventiva di ritrovare la propria verità nei colori, saranno scelte soggettive o paradossi inquietanti che il visitatore potrà decidere di rischiare approcciando un Carrà, un De Chirico o un Campigli. Allegato alla collezione esiste un interessante carteggio tra Simonetti e gli artisti del tempo, a testimonianza dei contatti amichevoli intercorsi tra le parti come dell’acceso dibattito culturale di quegli anni. G Ma chi sono dunque i protagonisti di questa antologia dell’arte italiana nel secolo più drammatico del passato europeo? Dalla Metafisica al Novecento Italiano, dal Chiarismo al Gruppo Corrente, dall’Astrattismo al Realismo Esistenziale, tutti i movimenti delle avanguardie figurano in mostra. Ricordiamo di Giorgio De Chirico Ippocrate che rifiuta i doni, affiancato da Musa metafisica, un rapsodico manichino scenograficamente strutturato sullo sfondo di una piazza lontana. Diverse sono le opere di Filippo De Pisis, abile nel ritrattare il gioco delle apparenze con segni fantastici di lucida consapevolezza dai tratti espressionisti: Hommage a Moranti e Grigia Parigi sono momenti allucinanti di un animo alla ricerca. Massimo Campigli ne Le Tessitrici rivive ricordi arcaici di un’infanzia di paese. L’itinerario prosegue con tele di pittura di forme libere, nature e paesaggi di Barilli e Turcato, per arrivare al movimento spaziale di Lucio Fontana e concludersi con l’Achrome di Piero Manzoni, in cui viene superato il concetto stesso di colore. Didattica, immediata e storicamente strutturata, la mostra vive di sensibilità segrete, di intensa condivisione che illumina il presente sul mecenatismo novecentesco che in questo caso diventa meritorio e di slancio. Fusione di linguaggi, vibrare di spiriti in consonanza, creazione e fruizione danno vita a un coro di manifestazioni culturali che, intorno all’Anima del Novecento, riveleranno artisti e giovani critici d’arte in convegni e seminari sul collezionismo attuale e sui sistemi museali. Chiesa e arte si incontrano e credono insieme nell’universalità di un messaggio. • Maria Giovanna Forlani L’intima vocazione della pittura A 50 anni dalla morte, Bologna ricorda Bertocchi e la sua arte “di paese” apitato a vivere in un momento di leggerezze critiche e sperimentali, Bertelli oppose la solennità e la fermezza delle sue composizioni [...]. Scontò la sua resistenza e la sua certezza nel modo più duro: ma la sua opera è ancora un punto di riferimento, una eredità preziosa». Non è un caso se per raccontare la pittura di Nino Bertocchi scegliamo di partire dalle parole con cui lui stesso rese omaggio a quella di Luigi Bertelli. Tutt’altro, è un tributo alla coerenza del suo pensiero di uomo e di pittore, alla costanza con cui lui stesso resistette alle tentazioni delle avanguardie e all’indifferenza della critica per tenere fede a quell’idea di arte che gli cambiò la vita. D’improvviso, dopo una laurea in Ingegneria che servì solo per costruire la sua abitazione e che poi ripose in un cassetto per lasciare posto al demone della pittura, suo nuovo e folgorante amore. Passione che coltivò da autodidatta, ispirandosi a Bertelli, appunto, e ai Macchiaioli toscani, a Courbet e a Cézanne, agli impressionisti francesi. All’Ottocen- «C to, insomma, lui che solo per un soffio nacque nel XX secolo, e che di quell’incalzante Novecento non condivise mai il nichilismo né la voglia di sensazione, il rifiuto dei canoni né la fuga dalla forma. La sua pittura, infatti (fatta di oli, carboncini, matite e incisioni) disegnò un sentiero unico nella figurazione del “reale”, un incedere sicuro tra ritratti, nature morte e vedute campestri, trovando soprattutto in quest’ultimo tema la via per dare sfogo al suo sentimento quasi religioso per la natura. Perché, scriveva, «l’amore per la pittura di paese ha coinciso e coinciderà in infiniti casi col gusto della contemplazione solitaria, col desiderio di un’intimità spirituale che consenta all’uomo di comunicare con Dio in un linguaggio dei più patetici e dimessi». E, proprio come una fede, questa tensione ideale verso il bello non lo lascerà mai. Ossessiva e totalizzante, con tutto quel carico di aspettative tradite e senso di inadeguatezza che ne fecero un critico severissimo, con gli altri (recensendo mostre per il Resto del Carlino, Italia Let- Qui sotto: L’aia, 1943, olio su tela su cartone, Bologna, Fondazione Archivio Bertocchi–Colliva Sopra a destra: Studio per autoritratto, 1926, tecnica mista su carta, Bologna, collezione privata rima che giovedì 7 dicembre, Aida, opera inaugurale della stagione scaligera, ci “stupisca” com’è nel desiderio di Franco Zeffirelli, regista e gran visir dell’evento, è il caso di fare un salto al secondo piano del Museo del Teatro alla Scala. Dove si è appena aperta la mostra, curata da Vittoria Crespi Morbio e Maria Pia Ferrari, dal titolo Celeste Aida (fino al 14 gennaio). Il percorso è breve, denso e affascinante. La mostra è la prima tappa dei festeggiamenti per il bicentenario di Casa Ricordi, che offre la vera chicca dell’esposizione: la partitura autografa di Aida, alla quale Verdi lavorò nel 1870. Accanto, le lettere del musicista che accompagnarono l’accettazione del lavoro, pensieri che ci restituiscono uno spaccato dell’uomo Verdi. Il percorso offre poi figurini di Comelli, costumi di Caramba, musica, diapositive e varie incursioni multimediali nei meandri dello spartito. Un secondo e forse più incisivo piacere lo offre il catalogo della mostra, che approfondisce soprattutto la parte costumistica e scenografica. E lo stupore è tutto per i “moderni” e affascinanti costumi di Attilio Comelli, proprio per l’allestimento del 1906 alla Scala. In essi già si sentono i moti del nuovo P teraria, Frontespizio e Casabella) e soprattutto con se stesso. Lavorando e distruggendo le proprie tele in un «martirio assillante e inconclusivo». Vivendo la pittura come una vocazione spirituale, faticosa e sofferta, alla ricerca di una perfezione stilistica che inseguì fino all’estremo giorno. Letteralmente, perché il 22 giugno del 1956 terminò il suo Ultime rose, e l’indomani morì. Nella casa dove tornava ogni primavera, a Monzuno, tra le valli e i campi che circondavano la sua Bologna. Che oggi, a cinquant’anni dalla morte, lo ricorda con una grande retrospettiva presso gli spazi di Casa Saraceni (fino al 15 dicembre; info: www.fondazionecarisbo.it). Dove, finalmente, si raccoglie l’intera eredità della sua arte, attraverso una novantina di dipinti, una ricca scelta di incisioni e disegni, e l’antologia completa dei suoi scritti, come critico, giornalista e autore di monografie di artisti. Dedicate a Giacomo Manzù, a Gianni Vagnetti e al “suo” Bertelli. • Matteo Tosi secolo irrompere nelle trasparenze, nella leggerezza dei tessuti, nelle eleganti nudità di una più intima interpretazione di Aida. Ma la cosa che più sorprende sono i colori: oro, naturalmente, e verde acqua. Gli stessi toni e trasparenze per le scene di Franco Zeffirelli che ha usato anche nuovi materiali – come i costumi di Maurizio Millenotti, che non dovranno comunque sottrarsi alla grandiosità tipica dell’opera. Grandiosità e forza, un connubio che si identifica anche in Zeffirelli – Vassiliev, regista e coreografo (nella foto, durante le prove) che insieme hanno già firmato, molte altre opere. Per Vladimir Vassiliev, uno dei più grandi danzatori del XX secolo – con Nureyev e Barishinikov, infatti, forma la prestigiosa “triade russa” della danza maschile – non è la prima volta alla Scala. Debuttò con Noëlla Pontois in Giselle l’11 febbraio 1984. Di Vassiliev, formatosi al Bolscioi e sua guest per un ventennio e poi all’estero nei più grandi teatri, ricordiamo gli insuperati Ivan il terribile, Spartacus e Zorba il Greco, diretto, all’Arena di Verona, dallo stesso Theodorakis. Dotato di una grande capacità tecnica unita a una grande espressività, gli abbiamo chiesto che cosa riuscirà a portare della sua esperienza di danzatore e di coreografo operistico. «Credo la forza interpretativa. La danza sarà un fluido che correrà per tutti gli atti e seguirà la musica. Il mio lavoro è ancora in divenire, lo concluderò con l’alzarsi del sipario la sera del 7, solo così sarà vibrante. I danzatori dovranno emozionarsi ed emozionare il pubblico, al pari dei cantanti. Luciana Savignano, che mi stupisce ogni volta per il suo talento artistico, sarà la Sacerdotessa che presiederà gli eventi. Roberto Bolle, che ho trovato artisticamente più maturo di qualche anno fa, danzerà con Mirtha Kamara, guest americana del New York City Ballet e del Miami Ballet. Entrambi saranno i protagonisti della grande scena di danza del secondo atto. Ma, come Zeffirelli, ho avuto particolare cura per i movimenti del terzo e quarto atto, più intimi. Qui si deve sentire che scorre il Nilo e vivono le Ninfe ed è il posto dove alla fine deve scorrere anche la pace». La pace che alla fine abbraccerà anche i protagonisti, Violeta Urmana e Roberto Alagna, il direttore Riccardo Chailly e tutto il nutritissimo staff di interpreti e tecnici di questo spettacolo. Che, anche senza ospiti esotici, non rinuncia mai alla sua grandiosità. • Aurora Marsotto WEEK END LA GITA Montemerano Tra le colline della Maremma toscana, vicino Saturnia, si può scoprire un piccolo gioiello: il borgo medievale di Montemerano, abbarbicato su un picco della valle dell’Albegna. Sorto intorno all’anno Mille, conserva ancora intatta la cinta muraria con i suoi bastioni cilindrici. Addentrandosi negli stretti vicoli dell’abitato si può poi visitare la splendida chiesa di San Giorgio e quindi fermarsi a pranzare Da Caino (tel. 0564/602817) per gustare la magistrale cucina di Valeria Piccini. L’EVENTO Ultima chiamata: Moda e Letteratura Roba di altri tempi? Assolutamente no. Domenica 3 dicembre, all’interno del negozio Ralph Lauren di via Montenapoleone a Milano, ci sarà un Litterary tea: un vero e proprio incontro letterario in cui la scrittrice e attrice Francesca D’Aloia reciterà insieme alla giovane attrice Margherita Missoni brani presi dal suo ultimo libro Il sogno cattivo, edito da Mondadori. Naturalmente il tutto rigorosamente accompagnato da tè e pasticcini. IL DVD V Per Vendetta Una pellicola avvincente e provocatoria, tratta dai fumetti di Alan Moore. Ambientato nel futuristico paesaggio di una Gran Bretagna dominata da un regime totalitario, narra la storia di una giovane donna, Evey, la cui vita viene salvata da un uomo mascherato conosciuto come “V” che scatenerà una vendicativa rivoluzione per sollevare i suoi concittadini contro la tirannia e l’oppressione. Molto ricca la sezione extra, con documentari e approfondimenti sul film. Regia di James McTeigue. L’APPUNTAMENTO Alla scoperta di idee e talenti Fino al 3 dicembre alla Fortezza da Basso di Firenze c’è il Festival della creatività, un appuntamento ricco di idee, ricerca e innovazione. Il programma presenta 120 eventi e 200 espositori accompagnati da convegni, laboratori e artisti internazionali. Ingresso libero e aperitivi offerti da Mtv. Info: tel. 055/2719931. LA MUSICA Note d’amore Down on my knees, il suo implorante e disperato canto d’amore, l’ha imposta all’attenzione di tutti grazie a una rotazione radiofonica ad altissima frequenza. E così, la scorsa settimana, Ayo è sbarcata in Italia, a Milano e Roma, per presentare Joyful, l’album d’esordio (Polydor, ¤15,90), con due concerti per soli palati fini. In un’atmosfera sognante, sospesa tra la malinconia del blues e la vitalità del reggae, illuminata dalle alte vibrazioni della sua voce d’ebano e dallo squillare del suo sorriso. LA MOSTRA Annibale Carracci A Bologna, fino al 7 gennaio 2007, al Museo Civico Archeologico si può ammirare la mostra di Annibale Carracci, un protagonista della pittura secentesca. Un’esposizione ricca di ritratti, caricature, dipinti e paesaggi del grande maestro che si ripeterà a Roma dal 23 gennaio al 6 maggio 2007, ospitata nel Chiostro del Bramante. Catalogo Electa. Info: tel. 02/54915. EDICOLE AMICHE DEL “DOM” Venendo incontro alle richieste di alcuni lettori pubblichiamo un elenco di edicole dove il Domenicale è sicuramente disponibile. Facendo presente che il giornale è ordinariamente reperibile in 11.000 rivendite, invitiamo altri edicolanti di tutt’Italia che gradissero essere segnalati a comunicarci il loro recapito WWW.ILDOMENICALE.IT VISITA LA NOSTRA HOME PAGE, ISCRIVITI ALLA NOSTRA NEWSLETTER GRATUITA E SCARICA I NUMERI ARRETRATI CHE TI SEI PERSO, DIRETTAMENTE IN FORMATO PDF MILANO • Largo Gemito/via Casoretto • Largo Augusto • Libreria Feltrinelli, Via Manzoni • Esselunga, Via De Angeli • Largo Nirone/ corso Magenta • Piazza Cardinal Ferrari TORINO • Piazza Freguglia • Via O. 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