i prodotti dell`italia liberata

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i prodotti dell`italia liberata
in questo mondo non vi è nulla di sicuro tranne la morte e le tasse
la “recensione”
ha perso
il senno. noi no
esercizio della
“recensione” non ha
più senso. Ridotto
alla torsione atletica del
tennista che fa tic e toc
contro al muro, lui, la
racchetta, la pallina e il
crepato rettangolo di
cemento, perché nessuno
lo vuol più come avversario.
Eccolo rifilato, il senso della
“recensione”. Agonismo puro.
A scrivere del libro
di un altro te le davi di sana
pianta. La letteratura,
roba millenaria, è schietta
competizione, e chi muore
è perduto per sempre – salvo
ripescaggi dell’ultima ora.
Insomma, affare di giochi
sporchi, ma pur sempre viso
contro viso, capoccia contro
capoccia. Oggi, semmai,
i giochi sporchi si trescano
sotto il desco. E ci sono
editori che pagano per avere
la “recensione”, e giornali
che pagano per avere
l’“anteprima”.
Con tutta la libertà
di scazzottare che ne
sovviene. Cioè, polsi mozzati
di netto e bocche cucite,
anzi, con il sorriso stampato
in volto. La “recensione”
è divenuta il covo dei
mercanti nel luogo di culto.
Tu dai una cosa a me
e io a te, tu mi fai pubblicare
un libro e io ti faccio
un tot di recensioni.
E a chi rivolta il banco
a tali usurai, gliele suonano.
È la storia del “politicamente
corretto”, per cui hai
la libertà di dire solo ciò
che suona bene.
L’
COME E PERCHÉ
LA STRONCATURA
È STATA SOSTITUITA
DALLA MARCHETTA
alle pagine 4 e 5
Altrimenti, si scatenano
le belve dall’anima bella,
e diventi l’agognato capro
da far spirare.
Con il risultato che per essere
uno scrittore alla luce
del sole, con lauro annesso,
o divieni un “caso”,
cioè scrivi delle boiate
tremende, o sei un
giornalista, cioè hai un sacco
di amici e una quota
di crediti da riscuotere.
Noi, che non abbiamo amici
e semmai facciamo
di tutto per toglierceli
di torno, diciamo
le cose come sono.
Abbiamo in odio, oltre alle
truppe dei recensori in divisa,
anche quelle dei lagnoni
del “si stava meglio quando
di stava peggio”. Sì, diabolici
fino in fondo. O con noi
o contro di noi.
•
Davide Brullo
POSTE ITALIANE SPA SPED.ABB.POST. - 45% ART.2 COMMA 20/b LEGGE 662/96 D.C. MILANO
REGISTRAZIONE TRIBUNALE DI MILANO
N.362 DEL 17/06/2002
REDAZIONE E AMMINISTRAZIONE
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al foro traiano c’è la “bottega dei sapori della legalità”. come fossimo nella colombia del “cartello di medellín”
I PRODOTTI DELL’ITALIA LIBERATA
venda salsicce prodotte nelle zone
del Merseyside recuperate alla legalità? Nemmeno il più acceso leghista avrebbe potuto immaginare
una tale dimostrazione di disprezzo per le regioni meridionali.
di Emilio Mordini
arco Ulpio Traiano, primo
imperatore non italiano,
nacque in Spagna il 18 settembre del 53 d.C. La sua fu una
carriera da soldato: mentre era governatore della Germania fu scelto
come erede da Nerva al quale subentrò il 27 gennaio del 98, all’età di
45 anni. Fece il suo ingresso a Roma a piedi, come un cittadino qualunque. Qui scelse come dimora
un palazzo modesto dove visse sobriamente per tutti i venti anni durante i quali governò l’Impero con
saggezza e discernimento. La sua
fama è dovuta principalmente alle
imprese militari. Le campagne di
Traiano si svolsero in Armenia, in
Arabia e in Dacia. La Dacia era un
problema per i Romani. Solo il possesso di questa regione, infatti, poteva permettere di creare una stabile linea difensiva contro le invasioni barbariche. Nei primi cinque
anni del proprio impero Traiano riuscì a conquistare la Dacia. Questa
M
tra caciocavalli
democratici e
salamelle antimafia,
l’impresa di traiano
imperatore
impresa è celebrata dalla Colonna
traiana, alta 40 metri, scandita da
un fregio a spirale ornato da 2500
figure che rappresentano gli episodi della spedizione. La colonna,
uno dei più noti e affascinanti monumenti della Roma imperiale, sopravvissuta grazie a papa Gregorio
Magno, oggi è ospitata ancora dove fu originariamente eretta, nell’omonima piazza di Roma compresa tra il Campidoglio, il Quirinale e il Colosseo.
Quale dio li ha accecati?
Dinanzi alla colonna traiana
l’alacre solerzia dei nuovi governanti dell’Urbe ha voluto ora ricordare un’altra vittoriosa campagna
militare. Dal 17 novembre scorso,
al numero 84 di piazza Foro Traiano, in un locale ricavato sul retro
del cinquecentesco Palazzo Valentini, sede della Provincia, sorge infatti la “Bottega dei sapori della legalità”, un negozio riservato esclusivamente alla vendita di prodotti
alimentari provenienti dai terreni
confiscati alla mafia. Il progetto –
spiega un comunicato stampa della Provincia – nasce da un protocollo d’intesa siglato dal prefetto di
Roma, Achille Serra, dal presidente
della Provincia, Enrico Gasbarra, e
dal presidente di “Libera”, don Luigi Ciotti. Dietro a una robusta grata
(non si sa mai), le vetrine espongono caciocavalli democratici, salamelle antimafia, melanzane sott’olio etiche e solidali. Accanto all’ingresso due colorati pannelli bilingue – italiano e inglese – spiegano
al cittadino romano e al turista che i
Colonna traiana a Roma, © Royalty-Free/Corbis - elaborazione grafica
ANNO 5 NUMERO 48
SABATO 2 DICEMBRE 2006 A 1,50
Benjamin Franklin (1706-1790), lettera a J.-B. Leroy del 13 novembre 1789
prodotti venduti nella bottega provengono da province delle terre del
Sud Italia faticosamente riconquistate alla legalità: «I cittadini della
Provincia di Roma non vogliono
più violenza, sangue e morte. Gridano alle donne e agli uomini della
mafia e della criminalità organizzata che non c’è più spazio per i loro favori, per il loro denaro, per il
loro terrore». Un elenco di cooperative e associazioni senza scopo di
lucro responsabili della produzione delle gourmandise, e un avvertimento che i prodotti sono reperibili
anche nel circuito Coop (à la guerre
comme à la guerre), completano le
informazioni.
Ho scoperto per caso questa
botteguccia, nel corso di una passeggiata mattutina. Quel giorno
Roma era bella come non mai. Nell’aria tersa di novembre un sole tie-
pido illuminava Via dei Fori imperiali e scaldava i cavalli delle carrozzelle che usano sostare proprio
accanto alla Colonna Traiana. Un
gruppo di seminaristi domenicani,
con la tonaca bianca svolazzante e
il domino nero, si affrettava per le
scale di via Magnanapoli. Una coppia di ragazze giapponesi fotografava da lontano il Vittoriano e un
anziano turista americano – capelli argentati, blazer blu, scarpe da
ginnastica bianche – leggeva i pannelli della “Bottega dei sapori” o,
forse, s’interessava ai formaggi.
Quale dio – mi sono chiesto –
ha così accecato i nostri amministratori per far loro compiere un
misfatto tanto ignobile ai danni del
proprio Paese? Quale demone ha
indotto un integerrimo uomo delle
istituzioni come il prefetto Serra a
voler dare della settima potenza
industriale un’immagine degna
della Colombia del cartello di Medellín? Che follia ha colpito il presidente Gasbarra per spingerlo a cercare di convincere il turista di passaggio che l’Italia è a tal punto controllata dalla criminalità organiz-
forse credono che a
parigi si legga tutto
il dì “micromega”,
e in giappone si
discuta di santoro
zata che si possa parlare di “territori liberati”? Ve lo immaginate un
negozietto a Place Vendôme che
spacci formaggi prodotti nei territori liberati della Corsica? O una
bottega a Piccadilly Circus che
Inguaribilmente provinciali
Una parola mi venne alla mente. Provinciale non è solo ciò che riguarda un’unità amministrativa
chiamata “provincia”, ma si dice
anche di una visione ristretta delle
cose. “Provinciale” è pensare che il
mondo sia piccino come il proprio
limitato orizzonte. Certo, so bene
che quella bottega è anche frutto
del solito piacere fatto agli “amici
degli amici” (i confini del familiarismo amorale si estendono ben oltre Cosa Nostra), ma temo che la
faccenda sia più grave dell’ovvia
“marchetta” politica. Quanti locali
inutilizzati ha la Provincia di Roma, quanti posti diversi si sarebbero potuti trovare? Non c’erano una
scuola abbandonata, un palazzotto inutilizzato dove rendere felici i
giovanotti di don Ciotti senza produrre troppi danni all’immagine
dell’Italia? Ahimè, la scelta del Foro Traiano denunzia una volontà
salda, una convinzione pervicace.
Costoro credono davvero che il telegiornale più visto in California
sia il Tg3, che in Giappone nessuno si perda una trasmissione di
Santoro e che i parigini si appassionino leggendo Micromega. Forse
non sono in malafede, ma certo sono inguaribilmente provinciali.
Il cielo azzurro di Roma imitava un quadro di Annibale Carracci, la Colonna traiana si ergeva
impudica celebrando le gesta dell’antico imperatore e le cupole
barocche delle chiese di S.Maria
di Loreto e del SS. Nome di Maria
incorniciavano il Quirinale. I miei
occhi caddero di nuovo sulla
“Bottega dei sapori della legalità”
con le sue inferriate grigio topo
finto rococò, così simili a quelle
di una villetta brianzola. In lontananza un gruppetto di suonatori
sudamericani stava montando gli
amplificatori con cui avrebbe diffuso tutto il giorno El Condor pasa. I venditori ambulanti di cianfrusaglie stavano già, tra i fumi
del traffico e l’indifferenza dei vigili, coprendo con le proprie mercanzie monumenti e rovine. All’altro capo della piazza un affresco trecentesco, residuo di una
chiesa costruita sopra una delle
poche insulae romane rimaste
quasi intatte, era ormai da qualche settimana imbrattato di feci
senza che alcun restauro fosse
ancora iniziato e che nessun colpevole fosse stato nemmeno cercato. Pensai a Rodolfo, il mio
amatissimo nipote di undici anni
che abita a Ferrara, e alla sua deliziosa sorellina Ginevra, e – chissà
perché – mi venne in mente che
era quasi tempo che i genitori cominciassero a ragionare su dove
far fare loro il liceo: se in Francia o
in Inghilterra.
•
Reportage
di una bella
giornata
romana. Ovvero,
come deturpare
le bellezze della
capitale con una
sagra dei sapori
contro Cosa
Nostra.
Solito buonismo,
condito
di stupidità,
all’italiana
PRIMA GUERRA
L’inizio della
fine dell’Europa
Massimo Introvigne a pagina 2
SECONDA GUERRA
Bombe inglesi
su Milano
Federica Saini Fasanotti
a pagina 3
FINESTRE APERTE
Viaggio
nel terrore:
Hezbollah
al servizio
di Teheran
Gian Micalessin
alle pagine 6 e 7
CINEMA
Sempre meglio
il “Farinotti”
Luisa Cotta Ramosino
a pagina 9
ORGASMICA
Tutto sui piaceri
della carne
Luigi Mascheroni a pagina 10
ARTE
Arturo Martini
Beatrice Buscaroli a pagina 11
PAPALE PAPALE
Se la Turchia vuole entrare in Europa, che ascolti Benedetto XVI
IL CIRCOLO
ue mesi fa sul viaggio del
Papa in Turchia il più
sguaiato era stato Prodi.
Poi, di fronte al libro thriller apparso giorni addietro nella patria
di Ali Agca, Chi ucciderà Benedetto XVI a Istanbul?, la tensione
giungeva al culmine. Ma nessuno
osava denunciarlo in un’Europa
impegnatissima da qualche anno
a censurare della Turchia codice
penale, repressioni di diritti umani, procedure illiberali. Seppure
dettata da tutt’altre sensibilità,
anche l’iniziativa del Vaticano è
parsa muoversi fra colpi e colpetti
del gelido ping-pong diplomatico
in atto sul Bosforo. Luogo-simbolo, Santa Sofia: l’antichissima
chiesa cristiana, trasformata in
moschea nel 1453, alla caduta di
Costantinopoli e divenuta museo
Da Montecatini
l’eredità
di Berlusconi.
Che passa
attraverso
i Circoli
D
negli anni Trenta del XX secolo
per volere di Kemal Atatürk. Perché Istanbul non apparisse la seconda Roma, proprio a Santa Sofia i nazionalisti più duri e i fondamentalisti islamici hanno cercato
di saldare le loro proteste. Ma la
contestazione non ha coinvolto la
nazione in profondità.
Oggi che la Turchia non combatte più per sottomettere Budapest e Vienna, ma combatte per
diventare essa stessa Europa e
farsi accettare dagli europei, ai
nazionalisti e ai fondamentalisti
non si può concedere nessuna
freddezza nei confronti di questo
Papa. Meno che mai da parte del
governo.
La moderna nazione turca
non è più quella evocata dalla
massima autorità religiosa del
Paese, il gran muftì Ali Bandakoglu. Geograficamente essa oggi
coincide col rettangolo anatolico;
storicamente è creazione di quel
partito “europeo” dei Giovani
Turchi dal quale proveniva Atatürk. Negli ultimi ottant’anni il
nazionalismo turco ha mostrato
all’Europa muscoli riformisti, fin
troppo artificiosi, e orgoglio islamico abbastanza tradizionalista:
l’uno contro l’altro, certo, ma talvolta pure l’uno stimolato dall’altro. Secondo Bernard Lewis, la
Turchia kemalista si sarebbe “europeizzata”, senza riuscire a “occidentalizzarsi”. Ma un’europeizzazione, isolata da una “occidentalizzazione” a tutto campo è
insufficiente. Lo stesso Erdogan
talvolta l’avverte. Non si è capito
perché abbia temuto di prestare
massimo ascolto e massima attenzione alla parola di Ratzinger e
al significato profondo del suo
viaggio. Integrarsi in Europa per
la Turchia implica d’integrarsi ancor più in Occidente.
L’agenda del presidente del
Consiglio aveva previsto il vertice
NATO di Riga. Benissimo. Ma
verrebbe garbatamente da ricordargli come l’Alleanza Atlantica
altro non sia se non quella scelta
di civiltà con la quale l’Occidente
ha sconfitto Stalin e i suoi eredi, i
quali, per irridere al Papa, amavano chiedere quante divisioni
avesse, salvo poi accorgersi che ci
sono missioni che si svolgono meglio senza alcuna divisione. Ad
esempio, quella di Benedetto XVI
in Turchia.
•
Luigi Compagna
Silvio Berlusconi,
Marco Respinti, Stefano
Caliciuri, Vincenzo Vitale,
alle pagine I, II, III e IV
POLIS
2 IL DOMENICALE
LETTERE FIRMATE
Caro Direttore,
ho sfogliato con attenzione l’inserto
“Speciale Arte e dintorni” al quale, il tuo
scritto, conferisce un valore che va oltre la
promozione di un’iniziativa “culturale”.
Mi inquieta che si pensi che l’arte deve essere “edificante”, che debba piacere alla
“gente comune” ed essere ”facile da capire”. Credo che ci sia molto di discutibile su
troppe manifestazioni dell’arte contemporanea e non solo dell’arte, ma farlo con
pregiudizi e spiegarlo partendo da CatelARTE O
lan zigzagando su
NON ARTE?
Caravaggio e Mantegna per arrivare a insignire “Nove Maestri
della nuova figurazione” ce ne passa. Sono certo che tra i nove maestri molti non
saranno contenti di vedersi appiccicata
questa logora etichetta. Quello che le tue
argomentazioni fanno ricordare è un dibattito superato da decenni e comunque
non certo appartenente alla cultura di Destra e, forse neanche alla cultura.
Franco Sciardelli
Caro Franco, hai ragione il mio pregiudizio estetico ed etico nei confronti
dell’arte contemporanea è talvolta inqualificabile. Ma vedo con gli occhi le schifezze dell’arte contemporanea e le interpreto
col cuore. Certo se usassi la ragione, dovrei ammettere che questa che chiamano
ius iniuria
Caro Direttore,
nel riordinare la mia piccola biblioteca domestica ho verificato, non
senza un certo sconforto, come
buona parte dei miei costosissimi
manuali di diritto siano ormai del
tutto superati. È la conseguenza
dell’attivismo del governo Berlusconi che, in cinque anni di legislatura, ha riformato il diritto societario, quello fallimentare, la procedura civile, il diritto penale d’impresa, l’ordinamento giudiziario e
chissà quali e quante altre materie
di cui, per mia fortuna, non mi occupo. Il signor Prodi ci farà pagare
certamente più tasse ma, a giudicare da quello che ha fatto il suo
ministro di Giustizia nei primi sei
mesi di attività, credo proprio che
almeno risparmierò sull’acquisto
dei testi giuridici.
AGG
arte è davvero l’arte contemporanea, e che
se così viene definita lo è di certo, ma non
riesco davvero a rassegnarmi. E poi è ovvio che i nove maestri della figurazione
esposti a Milano sono anch’essi contemporanei, essendo ancora vivi.
Caro Direttore,
vorremmo brevemente cogliere
l’occasione dell’interessante dibattito
sollevato dall’articolo del Domenicale
“Fine delle trasmissioni” del 14 ottobre
e poi riaperto questa settimana con “Il
peggio della tv italiana”, portando la nostra esperienza di Focus Documentaries,
distributore di contenuti audiovisivi su
territorio nazionale e internazionale.
Di ritorno dal MIPCOM 2006, mercato di riferimento mondiale per contenuti
Tv e nuovi media, possiamo affermare e
confermare quanto viene scritto nel vostro
articolo. Esiste un fermento nuovo e sempre più marcato che mette le tv generaliste
mondiali di fronte a scelte di campo sempre più nette. La sfida a cui già oggi, ma soprattutto nel vicino domani, le tv generaliste non potranno sottrarsi sarà fidelizzare
e trattenere la propria audience che, sempre più, verrà incuriosita e attratta a migrare verso le nuove tv, IPTV (o web Tv) e la
“Tv tascabile” (o mobile Tv). Nonostante
esistano ancora oggettivi limiti soprattutto per la mobile tv (di costi - per il traffico
generato quando questa è in streaming o
downloading, e di formato – per le ridotte
dimensioni del display), questi nuovi media stanno vivendo una prima fase di sperimentazione e di divulgazione che apre
scenari inediti nel mondo del broadcasting. E, certo, fossimo “qualcuno” all’interno di una tv generalista, non esiteremmo a investire in una direzione: qualità. È
una preziosa regola del mercato: quando
aumenta la competizione, quando entrano in gioco nuovi players, è la qualità che
fidelizza il consumatore ovvero nel nostro
caso l’audience.
Però, esiste un però per l’Italia. In
Italia l’anomalia si riscontra nell’insufficiente capacità (volontà?) del broadcaster nazionale pubblico di investire in
coproduzioni e partnership con produttori indipendenti italiani che non appartengano già alla “schiera dei pochi eletti”, stabilendo un unicum – ahimé in negativo – rispetto ai suoi pari anche solo in
Europa. Ciò comporta che nel campo
della produzione televisiva, spesso, si
verifichi una fuga di cervelli con progetti
di produzione di qualità verso l’estero
(Europa, Stati Uniti) in cui la qualità
sembra trovare più ascolto e maggior
credito. Del resto, la cartina di tornasole
di quanto diciamo è ancora una volta
confermato dall’ultimo MIPCOM. Mentre risulta agevole intercettare ed incontrare networks del calibro di ZDF (Tv di
Stato tedesca) e WGBH-NOVA (Tv di
prestigio scientifico statunitense) e discutere di un progetto di produzione di
valore scientifico sul global warming, risulta inverosimilmente complicato – per
non dire impossibile – incontrare le nostre Tv di Stato che, per vocazione, dovrebbero essere divorate dall’ansia di
“informare, educare e intrattenere”.
Mariachiara Martina
Roberta Colangelo
(www.focusdocumentaries.com)
Ora sta finendo il secolo XX
In morte di uno degli ultimi combattenti francesi della Prima guerra mondiale, Jacques Chirac
ha sbagliato ancora una volta commento. E, ancora una volta, a vederci giusto è Benedetto XVI
di Massimo Introvigne
PARIGI, NOVEMBRE – Ti svegli a Parigi,
in una mattina di novembre baciata da un
sole primaverile, e la radio ti comunica
che sta finendo il secolo XX. Ci sarebbero
molte altre notizie per animare l’attualità, eppure i giornali radio si aprono parlando della morte di Maurice Floquet
(1894-2006), che avrebbe festeggiato 112
anni a Natale. Floquet non attira l’attenzione perché è vissuto più a lungo del
normale, ma perché, morto lui, rimangono in Francia solo quattro ex combattenti
della Prima guerra mondiale, il più giovane – si fa per dire – dei quali (l’unico che
può partecipare, al fianco di Jacques Chirac e di tutto il governo, al funerale di Floquet) si chiama René Riffaud e ha 107 anni. In Europa i veterani di quella che per i
nostri vecchi era l’unica vera Grande
Guerra sono solo una decina. Quando
morirà l’ultimo – e hanno tutti più di 106
anni – sarà davvero finito il secolo XX.
Sento Chirac affermare, così di prima
mattina, che la Prima guerra mondiale è
stata la pagina più gloriosa della storia
francese dell’ultimo secolo, e provo un
senso di disagio. Devo dire che non ho
niente contro gli ex combattenti della
Grande Guerra, non solo perché – per
quanto forse un po’ abbellite dai media –
le gesta di Floquet, due volte ferito gravemente e due volte tornato in prima linea,
sembrano proprio quelle di un bravo e valoroso soldato, ma anche perché mio
nonno paterno fu tra quei discendenti
d’immigrati italiani, con passaporto argentino, che anziché rimanere tranquillamente in Sudamerica, forse entusiasmati
anche dagli spettacoli patriottici dove
danzatrici vestite – anche qui si fa per dire
– con il solo tricolore invitavano i giovani
di origine italiana ad arruolarsi, decise di
venire a combattere come volontario e
per poco non lasciò la pelle a Caporetto.
Il valore individuale dei combattenti
non è in questione, né mi sognerei mai di
offendere il nonno. Tuttavia ancora una
volta la retorica di Chirac mostra una nozione della storia europea profondamente sbagliata. Per capire perché basta confrontarla con la speciale attenzione alla
Prima guerra mondiale del cardinale Joseph Ratzinger, prima e dopo di diventare
Papa Benedetto XVI, un nome che tra l’altro ha scelto sia in omaggio a san Benedetto (480-543) – perché si tratta, come ai
tempi del santo di Norcia, di ricostruire
una civiltà sulle rovine di un vecchio
mondo che sta morendo – sia a Benedetto
XV (1854-1922), che insieme a Carlo d’Asburgo (1887-1922) – l’ultimo imperato-
il papa di oggi si chiama
come il papa che, con il
beato carlo d’asburgo,
fu l’unico a cercare di
fermare «l’inutile strage»
re d’Austria proclamato beato da Papa
Giovanni Paolo II il 3 ottobre 2004 – cercò
di fermare quella che chiamava «l’inutile
strage». Il fatto che il Papa e l’erede del Sacro Romano Impero non fossero presi sul
serio quando avanzavano obiezioni morali contro quella guerra (non contro le
guerre in genere, così che sarebbe improprio presentarli come antenati del pacifismo), dà già di per sé una misura di quanto fosse grave la crisi morale dell’Europa.
Per Benedetto XVI la Prima guerra
mondiale non solo è molto più importante della Seconda per capire le radici della
crisi dell’Europa, ma è anche alle origini
della Seconda e delle altre guerre mondiali, le quali derivano tutte da cambiali non
pagate della Grande Guerra. Il risentimento delle popolazioni di lingua tedesca
dopo la Prima guerra mondiale porta al
potere Adolf Hitler (1889-1945) e genera
la Seconda guerra mondiale. Le vicende
della Prima guerra mondiale consentono
ai comunisti di prendere il potere in Russia e di scatenare, dopo la Seconda, la Ter-
Caro Direttore,
con mio grande piacere da circa un
anno acquisto e leggo con gusto il Dom,
uno di quei pochi giornali capaci di affrontare in maniera non sempre convenzionale, ma sicuramente acuta le più interessanti tematiche di attualità politica, artistica e sociale. Volevo esprimerle il mio rammarico nel leggere le pubbliche dimissioni di Filippo Facci poiché
ritengo che il suo modo di scrivere pungente e talvolta tagliente sia sicuramente una importante risorsa culturale per
il Domenicale e di ottimo stimolo per i
suoi lettori. Spero (mi permetta l’illusione) di poter leggere Contraltare come
ogni settimana e di leggere ancora la firma di Facci.
Mauro De Chiara
aro Direttore a proposito della Commissione Mitrokhin, di cui è stato presidente, Guzzanti scrive:«Lo scandalo
di cui mi sono occupato io è stato sepolto da
“misure attive” e nessuno nel centrodestra,
neanche Berlusconi, ha usato i risultati della
mia commissione non dico come clava, ma
neanche come uno stuzzicadenti». Ebbene,
se Berlusconi non ha “usato” in alcun modo
le meraviglie della Mitrokhin, forse ciò si deve al fatto che la commissione non ha prodotto molto di spendibile sul piano storiografico, giudiziario, culturale e politico.
Una Commissione parlamentare che
non usa, col fine di conseguire risultati probanti e inconfutabili, i poteri di cui dispone
(rogatorie internazionali, magari in quel di
Praga, Sofia e Washington, dove risiedono
informati generali dell’ex Kgb; acquisizione
degli atti della commissione parlamentare
tedesca sull’impero economico gestito dalla
Stasi; escussione di altri testi-chiave, incriminazione di testimoni reticenti o falsi...);
una Commissione che non giunge a legittimare i propri lavori con un voto finale, ebbene tutto ciò ci ha lasciato delusi.
In più, la situazione di un presidente di
commissione in conflitto d’interessi, visto
che da giornalista di razza, nonché vicedirettore de il Giornale, Guzzanti non riuscì a
non far trapelare notizie sui lavori. Quando
però gli giunsero notizie in apparenza esplosive su Prodi, Guzzanti appose il segreto;
dopo di che, adesso, a segreto vigente, firma
articoli in cui di quei segreti parla («i rapporti fra Prodi e le autorità sovietiche erano nati
intorno al 1978 e poi si erano sviluppati con
grande ampiezza e in molti campi, funzionando come una continua promozione politica, sociale ed economica»), tant’è che riporta la soffiata secondo la quale Prodi, da
presidente Ue, avrebbe mantenuto «relazioni segrete con le strutture dell’ex Kgb». Perché mai, allora, la secretazione?
Infine, che cosa ha scoperto la Mitrokhin? Scrive Guzzanti:«...durante i lavori
della Commissione Mitrokhin avevo già sco-
C
S A B AT O 2 D I C E M B R E 2 0 0 6
za guerra mondiale, la cosiddetta Guerra
fredda. Né ha torto chi sostiene che l’abolizione del califfato da parte di Kemal Atatürk (1881-1938) nel 1924 dopo il crollo
dell’Impero Ottomano – un altro “prodotto” della Prima guerra mondiale – ha un
ruolo decisivo nella nascita del moderno
fondamentalismo islamico e quindi nelle
cause remote della Quarta guerra mondiale, quella scatenata dall’ultrafondamentalismo islamico contro l’Occidente.
Nel suo La cattedrale e il cubo. Europa, America e politica senza Dio (trad. it.
Rubbettino, Soveria Mannelli [Catanzaro
2006]), il teologo cattolico statunitense –
amico di Benedetto XVI come lo fu di Giovanni Paolo II – George Weigel ricorda le
parole, pronunciate all’inizio della Prima
guerra mondiale, dal ministro degli Esteri
britannico sir Edward Grey (1862-1933):
«Le lampade si stanno spegnendo in tutta
Europa, e nella nostra vita non le vedremo mai più accese». E quelle di Winston
Churchill (1874-1965) in una lettera alla
moglie: «Un’ondata di follia ha sconvolto
la mente della Cristianità». Per Weigel,
come per Benedetto XVI, la domanda
cruciale non è solo «Perché la guerra comincia?», ma «Perché nessuno la ferma?
Perché non c’è nessuno con la volontà,
l’autorità, o l’immaginazione morale e il
coraggio necessari per tirare il freno d’emergenza quando è chiaro che il treno
della civiltà europea sta marciando verso
uno scontro di dimensioni catastrofiche?». Eppure, come argomentavano Benedetto XV e il beato Carlo d’Asburgo,
qualunque scopo ragionevole invocato
dalle nazioni per continuare il conflitto
avrebbe potuto essere raggiunto per altra
via, evitando milioni di morti.
Il nazional-laicismo
Mentre un “complottismo” di bassa
lega riduce l’estrema complessità della
storia a un unico grande macrocomplotto, esistono certamente nella storia microcomplotti con obiettivi specifici. Una
vasta letteratura cattolica attribuisce l’ostinazione nel promuovere e continuare
la Prima guerra mondiale alla volontà dei
nazionalismi e delle massonerie di orientamento anticlericale di volere non solo
sconfiggere, ma eliminare per sempre
dalla carta geografica quanto sopravvive
dell’ultimo impero sovranazionale e cattolico, l’Impero Austro-Ungarico. Una
parallela letteratura diffusa nel mondo islamico attribuisce più o meno alle stesse
forze – i nazionalisti (questa volta arabi)
e le società segrete – l’uso strumentale e
tragico della Prima guerra mondiale per
distruggere nell’area a maggioranza musulmana l’ultimo impero sopranazionale
e religioso, quello Ottomano, con conseguente fine del califfato. Il discredito in
cui sono giustamente cadute le teorie sui
macrocomplotti non esclude che vi siano
elementi di verità nella ricostruzione storica dei microcomplotti. E tuttavia la domanda che pongono il regnante Pontefice e autori come Weigel va oltre, e potreb-
be essere così riformulata: ammesso che
vi siano complotti, perché nascono e perché si servono di uno strumento così intrinsecamente perverso come la Prima
guerra mondiale?
La risposta deve andare indietro nel
tempo, e risalire alla nascita dei nazionalismi europei come apologie della nazione
che si costruiscono separandola dalla religione (considerata pericoloso fermento di
sentimenti di appartenenza a comunità
più ampie di quelle nazionali, in specie la
Cristianità), anzi combattendo la religione. Nazionalismo e laicismo in Europa sono indissolubilmente legati, fin dalla Rivoluzione francese, nonostante l’esistenza di pensatori – minoritari – che cercano
di fondare nazionalismi su basi religiose.
Il nazionalismo francese e tedesco che è
alla base della Prima guerra mondiale (e
la sua versione un po’ parodistica dell’Italia nazional-massonica di Francesco Crispi, 1819-1901) avanza strettamente legato alla laïcité e al Kulturkampf, tentativi di
espellere la religione dall’agone pubblico,
in teoria confinandola alla sfera privata
ma in pratica inseguendola e combattendola tramite l’educazione e la scuola laicista anche in quella sfera. Con la Prima
guerra mondiale maturano le conseguenze inevitabili del laicismo. Aveva ragione
Benedetto XV: un’Europa senza Cristo
non è in grado di fermare la guerra, per ragioni anche politiche ma anzitutto mora-
è la prima guerra
mondiale, più che la
seconda, la vera origine
della crisi europea
che ancora impera
li. Il nazionalismo, continuando a procedere abbracciato al laicismo come fanno
due storpi che cercano di sostenersi a vicenda, è diventato nazionalismo senza
nazione, dunque – nei termini di Benedetto XVI – nichilismo.
Per questo, la Prima guerra mondiale
– se nella vita individuale di tanti nostri
nonni è stata un momento di coraggio e di
gloria che li ha segnati per tutta l’esistenza – per la storia collettiva dell’Europa
non è stata quella promessa dolorosa ma
ultimamente feconda di pace e di felicità
permanente che una certa propaganda
esaltava, ma una strage inutile e non necessaria, che ha preparato i grandi crimini del XX e del XXI secolo: il nazionalsocialismo, il comunismo, l’ultrafondamentalismo islamico. Ancora una volta,
ha torto Chirac e ha ragione Benedetto
XVI. La morte degli ultimi combattenti
della Prima guerra mondiale, la vera fine
del secolo XX, dovrebbe essere l’occasione perché, oltre che in linea di fatto, un
secolo denso di crimini e di stragi, dai gas
asfissianti della Grande Guerra fino ai lager e ai GULag, finisca finalmente anche
in via di principio.
•
Alcune considerazioni sulla Commissione Mitrokhin
Giancarlo Lehner critica i risultati dell’inchiesta parlamentare condotta da Paolo Guzzanti e che oggi torna d’attualità
perto che la sede sovietica della società Nomisma a Mosca era in joint-venture con
l’“Istituto Plehanov”. E che questo istituto
altro non era che il nome di copertura della
sezione economica del Kgb». A dire la verità,
della Nomisma a Mosca, ospitata in un ufficio statale, si venne a sapere quasi tutto nel
1991, benché nessuno – Sismi, classe politica, Procure – trovasse il coraggio di chiederne conto a Prodi, già graziato dalla Commissione Moro e dalla Procura di Roma per la
bufala della seduta spiritica e poi salvato anche dal manipulitismo a senso unico.
La stessa appendice della Commissione
non è stata un modello: il dottor Agostino
LA MITROKHIN RISCHIA DI
ESSERE CONTROPRODUCENTE
PER IL CENTRODESTRA.
MENTRE POTEVA ESSERE UN
DURO COLPO PER PRODI & C
Cordova, in qualità di consulente, stende
una relazione, ben articolata e, talora, con
gustose puntualizzazioni ironiche, evidenziando i risvolti penali. Guzzanti, senza
consigliarsi magari con lo stesso Cordova,
invia la relazione alla Procura di Roma, la
quale decide, com’era prevedibile, di richiedere l’archiviazione. Tuttavia, non risulta
che Guzzanti abbia proposto opposizione.
Intanto, però, emergono altre spiacevoli
circostanze che autorizzano ulteriori dubbi sul rigore delle attività investigative, vedi le derive di Carlo Scaramella, sedicente
professore “colombiano”, finito nel 1991
nel mirino delle Procure di Napoli, Salerno
e Santa Maria Capua Vetere per millantato
credito, abuso di titolo e abuso di potere.
Uscitone indenne, lo stesso Scaramella si
ritrova, il 12 marzo 2004, al centro di una
misteriosa sparatoria ad Ercolano sulle
pendici del Vesuvio.
Davanti alla puzza di bruciato di uno
che vanta mille titoli e delicate incombenze
sin dalla più tenera età, Guzzanti, invece di
prendere le distanze, dichiara: «Sono solidale con il professor [sic!] Scaramella». Fatto è
che questo sedicente esperto addirittura di
“mine atomiche” parla troppo e magari, come dicono a Caltanissetta, a matula, attribuendo all’universo mondo degli 007, Fsb
russi, Sismi italiani e quant’altri presunti
agenti internazionali, deviati e non, confidenze e rivelazioni che non stanno diritte in
piedi su alcun riscontro.
Così quanto è provenuto da Scaramella
su Prodi, Br e altro, di per sé, non ha affatto
danneggiato Prodi e la sinistra, arrecando,
invece, danni alla credibilità della Mitrokhin. Mafie e servizi quasi ossessionati dall’imperativo di assassinare Scaramella e
Guzzanti è l’ulteriore corollario. Tuttavia,
come in una comédie de boulevard, anche
questa notizia venne fatta passare per buona, tant’è che il presidente della Mitrokhin
dichiara: «... viaggio sotto scorta di secondo
livello, come l’ambasciatore israeliano».
La Commissione “Scaramella” ha nociuto non solo alla verità, alla storiografia, financo alla cronaca, ma anche all’immagine
di Forza Italia e del Centrodestra. Chiunque
avesse posseduto conoscenza delle regole
della Lubjanka doveva ben sapere che dopo
il niet di Putin all’apertura di certi archivi,
solo venditori di fumo potevano promettere
rivelazioni sensazionali. Oppure, si dovevano sborsare somme certo non alla portata di
Scaramella. Parlo di 200-300 mila dollari,
non i 2/300 euro offerti a Litvinenko. Scara-
mella, inoltre, ha speso invano, millantando, anche il nome di Berlusconi, quando il
leader di Forza Italia non sa neppure chi sia il
“professore colombiano”.
Scaramella e Guzzanti, peraltro, non
hanno badato al pericolo incombente, sulla
Mitrokhin, di strumentalizzazioni e polpette avvelenate provenienti da quanti combattono ben altra battaglia, quella diretta, da
parte degli ex oligarchi perseguiti, cacciati o
scappati dalla Russia, a demonizzare e criminalizzare Putin. Guzzanti, senatore della
Repubblica, si presta, così, a far sua la guerra privata di Berezovskij e soci verso il capo
di uno Stato attualmente amico dell’Italia,
senza neppure porsi la domanda se siano
davvero gli oligarchi (già padroni dell’intera
economia russa grazie a privatizzazionitruffa) i “buoni” e le “vittime”. La stessa
“fonte”Litvinenko, uno dei combattenti dalla parte degli oligarchi, nonché vittima di un
avvelenamento mortale, mostrò il suo fastidio verso Scaramella: «Con Mario siamo andati in un ristorante giapponese vicino a Piccadilly. Io ho ordinato il lunch ma lui non ha
mangiato niente. Sembrava molto nervoso.
Mi ha consegnato un documento di quattro
pagine. Voleva che lo leggessi subito... Il documento era una e-mail, non un documento
ufficiale. Non ho capito perchè sia venuto a
Londra per darmelo quando avrebbe potuto
mandarmelo con una e-mail».
Certo, Scaramella non può entrarci nell’avvelenamento dell’ex ufficiale Fsb, tuttavia, è finito in un maledetto affare troppo più
grande di lui. Infine, lo stesso Guzzanti, forse travolto da siffatti consulenti, ha denotato
di non saper utilizzare dati arcinoti, come
l’intervista di Prodi al Corsera il 20 agosto
1991. In quell’infelice esternazione, tutta favorevole ai neobolscevichi golpisti, Prodi
ammise la presenza a Mosca della sua Nomisma e l’amicizia col capo dei putschisti,
Valentin Pavlov. Ecco le avventurose affermazioni di Prodi: «Conosco bene Pavlov...
Direi che per certi versi quella che ha fatto in
queste ore è una scelta coerente. Mi aspetto
entro pochi giorni passi decisivi per quanto
riguarda la gestione dell’economia». Dalle
sue parole, insomma, sembra che non sia
accaduto nulla di importante, in Urss, il 19
agosto 1991: «Il telex che abbiamo avuto stamattina dal nostro istituto [Nomisma, ndr]
parla chiaro. L’anno accademico, la cui
inaugurazione era prevista proprio per oggi,
è regolarmente iniziato». Prodi aveva già
preso una terribile cantonata pochi giorni
prima, affermando che non c’era al mondo
Paese più stabile dell’Urss, ma, davanti al
golpe, la sua miopia tocca livelli inauditi:
«Non mi pare il caso di aspettarsi una sollevazione popolare a favore di Gorbaciov... E
secondo i nostri analisti [della Nomisma,
ndr] nemmeno Boris Eltsin, che è assai più
popolare dispone di una rete capace di promuovere una sollevazione [sic!].»
Insomma, Prodi s’era impiccato da solo.
Bastava leggere l’intervista e citarla. Guzzanti, avendo fretta, s’inventò che Prodi
avesse affermato «di essere intimo amico del
signor Kriutshiev, capo sia del Kgb che della
cricca golpista...». Un falso inutile. Prodi
non rivelò mai contiguità col Kgb, pur essendo ovvio che, senza il consenso della Lubjanka, nessuna Nomisma, ma neanche una
pizzeria, sarebbe mai approdata a Mosca.
Per questo ritengo che la Mitrokhin sia
stata un’occasione gettata al vento. Mi dispiace per Mario Scaramella, a cui auguro
ogni bene, e ancor più per Paolo Guzzanti, a
cui seguito a non voler affatto male.
•
Giancarlo Lehner
Caro Lehner,
il Domenicale ha seguito
con molta attenzione
i lavori della commissione
Mitrokhin cercando
di pubblicizzarne
i risultati, anche
con una lunga intervista
al presidente,
Paolo Guzzanti.
Oggi, come tu stesso noti,
l’affare si è molto
ingrossato e ha preso vie
pericolose, sono convinto
in contrasto con le buone
intenzioni di Guzzanti
di fare luce su un capitolo
oscuro dei rapporti
tra i servizi segreti russi
e la politica italiana.
Dare un parere
informato nel pieno
dello svolgimento
dei fatti, alla luce
anche del tragico caso
Litvinenko, è cosa per me
impossibile, nonostante
abbia seguito i lavori
fin dall’inizio con passione
storica e diligenza
professionale. Sono
convinto che Guzzanti
potrà rispondere, dalle
nostre pagine, alle tue
precise considerazioni.
Angelo Crespi
L’ALTRA STORIA
S A B AT O 2 D I C E M B R E 2 0 0 6
IL DOMENICALE 3
LO SCAFFALE
DELLA SAGGISTICA
Quella tragica notte di San Valentino e certe “sante” bombe alleate
MILANO, QUANDO PIOVVE FUOCO
L’aviazione britannica attaccò la città 60 volte in meno di 6 anni. Ma quel 14 febbraio 1943 resta difficile da dimenticare
di Federica Saini Fasanotti
sultò che l’effetto delle bombe dirompenti fu devastante sulle antiche case in muratura, prive di collegamenti in cemento
armato (come in via Mario Pagano, con
edifici abbattuti su un’area di 600 metri).
Purtroppo per Milano, i giorni di paura non finirono con i bombardamenti di
quella notte. Ad agosto le missioni divennero ancora più intense: tra il 12 e il 13,
furono ben 504 gli aerei a volare su Milano. Gli incendi divamparono ovunque,
distruggendo il Castello, la Questura e la
chiesa di san Fedele. Altri due attacchi,
nelle notti tra il 14 e il 15, e tra il 15 e il 16,
colpirono anche l’Archivio di Stato, causando la perdita di numerosi documenti.
Stolto tra i mortali è colui che distrugge le città e abbandona alla desolazione i
templi e le tombe, sacre dimore dei morti;
egli stesso in seguito è destinato a perire.
Euripide
ncora prima dell’entrata dell’Italia
in guerra a fianco della Germania,
l’intero Paese fu sorvolato da aerei
inglesi in ricognizione. Già nel giugno
1940 iniziarono infatti i primi bombardamenti sulla città di Milano, anche se non
furono disastrosi come i successivi.
Milano, da sempre città all’avanguardia nell’industria italiana, fu ritenuta da
subito un obiettivo militare sensibile: gli
inglesi erano infatti riusciti a procurarsi
notizie da dettagliate mappe della città e
della sua provincia, con particolare attenzione alla location delle fabbriche più importanti: Alfa Romeo, Officine Galileo,
Magneti Marelli, Pirelli, Officine Borletti,
Breda, Ansaldo e Isotta Fraschini, tanto
per citarne alcune. Milano, inoltre, era uno
snodo ferroviario vitale: 21 linee ferroviarie si diramavano sul territorio permettendo scambi commerciali e di persone.
A conflitto iniziato, Milano contava
poco più di un milione di abitanti, la maggior parte dei quali concentrata nel centro storico, la parte della città più vulnerabile in termini militari, proprio perché
fortemente abitata, con case le une vicine
alle altre, e strade strette.
Fu così che i bombardamenti sulla
città da parte degli inglesi si concentrarono, fino a tutto il 1943, sulla città “civile”
e poi, dal 1944, su quella industriale.
A
IL CIELO
SOPRA MILANO
Il testo qui riportato è un ampio stralcio
della relazione che Federica Saini Fasanotti ha tenuto ieri, venerdì 1° dicembre, al convegno di studi “Milano & il
cielo. L’aviazione in Lombardia tra mito
e realtà”, organizzato da Ares presso il
Museo Nazionale della Tecnica e della
Tecnologia “Leonardo da Vinci”. Dove
non si è parlato solo di guerra e distruzione, ma anche e soprattutto della
grande passione che da sempre lega la
città e le sue terre all’affascinante pratica del volo. Dalla collezione aeronautica custodita presso il Museo alle odierne problematiche degli aeroporti lombardi, attraverso il ricordo di quei milanesi che hanno scritto la storia dei nostri
cieli, come Paolo Andreani (primo italiano a volare in pallone, un anno dopo i
fratelli Mongolfier) e Rosina Ferrario,
prima italiana col brevetto di pilota. E
ancora, economia e impresa, grazie alla
presenza di Augusta Westland, leader
mondiale del settore elicotteri.
GLI ATTACCHI
Gli attacchi furono inizialmente notturni, preceduti dal passaggio di aerei
pathfinder, i segnastrada, che lanciavano
bengala per illuminare il cielo e mostrare
la rotta ai bombardieri. Dopo il 1943, invece, si passò a incursioni anche diurne:
gli aerei di solito partivano dalla Puglia.
Il primo attacco su Milano fu dopo solo un giorno dall’entrata in guerra: l’allarme suonò alle 2,02 della mattina e cessò
dopo quasi due ore, alle 3,44. Alcuni razzi provocarono la caduta di un cornicione
a San Barnaba. Dall’11 giugno al 31 ottobre, gli allarmi furono ben 30, anche se alcuni, per fortuna, andarono a vuoto.
Se il 1941 trascorse tranquillo, il 1942
vide due grossi bombardamenti a fine ottobre, tra il 24 e il 25. Secondo il rapporto
della Prefettura furono danneggiate le zone di via Pantano, dell’allora Corso Roma
(oggi porta Romana) fino a corso Buenos
Aires. Anche il carcere di San Vittore venne colpito, tanto da permettere la fuga a
un centinaio di detenuti. Il 1943 fu un anno duro, e la guerra fece sentire tutta la
sua crudezza: la razione di pane giornaliera scese a 150 grammi, i buoni del tesoro persero valore e ci si diede al baratto
per cercare di sopravvivere. Nella notte
tra il 14 e il 15 febbraio ci fu una pesante
incursione aerea, ben documentata nella
relazione della Prefettura milanese, stilata dal generale di Divisione Giovanelli e
indirizzata al ministero della Guerra, il 25
marzo 1943. Va detto che Milano non era
semivuota come Torino anche perché, sino ad allora, l’unica incursione pesante
era stata quella del pomeriggio del 24 ottobre 1942. Era domenica e la popolazione era pressoché al completo: 1.250.000
abitanti, perché due giorni dopo si sarebbe dovuta riprendere la scuola.
I FATTI
Il cielo era sereno, con buona visibilità su tutta l’Italia Settentrionale e Centrale, e vento debole proveniente da ovest.
Le condizioni ideali per una incursione
nemica, tanto che non sarebbero serviti
neppure i bengala per illuminare la città.
In effetti, nelle prime ore della sera ven-
nero segnalati passaggi aerei da Troyes e
Auxerre. Alle 21,15 l’MCA comunicò che
Berna era in allarme e un minuto dopo
entrarono in all’erta anche Milano e provincia. Un’ora dopo, alle 22,06, in seguito alla segnalazione di diverse squadriglie dalla Valle d’Aosta, fu dato l’allarme.
Il cielo venne subito difeso e alle 22,30 il
lancio di razzi illuminanti segnalò l’arrivo dei velivoli. Lo sgancio delle prime
bombe avvenne dopo solo 2 minuti.
La relazione è alquanto vaga sul numero degli aerei da bombardamento, ma
è estremamente precisa sui tipi di bombe
e sugli effetti che causarono. Vennero
lanciate 85 bombe dirompenti da 250,
500, 1.000 e 2.000 libbre, oltre che bombe
incendiarie al fosforo e circa 15.000 spezzoni incendiari che caddero in particolare nella zona del centro e sui popolosi
quartieri di Porta Sempione, Porta Romana e Porta Vigentina. Gli aerei arrivarono
sulla città da due direzioni diverse: i primi da nord a ovest, passando a oriente del
Monte Rosa, lungo la linea del confine
italo-svizzero, e sorvolando Varese; i secondi da est, sfilando a occidente del Bernina e scendendo da Bergamo e Brescia.
L’attacco di numerose pattuglie nemiche, durato poco più di un’ora – 68 minuti per la precisione – fu incredibilmente distruttivo, forse anche per il fatto che
l’azione era stata svolta da oltre 50 apparecchi da bombardamento pesante, di diverso tipo: Halifax, Stirling, Lancaster.
Paradossalmente, la zona industriale
di Sesto San Giovanni, Monza e Rho non
fu oggetto di alcun attacco. Il cessato allarme venne dato alle 0,05. Come già nella precedente incursione del 24 ottobre
1942, la città apparve circondata da un’enorme corona di incendi (circa 1500),
quasi il doppio di quelli verificatisi nell’incursione precedente.
L’AZIONE DI DIFESA
Alle 22,35, la 5^ e la 25^ Legione della
Milizia Artiglieria Contraerea, entrarono
in azione svolgendo tiro da caccia e da interdizione. Quest’ultimo venne effettuato 8 volte successive, usando proiettili incendiari e ordinari. Oltre, ovviamente, alle armi automatiche. In tutto si ebbe una
frequenza, a cielo difeso, di 195 proiettili
al minuto. Va detto, però, che al primo
consistente impiego di proiettili da
90/53, fatto proprio il 14 febbraio, si ebbe
un risultato negativo, perché la contraerea sparò a “ombrello” anziché a “sbarramento in caccia”.
I DANNI INFLITTI AL NEMICO
Dopo un mese, in base a diverse segnalazioni pervenute da vari Comandi,
venne accertato l’abbattimento non di 2
(in base alle indicazioni iniziali), ma di 3
aerei nemici: uno, caduto in fiamme in
via Boffalora, nelle vicinanze del Molino
della Polvere, esplodendo nell’impatto a
terra, aveva proiettato i resti su vasta zona. Vennero rinvenuti un cadavere intatto e i corpi maciullati di due aviatori. Il resto dell’equipaggio, un pilota e due sergenti inglesi, fu catturato il giorno dopo.
Un secondo apparecchio venne visto
cadere tra Mercallo e Inveruno, ma non
essendo stati trovati i resti, sorge spontaneo qualche dubbio. Come per il terzo,
caduto a ovest.
LE VITTIME
Le vittime furono 217 (molte più delle
133 stimate inizialmente) delle quali 214
identificate. Tra loro, ben 197 erano civili:
gente che con gli obiettivi militari non
aveva nulla a che vedere. I feriti furono
504: 473, anche in questo caso, civili.
I DANNI E I SOCCORSI
Gli edifici danneggiati furono in numero di gran lunga superiore rispetto a
quelli colpiti nella precedente incursione
dell’ottobre 1942: allora ne vennero completamente distrutti 23; a febbraio, invece, ne furono rasi al suolo ben 203!
Furono distrutte case signorili e popolari, laboratori, teatri, depositi, chioschi, edicole, cinema, ristoranti, impianti
sportivi, uffici, scuole e musei. A incrementare i danni si aggiunsero quelli causati dall’onda di scoppio e dal fuoco che
si era velocemente propagato. Gli edifici
non abitabili vennero stimati in 423, in
956 quelli che lo erano parzialmente e in
2.784 quelli ancora vivibili.
Non rimasero incolumi neppure alcune aziende, la sede del Genio Civile,
l’Archivio di Stato, il Collegio delle Fanciulle e la Caserma Medici, oltre a numerose scuole di ogni grado. Gravissimi, e
stimati in 3 milioni di lire, furono i danni
che l’antico Ospedale Maggiore riportò in
seguito a quell’attacco. Come il Palazzo
dell’Arte (1.350.000), il Museo di Storia
Naturale e i Giardini Pubblici (170.000),
la Villa Reale e via Palestro (200.000).
Interessante per comprendere l’atmosfera di quei momenti è un brano della
In via Espinasse cadde una bomba
del calibro superiore a 500 kg che provocò un imbuto di oltre 10 metri per 3 di profondità, e il crollo di un intero stabile. Il rifugio nello scantinato era affollato da una
sessantina di persone suddivise in due
celle diaframmate di tavolati con interstizio di sabbia. Le 22 persone sistemate
nella prima cella rimasero uccise sul colpo, e altre 20 persone trovarono la morte
nella seconda, violentemente sbattute
dal soffio propagatosi attraverso la parete
di comunicazione. Solo grazie alla parete
di sabbia, gli altri ebbero via di scampo.
A essere colpiti, inoltre, furono i servizi pubblici: l’acquedotto, il cui funzionamento però, grazie al tempestivo intervento delle squadre specializzate, venne
ripristinato già il 16; l’azienda del gas,
quella elettrica e quella tranviaria, oltre,
ovviamente, ai telefoni e ai telegrafi.
Che dire poi della Stazione Centrale?
Il suo complesso sistema era un bersaglio
scontato, facilmente distinguibile dal cielo: una rilevante quantità di spezzoni incendiari cadde sopra le grandi tettoie, distruggendo vetri e assi in legno, forando
la volta e finendo nelle sale di attesa, nella galleria della biglietteria, in quella del
deposito bagagli e in quella delle carroz-
IPOTESI DI GIUDIZIO
Uno studio di Franco Budriesi, citato
da Massimo Cartone su Storia Militare,
presenta dati sconcertanti: se Milano nel
1940 annoverava 969.354 locali abitativi,
nel 1945 quelli distrutti risultano essere
circa 250.000, per un totale di 3 milioni di
mq distrutti, la maggior parte dei quali in
centro e non nella periferia industriale.
Dal giugno 1940 alla primavera 1945
le incursioni aeree furono quasi 60 e provocarono circa 2.000 morti, 3.600 feriti e
mezzo milione di senza tetto.
Argomento sfruttato anche dalla propaganda della RSI: in una vignetta del disegnatore Enrico Gianeri, detto Gec, tratta dal satirico Codino Rosso di Torino, una
ragazza piange; a consolarla due soldati
americani e uno sovietico: «Perché ti disperi? Ti abbiamo liberata dai fascisti, ti
liberiamo dai tuoi ciarpami artistici e dal
grasso superfluo. Poi il compagno Ivan
provvederà che tu lasci questo sole troppo caldo e vada a rinfrescarti in Siberia».
Gli ordigni aerei incendiari, non
espressamente vietati dai codici di guerra, furono impiegati nel modo più distruttivo possibile contro palazzi e abitazioni,
andando oltre il disegno di paralizzare i
collegamenti e l’economia di un paese.
M.L. Berneri, anarchica, scrisse nel
giugno ’43: «Quando viene bombardato
il porto di Napoli, a soffrire è soprattutto il
quartiere operaio e densamente popolato
nei suoi dintorni. Le bombe non colpiscono le ville sontuose dei ricchi fascisti lungo le spiagge della baia napoletana; colpiscono gli alti edifici a più piani talmente
ammassati l’uno sull’altro che le strade si
riducono a stretti passaggi bui».
Vera Brittain, scrittrice e femminista
inglese, profetizzò di fronte ai bombardamenti alleati del ’44 : «la fredda crudeltà che ha causato la distruzione di vite innocenti nelle città europee più popolate,
e il vandalismo che ha annientato i tesori
storici in alcune delle città più belle, apparirà alla civiltà futura come una forma
ars italica
L’urbinate Barocci
e gli emuli suoi
Influenze di un “libero” pittore
n artista sul quale abbiamo riflettuto poco è Federico Fiori,
detto il Barocci (Urbino 1535 –
1612). Pittore dallo stile e dalla tecnica personalissimi, libero come nessun
altro, ritenuto da Federico Zeri e altri
storici un anticipatario precursore dei
tempi nuovi, incarna quell’ideale di
artista che la Riforma cattolica andava cercando allo scadere del Cinquecento e che, invece, difficilmente trovò. Egli è lontano da ogni schematismo iconografico e dal conformismo
devozionale, e la sua pittura emotiva
e ricca di dolcezza risentì anche dell'influenza del Correggio e del cromatismo veneto. Indimenticabili sono
alcune pale d’altare come il Martirio
di San Sebastiano
(1557, Urbino,
ANNA MARIA
AMBROSINI,
cattedrale), il PerMARINA CELLINI
dono di Assisi
(A CURA DI),
(1569 – 69, UrbiNEL SEGNO
no, Galleria NaDI BAROCCI.
zionale delle MarALLIEVI E SEGUACI
che), l´AnnunciaTRA MARCHE,
zione
della VergiUMBRIA, SIENA,
ne (1582 – 84) e la
Federico Motta
Visitazione (1583
Editore, Milano,
pp. 456, ¤75,00
– 86, Roma, Chiesa Nuova).
Per scelta trascorse la sua vita
nella natìa Urbino, se si eccettua il
breve periodo romano (1561 – 1563)
in cui lavorò insieme a Federico Zuccari nel casino di Pio IV in Vaticano.
Eppure, questo artista che potrebbe
sembrare così provinciale, ebbe vastissima influenza soprattutto nell’Italia Centrale, tra allievi, seguaci,
epigoni, imitatori… Un importante
libro scandaglia ora il panorama di
questo influsso: Nel segno di Barocci. Allievi e seguaci tra Marche, Umbria, Siena, a cura di Anna Maria Ambrosini e Marina Cellini.
Una mappatura di assoluto interesse storico, che ingloba pittori anche mediocri insieme a bellissimi pennelli che per molti lettori saranno una
sorpresa. Per esempio, Antonio Viviani detto Il Sordo di Urbino; oppure
Alessandro Vitali, forse il più dotato e
famoso per la Natività della Pinacoteca Ambrosiana e per Il perdono di
Sant’Ambrogio, gioiello del Duomo
di Milano. Anche Terenzio Terenzi,
detto il Rondolino, ha lasciato dei raffinati lavori nelle Marche.
Michele Dolz
U
gervasate
Un novello Pierino
sui grandi del ‘900
Lietamente politically uncorrect
on è un diario, non è una raccolta di articoli, non è un insieme di aneddoti. Per certi versi
è tutte e tre le cose, per altri è un’autobiografia di uno dei più abili e narcisi giornalisti italiani. E non è un caso
che il titolo, Ve li racconto io, sfiori la
dimensione colloquiale e le dia una
certa venatura solipstica. In questi libri ci sono tutti: da Montanelli a Prezzolini, da Reagan a Kohl, da Craxi a
Berlusconi, da La Capria a Bevilacqua,
da Agnelli a Bertinotti. Tutti, raccontati nel modo più parziale e soggettivo possibile, frammentario, ma abbastanza rappresentativo.
C’è Eco, ad esempio, che dice che i
nostri intellettuali devono sputare nel
piatto in cui mangiano. E Gervaso, che
gli risponde che
ROBERTO
«i nostri intelletGERVASO,
tuali, nel piatto
VE LI RACCONTO IO,
in cui mangiano,
Mondadori, Milano,
non sputano:
pp. 442, ¤18,00
vomitano. Per
averci mangiato
troppo». C’è Biagi, che per l’autore è
«un bicchiere di lambrusco, che bevi
anche se non hai sete. E, dopo averlo
bevuto, lo ribevi, fino a vuotare la bottiglia. Ma senza conseguenze: non sei
neanche brillo». C’è Longanesi, che
pubblica un libro giapponese che non
aveva mai letto, solo per il nome dell’autore: Orinawa Suimuri. E c’è perfino Cuccia, che dice che «un banchiere
può commettere due peccati: uno veniale e uno mortale. Quello veniale è
scappare con la cassa. Quello mortale
è dare un’informazione riservata».
Nel momento in cui appaiono
pamphlet su venerati maestri e cataloghi di italiani notevoli, questo di
Gervaso è forse il migliore libro sui
protagonisti della cultura nostrana del
Novecento. Si può sopportare o no il
suo narcisismo, ma gli vanno riconosciute l’irriverenza e l’inopportunità
che in altre opere non ci sono. Gervaso
se ne frega. E questa specie di colto
«pierinismo» rende una raccolta di testi una miniera di divertissement intellettuali e godibili calembour.
Filippo Maria Battaglia
N
In alto al centro: i primi soccorritori arrivano in via Darwin,
la mattina del 25 ottobre 1943, dopo una notte di bombe
Qui sopra: la stessa mattina, un caseggiato di via Osella
A destra: i colpi dei bombardieri britannici non risparmiarono
nemmeno la chiesa di Santa Maria delle Grazie (sopra)
e l’Ospedale Niguarda (sotto)
già citata relazione, che descrive la distruzione di via Disciplini (23 abitazioni completamente distrutte e 500 vani
annullati). Cito, nello specifico, il testo
riferito a un singolo vecchio edificio (al
civico 12) con i solai in legno che, colpiti dalle bombe, avevano rovinosamente
ceduto: «Un gran volume di macerie è
stato proiettato dentro lateralmente e
nella direzione della strada lo stesso terrapieno è stato smosso. Nonostante la
gravità del crollo, cinque persone furono salvate mediante un difficile lavoro
di penetrazione attraverso le cantine del
numero 14, condotto con abnegazione
da operai che per due giornate e due
notti hanno insistito, con grave pericolo
proprio e procedendo cautamente mediante successiva puntellazione, fino a
raggiungere i sepolti rimasti illesi in vari
punti delle due celle».
ze. Ci volle un giorno per spostare il materiale caduto, ma alle 8 della mattina dopo
i treni ripresero lentamente a circolare.
A muoversi (prima, durante e dopo
l’incursione) furono innanzitutto la Questura con i propri agenti, i carabinieri e gli
uomini della Milizia Volontaria. Vennero
poi impiegati 1.639 tra ufficiali e vigili del
fuoco affluiti in città da Bergamo, Como,
Varese, Pavia, Brescia, Cremona e Piacenza. La Croce Rossa, come d’altro canto l’UNPA, fu ostacolata nel suo lavoro
dalla mancanza di linea telefonica. Il collegamento coi gruppi rionali, allora, venne fatto attraverso staffette. L’esercito
venne impiegato nello spegnimento degli
incendi, nel salvataggio dei feriti, nel recupero delle salme e nello sgombero delle macerie. Molti soldati, come si vede
nelle foto, si distinsero per abnegazione.
In seguito agli accertamenti fatti, ri-
estrema di malattia criminale dalla quale
i nostri leader politici e militari hanno volontariamente scelto di venire colpiti».
In realtà, questa civiltà futura inizia
a riflettere su ciò soltanto ora e nessuno
ha mai osato pensare che Churchill o
Roosevelt fossero malati criminali. La
Seconda guerra mondiale è passata alla
storia come la guerra giusta delle democrazie contro i malvagi fascismi. Se questo è vero, non vanno dimenticati i mezzi con cui è stata combattuta: quelli usati dai regimi totalitari. Il democratico
George Orwell, addirittura, nei suoi interventi sulla Partisan Review e alla BBC
disse che il pacifismo inglese era una
sorta di filo-nazismo.
Qualcuno dirà: occhio per occhio,
dente per dente. Ma è un vero peccato che
una terza posizione non sia mai stata presa in considerazione.
•
LA REPUBBLICA DELLE LETTERE
4 IL DOMENICALE
LO SCAFFALE
DELLA CRITICA
belle scritture
Il Lucentini e le donne
S A B AT O 2 D I C E M B R E 2 0 0 6
Quanto era bello giudicare: eutanasia
Sinfonia azzeccata di abili pettegole
iciamo così: Lucentini ha deciso di scrivedi Beppe Benvenuto
re un giallo, e non un romanzo, solo per
el 1974 Guido Piovene, in occauna predisposizione innata verso il gesione dell’avvio de Il Giornale
nere. Ma il suo libro, del giallo, ha pochissimo. È
nuovo di cui è uno dei fondatori,
infatti – perdonate la parolaccia – un romanzo
accanto a Indro Montanelli, Enzo Bettipolifonico. La sua qualità più interessante sta
za, Cesare Zappulli etc., ma di cui sopratproprio in questo. Otto voci, otto donne: la bitutto è il responsabile delle parti culturadella, la barista, la carabiniera, la figlia, la miglioli, dichiara che la critica giornalistica è,
re amica, la giornalista, la volontaria, la vecchia
oramai, entrata in uno stato che è ardito
contessa. Più la vittima, anche lei donna: Milena
definire confusionale. Più precisamente,
Martabazu, «anni ventidue, arrivata clandestina
nel proporre una sorta di dichiarazione
in Italia dalla Romania quattro anni fa. E poi il sodi intenti di quella che sarà la “terza” del
lito curriculum». Considerata l’originalità della
quotidiano milanese, dice di avere come
struttura, che si traduce in una forma dietetica
la sensazione, quando osserva il panoragodibilissima, l’autore tranquillizza subito il letma della cultura sui media, di assistere
tore: il morto, anzi la morta, la mette subito nel
allo spettacolo «di una perpetua incensaprimo rigo. Poi, per tuttura, come nelle funzioni sacre, dove si
to il libro, si diverte nelCARLO FRUTTERO,
DONNE INFORMATE
vede sempre un prete che gira con turila descrizione (da un
SUI FATTI,
bolo e incensa gli altri a turno».
angolo prospettico eviMondadori, Milano
La spiegazione? Oscilla fra la considedentemente maschile)
2006, pp.196, e16,50
razione amarognola, il dato di costume, la
di una vicenda tutta al
constatazione che tempi e condizioni
femminile. Ed è il solito
cambiano ma non sempre in meglio. Lo
Lucentini quello che riesce a ritrarre i tic di queste
scrittore e giornalista vicentino aggiunge
protagoniste che si autodescrivono in brevi capiche una volta «ogni grande giornale, per
toli, ovvero in memorie investigative nelle quali
ogni ramo importante della cultura, la letsono sempre in conflitto con un maschio o con la
teratura inventiva, la saggistica, le arti, il
propria parte virile. Così, la bidella se la prende
teatro di prosa, la musica, più tardi il cinecol marito Cesare, «un fifone e un vigliaccone»,
ma, aveva un critico autorevole e
la carabiniera col proprio capo, «uno stronzo
insindacabile, su cui nemmemaligno», la figlia con l’ex compagno, e
o
i
p
no il direttore osava intervia proseguendo, perché «le donne
s co
i
r
venire. La sua era una
sono più sensibili, più delicate, ci
pe
NOI SENTIAMO
cattedra, di cui difensanno fare coi sentimenti, le disfortemente l’eticità della
deva il prestigio, sograzie, i lutti, quelle cose lì». Un
stenuto dalla città
giallo che non è un giallo con
vita intellettuale, e ci muove il
intera. Oggi, in alpochissimi uomini e moltissivomito a vedere la miseria e l’ancuni rami, al posto
me donne, le uniche, pare,
gustia e il rivoltante traffico che si
di quel critico ve
che valga la pena di racconfa delle cose dello spirito.
n’è uno sciame, la
tare. Del resto, come ci dice la
Giuseppe Prezzolini, da La nostra promessa,
cattedra è svanita,
bidella a inizio romanzo,
in La Voce, 27 dicembre 1908, ora in
la città ha altro per
«tutti gli uomini sono grosso
Il secolo dei manifesti. Programmi delle
la testa, nessuno
modo così, niente grane, per la
riviste del Novecento, a cura di
vuole compromettercarità, niente complicazioni. È
G. Lupo, Aragno, Torino
si in queste condizioni.
per questo che vanno con le putta2006, p.51
Gli interessi premono. Le
ne: un momento di dolce intimità in
case editrici e i giornali sono
macchina, paghi il dovuto e chi si è visto,
ormai diventati vasi intercomunisi è visto, anche se poi salta fuori che si sono
canti. Il critico di giornale è autore di rubeccati il virus».
Filippo Maria Battaglia
D
N
così va il mondo
Da Platini al trogolo
Come una vincita può rovinarti la vita
latini si mosse al piccolo trotto in senso diagonale. Guardò la palla in possesso di un avversario e poi guardò
all’indietro verso la difesa. Si spostò verso la fascia destra del campo. Fece qualche passo in
avanti e qualche passo indietro. Poi chiamò la
palla su una rimessa laterale…». Questo è l’attacco di un racconto che si muove ai confini dello
sport, ma poi affronta nodi dolorosi che sono oggi argomento di un acceso dibattito. Platini
FRANCESCO
RECAMI,
dà come il calcio d’iniL’ERRORE DI PLATINI,
zio a un libro duro, imSellerio, Palermo 2006,
pietoso, in cui il calcio,
e12,00, pp.112
lo sport, funge come da
sfondo quotidiano. Più
avanti incontreremo di nuovo Platini: «solo nel
prato dietro al Consorzio Agrario. Era moderatamente soddisfatto della sua giornata, aspettava
che lo riportassero al suo trogolo»: evidentemente non si tratta più di Michel, il magico 10
della Juventus. Questa trasformazione è come la
metafora dell’intero testo. Una notevole vincita
al Totocalcio cambia l’esistenza di una coppia
“normale”, due trentenni come tanti, Gianni e
Sabrina, un lavoro sicuro. Sarà il denaro, eterno
demonio, a dilaniare le loro vite precipitandole
nel buio. Una scrittura asciutta, fredda, racconta
questa perdita progressiva dell’umanità. Cosa
accadrà nelle ultime pagine è un dramma che qui
non si può raccontare.
A.B.
«P
noir d’Africa
Khadra, voce dell’erg
Deliri kafkiani in paesaggio magrebino
ambiente suggestivo dell’ondeggiante
erg magrebino è l’unico elemento referenziale nel romanzo breve dell’algerino
Yasmina Khadra, pseudonimo di Mohammed
Moulessehoul. In un’atmosfera noir e misteriosa, l’anonimo protagonista coinvolge il lettore
nel proprio vorticoso flusso di coscienza, riportando alla luce la propria adolescenza di reietto,
escluso da ogni rapporto umano, anche famigliare. L’inconsistenza dell’essere è dunque esaltata dalla mancanza di realtà contingenti: il giovane non ha nome – persino la madre lo chiama
come il fratello – ed è
YASMINA KHADRA,
sostituito nel ruolo di fiCUGINA K,
glio dall’amata e odiata
Edizioni Lavoro,
cugina K, il suo potenRoma 2006,
ziale alter ego. I monopp.75, e8,00
loghi del giovane, relegato in un’angosciante
solitudine, svelano una psiche lacerata e tormentata dall’assurdità di una vita che lo emargina. Le umiliazioni subite nell’ambiente di donnetiranno in cui è cresciuto scatenano in lui violenti
raptus che lo conducono a compiere atti brutali
nei confronti della piccola cugina K e, in età adulta, di una giovane contadina. Riproponendo alcuni canoni del romanzo moderno, quali l’introspezione psicologica alla Arthur Schnitzler (La signorina Else) e la poetica dell’assurdo kafkiana,
Khadra conclude la narrazione dal ritmo litanico,
spesso interrotta da inaspettati flashback, con
un episodio cruento, risultante di una climax di
angosce e d’inquietudini irrisolvibili.
L’
farsi capire a una serie di domande retoriche, per poi alla fine toccare il punto.
Accettare ogni cosa
Ecco le domande: «Chi ha il coraggio
di prendere una posizione critica di fronte
alle avanguardie, ammettendone (con larghezza) quello che è interessante e nuovo, ma rifiutando le idiozie pure, semplici
ed evidenti? Chi distingue più l’erotismo,
anche sboccato, che ha la sua ragione
espressiva, da quello già stanco di tanti,
noioso pedaggio pagato a un rito obbligatorio? La critica dovrebbe scoraggiarlo,
non la censura! Chi si oppone agli arbìtri
di certi registi?». E così via discorrendo,
scivolando, scivolando giù giù sempre più
verso il basso.
In realtà, spiega sempre l’autore di
Lettere a una novizia, bisogna mettersi
nell’ordine di idee di «accettare (o ammirare) tutto quello che avviene».
Il giudicare allora diventa un optional, quasi una forma di malagrazia,
un’espressione di cattivi umori, una maniera, persino sgarbata, per mettersi fra
parentesi o addirittura fuori gioco. Difatti ciò cui normalmente si assiste è una
sorta di «rifiuto di giudicare, mascherato
vecchia solfa quella
del non prendere mai
posizione, male atavico.
e che ingarbuglia orde
d’intelletti nostrani
di elogio, un elogio con fondo gelido,
pieno d’indifferenza, spavento, magari
disprezzo». Il discorso poi si conclude
con una generica dichiarazione di «buona fede» e di impegno a «lodare solo ciò
che ha un valore» (Guido Piovene, Incensatura, in Il Giornale nuovo, 15 giugno 1974).
Storie di antico servaggio
Insomma, quella descritta da Guido
Piovene altro non è che una sorta di situazione da semi paralisi del pensiero. Una
forma speciale di mancanza di volontà
nell’esercitare sino in fondo quel determinato mestiere, appunto, di critico, che si è
scelto di svolgere. Nelle parole dello scrittore vicentino c’è però anche dell’altro: la
presa d’atto che il non prendere posizione, possibilmente mai, è, a sua volta, un
male antico. Ha alle spalle secoli di servaggio, tanto da apparire quasi un’attitudine, innervata nel Dna, degli intellos dello Stivale.
Un male quasi identitario. Un misto di
conformismo naturale cui va aggiunta
una sorta di allergia a parlar chiaro, a ma-
Beppe Benvenuto è docente
di Storia del giornalismo
nelle Università di Milano (Iulm)
e Palermo. Giornalista
professionista, collabora a diversi
periodici ed è autore e curatore
di numerose pubblicazioni,
tra cui si ricordano
Elzeviro (2002),
Giuseppe Prezzolini (2004)
e La malinconia
del critico (2005).
In basso: particolare,
raffigurante l’apostolo Luca,
di un manoscritto del sec. X
degli Atti degli Apostoli
e dell’Apocalisse eseguito
a Costantinopoli
a destra: Guido Piovene
(1907-1974)
briche fisse in riviste settimanali delle case editrici, direttore di collezioni, lettore,
consulente. Tutti ammirano, ne sono certo, la raffinatezza raggiunta dai ‘risvolti’
pubblicitari che accompagnano i libri, vere e sottili critiche elogiative. L’autore è
qualche volta lo stesso del libro, ma più
frequentemente un critico. Nessuna meraviglia se gli articoli di giornale assomigliano poi ai risvolti».
Eppoi a seguire c’è ancora dell’altro.
Quest’altro, Guido Piovene, lo bolla come terrorismo culturale. Una forma di
pressing, più o meno indiretto, che crea
ambiente, determina atmosfera, ma soprattutto che “funziona”. Esempi? Molti. Guido Piovene ricorre (sono passati
più di trent’anni da quella denuncia che,
per tanti versi, sembra attualissima) per
Qualche riflessione sulla necessità della stroncatura
In un’epoca in cui molti sconsigliano di bastonare gli scrittori perché questi morirebbero di crepacuore, quattro
critici “moschettieri”, in un pamphlet edito da Donzelli, riportano in auge un genere. E noi ci rallegriamo assai
ualcuno la considera un genere
letterario. Fra i più complessi e
delicati cui dedicarsi. E che di
solito non gode di molta popolarità. La
stroncatura. L’arte della critica negativa di un’opera letteraria, o artistica in
genere. Spauracchio degli scrittori, anche di quelli più navigati, e sadica soddisfazione per i critici.
Un gioco di equilibrio fra umori e
oggettività dello stroncatore, fra gusti
e finezza di naso nello stornare il vero
talento da furbesche approssimazioni.
La farina dalla crusca, insomma. Oggi
c’è chi la rimpiange e chi invece se ne
rammarica.
Questo a giudicare da recenti appelli e prese di posizione che hanno
animato il nostro asfittico panorama
letterario. Prima il buon Baricco, su la
Repubblica del primo marzo scorso, si
lamenta del fatto di non ricevere la dovuta attenzione da critici professionisti del calibro di Pietro Citati e Giulio
Ferroni. Non essendo oggetto nemmeno di una stroncatura come si deve, ma
solo di frecciatine acide (ma in seguito
otterrà la giusta soddisfazione).
Poi Roberto Cotroneo, sull’Unità
del 5 settembre scorso, chiede venia
per il suo passato di feroce stroncatore, mettendo in guardia sulle conseguenze nocive per l’autostima e per il
progredire della pratica letteraria che
tale malsana attività, se non adeguatamente arginata, può ingenerare.
Q
Dolce esibizione di nulla
I due episodi sono l’antecedente e
la reazione più “celebre” a un libricino
edito da Donzelli, in cui quattro noti
critici letterari mettono Sul banco dei
cattivi autori italiani di notevole successo di pubblico. Giulio Ferroni, docente di letteratura italiana a “La Sa-
pienza” di Roma e autore, fra l’altro,
della Storia della letteratura italiana
edita da Einaudi Scuola, inaugura il libello riflettendo sul mancato affondo
critico di Baricco, nei suoi saggi e in
particolare ne I Barbari, pubblicati da
quest’estate su Repubblica, che fa da
pendant alla superficialità in materia
di contenuto e di intenti dei suoi romanzi: in sostanza «una dolce esibizione di nulla».
Massimo Onofri, invece, docente
di critica letteraria presso l’Università
di Sassari e collaboratore di diverse riviste letterarie, punta il dito contro
l’ultimo Campiello, Salvatore Niffoi, e
mostra di non apprezzare neppure Erri
c’è chi la guarda con
sprezzo e la vorrebbe
innocua, ma l’arte
dello scudisciare è
il sale del pensiero
De Luca e Isabella Santacroce. Criticando, nel primo, il tentativo fallito di
raggiungere il sublime dal basso, in
modo quasi grottesco; nel secondo riconoscendo un «eclatante caso di estetismo degradato di massa»; infine, per
quanto riguarda la Santacroce, Onofri
parla di un caso di «giovanilismo».
Esempi di come miti e ideologie (rispettivamente la Sardegna arcaica, la
lotta di classe e le vite allo sbando)
vengano ripensati in letteratura in base a esigenze di mercato.
Segue Filippo La Porta, saggista e
collaboratore de L’Unità, che fa il contropelo a un intero genere letterario: il
Nuovo Giallo Italiano. Obiettando sulle ragioni del suo successo con un ca-
talogo dei motivi per i quali il NGI non
riesce a essere all’altezza della tradizione inaugurata da Sciascia né a rinnovarsi, essendo privo di un personale
modo di concepire il giallo e il noir.
In ultimo, Alfonso Berardinelli,
critico letterario e scrittore, una delle
firme del Sole 24 Ore e del Corriere della Sera, indirizza una lettera accorata
all’ex allievo Tiziano Scarpa, cui rimprovera l’esibizionismo che gli fa indossare maschere e adottare artifici
con cui inquina la propria prosa letteraria. Invece che culturale, propone un
modello narcisista.
Salvare il grano dal loglio
Sul banco dei cattivi. A proposito di
Baricco e di altri scrittori alla moda (G.
Ferroni, M. Onofri, F. La Porta, A. Berardinelli, Donzelli, Roma 2006,
pp.96, ¤10,90) è un pamphlet onesto,
vergato in modo garbato e rispettoso.
Infatti gli aspetti della personalità degli autori non vengono mai presi di mira in modo fine a se stesso, ma sempre
in funzione del discorso letterario.
Che non si risolve in una presa di posizione contro la persona, bensì in opposizione ad alcuni modi di concepire e
fare letteratura.
E infatti Berardinelli lancia lo strale infuocato quando afferma che «il
problema oggi non è il giudizio, ma la
carenza o mancanza di giudizio».
Questo è il nocciolo della questione.
Che dà ragione di un’iniziativa editoriale come Sul banco dei cattivi. Per la
quale non si può certo parlare di posizioni critiche d’avanguardia, ma della
volontà di mostrare anche le ombre di
autori “inflazionati”, forti di un pubblico e di un sistema che li tutela.
È il significato dell’operazione in
sé che dovrebbe essere considerato co-
me sprone a utilizzare l’acume critico
anche per andare controcorrente. Valutando il bello e il brutto, il buono e il
cattivo, dei grandi così come dei piccoli. Recuperando la sana vecchia stroncatura in funzione autenticamente
culturale.
Infatti, perché si stronca se non per
stimolare e far progredire il dibattito
culturale, rendendo anzitutto un servizio al pubblico? Se poi ci manca lo
spirito giusto e non ci sostengono le
gambe, guardandoci alle spalle, possiamo rivolgerci a un intero secolo.
Quello da poco passato. Per esempio,
Stroncature di Giovanni Papini, Scoperte e massacri di Ardengo Soffici e
Plausi e botte di Giovanni Boine nascevano e si alimentavano quando le
polemiche letterarie e la battaglia sui
testi disegnavano il panorama culturale d’inizio secolo.
Quando c’era spazio per riviste come la Voce. Quando crisi dell’intellettuale significava porsi con urgenza
delle domande sul suo ruolo. E in un
modo o nell’altro lavorare per non fargli perdere la dignità.
Parlare sempre di sé
Scrittori e critici erano sempre più
battaglieri, fino a mettere in atto un ulteriore approfondimento durante il secondo dopoguerra, quando nuove riviste letterarie (che sono lo specchio
del tempo; si veda a proposito Il secolo
dei manifesti. Programmi delle riviste
del Novecento recentemente pubblicato da Aragno), come Il Politecnico, Il
Menabò, Paragone, dettavano il passo.
Quando stroncare non significava solo
dar sfogo a malcelati livori. O porgere
il tergo a interessi superiori. Fino ad
arrivare in qualche caso a prostituirsi.
Oggi, invece, che cosa rimane? A parte
il dibattito su fiction e faction, emblema di come il nume dello spettacolo
abbia sostituito il sacro dio dell’arte, a
parte la voglia di farsi pubblicità a ogni
costo, l’importante è far parlare di sé,
anche male va bene, e a parte falsi moralismi che celano l’asservimento a logiche di potere e di mercato che pre-
è ora di smetterla
di lustrare il tergo
ai potentini e dire le
cose come stanno.
con arguzia e onestà
tendono di dettare i gusti del pubblico,
spesso purtroppo riuscendoci? Qualche Blog e poche sbiadite stroncature.
E di posto ce ne sarebbe. A partire dalla Terza pagina dei quotidiani. Forse il
luogo più adeguato, prima ancora di
raccoglierle in saggi e consegnarle alla
grande distribuzione libraria.
Senza dimenticare che lo scrittore
ha una responsabilità culturale, e
quindi implicitamente e indissolubilmente morale, nei confronti del suo
pubblico, così come chi è chiamato a
esprimere un parere professionale in
merito. Convinti di questo, crediamo
sia giusto valutare in modo positivo la
provocazione dei quattro di Donzelli.
Senza con questo voler inaugurare la
moda della stroncatura, auspicando
piuttosto di ritrovare la giusta fermezza per dire ad alta voce cosa e perché si
consiglia di leggere come, per esempio, i bei romanzi di Irene Nemirovsky, oppure si sconsiglia come,
sempre per esempio, l’ultimo romanzo di Andrea De Carlo.
•
Elena Inversetti
LA REPUBBLICA DELLE LETTERE
S A B AT O 2 D I C E M B R E 2 0 0 6
della critica letteraria italiana
Aveva già capito tutto, all’incirca trent’anni orsono, Guido Piovene quando, muscolarmente,
bacchettava la “terza” e cos’era diventata, poco più che un risvolto pubblicitario. Da allora,
chi non lo sa, molto è peggiorato. Analisi d’autore sul senso di un mestiere da reietto, il critico
nifestare senza troppi indugi ciò che effettivamente si pensa.
Un vizio talmente antico da essere
perfettamente registrato da Voltaire nel
suo Candide quando mette in bocca al senatore veneziano Pococurante la seguente e profetica frase: «In tutta la nostra Italia, si scrive solo quello che non si pensa».
Eppure non bastano vizi e servitù di
vecchia posta (quelle insomma denunciate da Guido Piovene) per spiegare la
difficoltà crescente in cui si dibatte la
cosiddetta critica militante. Una situazione così al meno che persino le discussioni che, di tanto in tanto, si accendono fra gli addetti ai lavori, non riescono a nascondere.
La guerra alle Liale, Carlo Cassola e
Giorgio Bassani, ne è l’esempio più clamoroso e conosciuto. Su questo terreno
già così dissestato, il Sessantotto, l’onnipresenza e onniveggenza della politica, accanto al trionfante, fra gli accademici, tentativo di fornire statuto scientifico a una disciplina così labile e per-
E dopo i pontefici? Il nulla
Si sa, la critica, da anni, a fasi alterne,
viene data per finita o quantomeno agonizzante. Capita così che alcuni prendano lo spunto per dichiarare la partita chiusa a partire dalla sua progressiva marginalizzazione rispetto ai gangli effettivi
del potere culturale. Altri più volenterosi
suggeriscono invece delle vie d’uscita
che però appaiono ben presto vie di fuga
(è ad esempio il caso dei molti presi dalle
varie sociologie letterarie, oppure di coloro che ricorrono a grafici, freccette e tendenze di mercato).
Per la maggioranza si tratta di un dato di fatto attribuibile a cause che sono,
più o meno, riconducibili alla già citata
(ai tempi dell’ottimo Guido Piovene) invadenza degli editori (a cominciare dai
doppi e tripli lavori di tanti critici), al venir meno della centralità sociale del
ruolo del letterato (sia nelle vesti del
creativo che in quelle del critico) e così
via. Va notato inoltre che la crisi del mestiere, curiosamente, coincide anche
con la progressiva uscita di scena di
quel gruppone di critici-critici (Giuseppe Antonio Borgese, Pietro Pancrazi,
Emilio Cecchi eccetera) e dei loro eredi
più prossimi (Luigi Baldacci, Geno
Pampaloni eccetera) che ha dominato le
patrie lettere dagli anni Venti in avanti.
Ai quei pontefici e al loro modo di intendere la professione in effetti non sono
subentrate individualità altrettanto
spiccate.
Sono scomparsi cioè senza lasciare
veri eredi, al massimo qualche brillante
epigono. Nel frattempo la stagione dell’impegno aveva fatto i suoi bei guasti,
seguita dal cosiddetto avanguardismo
che aveva tagliato quasi alla radice i primi sistematici germogli di romanzo all’italiana.
sonale come la critica, hanno fatto il resto. Spiaccicate le uova e la frittata l’è
bella e pronta.
In parallelo intanto giocava la sua
partita il giornalismo generalista, che
col pretesto di svecchiare, metteva in
forse l’esistenza di quella terza pagina
tradizionalmente sinonimo di approfondimento culturale e di spazio riservato alla critica. Si attribuiva facilmente
basta un personaggio di
voltaire a dirci tutto:
«in tutta la nostra
italia, si scrive solo
quello che non si pensa»
alla terza ogni sorta di
nefandezza, a cominciare dall’essere astratta,
avulsa dalla realtà di tutti
i giorni (peggio: campana di vetro), ultima
spiaggia del vecchio gazzettismo nostrano.
Da eliminare quindi
al più presto per far posto
a quel giornalismo culturale che avrebbe finalmente riportato lettere e
belle arti dentro il grande
alveo della cronaca e dell’informazione tout-court.
Imperativo: adattarsi all’andazzo
A questo punto, in mezzo a tante negatività, sarebbe quasi straordinario
pensare che la funzione classica del critico non sarebbe entrata in una crisi radicale. Non ha più ragion d’essere per
certi versi, per altri non ha motivo quasi
di esistere. Si aggiunga poi il carattere
nevroticamente paralizzante che il
boom della televisione ha avuto sull’intero universo della carta stampata.
EVVIVA LA “CONGREGAZIONE DEGLI
APOTI”, LO DICE ANCHE SCHOPENHAUER
he l’istituto, vero e
proprio edificio un
tempo austero e un
tanto demoniaco, della recensione sia ormai inutile,
patria di orde di senzatetto,
lo scriviamo da ere. È esercizio da passacarte, ai tempi d’oggi. O da portaborse,
che è uguale. Tu dai una cosa a me e io ti ricambio con
una recensione. Che non
smuoverà truppe di lettori
(e quando mai...), e che al limite, ripiegata nell’album
apposito, farai sbirciare ai
nipoti prima della fine dei
tempi. La recensione, in
soldoni, non traghetta pensiero, ma è il banco sbancato dove si riscuotono crediti
o si ripaga un favore.
I geni, come sempre,
avevano capito tutto da se-
C
coli. William Faulkner, a cui
le recensioni non importavano nulla, stimolava l’arte
del “passaparola” per ricavarci qualcosa da quei libri
illeggibili. Arthur Schopenhauer, nello spocchioso ingresso alla prima versione
del Mondo come volontà e
rappresentazione, dopo
aver dato grosso modo del
fesso al suo lettore, gli dice
punto che se non capisce
un’acca del libro, questo
sarà ben utile a «riempire
un vuoto nella sua biblioteca», o bella mostra farà «sul
tavolino da tè della sua colta amica». Infine, ed «è la
soluzione migliore» che il
filosofo consiglia, «egli
può [...] farne una recensione». Che è, come dire, il
fondo del barile.
Ben venga dunque
questa puntuale scudisciata di Beppe Benvenuto. Che
abbiamo raccolto, fresca
fresca, da un bella rivista di
cultura varia, che usa «il
dubbio come strumento e
stimolo (non come vergogna)», Gli Apoti (Gasm,
Termini Imerese, PA, 2006,
pp.72, e7,00; [email protected]). Che vuol dire la sigla?
La si ricava da un articolo di
Prezzolini del 1922 in cui
egli auspica a una «Congregazione degli Apoti», ovvero, «di “coloro che non la
bevono”». La rivista, diretta da Filippo Maria Battaglia, ospita un articolo di
Giulio Andreotti e una serie
d’interviste, tra le molte a
Massimo Fini, Giorgio Galli
e Sergio Romano.
•
Con l’effetto non tanto collaterale di scatenare una formidabile gara a
non essere da meno, a inseguire affannosamente,
punto per punto, deliri
inclusi, il piccolo schermo in ogni sua nuova avventura.
Fra tali giganti, in
mezzo a problemi più
grandi di lui, in una situazione ambientale da
sempre non votata all’ardimento e alla cristallina
geometria delle idee, al povero critico
resta ben poco da fare. Forse solo cercare di non scomparire, magari tenendosi
a galla, magari adattandosi all’andazzo
corrente. I suoi commenti non fanno
mercato, così almeno si dice, i suoi rari
giudizi negativi sanno più di guerra per
bande che di opinioni liberamente
espresse eccetera eccetera.
Ripartire dalla “buona fede”
Eppure la critica resta. I critici tutto
sommato non abbandonano il campo,
qualcuno risulta non del tutto incoerente, magari persino capace di farsi intendere e, perché no, rispettare. Insomma,
c’è nella grigia uniformità dell’informazione cultural-letteraria qualche spiraglio di luce, qualche segmento in grado
di offrire notizie che siano attendibili,
non gridate, ma non perciò noiose e talora brillanti.
Tuttavia anche queste nicchie, questi microcosmi talentuosi non riescono
ad annullare il messaggio di negatività e
marginalità che proviene dall’intera categoria. Non appartengono a una rete a
sistema, non hanno vera riconoscibilità.
Non fanno soprattutto tendenza. Sono
piuttosto realtà disperse e accidentate,
alla fin fine, abbastanza eccentriche.
Forse non può essere diversamente. Ritengo invece che proprio dal piacere bisognerebbe far ripartire il mestiere, magari ricorrendo addirittura a una parola
usuratissima come “buona fede” dei
singoli ma non solo dei singoli, per immaginare una situazione futura meno
disarmante dell’attuale. Le caratteristiche di cui parlava all’inizio Guido Piovene, in fondo restano i soli vaghissimi,
ma non eludibili, architravi di un mestiere, il cui massimo benefit altro non è
che la credibilità da spendere presso i
lettori, insomma la capacità di essere
persuasivi nell’opera di mediazione fra
chi scrive e il suo potenziale pubblico. •
EXTRA-VAGANZE
Reportage dal Noir Fest
L’assalto dei Mirmidoni
Scherzo in forma di cronaca sulla kermesse
che inizierà. Che tanto è sempre la stessa cosa
Pensiero con buffetto su un poemetto di
gran stazza che fa accostare Tacito a Nabokov
nche quest’anno si è svolta una st’anno sponsor del Noir Fest, ha deciso
“nuova” edizione del Noir Festi- di chiamare la redazione di Chi l’ha vival: dal 5 all’11 dicembre i vertici sto? e di Studio Aperto, ma una volta sadel giallo all’italiana si sono ritrovati co- puto che le telecamere non si muovevame sempre al Gran Hotel Royal di Cour- no se non c’era il morto o se non s’inscemayeur per incontrarsi, salutarsi, ritirare nava una battuta di sommozzatori pronpremi, grolle e caffè caldi. In un’atmosfe- ti a dragare i laghetti della zona, hanno
ra serena e conviviale come quella che si deciso di sospendere le ricerche.
Altro colpo di scena l’11 dicembre:
può ritrovare soltanto nei filmati promozionali dell’Azienda Promozione Turi- un notissimo giornalista ha creduto di
smo, i migliori giallisti italiani hanno in- vedere nella “Casa di Barbie” di una
trattenuto il pubblico, di soli giornalisti, bambina tedesca ospite del Gran Hotel
sul mistero della propria presenza. An- Royal il plastico della villetta di Cogne.
che quest’anno “Ma io che ci faccio Ne ha scritto sul suo giornale e subito si è
qua?” è stata la domanda più sentita sia scatenato un vespaio. I vertici della Rai
tra gli scrittori che tra gli addetti ai lavori. hanno smentito sottolineando che il plastico di Porta a
Un primo moPorta si può vedemento di autentiE UN NOTO GIORNALISTA
re soltanto su preco giallo si è avuto
SCAMBIÒ LA CASA
notazione e solo
quando, nella hall
DI BARBIE PER IL PLASTICO
su visita guidata
del Grand Hotel
DELLA CASA DI COGNE
dal criminologo
Royal, un giovane
Guido
Bruno.
giornalista free
L’ufficio stampa
lance alle prime
armi e alla prima edizione, ha iniziato a del Noir Fest ha invece tenuto a sottolisaltare sui divani giurando di aver visto neare che non si trattava della “Casa di
Agata Christie in compagnia di Arsenico Barbie” ma della “Casa Napapijri”, anche quest’anno sponsor del Noir Fest.
e i vecchi merletti.
Gli organizzatori, nell’ultima serata,
Subito sedato con i gas di scarico dell’ultimo modello della Mini Bmw, anche hanno ringraziato gli sponsor per aver request’anno sponsor del Noir Fest, il gio- so possibile l’evento. Dopo circa due ore
vane è stato coperto con un maglione hanno ringraziato i giornalisti per aver
della Napapijri, anche quest’anno spon- dormito e mangiato per sei giorni e gli
sor del Noir Fest, e subito portato al caldo scrittori intervenuti per essere da anni
dei saloni del Casino della Vallee, anche sempre gli stessi. Giornalisti e scrittori
quest’anno sponsor del Noir Fest. Appe- hanno ringraziato a loro volta l’organizna rinvenuto gli è stato spiegato che non zazione mostrando fieri i tatuaggi degli
erano né Agata Christie né Arsenico e i sponsor in ogni angolo del corpo. Al tervecchi merletti ma soltanto due delle or- mine della conferenza gli organizzatori
ganizzatrici più giovani del festival. Al hanno ribadito di sentirsi orgogliosi, in
giovane giornalista free lance alle prime un mondo dove non esistono più le mezarmi e alla prima edizione non è restato ze stagioni e dove i valori non sono più
che fuggire terrorizzato. Ad oggi non si quelli di una volta, di organizzare ogni
conosce il suo destino. Con l’occasione il anno un festival che è sempre uguale. •
Comune di Courmayeur, anche queGian Paolo Serino
urante una serata piacevolmente mente, si è testé plasmato a misura della
informale e assai gradevole, dopo propria giacca. La sua nuova prova, I
aver declamato le lodi della sua Mirmidoni (con, a mo’ di sottopancia, la
poesia, quasi per un atto di autodifesa, sigla «Poemetto in tre tempi»; con prefafacemmo osservare a Federico Italiano zione di Giancarlo Majorino e nove disecome una lirica di Paul Celan possa so- gni di Andrea Boyer, Il Faggio, Milano
vrastare un poemetto di Ted Hughes o di 2006, pp.32, e10,50; www.ilfaggio.it), è
Seamus Heaney. Si scherzava, per l’ap- località lirica piena di “esiliati”. Dall’«arpunto, con garbo – Italiano è un sapiente gentino Rosenstolz, custode d’origine
lettore sia di Celan che di Heaney – su ebraica,/ per un quarto italiano» ad Andue grandezze incomparabili. Banaliz- caeus Slocum, da Automedonte a «Maerzando: la schietta ambiguità del tedesco ten, figlio di Roman dai bei capelli». Non
contrapposta alla magmatica narratività sarà sfuggito l’andazzo omerico, che c’è,
dell’irlandese. Eppure, ed era questo il benché impiastricciato, scosso e antidesenso della nostra provocazione, ci pare clamatorio, al modo con cui Ulisse navistia qui il dilemma, l’incrocio, il solido ga viso a poppa nell’Ulysses di Joyce.
C’è, insompitagorico della
ma, molto mondo
poesia di Italiano.
PUÒ UNA LIRICA PASSARE
in questo poemetChe è poeta prodiDAL BALTICO ALLA TERRA
to dalla navigagioso e felicissiDEL FUOCO, DAI RAY BAN A
zione tortuosa e
mo, ma che, ci sia
OTELLO? SÌ, SE SI È BRAVI
complessa, il Balconcesso il buffettico e l’Atlantico,
to, manca di icastiil Kazakistan e la
cità. Ovvero, si riemerge dal sublime pasto senza sapere Terra del Fuoco, «i Ray Ban/ di Cousteau
e i Rolex cinesi», ma anche Otello e Taciperché il cuoco ci abbia invitato a cena.
Tant’è, fortunatamente la letteratura to, di cui si riporta una notizia gustosissinon è affare da oscuri padri della religio- ma. È questa zuppetta di spezie la poesia
ne, e a noi, se merita, piace il mangiar be- nuova? Chissà, la poesia nuova è fatta da
ne in quanto tale. E poi, se la vogliamo genietti del verso, ed è questo che conta.
mettere giù dura, Ungaretti ha già fatto E noi non abbiamo notizia di altri che ritroppi danni. Non lui, sia chiaro, ma gli escano a filare così bene l’arazzo della
ungarettini a cui bastava un bel senti- propria poesia e per così tante, vaste pamento per tirar fuori qualche sbadato gine come Federico Italiano. Che, ci semverso. Ma torniamo al principio. Italiano bra, vada scrivendo un unico, difforme
è poeta dell’“esilio” (essendo, peraltro, romanzo. Si rilegga il precedente libello,
egli stesso in esilio quasi permanente a Nella costanza (2003), e si comprenderà
Monaco di Baviera). Intendendo, è ov- l’oracolo. In cui pare, altro spaesamento,
vio, tale parola nella qualità adamantina mescolare Nabokov a Naipaul, ennesimi
e intera di “stato dell’anima”. E qui tor- scrittori dell’esilio, con, rinverdiamo
nano a getto Celan e Heaney, moschet- l’unghia, quel difetto lì: e se sotto la glastieri di tale condizione esistenziale, as- sa facesse capo il nulla? Embè, si dirà,
sieme ad altri che costituiscono la “tradi- stornando il malocchio, chissà cosa c’era
zione” – quasi una sorta di “legge orale” mai dietro la siepe del Leopardi!
•
– che Italiano, come ogni poeta sano di
Federico Scardanelli
A
D
IL DOMENICALE 5
LO SCAFFALE DEI
PICCOLI E GRANDI EDITORI
a cura di Fabio Canessa
ECCO IL PRIMISSIMO GUARESCHI. CHE È GIÀ UN VERO SPASSO
già iniziato il conto alla rovescia per
festeggiare, nel 2008, il centenario
della nascita di Giovanni Guareschi
(1908-1968). L’annuncio delle celebrazioni viene dai figli Alberto e Carlotta, che
hanno da sempre curato l’opera del padre
con grande affetto e passione, seguendo
tutte le ristampe dei testi guareschiani. Si
tratta in questo caso del primo libro del
creatore di don Camillo, pubblicato a
puntate su rivista e poi raccolto in volume
nel 1941: un romanzo autobiografico, da
leggere con gran gusto d’un fiato, nel
quale si racconta l’infanzia di Giovannino,
l’incontro con l’amata Margherita (nella
realtà, la moglie EnGIOVANNINO
na) e l’avventuroso
GUARESCHI,
trasferimento dalla
LA SCOPERTA
natia Parma alla meDI MILANO, Rizzoli,
tropoli milanese. Il
Milano, pp.228, e8,40
tutto trasfigurato in
una fiaba dal ritmo
accattivante, governata da un irresistibile
senso dell’umorismo, con risvolti surreali
e un fondo di poetica malinconia. Mentre
nella provincia parmense, con una sola lira in tasca, bastava guardare una ragazza,
un cavallo o una bicicletta, per imbastirci
sopra un racconto, limitarsi a pensarlo e
tornare a casa contento dopo avere speso
quell’unica lira per un caffè, la scoperta di
Milano consiste nel capire che «più che
avere un’idea, l’importante è non rimandare a domani quel che puoi fare oggi». In
provincia per essere felici basta l’immaginazione, a Milano sei «come un ingranaggetto che capiti fra gli ingranaggioni
di una macchina in movimento. O si va a
È
infilare, alla sveltina, all’apposito alloggiamento e comincia a girare assieme agli
altri ingranaggi, o ci rimette i dentini». La
macchina è la Rizzoli di piazza Carlo Erba,
dove Guareschi lavora al Bertoldo, il settimanale umoristico ideato per fare concorrenza al romano Marc’Aurelio. Dopo
un geniale incipit fiabesco, dove il Tempo,
la Vita, la Morte, la Bugia, la Speranza, la
Verità e la Fortuna si accostano alla culla
di un neonato, destinato a diventare in
futuro il ladro della bicicletta di Giovannino, il romanzo racconta le tappe di un’esistenza insieme comune e speciale dal
1916 al 1941.
Numerosi gli episodi spassosi, come
quello, rocambolesco, che, attraverso
l’annuncio sul giornale della vendita di
una caldaia, porta il protagonista a trovare lavoro, o quello del ritorno a Parma,
dove gli amici al bar massacrano con cattiveria la voglia di riscatto del reduce. Fino
alla conclusione, quando Giovannino,
stufo della routine, vorrebbe ripartire da
capo e cambiare vita, ma è esortato dalla
moglie a godersi quel «piccolo mondo»
che si è faticosamente conquistato. La
lettera finale alla Morte, sobria e struggente, lamenta la legge che ci condanna,
un bel giorno, ad abbandonare tutto,
tranne i ricordi («e questo mi renderà più
triste»). Tra le varie profezie sul futuro,
delegate a un’immaginaria testimonianza del nipote datata 1998, molte si sono
avverate. Ma non quella che «i figli non si
ricordano dei padri»: Alberto («il mascalzoncello» di questo romanzo) e Carlotta
ne rappresentano la smentita vivente.
BONVESIN DE LA RIVA: QUANDO MILANO ERA UNA MERAVIGLIA
en prima di Guareschi, Milano fu
scoperta da Bonvesin da la Riva,
che espresse l’orgoglio e l’amore
per le meraviglie della sua città, in un capolavoro dimenticato e oggi meritoriamente ristampato, grazie a una preziosa
edizione curata da Maria Corti e tradotta
splendidamente da Giuseppe Pontiggia
(con il testo latino a fronte). Scritto nel
1288 da questo intellettuale di Ripa Ticinese, maestro di grammatica, sul modello
medievale del panegirico della città, l’oBONVESIN
DE LA RIVA,
pera celebra la posiLE MERAVIGLIE DI
zione e la natura, le
MILANO, Bompiani,
abitazioni e gli abiMilano, pp.224, e26,00 tanti, la fertilità e la
forza, la fedeltà e la
dignità, la libertà e l’economia di Milano,
che, «come il sole tra i corpi celesti», svetta sopra ogni altro luogo del mondo. Bonvesin esagera nelle catalogazioni per rendere adeguatamente l’idea di abbondanza di questa paradisiaca realtà urbana: gli
elenchi delle professioni e dei mestieri nel
terzo capitolo, la descrizione della felice
conformazione della città nel primo, l’accumulazione iperbolica dei cibi e delle materie prime che ne comprovano il benessere nel quarto, tanto che «qualsiasi uomo, purché sia sano, può ottenere guadagni e dignità secondo il proprio stato», il
B
cauto accenno ai conflitti politici che non
ne intaccano la supremazia nell’ottavo,
sono pagine che uniscono all’alta qualità
letteraria l’analisi puntigliosa di quella
Mediolanum, così perfetta anche linguisticamente da contenere tutte le vocali.
Fra digressioni suggestive e aneddoti
spassosi, vanno segnalati i ritratti dei cittadini eccezionali, come il saggio Guglielmo
della Pusterla e il forte Uberto della Croce,
così valoroso da fermare con le braccia i
cavalli in corsa e trasportare le giumente
per le scale fino al solaio, da vincere dodici
uomini e da sgominare da solo, a colpi di
clava, una folla di pavesi, per poi rifocillarsi con una scorpacciata di trentadue uova
fritte in padella. L’ambiguità di aver taciuto il male è avvertibile nell’intenzione di
responsabilizzare i milanesi, per metterli
in guardia dal non degenerare «considerando di quale patria siano figli». Spergiurando di non aver abbellito la verità dei
fatti, si spinge fino ad augurarsi che il papato si trasferisca da Roma a Milano e sostiene di rivolgersi non solo ai turisti, ma
anche ai suoi concittadini, perché «aprendo gli occhi, vedano e, vedendo, capiscano che città sia la nostra e quanto sia degna di ammirazione». Corredano il volume bellissime silografie di stampe popolari d’epoca, miniature milanesi e il colorato
ciclo di affreschi della Rocca di Angera.
IL CALENDARIO ANCESTRALE DEL “MONDO PICCOLO”
iacerebbe tanto a Guareschi questo antico lunario popolare, stampato ancora con i caratteri e il gusto di un “mondo piccolo”. Una guida
dell’agricoltore che si apre con il calendario delle feste cattoliche d’intero precetto e che, mese
IL VERO SESTO
per mese, accomCAJO BACCELLI,
pagnato da illustraOfiria, Firenze
zioni d’epoca, se(tel.055/50621),
gnala giornalmente
pp.100, e2,00
i santi e le fasi lunari,
dando consigli per
la coltivazione della campagna e dei frutteti, per travasare il vino in cantina e seminare nell’orto e in giardino, per l’allevamento degli animali da cortile e la potatura del vigneto. Con indicazioni sulla
cucina adatta a ogni stagione e sul modo
P
migliore di ottenere olio buono dagli oliveti. Grande spazio è dedicato alle date
dei mercati, delle fiere e delle sagre, ma ci
sono anche un elenco ragionato delle erbe campestri commestibili e una guida a
chi va per boschi, sestine, giochi, barzellette parrocchiali e la tabella delle tariffe
postali. Il tutto segue rigorosamente la
formula della prima edizione del fiorentino Sesto Cajo Baccelli, uscita sessant’anni fa. Ma, a sfogliare queste pagine, il
tempo sembra essersi fermato. Novembre è segnalato come il mese dedicato alle anime del Purgatorio e guai a travasare
il vino col freddo di gennaio, agosto è il
mese migliore per la conserva di pomodoro, marmellate e sottaceti, mentre
«seminare decembrino vale meno di un
quattrino».
PER GIRARE IL MONDO INTERO SFOGLIANDO DUE PAGINE
al libro di Bonvesin da la Riva
prende le mosse, settecento anni
dopo, Roberto Ruozi, presidente
del Touring Club Italiano, in questo volume che raccoglie una nutrita serie di lettere, indirizzate al lettore, spedite dai più
disparati angoli del pianeta Terra. Un’antologia di viaggi, compilata non secondo
una graduatoria geografica, ma seguendo i gusti di un turista d’eccezione, che ha
voglia di conoscere il mondo, ma anche di
raccontarlo. Senza
sussiego accademiROBERTO RUOZI,
co, anzi con l’affabiISTANTANEE DAL
MONDO, Touring
lità discorsiva di chi,
Club Italiano, Milano,
al ritorno, ha voglia
pp.320, e14,00
di comunicare agli
altri ciò che lo ha
emozionato. Ruozi parte dalla sua Milano
perché è convinto, come Bonvesin, che
sia una città straordinaria «sconosciuta ai
più». La regina del marketing ha la colpa
di fare «un pessimo marketing di se stessa»: per questo Ruozi ne ripercorre le tappe più significative, senza dimenticare i
grandi che l’hanno abbellita (da Leonardo
a Bramante), ma soffermandosi anche su
D
curiosità più segrete (la ciocca di capelli di
Lucrezia Borgia all’Ambrosiana). Da Milano si passa a Piedicavallo, vicino Biella, località di montagna poco conosciuta, ma a
cui l’autore è affezionato per motivi biografici. E poi la Nizza di Nietzsche, Berlioz,
Cechov e Matisse, ingiustamente considerata «una città di anziani e per anziani»,
la San Pietroburgo nella quale Ruozi si
mette sulle tracce di Dostoevskij e del suo
Raskolnikov, andando alla ricerca di piazza Sennaja, dove il protagonista di Delitto
e castigo uccide la vecchia usuraia; la
Danzica di Günter Grass. Chi invece alle
seduzioni letterarie antepone le emozioni
della natura, può perdersi «in orizzonti
sconfinati e in tramonti che non finiscono
mai» a Reykjavik. E poi veniamo condotti
per mano dall’Armenia alla Bulgaria, dalla
Libia al Sudafrica, da Tombouctou all’Egitto, fino oltreoceano, alla fine del mondo, in Patagonia e nel Messico della civiltà
maya. Ogni viaggio dura poche pagine e
non è il caso di leggere il libro come un romanzo, dalla prima all’ultima pagina. Sarà
un piacere invece consultarlo, saltabeccando qua e là.
FINESTRE APERTE
6 IL DOMENICALE
S A B AT O 2 D I C E M B R E 2 0 0 6
HEZBOLLAH, LA REGIA
• Sono tutte sue quelle stragi di militari
statunitensi e francesi che nel 1983
mandarono a monte la prima missione
di pacificazione condotta dall’ONU in Libano
• Le sue ambizioni sono da sempre grandi,
le sue aspirazioni pure. E chi si frappone
nel mezzo ne subisce l’ira, la violenza e le
ritorsioni, musulmano od occidentale che sia
Un bel libro per andare alle
radici del terrorismo islamista
l “Partito di Dio”che ha lanciato la strategia mondiale del
terrorismo islamista non è per
nulla un fenomeno estremo sì,
ma fortunatamente locale. È invece il figlio legittimo e diretto
della rivoluzione scatenata in
Iran dall’ayatollah Ruhollah
Khomeini, quindi lo strumento
più utile che Teheran ha da anni a
disposizione per perseguire i
propri interessi geopolitici nel
Medio Oriente.
Lo racconta e lo dimostra
bene Gian Micalessin, esperto
di questioni mediorientali e da
anni inviato di guerra sui fronti
più caldi dello scacchiere internazionale, nel suo Hezbollah. Il
partito di Dio, del terrore e del
welfare (postfazione di Maurizio Stefanini, Boroli, Milano
I
2006), che sarà in libreria a
giorni e del quale anticipiamo
qui alcune pagine salienti.
Nato in seno alla comunità
sciita libanese, Hezbollah inizia
le proprie vicende a Teheran e si
sviluppa durante l’invasione
israeliana del Libano nel 1982.
L’Iran ripone infatti nelle mani
armate e pesanti dei suoi militanti tutti i propri sogni strategici che mirano alla costituzione di un asse sciita in grado di
congiungere il Meridione del
Libano con la Siria e il Meridione dell’Iraq con l’Iran.
A Hezbollah si deve dunque
la primogenitura del terrorismo
islamista come arma di guerra internazionale, di fatto l’invenzione della guerra asimettrica in nome di Allah e il primo uso, in am-
bito musulmano, del rapimento,
della tortura e dell’omicidio come arma politico-militare.
Insomma è al “Partito di
Dio” degli sciiti libanesi che si deve guardare per comprendere la
logica della guerra irregolare e
sporca combattuta da certa parte del mondo ultrafondamentalista musulmano per colpire anzitutto gl’islamici “tiepidi” e le loro
classi dirigenti, quindi gli odiati
“crociati” occidentali.
Il libro di Micalessin ne ripercorre allora vicende, protagonisti e orrori con la verve del reporter e il piglio di chi non si accontenta delle ricostruzioni superficiali. Un bel libro, insomma, che
illumina con intelligenza alcuni
angoli oscuri del complesso
mondo in cui viviamo.
•
• La strategia dei terroristi sciiti libanesi
è sottile: da un lato morte e orrori,
dall’altro case, scuole, ospedali.
La propaganda è tutto, il consenso pure
Viaggio tra i fatti
e i misfatti di quello che è
il simbolo stesso degli orrori
del terrorismo di marca
religiosa. Cioè di cosa
succede quando la religione
impazzisce, si fa ragion
geopolitica di Stato
e sull’altare dei propri
folli sogni di rivoluzione
sacrifica chi gli capita
a tiro. Il tutto rivenduto
come “servizio pubblico”
per le masse diseredate
UN PROLOGO IRANIANO
lla fine fu Jawad a riuscirci.
Quel ragazzo era un fenomeno di concentrazione… magro, barbuto, nervoso, ma anche profondo. Il suo entusiasmo e la sua mente matematica unite all’ottima dimestichezza
dell’inglese ne facevano la persona giusta
per quel lavoro. Jawad mise a punto un
metodo per ricostruire quei frammenti di
carta. Un pomeriggio afferrò una manciata di quei coriandoli dal barile li allineò su
un pezzo di carta, incominciò a dividerli
per tipo e qualità. Lavorammo con lui e
dopo alcune ore riuscimmo a mettere insieme alcuni frammenti appartenenti ad
uno o due documenti. Era un lavoro massacrante: solo allineare i frammenti uno
accanto all’altro era un’impresa. Dopo
cinque ore avevamo ricostruito il 20/30
per cento dei due documenti. Jawad non
si diede per vinto. Il giorno dopo tornai a
fargli visita con un gruppo di compagne.
“Vieni a vedere – mi disse con un sorriso
–. Con l’aiuto di Allah e tanto sforzo potremmo riuscire nell’impossibile”. Aveva
completamente ricostruito il primo documento e incollato assieme ciascuno di
quei coriandoli. Ora potevamo leggere il
testo: conteneva informazioni militari e
una fonte identificata da un codice. Allora telefonammo al comitato centrale. Arrivarono subito assieme a un religioso l’hojjatoleslam Mousavi Khoeiniha. Lui
diede un’occhiata ai documenti ancora in
frantumi, ci incoraggiò a proseguire quel
lavoro, disse che sarebbe diventato importante per la difesa della rivoluzione.
«A
La strategia del terrore
che punta tutto
sui rapimenti fu una
invenzione del 1982
Pieno d’ottimismo Jawad reclutò una
squadra di studenti, li mise a lavorare al
progetto. Il giorno dopo c’erano già altri
venti volontari. Jawad spiegò la procedura. Ciascuno avrebbe iniziato con una
manciata di quei coriandoli classificandoli con molta attenzione. Poi preparò
delle tavole piatte... per tenere ben fermi i
frammenti. Era un lavoro lungo, noioso.
Dopo un mese il primo gruppo di studenti era già stufo. Chiamammo altri volontari e il lavoro continuò... Una volta preso
il ritmo gli studenti ricostruivano dai cinque ai dieci documenti per settimana... Il
lavoro continuò fino al 1985. Un totale di
3000 pagine e di almeno 2300 documenti
vennero ricostruiti e pubblicati in 85 volumi. Un grande numero di spie e fonti
d’intelligence vennero identificate».
Quando descrive la ricostruzione dei
documenti distrutti dai diplomatici americani di Teheran prima di cadere ostaggi
degli studenti iraniani Massoumeh Ebtekar non è più una ragazzina. Non è più la
Mary dal volto velato. Non è più la studentessa che traduce in inglese per gli inviati di tutto il mondo i comunicati diffusi
dal comando studentesco impossessatosi della sede diplomatica americana. Da
quei 444 giorni di assedio iniziati nel novembre 1979 sono passati 20 anni. Mary
è cresciuta. Mary ha continuato a far poli-
DI GIAN MICALESSIN
tica. Mary è diventata, come molti ragazzi, andati a conquistare l’ambasciata
americana quella mattina di novembre,
un’esponente di punta dei riformisti iraniani. Mary, alias signora Massoumeh
Ebtekar, ha fatto più carriera degli altri.
Nel 2000 è una dei vicepresidenti della
Repubblica Islamica, uno dei vice di Mohammed Khatami ed ha appena finito di
scrivere un libro su quei 444 giorni all’ambasciata. Un libro sincero e spassionato. Un libro in cui manca il nome di una
persona che pagò a caro prezzo l’ingegno
e l’impegno di Jawad e degli altri studenti
rimasti per mesi a dare un senso a tonnellate di coriandoli disintegrati.
L’AFFARE BUKLEY
La mattina del 16 marzo 1984 il colonnello William F. Bukley non immagina nemmeno che il suo nome sia emerso
dalla montagna di carta divorata e fatta a
pezzi cinque anni prima dai macchinari
distruggi documenti della sede diplomatica di Teheran. È arrivato a Beirut subito
dopo l’attentato all’ambasciata americana. Ha il compito di rimettere in piedi l’ufficio della Cia. La strage ha fatto piazza
pulita dei migliori esperti di Medio Oriente. Lui è uno degli ultimi sopravvissuti,
deve ripartire da zero, rimettere in piedi
una squadra degna di quel nome, far funzionare di nuovo quell’ufficio. Si chiude
alle spalle la porta di casa, entra nell’ascensore, preme il bottone del parcheggio interrato. Le scorte non gli piacciono.
Meglio girare da soli. Meglio non dare
nell’occhio. Lo ha sempre fatto. Anche in
Vietnam. L’esperienza non gli manca. Ha
56 anni. È in giro per l’agenzia da almeno
una ventina. Dicono abbia lavorato ad un
programma segretissimo per l’eliminazione di alcuni leader stranieri. Lui, a chi
glielo chiede, racconta solo di guidare
l’ufficio politico dell’ambasciata.
Il lavoro riempie le giornate. Beirut è
di nuovo in fiamme. La guerra civile è in
piena ripresa nonostante il cessate il fuoco concordato in Svizzera. In tutto questo
bisogna coordinare il ritiro dei marines,
l’addio al Libano. Sicuramente qualcuno
sta studiando un ultimo colpo.
E poi ci sono quei due sequestri misteriosi. Il professor Frank Regier dell’Università americana di Beirut è scomparso poco lontano dal suo edificio. Erano in
tre, armati, l’hanno fatto salire in macchina e portato via. Una settimana fa, il 9
marzo, è scomparso anche un giornalista, si chiama James Levin, è l’inviato
della Cnn, una nuova televisione via cavo
che ha da poco iniziato a trasmettere negli Stati Uniti. La moglie ha detto di averlo
lasciato in bagno mentre si radeva… Che
gli siano entrati in casa?
L’ascensore si apre. William attende
un attimo. Come tutti quelli che fanno il
suo lavoro. Segue le procedure. Controlla
con la coda dell’occhio i lati del garage.
Esce con le chiavi in mano. Le procedure
stavolta non bastano. Sente la canna del
kalashnikov infilata nel costato. Fa appena in tempo ad alzare le mani, il cappuccio gli cala sugli occhi. Sente le voci in
arabo, il bagagliaio che si chiude, il rumore dell’auto che lo porta via, poi quello
del traffico di Beirut all’ora di punta. A
tarda sera l’ufficio Cia dell’ambasciata
americana ammette di aver perso il proprio capo.
La scomparsa del colonnello William
F. Bukley è solo la punta dell’iceberg che
si sta per abbattere sugli occidentali. Il
primo segnale dell’incubo destinato a
prolungarsi per otto anni. Il rapimento
del capo ufficio Cia non è il primo caso di
sequestro, ma costringe gli americani e le
altre nazioni occidentali ad aprire gli occhi. A fare i conti con la nuova minaccia.
La guerra degli ostaggi, iniziata in
sordina nel 1982 con il sequestro del presidente dell’università americana David
Dodge, sta raggiungendo il suo apice. Alla sua conclusione nel giugno 1992 conterà 87 stranieri rapiti di cui almeno dieci
uccisi o morti per le sofferenze della prigionia. Qualcuno, come Bukley, si spegne per le devastanti conseguenze delle
torture inflittegli per mesi. Qualcun altro
– come il 64enne uomo d’affari italiano
Alberto Molinari sequestrato l’11 settembre 1985 – muore stroncato da un infarto
ancor prima di raggiungere il luogo di detenzione.
L’elenco per nazionalità dei rapiti
conferma le istruzioni per l’uso contenute nel “manifesto” di Hezbollah. In cima
alla lista vi sono i 17 stranieri con il passaporto americano, 15 francesi, 14 britannici, sette svizzeri, sette tedeschi e poi
tutti gli altri tra cui russi, spagnoli, olandesi, ciprioti e italiani. Attribuire tutti gli
87 rapimenti ad Hezbollah significherebbe da una parte amplificarne le capacità,
dall’altro ridimensionarne la serietà attribuendo al Partito di Dio anche atti maldestri o sprovveduti, anche se ugualmente
pericolosi o addirittura fatali per le vittime. La guerra dei sequestri, avviata dal
Partito di Dio e manovrata dai suoi protettori iraniani, si trasforma ben presto in un
redditizio filone in cui sguazzano per opportunità, denaro o convenienza gruppuscoli in cerca di pubblicità, criminali
comuni a caccia di prede umane da commerciare, clan familiari decisi a ottenere
il rilascio dei propri cari detenuti all’estero. Il florilegio di sigle, il moltiplicarsi di
rivendicazioni dopo ogni prelevamento
aumentano la disperazione, la confusione e le difficoltà dei servizi di sicurezza
occidentali impegnati nella caccia ai se-
444 infiniti giorni
di prigionia finirono
per stroncare il cuore
di Bukley, agente CIA
questratori. La competizione sleale tra
agenti e gruppi d’intelligence, pronti ad
affossare anche gli alleati pur di portare a
casa i connazionali, contribuisce a regalare punti al nemico.
Per capire ragioni e finalità di questo
commercio di umani capace di tenere in
scacco l’Occidente per otto anni bisogna
considerare almeno due episodi. Il primo
risale all’inizio del luglio del 1982, un
mese dopo l’invasione israeliana del Libano. In quei giorni di guerra le Forze Libanesi, la milizia cristiana di Samir Geagea, fermano un’automobile scortata
dalla polizia libanese ad un posto di blocco una quarantina di chilometri a nord di
Beirut. Forse si tratta di un’informazione
israeliana, forse di semplice fortuna, ma
la preda è grossa. Dentro quell’auto ci sono Ahmad Motevaselian, addetto militare dell’ambasciata e comandante dei Pasdaran nella valle della Bekaa, Mohsen
Musavi incaricato d’affari in Libano, Kazem Akhavan Allaf giornalista dell’Irna,
l’agenzia di stato iraniana, e l’autista Mohammed Taghi Rastegar Moqadani. I
quattro scompaiono nel nulla e Teheran
non riesce ad averne più notizia. Il mistero sulla loro sorte, benché ignorato dalla
stampa occidentale, è così fitto che non
più tardi del 7 luglio del 2005, nel 23simo
anniversario dalla loro scomparsa, il ministro degli Esteri Kamal Kharrazi torna
alla carica con il governo libanese sollecitandolo «a velocizzare le indagini sul caso dei quattro iraniani rapiti». In quei
giorni del 1982 non esistono né governi,
né autorità a cui appellarsi. Vale solo la
legge del taglione. Il primo a farne le spese, il 19 luglio, è il presidente dell’Università Americana di Beirut David Dodge.
L’accademico viene prelevato nei locali
dell’Università per iniziativa di un clan
sciita della Valle della Bekaa. Il gruppo, al
confine tra malavita e militanza politica,
patteggia per un po’ la liberazione dell’ostaggio poi si stufa e accetta l’offerta
d’acquisto dei Pasdaran iraniani. Passando di mano in mano e di confine in confine Dodge si risveglia una mattina in una
cella del carcere di Evin, la prigione a
nord di Teheran dove sono detenuti i dissidenti e gli oppositori del regime di Teheran. I funzionari iraniani e gli uomini dei
servizi segreti che si alternano al suo interrogatorio sono decisi a strappargli
qualche informazione sui connazionali
scomparsi in Libano. Quando capiscono
che Dodge è solo la sfortunata vittima di
un baratto gli iraniani cedono alle pressioni del presidente siriano Hafez Assad,
trasferiscono l’accademico in Siria e la
mattina dopo lo consegnano all’ambasciata americana.
GLI AMICI DI MUGHNIYAH
Il secondo episodio che fa da sfondo e
innesco alla guerra degli ostaggi prende il
via nell’emirato del Kuwait il 12 dicembre 1983, meno di due mesi dopo il massacro dei marines e dei paracadutisti
francesi. Quel giorno una serie d’attentati suicidi accuratamente sincronizzati
colpisce in sequenza l’ambasciata americana e quella francese, la torre di controllo dell’aeroporto, la principale raffineria
del Paese e un’area residenziale riservata
ai lavoratori americani. Sei persone vengono uccise e più di ottanta ferite. A rivendicare l’attentato ci pensa l’organizzazione clandestina di “Al Dawa”. Il gruppo diventato nel 2005 partito di governo
in Iraq è, a quel tempo, un’organizzazione clandestina finanziata e armata dai
servizi segreti iraniani al cui interno gravitano esponenti sciiti iracheni e libanesi.
Nei giorni seguenti i servizi segreti kuwaitiani mettono le mani su 17 sospetti.
Tra di loro c’è anche Mustafa Youssef Badreddin il cugino, cognato e braccio destro di Imad Mughniya. Cinquanta giorni
prima era assieme al suo capo sul tetto
dell’edificio prospiciente la caserma dei
marines di Beirut. In Kuwait ci prova da
solo, ma non gli va altrettanto bene. La
sincronizzazione funziona, camion e autobombe colpiscono quasi tutte allo stesso tempo, ma la ritirata si rivela più difficile del previsto. A questo punto il ritorno
in scena dell’amico e sodale è quasi obbligato. Non che Imad Mughniyah sia uomo di grandi emozioni. I pochi che l’hanno conosciuto e ammettono di ricordarsene rammentano soprattutto quello
sguardo freddo glaciale impenetrabile
Tutto il resto è nulla. Un signor nessuno,
«Un americano deve
morire, un americano
deve morire». Il volo
Twa 847, una tragedia
grassoccio e bassotto, con un volto da
bambino. Uno che se l’incontri per strada
manco ti volti. Ma non sarà un caso se gli
istruttori di Forza 17, la guardia presidenziale di Arafat, la forza d’élite palestinese,
l’hanno mandato a 16 anni a fare il cecchino sulla Linea verde di Beirut. Lì o impari o muori presto. Imad è sopravvissuto si è fatto le ossa, si è guadagnato un posto in corso d’esplosivi. Un posto da futuro terrorista in un’organizzazione palestinese senza futuro nel Paese dei cedri.
Mughniyah nell’82 avrà anche solo 20
anni, ma sa che in Libano si sopravvive
solo al fianco dei più forti. Molla i vecchi
maestri, ritorna alla fede sciita, va a fare
la guardia del corpo dello sceicco Mohammad Hussein Fadlallah. Forse, come
sostengono gli americani, è la vicinanza
con il padre spirituale di Hezbollah a fargli fare il salto di qualità. Forse è il predicatore sciita a suggerire il suo nome inserendolo nella rosa dei prescelti per l’attentato agli americani. Come vada esattamente non lo sa nessuno. La doppia strage di marines e paracadutisti francesi
cambia però la sua vita. Non vive più in
Libano. I pasdaran lo portano in Iran, gli
procurano una nuova identità e un nuovo
passato. Quello precedente lo fa cancellare lui. In Libano iniziano a scomparire i
documenti a lui intestati e le sue foto. A
venti anni di distanza rimane solo quella
ingiallita e datata conservata negli archivi dell’Fbi. Ad Ayn al Dilbah, suo villaggio natale del Sud, è sopravvissuta solo la
memoria del padre, un giudice sciita di
un certo livello. Tutto il resto è nebbia.
Nessuno ritrova il suo atto di nascita.
Nessuno riesce a far saltare fuori una sua
nuova foto. Quella rimasta negli incartamenti dell’Fbi ha più di 30 anni ed è forse
l’immagine di un volto che non esiste
più. Le voci suggeriscono chirurgia plastica, lineamenti modificati, faccia irriconoscibile.
Questo, però, succede lentamente,
con gli anni. Nel dicembre 1984, quando
il suo fratello d’armi Badreddin s’impegola in quell’avventura iraniana costatagli una condanna a morte, Mughniyah secondo le informative americane, è semplicemente un uomo prezioso trasferito a
Teheran, dotato di nuova identità e nuovo passaporto e messo alla testa di un’unità speciale dei pasdaran. La sua è solo
una condizione transitoria. Mentre Badreddin attende nel braccio della morte
lui è già pronto a trasformarsi nel demiurgo dei sequestri, nel carnefice degli umani scomparsi a Beirut, nell’aguzzino delle
decine di creature senza speranza prelevate a Beirut e incatenate ai quattro angoli della Valle della Bekaa.
MORTE DI UN AGENTE
Come il nome di William F. Bukley arrivi nelle mani di Mughniyah e diventi il
suo primo obbiettivo nessuno lo spiega
con precisione. Le analogie con l’attacco
all’ambasciata che qualche mese prima
ha decimato i migliori analisti dell’agenzia sono però inquietanti. Quella volta la
notizia della riunione di Robert Ames capo analista della Cia per il Medio Oriente
con le migliori menti dello spionaggio
americano in quella zona era stata intercettata dai sovietici e discussa con i siriani considerati a quel tempo i migliori alleati di Mosca nell’area. Secondo le ricostruzioni dell’intelligence americana una
soffiata dei servizi segreti aveva fatto arrivare la notizia a Teheran e poi nella Valle
della Bekaa. Ora l’arrivo del nuovo staff
di funzionari a Beirut è stato sicuramente
controllato e qualcuno, a Teheran, ha
scoperto il nome di Bukley. Un nome contenuto nell’elenco di spie redatto grazie
ai documenti distrutti nell’ambasciata di
Teheran. Bukley è una preda preziosa. Interrogandolo si può scoprire la nuova rete
stesa dall’agenzia in Medio Oriente, eliminare gli infiltrati e alla fine utilizzarlo
per un baratto con il Kuwait in cambio di
Badreddin e dei suoi 16 compagni. Bukley è un osso duro, ma non può resistere
più di tanto. Mughnyah si presenta nella
sua prigione, lo interroga e lo tortura per-
FINESTRE APERTE
S A B AT O 2 D I C E M B R E 2 0 0 6
IL DOMENICALE 7
A È TUTTA DI TEHERAN
• Nel “partito di Dio” Israele ha trovato
un nemico potente e difficile da vincere.
Nel 2000 Tel Aviv fu costretta al ritiro
dal Libano, nel 2006 ha subìto per 34 giorni
dannato all’ergastolo, viene rilasciato
agli inizi del 2006. Oggi vive libero e indisturbato in territorio libanese nonostante
le domande d’estradizione delle autorità
statunitensi.
sonalmente. Per carpirgli più segreti possibili mobilita Aziz Al Abub, uno psichiatra laureatosi all’università Patrice Lumumba di Mosca. A Beirut è già conosciuto come “dottor morte”. La leggenda
vuole sia lui a fornire le anfetamine per i
primi attentatori suicidi. Di certo viene
utilizzato per gli interrogatori più importanti. È lui a controllare che le torture a
Bukley non vadano mai oltre il punto di
non ritorno. È lui a fargli ingurgitare o
iniettargli il miscuglio di droghe indispensabile per aggirare gli sbarramenti
mentali di un agente addestrato a resistere a lunghi interrogatori. Il cerchio intanto si stringe. William Casey leggendario
capo della Cia dell’epoca, vuole Bukley
indietro a tutti i costi. Del suo caso si occupa Oliver North, il colonnello destinato
a diventare famoso nel 1987 quando
emerge come principale protagonista del
caso Iran Contras. Il complicato schema
basato sulla fornitura di armi all’Iran attraverso Israele e la vendita di altre armi
ai contras attraverso la Repubblica islamica viene inizialmente studiato per ottenere la liberazione di Bukley senza trattare con i suoi rapitori. Le armi da sole
non bastano. A febbraio i colleghi e i familiari di Bukley vedono le sue immagini
in un filmato consegnato all’agenzia inglese Visnews. Sono 56 secondi di video
Gli USA puntano il
dito contro lo sceicco
Mohammad Hussein
Fadlallah, terrorista
tremolante e sgranato. Il capo ufficio della Cia appare stanco e provato, ma assicura di star bene. «I miei amici Benjamin
Weir e Jeremy Levin stanno anche bene»
– aggiunge prima di chiedere al governo
di agire per un veloce rilascio. Sono le sue
ultime immagini. Secondo la Cia poche
settimane dopo Bukley viene trasferito in
Siria e da lì portato in Iran. Gli iraniani vogliono da lui notizie sui diplomatici
scomparsi. Le trattative con il Kuwait per
un suo scambio con i 17 in carcere vengono cancellate dal secco “no” kuwaitiano.
Le torture e le privazioni e i 444 giorni di
prigionia hanno intanto messo a dura
prova il fisico di Bukley. Il cuore dell’agente della Cia si ferma per tre volte di seguito. Alla terza i tentativi dei medici ira-
niani di rianimarlo si rivelano inutili. Nei
mesi successivi la Cia riacquisterà dagli
iraniani il dossier di 400 pagine sottoscritto da Bukley e le videocassette con le
sue rivelazioni sulla struttura dell’agenzia in Medioriente . Nel 1991 le ossa del
capo dell’ufficio Cia di Beirut vengono
fatte ritrovare in un sacco abbandonato
su un lato della strada tra Beirut e l’aeroporto.
TWA 847, ODISSEA NEI CIELI
Mentre Bukley muore dimenticato
dopo 444 giorni di prigione e torture il
mondo è sintonizzato in diretta con un altro dramma libanese. Le televisioni di tutto il mondo quella sera di venerdì 14 luglio 1985 trasmettono le immagini della
pista deserta dell’aeroporto di Beirut. All’improvviso nella torre di controllo risuona la voce del capitano John Testrake,
comandante del volo Twa 847. «Ha tirato
la sicura della bomba a mano, è pronto a
far saltare l’aereo… dobbiamo, ripeto
dobbiamo atterrare a Beirut non ci sono
alternative». Sugli schermi ritorna il silenzio rotto dalle voci incerte dei commentatori. La pista è ingombra di autobus, camion e jeep allineate alla meglio
per impedire l’atterraggio di qualsiasi aereo. All’aeroporto non vogliono grane.
Basta la guerra civile. Basta l’aeroporto
senza più recinzione, circondato dalle
milizie sciite. Non vogliono quell’aereo
pieno d’americani dirottato qualche ora
prima sulla rotta Atene-Roma. Ora l’aereo è lassù nel cielo di Beirut. Dalla torre
di controllo ancora silenzio. Dalla cabina
un altro disperato appello. «Twa 747 a
torre emergenza, dobbiamo atterrare».
Altri minuti di silenzio, prima della risposta: «Molto bene atterrate, atterrate… Atterrate con molta calma». L’aereo è giù
sulla pista, si ferma. Trascorrono alcuni
minuti e la voce del capitano Testrake risuona di nuovo nella torre di controllo.
«Stanno bastonando i passeggeri, minacciano di ucciderli, vogliono il pieno di
carburante, lo vogliono immediatamente, tra cinque minuti al massimo… se no
iniziano a ucciderli».
Prende il via così l’odissea del volo
Twa 847 dirottato il pomeriggio del 14 luglio 1985 da Hassan Izz-al-Din e Muhammad Ali Hamadi, due terroristi del gruppo di Mughniyah saliti a bordo dell’aereo
con armi e munizioni approfittando degli
scarsissimi e inefficienti controlli di sicurezza all’aeroporto di Atene. Da Beirut
l’odissea continua per Algeri. Nel frat-
tempo i dirottatori scoprono tra i passeggeri un gruppo di sommozzatori della
Marina americana. Nella capitale algerina l’atmosfera si fa drammatica. L’allora
38enne maggiore Kurt Carlson è inginocchiato a terra, separato dagli altri passeggeri, assieme al gruppo di sommozzatori
americani. Hamadi, uno dei due dirottatori è affacciato al finestrino della cabina
di pilotaggio, inneggia a Khomeini e alla
Rivoluzione islamica. «Ogni volta che
pronuncia quel nome Izz al Din mi colpi-
Quando Parigi fornì
armi a Saddam
Hussein, l’Iran ordinò
il sequestro di ostaggi
sce alla schiena» – ricorda ancora oggi
Carlson. Ogni volta che la torre di controllo rifiuta il pieno di carburante le bastonate aumentano. «Un americano deve
morire, un americano deve morire» –
quell’urlo risuona ancora negli incubi del
maggiore Carlson.
Succede due giorni dopo. Il Boeing è
ritornato a Beirut. Izz al Din e Hamadi
sparano alla testa del sommozzatore Robert Stethem, buttano il suo corpo sulla
pista. «Avete visto, ora ci credete, se non
date retta alle nostre richieste ce ne sarà
un altro tra pochi minuti».
La notte di quella domenica di terrore
e sangue un gruppo di guerriglieri raggiunge l’aereo muovendo dai sobborghi
sciiti. Tra quei volti mascherati che scrutano i passeggeri ancora rimasti e ordinano di trovare qualche ebreo c’è, secondo
l’Fbi, anche Imad Mughniyah. Gli agenti
federali sono certi di aver trovato le sue
impronte digitali in una delle toilettes del
Twa 747. Sicuri che sia lui a dirigere le ultime fasi del rapimento quando viene
concordata la liberazione di 50 prigionieri sciiti nelle mani di Israele in cambio dei
40 ostaggi ancora a bordo dell’aereo.
Quegli uomini portati giù dall’aereo e
trattenuti in garanzia da Amal, la fazione
non fondamentalista del movimento sciita, torneranno liberi il 30 giugno. Le impronte, nella toilette dell’aereo consentiranno ai giudici americani di condannare
per terrorismo Imad Mughniyah. Né
Mughniyah, né Hassan Izz al Din verranno mai catturati. Muhammad Ali Hamadi, arrestato in Germania nel 1987 e con-
CACCIA APERTA
Dopo il dirottamento del volo 747 e
dopo la morte in prigionia di Bukley gli
americani cercano in tutti i modi di metter le mani sul nemico numero uno. A
convincerli che l’unica arma efficace sia
la determinazione contribuisce la vicenda dei quattro diplomatici sovietici rapiti
dagli uomini di Mughniyah nel settembre
del 1985. Gli scopi di quel sequestro non
vengono mai chiariti, ma rientrano negli
intricati rapporti tra servizi segreti siriani
il Kgb e i movimenti terroristici dell’area
tra cui Hezbollah. Pochi giorni dopo il
corpo di uno dei diplomatici viene fatto
ritrovare nei pressi dello stadio. Il Kgb risponde con i propri metodi. Una dozzina
di esponenti del “Partito di Dio” – tra cui il
fratello di uno dei suoi capi – vengono rapiti e torturati. Il capo di Hezbollah riceve
all’indomani un pacco con gli organi genitali del fratello e le istruzioni per trovare il resto del corpo. Il biglietto avverte
che in caso di mancato rilascio dei diplomatici gli altri undici sequestrati faranno
la stessa fine. I diplomatici tornano liberi
in capo a qualche settimana e Mughniyah è costretto a lasciare Beirut per sfuggire alla vendetta del Kgb.
La fuga da Beirut gli serve per volare a
Parigi e cercar di negoziare il rilascio del
giornalista Jean Paul Kauffman, dei diplomatici Marcel Carton e Marcel Fontane e del ricercatore Michel Seurat. Fontane e Carlton sono nelle sue mani dal 22
marzo 1985. Jean Paul Kauffman e Michel Seurat sono stati rapiti sulla strada
dell’aeroporto due mesi più tardi. La Jihad Islamica continua in tutti i suoi comunicati a chiedere la fine delle forniture
militari francesi all’esercito iracheno in
guerra con Teheran in cambio della liberazione degli ostaggi. Le elezioni legislative del prossimo marzo sono alle porte e
i socialisti francesi hanno un disperato bisogno di riportare a casa i quattro rapiti.
Così Mughniyah vola a Parigi per seguire
personalmente la trattativa. Gli americani gli stanno alle costole e trasmettono i
dati del passaporto falso usato dal terrorista alla polizia francese. In poche ore il
nascondiglio parigino di Mughniyah viene rintracciato. A quel punto interviene
François Mitterand. Il presidente nega la
presenza di Mughniyah e vieta qualsiasi
intervento americano. Kauffman Carton
e Fontane torneranno a casa il 5 maggio
1988 grazie ai negoziati segreti di Parigi.
Del ricercatore Michel Seurat stroncato
da un’epatite virale fulminante non tornerà neppure il corpo interrato, si dice,
nel cimitero di Rawdat al-Shahidayn, accanto ai martiri di Hezbollah.
I tre anni di detenzione dei tre francesi diventano poca cosa rispetto all’interminabile prigionia del giornalista americano Terry Anderson, capo della sede di
Beirut dell’Associated Press. Il giornalista
scompare dopo aver accompagnato a casa un suo collega al termine di una partita
di tennis. I sequestratori se lo caricano in
macchina in scarpette da tennis e maglietta. Resterà così per sei interminabili
anni trascorsi incatenato ad un calorifero
o in compagnia di altri ostaggi.
A volere Anderson è lo stesso Mughniyah. Quel giornalista ficcanaso non gli
piace. Il suo nome gli è arrivato alle orecchie subito dopo la strage dei marines e
paracadutisti francesi. Quella volta Anderson – un fegataccio formatosi come
addetto all’informazione tra le fila dei
marines nelle battaglie vietnamite – è andato a chiedere informazioni sull’attentato nella Valle della Bekaa. Il giorno prima del suo rapimento ha compiuto l’errore fatale andando a cercare lo sceicco Mohammad Hussein Fadlallah alla periferia
sud di Beirut. Fadlallah, accusato dagli
americani di essere l’ispiratore dei rapimenti di occidentali, mantiene in quegli
anni un atteggiamento ambiguo. Non
condanna, ma dichiara di esser intervenuto inutilmente per ottener il loro rilascio. «Ho lanciato più di 50 appelli… rifiuto completamente la presa degli ostaggi. C’è una differenza tra la mia opposizione alla politica americana e il colpire
fisicamente gli americani».
FADLALLAH LA SINGE
Del resto anche Hezbollah a parole è
«inequivocabilmente contrario alla presa
d’ostaggi sia sul piano morale che su
quello religioso». Lo sceicco, a parole, lo è
anche di più. «Non consideriamo il rapi-
• A Beirut Aziz Al Abub era chiamato
“dottor Morte”. Psichiatra, laureato
all’Università Patrice Lumumba di Mosca,
era fondamentale per gl’“interrogatori”
mento un atto umano. Pensiamo non sia
giusto per un essere umano privare della
propria libertà un altro essere umano. Di
recente durante la preghiera del venerdì
abbiamo lavorato per educare le persone
contro questi metodi».
La posizione di Fadlallah sull’argomento ostaggi è, in verità, più complessa
che ambigua. Il padre spirituale di Hezbollah sa che la sua influenza è destinata
a restare esclusivamente spirituale e non
può in alcun modo influenzare la realtà
delle cose determinata dal grande padre
iraniano. Assumere una posizione netta,
pretendendo un impossibile rilascio sminuirebbe soltanto la sua autorità senza
aprire le segrete in cui sono custoditi gli
ostaggi occidentali. Il profeta di Hezbol-
Ma l’Iran era furbo:
trattava segretamente
con gli USA, spiazzava
gli alleati libanesi...
lah lo fa capire con il suo classico tono da
sfinge in un’intervista al quotidiano francese Le Figaro pubblicata il 17 settembre
2004. «La Francia – spiega Fadlallah – è
davanti ad una cassaforte chiusa. Ci sono
tre chiavi per aprirla. La più piccola è
quella libanese. Quindi se anche avessi i
vostri concittadini non potrei liberarli da
solo. La mia piccola chiave da sola non
basta. La chiave siriana è più larga, ma
non è ancora abbastanza. Dovete procurarvi la terza chiave, quella dell’Iran». La
parabola è chiarissima. Gli ostaggi francesi sono la conseguenza delle forniture
d’armi francesi al regime di Saddam Hussein in guerra con l’Iran. L’unica via per
liberarli è trattare con Teheran e trovare
una soluzione. Fadlallah ripeterà con ancor più chiarezza il concetto il 21 gennaio
1987 all’indomani del rapimento di Terry
Waite inviato dell’arcivescovo di Canterbury. «Temo che nessuno possa liberarlo
se non l’intelligence iraniana. La sola persona a Beirut capace di fare qualcosa è
l’incaricato d’affari dell’ambasciata iraniana. Non perdete tempo con nessun altro» – consiglia Fadlallah ad un medico
sciita amico di Waite subito dopo la sua
scomparsa.
Terry Waite era diventato famoso per
aver ottenuto, tra il 1985 e il 1986, la liberazione del reverendo Benjamin Weir, di
padre Martin Jenco e di David Jacobsen
amministratore della clinica dell’Università Americana. Fadlallah ammette insomma di non avere autorità sufficiente
per dare ordini a Mughniyah e alla Jihad
islamica.
Il padre spirituale di Hezbollah può
però intralciare o render più difficili da
giustificare le mosse di Mughniyah e dei
suoi manovratori iraniani. Il rapimento
di Terry Anderson, scomparso all’indomani della visita allo sceicco, è un modo
per spezzare i legami tra i giornalisti occidentali e lo sceicco. Sollecitando l’intervento di Fadlallah e forzandolo a prender
posizione i giornalisti come Anderson finiscono con portare alla luce il dissidio
tra la guida spirituale e il braccio armato
di Hezbollah, rendendo più difficili le
mosse di Mughniyah.
Del resto anche il signore del terrore
ha i suoi motivi per sentirsi frustrato. I
suoi tentativi di ottenere la liberazione
dell’amico Badreddin sono stati fagocitati
dal ben più ampio schema della politica
iraniana in cui neppure Mughniyah ha voce in capitolo. Il rapimento di Bukley ha
innescato l’affare Iran Contras e ha inevitabilmente legato la sorte degli scomparsi
alle forniture d’armi esiziali per i destini
della guerra con l’Iraq. Lo stesso Terry
Waite si rende conto che la liberazione dei
tre ostaggi, ottenuta tra il 1985 e il 1986, è
stata non il frutto dei suoi sforzi, ma degli
accordi segreti messi in piedi dal colonnello Oliver North con il governo di Teheran. «A quel tempo non potevo comprenderne il perché, ma ora lo so – ricorderà
anni dopo la sua avventura di mediatore
rapito –. Loro (gli iraniani) erano già in
contatto con North. Ora è chiaro. Loro seguivano i loro obbiettivi politici per la
guerra con l’Iraq e quegli obbiettivi erano
con l’America. Allo stesso tempo spiazzavano i loro alleati libanesi.”
MUGHNIYAH
RAPITORE INSODDISFATTO
In questa scatola cinese di responsabilità Mughniyah sa che la sua forza e il
suo potere dipendono dal numero e dal
rango dei rapiti in suo possesso. Teheran
inserirà anche le sue richieste nelle trattative soltanto se presenterà un pacchetto
d’ostaggi rilevanti ed importanti come
Anderson ed altri giornalisti e diplomatici. Il rapimento di Waite è invece una vendetta per le promesse che l’inviato dell’arcivescovo di Canterbury non è riuscito ad esaudire dopo la liberazione dei primi tre ostaggi. Durante la trattativa Waite, ignaro di agire solo come la copertura
dello schema Iran Contras, si sbilancia
promettendo di impegnarsi per la liberazione dal Kuwait di Badreddin e dei suoi
16 compagni dal Kuwait. Mughniyah
non è stato informato di aver a che fare
con un mediatore di facciata. Sa solo di
aver consegnato a Terry Waite con l’autorizzazione dell’Iran il reverendo Benjamin Weir, padre Martin Jenco e David Jacobsen. E di non aver avuto nulla in cambio. «Mughniyah conosceva tutte le dichiarazioni dei kuwaitiani riguardo ai
tentativi di Waite di visitare il loro paese e
il loro rifiuto di trattare con lui o di accettare qualsiasi pressione … aveva accettato il fatto che Waite non fosse in grado di
risolvere il problema. L’inviato non era
stato, però, neppure in grado di rispettare
l’impegno a trasmettere lettere ai prigionieri in Kuwait e ottenere notizie sulle loro condizioni. Per di più giravano strane
voci sui presunti legami tra Waite, North
e l’amministrazione americana. Mughniyah aveva rinunciato a tre dei suoi ostaggi
per le armi iraniane e non era ancora riuscito a muovere un passo sulla strada
della liberazione dei tre suoi compagni.
Detto molto semplicemente Mughniyah
non era contento».
A far felice Mughniyah, a rendere più
disponibili i suoi controllori iraniani e a
permettere la liberazione degli ostaggi
saranno solo gli eventi storici. Solo l’elezione a presidente di Alì Akbar Hashemi
Rafsanjani (3 agosto 1989), la fine della
guerra con l’Iraq (20 agosto 88), la scomparsa dell’imam Khomeini (3 giugno
1989), e l’ invasione del Kuwait(2 agosto
1990) seguita dall’operazione Desert
Storm e dalla resa di Saddam Hussein (28
febbraio 1991), renderanno possibile il ritorno a casa del giornalista Terry Anderson, di Terry Waite e di tutti i loro compagni di prigionia.
Alla morte dell’Imam Khomeini il
presidente Alì Akbar Hashemi Rafsanjani è il vero dominatore della scena politica iraniana. La sua prima preoccupazione è metter da parte gli elementi più estremisti del regime capaci di mettergli i bastoni tra le ruote. Uno dei primi della lista
è l’ambasciatore a Damasco Alì Akbar
Mohtashemi Pur, il padrino di Hezbollah
diventato nel frattempo ministro degli Interni. Per Rafsanjani la mancata vittoria
nella guerra con l’Iraq è dovuta all’isolamento internazionale che ha impedito
l’accesso alla tecnologia indispensabile
per raggiungere la supremazia sui campi
di battaglia. Il suo primo obbiettivo è
Alla fine fu l’acerrimo
nemico irakeno
a fermare la strategia
sciita del terrore
rompere quell’isolamento, normalizzare
le relazioni con gli Stati Uniti, migliorare
quelle con l’Europa e ritornare a giocare
un ruolo da grande potenza nella politica
regionale. Tutte mosse negate ad una Repubblica Islamica considerata l’ispiratrice e la manovratrice del terrorismo internazionale. «Il problema del Libano ha
una soluzione, il problema degli ostaggi
ha delle soluzioni, ragionevoli e prudenti
soluzioni» – dichiara ai primi d’agosto
1989 il presidente iraniano. Quelle parole
da sole potrebbero non bastare se la Storia non ci mettesse lo zampino.
Lo zampino decisivo lo mette, per ironia della sorte, proprio Saddam Hussein,
il peggior nemico degli iraniani. Uno dei
primi atti dell’invasione del Kuwait è l’apertura delle prigioni dove sono detenuti
Badreddin e gli altri terroristi sciiti che
Mughniyah cerca da anni di liberare. L’inconsapevole clemenza nei confronti di
un gruppo che ha colpito a nome di Al Dawa, la più attiva formazione dell’opposizione sciita anti Saddam, fa piazza pulita
di una delle principali condizioni poste
per il rilascio degli ostaggi occidentali
nelle mani della Jihad Islamica.
•
Giugno 1986. Corteo di Hezbollah
nelle strade di Ourai, nei pressi di Beirut
© Maher Attar/CORBIS SYGMA
LABIRINTI DELLA COMUNICAZIONE
S A B AT O 2 D I C E M B R E 2 0 0 6
IL DOMENICALE 9
STORIE DA TAVOLA
di Luisa Cotta Ramosino
eggendo la maggior parte degli articoli sfornati dai giornali (quotidiani o periodici quasi senza eccezioni) si ha spesso la sensazione che ai
giornalisti incaricati il cinema piaccia
davvero poco. Il gusto della visione è infatti rimpiazzato dall’amore smisurato
per idee astratte che nel migliore dei casi portano il segno delle proprie personali fissazioni, nel peggiore quello di
ideologie fastidiose e invadenti.
Poco da stupirsi se i pezzi trasudano
esibizione di colti riferimenti cinefili o,
all’opposto, si compiacciono nell’esaltare l’ultimo scandalo o la bruttura del
momento, nella speranza (vana) di essere i primi a scovare un fenomeno con
cui riempire le pagine, poco importa se
tra qualche giorno o mese anche questo
L
Piacere della critica
o piacere del cinema?
Fra tanta fuffa pseudocolta e compiaciuta, il “Farinotti” propone giudizi
ricchi e motivanti. L’estensione sul web per il lettore libero di spirito
le recensioni di cinema
sono brutte:
o astratte o marchette,
o ideologiche o fissate,
disorientano chi legge
sarà passato. Per chi legge non è strano
allora sperimentare un curioso senso di
disorientamento una volta che in sala ci
si trovi di fronte la pellicola infamata/esaltata/ignorata e si fatichi a ritrovare le
coordinate di giudizi capaci spesso di
concentrarsi su particolari minimi perdendo il senso dell’insieme e soprattutto il senso comune di chi – per istinto
ancor prima che per consapevole decisione – in una pellicola si aspetta di incontrare una storia, un mondo, personaggi capaci di comunicare un’avventura umana più o meno interessante. È
chiaro che compito del critico dovrebbe
essere andare oltre il senso di curiosità e
meraviglia che presumibilmente guida
chi si reca a spendere euro in una sala cinematografica più o meno attrezzata,
per cogliere e indicare al suo lettore ciò
che di buono o cattivo (in termini di linguaggio, di idee, di originalità) una pellicola sa offrire.
È un servizio che richiede disciplina
e misura nel combinare gusto, passioni
e simpatie (che soli sanno dare reale
profondità e sostanza a uno sguardo altrimenti clinicamente sterile, ma ugualmente arbitrario) con una valutazione
degli elementi comunicativi di un film,
dall’efficacia della scrittura a quella della regia, dalla qualità delle interpretazioni alle novità di linguaggio, rassegnandosi a constatare talvolta che il regista o l’attore preferito sono rimasti al
palo, o arrendendosi all’evidenza che
quello da sempre snobbato/disprezzato ha (forse e raramente) prodotto il suo capolavoro.
Cambiare idea su basi razionali a
volte è più difficile che mantenere le
proprie convinzioni per testarda cecità
di fronte all’evidenza; e così questa benedetta disciplina mette spesso alla
prova l’attitudine annoiata di chi, dopo
anni di recensioni destinate a cadere
nell’oblio di tutte le pagine di giornale,
finisce per sacrificarla alla banalità di
giudizi a effetto che rimbalzano da un
quotidiano all’altro, da un ufficio stampa a una pagina internet in una curiosa
eco. Ancora più importante è allora la
misura che in ogni critica comporta,
con filosofica memoria, la capacità di
ponderare nel proprio giudizio.
Intendiamoci, sviste ne prendiamo
tutti, accecati dalla bellezza di un’immagine o intrigati da un intreccio di personaggi che magari promette più di
quanto poi realizzi prima dei titoli di coda; e spesso chi scrive lo deve fare proprio sull’onda dell’emozione regalata
dal buio della sala, andando a pescare
dalla propria memoria (o da misericordiosi supporti informatici) quel riferimento che spiega la genialità di un accostamento o la curiosa scelta di un interprete. E meno male, perché forse è
proprio questa fretta che, paradossalmente, talvolta impedisce di obliterare
la storia appena vista a favore di un’opinione pre(post)costituita.
• Il Farinotti 2006 di Pino Farinotti,
Edizioni San Paolo, e29,90
I compiti della critica
A una critica, ovviamente, non si
chiede di essere infallibile, definitiva,
esaustiva. Nessun lettore vuole sentirsi
dire cosa deve provare di fronte ai virtuosismi di un regista o allo stile essenziale di un altro; non vuole sentirsi dire,
poniamo, che è un’ingenua vittima dell’imperialismo culturale americano
perché si lascia commuovere dall’ultimo film di Oliver Stone mentre si annoia
a morte di fronte ai rivoluzionari marxisti dell’ultimo Loach; non vuole sentirsi
dire che l’uso di una luce o di un colore è
più importante della necessità di costruire un racconto che dica qualcosa di
significativo e possibilmente vero sulla
propria esperienza di essere umano, anche quando quello stesso spettatore se
ne va al cinema solo in cerca di un onesto intrattenimento.
L’INSIDER
Lo Stato paga,
Comencini gira,
Milano fa le spese
uale Comune ha visto
approvare il piano regolatore lo scorso anno
in una ventina di giorni? Qual è
la città dove i due quotidiani locali sono entrambi di proprietà
di costruttori? In quale contesto hanno mosso i loro primi
passi i vari “furbetti del quartierino”? In quale città si trova
Corviale, quartiere simbolo di
periferie disumane e devastate
da scelte urbanistiche impron-
Q
Sì, 1,4 milioni di euro provenienti dalle tasse di tutti gli
italiani, e quindi anche dei milanesi, vanno a finanziare il film, a
cui il ministero dei Beni culturali, appena insediato Francesco
Rutelli, ha in fretta e furia riconosciuto il titolo di produzione
di “interesse culturale nazionale” e dunque il sostegno economico dello Stato.
Se applichiamo però vecchi
schemi gramsciani, la lettura
L’operazione dimostra peraltro quanto sia
importante il cinema nell’economia
gramsciana della cultura. Con buona pace
del cinema, che non ci guadagna affatto
tate al mattone senza qualità?
Roma è la risposta esatta
per tutti. Tranne che per Francesca Comencini, regista che
ambienta in una Milano spettrale – almeno quanto lo era
Pankow ai tempi del socialismo
reale – la sua ultima opera A
casa nostra.
Ora, è chiaro che non si poteva chiedere alla Comencini di
ambientare la pellicola all’ombra del Colosseo. Dovendo
presentare il film alla Festa del
Cinema nella capitale, sarebbe
stato sgradevole schizzare di
fango l’immagine della Roma
veltroniana. Quest’ultima si
basa , come è noto, sui peana di
intellettuali lautamente foraggiati e su inspiegabili amnesie
dei media locali su tutto ciò che
non funziona: praticamente
tutti i servizi pubblici.
Quello che però proprio
non si capisce è perché, per appioppare a Milano l’etichetta di
città senza valori e senza morale, in mano ai palazzinari e ai
corrotti, lo stato debba spendere un milione e 400mila euro.
degli eventi è più chiara. La cultura come strumento di propaganda e consenso viene prima
di qualsiasi preoccupazione per
il rilancio in sala del cinema italiano. E naturalmente viene prima di quegli interventi strutturali a favore dell’arte come fattore di sviluppo del Paese.
Ecco perché mentre per
musei, gallerie e siti archeologici il governo Prodi non è riuscito
a recuperare soldi, per il mondo
dello spettacolo e per il cinema
in particolare c’è stato un aumento degli stanziamenti. E si
capisce anche il clima di agitazione permanente che il mondo
del cinema ha riservato al governo Berlusconi, colpevole di
aver timidamente voluto legare i finanziamenti statali a criteri
meno discrezionali, cioè il cosiddetto reference system.
Per concludere, una magra
consolazione: il film è già sparito dalle sale. Ma questa è la
costante del cinema italiano
assistito dallo Stato negli ultimi
trent’anni.
•
Hyeronimus
Ciò che uno spettatore curioso vorrebbe dal “suo critico” è, forse, qualcuno capace di venire incontro, con la sua
competenza, al suo desiderio di meravigliarsi, divertirsi, emozionarsi; informando, suggerendo connessioni, offrendo ipotesi di interpretazione, e, perché no, facendo venire voglia di esplorare nuovi mondi.
Per questo ci piace la nuova edizione de Il Farinotti, che è una certezza,
ma anche una bella sorpresa nel mondo delle ormai numerose guide ai film.
Una certezza non solo perché è mostruosamente completo (oltre 33.000
voci con tutti i film usciti nei cinema
italiani, ma anche dettagliati elenchi di
premi e riconoscimenti), ma anche
perché, sfruttando i vantaggi delle
nuove tecnologie, ha l’umiltà e l’intelligenza di integrarsi preventivamente
grazie al collegamento con il sito internet www.mymovies.it che, condividendo del Farinotti filosofia e impostazione, permette di non rimanere mai
indietro, come pure di coltivare con
maggior efficacia quello che è uno dei
segni distintivi di questa rassegna.
Il Farinotti, infatti, lungi dal restare
rinchiuso nei limiti di una critica più o
meno dettagliata, considera l’apprezzamento da parte del pubblico (valutabile
in termini quantitativi, leggi incassi, e
qualitativi, leggi giudizi espressi) un
elemento fondamentale per costruire
una valutazione che aspiri a non restare
l’effimera espressione di una preferenza. Ci piace la spavalda scientificità con
cui Farinotti e i suoi collaboratori intrecciano, come in un’equazione matematica della bellezza e del divertimento,
giudizi dei critici, premi internazionali,
incassi e valutazioni del pubblico per
sfornare elenchi transgenerazionali capaci di accostare opera di ieri e di oggi,
elenchi che suonano come un irresistibile richiamo alla visione.
Nelle poche righe (a volte non poi
così poche, si veda in casi di film che
evidentemente devono aver conquistato lo scrivente, come nel caso di
Master and Commander) dedicate a
ogni titolo, il lettore trova tutto ciò che
gli viene presentato, come auspicavamo poco fa, insieme a ciò che rende ottimo ogni servizio, gentilezza e competenza: una trama comprensibile,
uno spunto di letture, una sintesi (grazie a infiniti e dettagliati simbolini)
dei valori aggiunti della pellicola: premi, apprezzamento della critica e del
pubblico e così via, oltre alla possibilità di tuffarsi nell’equivalente elettronico per esplorare quella che in tempi
più felici per il nostro cinema si chiamava la “valigia dei sogni”.
•
Poco da star allegri
con la tv che tira
imbolo di mansuetudine e d’innocenza, con forti valenze nella
religione cristiana, l’agnello è un
animale che accompagna la vita dell’uomo sin dagli albori dei tempi. Amato dai Greci e dai Romani che, oltre a
leggerne le avventure nelle fiabe di
Esopo e Fedro, lo sacrificavano sugli altari degli dei, è ricordato in innumerevoli luoghi della letteratura. Spesso
Dante, nella Commedia, lo ricorda come simbolo di Gesù Cristo («Io sentìa
voci e ciascuna pareva/pregar per pace e misericordia/l’Agnel di Dio che le
peccati leva»), mentre Marsilio Ficino
lo utilizza per spiegare i suoi concetti filosofici: «Certamente l’agnello non ha
in odio la vita e figura del lupo: ma la distruzione di sé che dal lupo seguita; e il
lupo non per odio dell’agnello, ma per
amore di sé, l’agnello divora». Giovanni Botero, nella Ragion di Stato, ricorre
alla similitudine per stigmatizzare la
violenza che regola i rapporti fra gli uomini: «l’insolenza è per tutto compagna della viltà, come si vede nel lupo,
feroce con gli agnelli, timido co’ cani».
Grande spazio ha in cucina: preparato in occasione delle festività pasquali, arrosto o anche fritto, l’agnello
possiede una carne morbida, un po’
grassa, con soave aroma di selvatico
che non riscontra il gradimento di tutti.
Non ci sono poi dubbi sul luogo ove
gustare il miglior agnello d’Italia. All’imbocco della Val Trompia, a Concesio, sorge uno dei ristoranti più eleganti, misurati e civili di tutta la Penisola: il
Miramonti l’Altro (tel.030/2751063).
In un ambiente di gusto e pacatezza
potrete gustare gli squisiti piatti di Philippe Léveillé che affondano le radici
nella tradizione locale ma escono dalla
cucina ingentiliti dall’ottima mano
francese dello chef. Ricordiamo il caldo-freddo di cavolfiori e aringa affumicata con le sue uova, il risotto ai funghi
e formaggi dolci di montagna (straordinario!) e il magistrale crescendo di
agnello con finale di suo carrè. Quest’ultimo, arrostito con una leggera panatura di erbe aromatiche, viene servito accompagnato da tutte le interiora
dell’animale (fino a 14 preparazioni,
cotte singolarmente una per una): dal
cuore rosolato nel suo grasso, al fegato
con le cipolle, alla guancia, alla trippa,
al groppello (grasso dell’intercostata),
al cervello fritto, fino al rognone, alle
budelline, alla coda (preparata alla
vaccinara) e al piedino gratinato.
Gianluca Montinaro
S
IL FUMETTONE
Un cowboy del Texas nell’abisso
della fratricida Guerra Civile
ov’era, che faceva Tex Willer all’ora tale,
nel giorno tale, nell’anno tale, nel posto
tale? Sì, perché i personaggi dei fumetti
sembra che vivano sempre in un tempo sospeso
nel nulla, impermeabili a quel che accade attorno, fissi in una timeline parallela che scorre attraverso la storia senza però lasciarsene scalfire.
Sarà forse per questo che, nel 1985, prendendo di petto la questione suggerita da qualche vago riferimento disseminato non casualmente in
alcune tavole di qualche vecchio albo, lo sceneggiatore Claudio Nizzi – l’erede letterario di Gianluigi Bonelli, il papà di Tex – ha deciso d’indagare
per scoprire dove caspita fosse o cosa diamine facesse – «Peste!», direbbe ora Kit Carson se fosse
qui – il più grande cowboy dei comics durante l’atroce, assurda, sciamannata Guerra Civile.
Ne nacque allora una storia a puntate e di
grande respiro, che oggi la squadra Bonelli ripropone in un albo di grande formato edito da Mondadori, Fiamme di guerra. Per la verità, la Guerra
Civile fa solo da sfondo a un’altra vicenda, una sorta di giallo intriso di varianti al gusto di “tragedia
familiare”. Ma è bene che sia così.
D
La tentazione di fare di un personaggio forte
come Tex un eroe che nella vita ha fatto tutto, ha
visto tutto, ha incontrato tutto, insomma un Tex
già supereroe prima che tutto fosse, renderebbe la
cosa stucchevole. Invece no. Durante la Guerra Civile, Tex era un cowboy qualunque, uno di molti.
Tanto che nemmeno l’amico Carson sa di quelle
sue lontane avventure. Viene però un giorno l’occasione perché Tex racconti a Kit di quei lontani
trascorsi; ed è una di quelle occasioni che così, per
serendipità, riesumano il passato sepolto, riportandolo prepotentemente a scontrarsi con l’oggi.
Quasi trasponendo l’espediente narrativo alla
Canterbury Tales nel selvaggio West, è un lungo
viaggio in treno verso Richmond che permette, tra
una sigaretta e l’altra, a Tex di riportare tutto alla
memoria, raccontandolo a Kit.
Il finale non ve lo racconto. Leggetelo nell’albo, ché vale la pena. Colgo invece l’occasione per
qualche sottolineatura.
La prima è che Tex Willer, figlio orgoglioso del
Texas, quindi del Sud (anche se di un Sud che sta
nell’Ovest degli Stati Uniti, è che non è lo stesso
della Virginia, dell’Alabama, della Louisiana o del
PAROLE & MUSICA
Etichette e libri indipendenti
o scorso fine settimana
Faenza ha festeggiato il
decimo compleanno del
Meeting delle Etichette Indipendenti (MEI), l’annuale rendez-vous dove si dà convegno
il meglio – ma forse anche il
peggio – della scena “underground” italiana. Quella, insomma, che riesce a fare musica (e a venderla) anche al di
fuori dei soliti circuiti dominati
dalle majors e dalla “cupola”
dei circuiti radiotelevisivi più
conosciuti e potenti.
Come di consueto, quindi,
l’orgoglio di esserci e la voglia
di farsi sentire l’hanno fatta da
padrone, in un cartellone ricco
di appuntamenti canori, concerti, jam-session e chi-piùne-ha-più-ne-metta. Con tanto di convegni, tavole rotonde
e presentazioni.
L
Di dischi, naturalmente,
ma non solo, con grande spazio alla parola scritta in tutte le
sue vesti di rivista, fanzine,
saggio, biografia o romanzo
ispirati al mondo della musica.
Ma la parte del leone,
quest’anno, l’ha giocata la casa editrice Arcana che, per festeggiare il suo trentacinquesimo anno di attività, ha presentato in anteprima due succulenti volumi che racchiudono e snocciolano tutto lo scibile della musica nostrana.
Il primo, l’Enciclopedia del
rock italiano (a cura di Gianluca Testani, pp.425, ¤22,50),
coinvolge la grande famiglia
del Mucchio Selvaggio e parte
da Celentano e dai mitici "urlatori" degli anni Sessanta per
arrivare al recente trionfo della
scena alternativa, passando
dagli eterni Vasco e Ligabue e
dalla rivoluzione punk-pop
dello scorso decennio, in un
percorso di vite e discografie di
piacevole consultazione.
E se questo dà conto delle
distorsioni “made in Italy”,
Voci d’autore – La canzone italiana si racconta (di Federico
Guglielmi, pp. 360, ¤16,50) è
un itinerario in dodici tappe attraverso quella musica “impegnata” e dai toni più intimistici
che ancora oggi sa conquistarsi una larga fetta di pubblico e
appassionati. Non solo i vecchi
Battiato, Fossati e Guccini, infatti, ma anche Manuel Agnelli (Afterhours), Vinicio Capossela e Cristiano Godano (Marlene Kuntz), vengono intervistati e raccontati attraverso le
loro vite “da palco”.
•
Ruggero Felino
SPOT&GO
Il manifesto e l’arte
che si fa pubblicità
reatività e comunicazione: un
rapporto che si è fatto stretto e
inconfutabile a partire dai primi
del Novecento. Oggi come allora ci
sono artisti che, nei loro lavori, operano sia “per”sia “con” la pubblicità. E
così, nel contemporaneo, spot, carta
stampata e gigantografie sono entrati
a far parte della sfera artistica al punto
che alcuni famosi manifesti, tra cui
quelli di Lautrec e Depero, sono esposti in musei come il Louvre. A partire
dalla metà del ‘900, infatti, con il riconoscimento del valore iconico dell’opera d’arte, si assiste alla lettura del
fatto artistico come vera e propria forma di comunicazione. Un’interpretazione dell’arte come insieme di segni
capaci di raccontare valori socialmente rilevanti. L’opera, parallelamente
alla funzione estetica che si esprime
nel generare piacere per la sua espressività, svolge anche la funzione di filo
conduttore nel veicolare aspetti che
rappresentano i valori fondanti della
comunità. Come insegna il caso del
manifesto. Che comunica, negli anni
storici della fase industriale, sia la velocità di utilizzo delle immagini sia la rapida consumazione da parte del pubblico, imponendo così una virata repentina nei modi di pensare e di creare
la pubblicità. In pratica, il manifesto diventa l’emblema della società moderna e della sua rivoluzione nel creare
oggetti grazie alle nuove tecniche apportate dall’era industriale. Di conseguenza, assistiamo alla crescita delle
committenze verso quegli artisti che
operano nel mercato pubblicitario e
che, in quegli anni, producono messaggi promozionali che getteranno le
basi di un futuro rapporto fra le due discipline. Quindi, un manifesto doppiamente interpretabile: come strumento pubblicitario e come “faccia”
speculare della società del momento,
di cui vengono esaltate certe caratteristiche attraverso escamotage espressivi come l’appiattimento delle tinte e
delle figure: a scapito di una maggiore
descrittività, ma a tutto vantaggio di
una comunicatività più immediata. E
“pubblicità e arte” diventa il binomio
nuovo che caratterizzerà il linguaggio
della cultura di massa del ’900.
Francesca Galli
C
Mississippi), sta dalla parte dell’Unione, i “nordisti” insomma. Perché? Perché Abraham Lincoln
ha promesso di liberare gli schiavi. Bene. È bello
che, quanto all’emancipazione dei neri, nell’albo si
parli di “promessa”. Ci mise infatti ben due anni,
Lincoln, per decidersi a liberarli, questi schiavi, e
questo va sempre tenuto presente.
Secondo. Il bello di Tex è che Tex è Tex. Nell’albo dice che ogni e ulteriore ragionamento è,
per lui umile cowboy del Texas, troppo sofisticato. Gli pare che la schiavitù sia una scemenza, lo
dice e poi si mette dalla parte di chi lo ripete. Punto e basta. Ottima cosa. Nell’albo vi sono infatti
altri, spregevoli, che, pure del Sud, stanno con il
Nord perché conviene.
Terzo, la prigione “sudista” di Andersonville in
Georgia, che nell’albo è Anderville, è un lager per
internati “nordisti: una sorta di Auschwitz, anche
nel nuovo “Texone” (soprattutto nel saggio di Renato Genovese che precede le tavole del fumetto).
Addirittura, il comandante del campo, Henry
Wirz, venne impiccato alla fine della guerra per
violazione delle leggi belliche, unico ufficiale confederato a subire tale sorte. Ma, al tempo!
Forse Andersonville è un altro di quei nodi che
conviene sciogliere bene prima di gettarsi lancia in
resta. Aiutano molto a farlo due libri, History of
Andersonville Prison di Ovid L. Futch (University
of Florida Press, Gainesville 1968), ma soprattutto
The True Story of Andersonville Prison: A Defense
of Major Henry Wirz di James Madison. Lo pubblicò nel 1908 un ex internato “nordista”. Che spiega che le atrocità avvennero per le condizioni pietose in cui la guerra aveva ridotto tutti e tutto, condizioni igieniche e derrate alimentari comprese. •
Samwise
VARIE
10 IL DOMENICALE
S A B AT O 2 D I C E M B R E 2 0 0 6
Che cosa accade alla storia dell’Occidente se la si suddivide in fasi di repressione e di liberazione sessuale? Prova a dirlo uno storico francese
STORIA CULTURALE DELL’ORGASMO
I fatti della carne di certo toccano gli spiriti: ipotesi non nuova ma interessante, specie se alimentata da una curiosità indagatrice
Esiste anche una brutta scimmia,
si chiama pornodipendenza
di Luigi Mascheroni
l mondo guardato dal buco della serratura. L’atteggiamento di un popolo
di fronte al sesso spiega molte cose,
dalla struttura della società alla produzione artistica, dal diritto all’economia (i
rapporti tra tensione ascetica del puritanesimo e ascesa del capitalismo, da Max
Weber in poi, sono stranoti). E l’atteggiamento di fronte ai piaceri della carne, tabù e trasgressioni comprese, può spiegare anche le differenze culturali tra la nuova America e la vecchia Europa. Anzi, tra
la vecchia e bigotta America e la nuova
ed emancipata Europa.
Così , almeno, secondo lo storico Robert Muchembled, il quale ha abbando-
I
l giorno d’oggi accade
spesso che imbattendosi
in un fatto increscioso si
tenti di eluderlo senza risolverlo.
La virtù di cui un uomo necessita
in questi casi è quella del coraggio. Ne ha avuto in abbondanza
Vincenzo Punzi per poter spalancare la sua anima o, per dirla
con Baudelaire, per mettere a
nudo il suo cuore.
Laureato in economia, con
un lavoro stabile – non un disadattato, dunque – si è scoperto pornodipendente: una sudditanza di cui sui media si parla poco in virtù della non troppa
preoccupazione che essa provoca a prima vista.
Questo testo fondamentale
dimostra che invece l’argomento riveste importanza per tutti,
dal ragazzo adolescente al cinquantenne in carriera. Si scopre
un mondo – un vero e proprio incubo – che fino ad oggi è rimasto
chiuso nei pensieri di pochi. Una
manciata di persone che grazie
al lavoro di Punzi e del suo psicologo hanno incominciato a parlare del loro problema per trovare una via d’uscita.
Mezzo fondamentale di
questa catarsi è stato un blog sul
quale era possibile aprirsi senza
lasciare nominativi compromettenti. Si incontrano alcune lettere commoventi in cui vengono a
A
nella firenze
rinascimentale
l’omosessualità
era ampiamente
tollerata
nato la sua Francia edonista e libertina,
dove insegna all’Università Paris-Nord,
per rinchiudersi un anno intero nel monastico e puritano Institute of Advanced
Study di Princeton a scrivere una monumentale storia del piacere dal Rinascimento a oggi (L’orgasmo e l’occidente,
Raffaello Cortina Editore, pp.368,
e29,00) le cui conclusioni dimostrerebbero che mentre l’Europa ha ormai
trionfalmente, e orgogliosamente si direbbe, imboccato la via del permissivismo più disinvolto in fatto di sesso, i nostri cugini americani (più i tradizionalisti della Bible-Belt e del profondo Sud,
meno i liberal di New York e del Nordest) si sono invece infilati nel vicolo cieco della pruderie. Se insomma noi europei non abbiamo mai disposto nella storia di una così grande libertà di scelta
«per realizzarsi, godere del proprio corpo e vivere pienamente i propri desideri
in un’eguaglianza erotica diventata possibile tra uomo e donna e anche tra partner dello stesso sesso» – scrive Muchembled – al contrario «gli eredi del nuovo
mondo restano visceralmente legati a
un modello occidentale repressivo in cui
religione e famiglia nata dal sacramento
del matrimonio sono i due pilastri della
tradizione». Da una parte dell’Oceano
un continente in balia del piacere (con
tutti gli eccessi che ne derivano), dall’altra un enorme paese sotto il tacco della
morale (con tutte le schizofrenie che ne
conseguono).
Tra repressione ed esplosione
Difficile dire se Muchembled abbia
ragione. La tesi, come ogni spiegazione
che tenda a semplificare eccessivamente fenomeni così ampi dal punto di vista
storico e così complessi dal punto di vi-
l’amore che fa girare il mondo, il
sesso serve solo a
tenerlo popolato”, suona
una celebre massima. Non si
sa esattamente chi l’ha detta, e spesso viene da pensare
che non sia neppure vera. In
realtà, semmai, “è il sesso
che fa girare il mondo”. Almeno, così sembra pensarla
lo scrittore Thor Kunkel,
classe 1963, autore nel 2004
del romanzo intitolato Endstufe, in Germania al centro
di un caso editoriale che ha
valicato i confini nazionali, è
sbarcato in Inghilterra tra il
cancan della stampa e ora
approda in Italia con il titolo
– perfetto dal punto di vista
del marketing – Pornonazi
(Fazi,
Roma,
pp.544,
e21,00; traduzione di Madeira Giacci) impreziosito
dal risvolto di copertina firmato da un elegiaco Pietrangelo Buttafuoco reduce dall’ennesima abbuffata dell’opera omnia di Leni Riefenstahl.
Il libro-scandalo va detto subito, è un bellissimo romanzo. Nel senso che è provocatoriamente originale,
scritto bene, curato nell’intreccio della trama, nell’ambientazione e nei personaggi, furbo ma non sfrontato,
documentato nella ricostruzione storica. Ma se il suo
collega americano (natura-
• Vincenzo Punzi
Io, pornodipendente
sedotto da internet
Costa & Nolan,
Milano, 2006,
pp.318, E8,60
Michelangelo da Caravaggio (1571-1610), Maddalena in estasi, particolare, 1606, collezione privata
sta sociale, è azzardata e da più parti
contestabile (lo stile di vita di un “mondo a parte” come la California, ad esempio, fa saltare tutti gli schemi), ma ha il
merito di indicare l’elemento – il rapporto individuo/sessualità appunto – che
più di ogni altro spacca in due metà differenti quell’Occidente che troppo spesso consideriamo come una realtà unica e
omogenea.
Più interessante, piuttosto, nello studio dello storico francese appare la suddivisione delle diverse “epoche del sesso”: ricostruendo il modo in cui lungo i
secoli l’uomo occidentale si è trovato tra
repressione dei desideri ed esplosione
degli istinti a fare i conti con quell’oggetto ancora oggi misterioso – figuriamoci
mezzo millennio fa – che si chiama orgasmo, Muchembled propone un’inedita
periodizzazione che alterna fasi maggiormente repressive (dove prevale la
virtù) e fasi più liberatrici (dove l’ha vinta il vizio). In sostanza, appena uscito da
un lungo Medioevo dove micidiale era
stato il controllo da parte della Chiesa
delle pulsioni sessuali, l’Occidente cristiano si trova a vivere una breve stagione, quella che coincide con l’Umanesimo
e il Rinascimento, nella quale la sessualità – i cui eccessi sono sempre comunque
condannati dalla Chiesa e temuti dagli
Stati – si rivela più “libera” che in passato, soprattutto tra i regnanti e nelle corti,
se avesse curato di più
le faccende di letto,
l’occidente cristiano
si sarebbe insanguinato
meno le mani
e a volte persino dentro i Sacri Palazzi del
Vaticano, ma anche tra il popolino e la
“classe” degli artisti: è l’epoca in cui nell’arte si riscoprono modelli pagani, l’individuo cerca di emergere da una rigida
dimensione collettiva e si abbozzano le
prime autobiografie letterarie e gli autoritratti in pittura, aumentano il numero di
Divisa di SS, bella presenza e un bel giro cinematografico:
così stupisce Pornonazi, caso internazionale che varca le Alpi
“È
galla difficoltà di relazione, scarso rendimento sul lavoro e – risvolto ancora più impressionante – situazioni di ragazzi quattordicenni già iniziati a questo inferno.
Insomma, i racconti di un’anabasi dalle viscere degli inferi
della dipendenza da pornografia, in cui i protagonisti, uomini
che sembrano aver perduto la
propria anima, hanno faticato,
scalando una sorta di monte del
purgatorio, per ritornare alla vita
normale.
Uno scritto educativo che
non lascia il tempo di obiettare
con i ma, e che descrive un fatto
della realtà poco conosciuta così
come esso si compie: dalla nascita alla morte, combattutissima,
di una schiavitù mostruosa che si
impossessa della mente di una
persona e le cambia radicalmente la vita. Leggere queste pagine
significa gettare luce su un angolo buio e, al tempo stesso, apprezzare un inno al coraggio. •
Alessandro Gardini
lizzato francese) Jonathan
Littell è stato di recente premiato con il prestigioso Premio Goncourt per il romanzo
Les Bienveillantes con al
centro un ufficiale delle SS
coinvolto nell’Olocausto
che racconta la sua guerra,
orrenda e disumana, senza
tentativi di giustificazione e
senza neppure mostrare segni di rimorso, il tedesco
Thor Kunkel è stato prima
boicottato e poi criticato
(anche se, come è noto, critiche e boicottaggi di solito
fanno vendere di più).
Pornonazi – basato su
un inedito lavoro di ricerca
dell’autore sui “leggendari”
film pornografici girati durante la guerra dai nazisti –
narra la vicenda del giovane
Karl Fussmann, SS poco convinto e assistente scientifico
all’Istituto di Igiene di Berlino, che si trova – non del tutto suo malgrado, anzi – coinvolto negli affari del suo superiore, il conte Ferfried
Gessner (forse la figura meglio riuscita del romanzo) il
quale si rivela essere la mente (il braccio invece è il suo
assistente-cameraman, l’irresistibile e cocainomane
Aurel Hosten) della casa di
produzione cinematografica Sachsenwald-Naturfilm
GmbH, peraltro realmente
esistita: i film, interpretati
preferibilmente da biondi e
prestanti ariani ma anche da
ambigue aristocratiche italiane, hanno scopi patriottici
(risollevare il morale delle
truppe della Wehrmacht),
bellici (approvvigionare di
acciaio, con il denaro ricavato dalla vendita all’estero
delle pellicole, la macchina
da guerra nazista) e di puro
business (l’arricchimento
personale dei gerarchi).
Senonché il nostro protagonista finisce per cadere
vittima del fascino sia della
propria divisa da SS capace
di aprirgli tutte le porte in cui
vale la pena di entrare sia
della perversa pornostar antelitteram Lotte capace di
aprirgli tutte le porte che invece sarebbe meglio non
varcare. Come ha scritto del
libro un autorevole columnist del Guardian: «Un romanzo con tutti gli ingredienti giusti: sesso, molto
sesso, nazismo, ancora più
nazismo, e uno spettacolare
finale romantico» (intuibile,
ma che non sta a noi svelare). Basti dire che in Germania, nel 2003, Rowholt, l’editore di Thor Kunkel, si è
improvvisamente rifiutato di
pubblicare il romanzo, accusando il suo stesso autore di
revisionismo (troppo poco
spazio dedicato alle persecuzioni degli ebrei e troppo
sugli stupri alle donne tedesche da parte delle truppe
dell’Armata Rossa piuttosto
che ai bombardamenti alleati sulle città della Germania)
finendo col sollevare un nugolo di polemiche nella
stampa tedesca fino a che il
romanzo è uscito da Eichborn nel 2004. Certo, di tutto si può accusare il libro (revisionismo storico, morbosità letteraria, furbizia editoriale), ma non di irradiare
una insana fascinazione per
l’ideologia nazionalsociali-
Ironia, sesso,
furbizia, dissacrazione
e affabulazione: tutto tranne
che apologia del nazismo
sta. Se qualcuno avesse dubbi, basterà segnalare – uno
tra tanti esempi nelle oltre
500 pagine – i dissacranti e
grotteschi giudizi che i giovani dandy dissipati dell’associazione Wochenscheuen
(anch’essa realmente esistita) e un azzimato conte Ciano «genero di Mussolini, autoelettosi patrono di Cinecittà, costretto per necessità
al ruolo di ministro degli
esteri italiano» riservano al
Reich, ai suoi gerarchi e al
Führer.
Tutta gente, a loro dire,
che avrebbe fatto meglio a
darsi al porno.
L.M.
figli illegittimi e quindi delle relazioni pre
o extramatrimoniali, l’omosessualità in
città come Firenze risulta ampiamente
tollerata.
Ma è un fuoco di paglia, perché la
morsa repressiva si stringe in fretta, e già
dalla metà del Cinquecento, in pieno clima di Controriforma e guerre di religione, si assiste a un ritorno all’ordine ancora più rigido che in passato: si afferma, in
antagonismo alla ricerca della voluttà,
una sorta di culto del dolore e del castigo;
per tutto il Seicento sia in ambito cattolico che protestante, tra censure tridentine
e rigori puritani, l’Europa è soffocata da
una cappa di moralismo e proibizioni che
negano ogni tipo di piacere fino al punto
che i manuali a uso dei confessori stabiliscono con minuzia ciò che è lecito, ossia
pochissimo, e cosa no, cioè quasi tutto,
nella sfera della sessualità (l’unica posizione ammessa dai teologi, e spesso dai
medici, era quella del missionario, ossia
la moglie supina e l’uomo sopra, mentre
le posizioni “more canino” e “mulier super virum” erano ritenute contro natura);
si scatena violentissima la caccia alle
streghe (maledette “figlie di Eva” sessualmente troppo disinibite); si impone
quello che Muchembled chiama l’«istituto del doppio standard maschile» (l’uomo che cerca nella prostituta il piacere
che non può provare con la moglie, “utilizzata” solo per procreare); il corpo è
sempre più circondato da paure e inibizioni, l’orgasmo in definitiva è o negato o
nascosto. «Questa sorta di sublimazione
collettiva alimentata dalla rimozione
sessuale individuale contribuisce – nota
Muchembled, aprendo il campo al tema
dei rapporti tra liberazione degli istinti e
creazione artistica da una parte e repressione delle pulsioni ed esplosioni di violenza sociale dall’altra – a generare, o
quanto meno ad accompagnare, l’aggressività che il continente europeo mostra sulla scena mondiale». Insomma, se
si fosse dedicato di più alle faccende di
letto, l’Occidentale cristiano non si sarebbe insanguinato così tanto le mani.
Ma anche in questo lo storico francese
forse pecca di semplificazione.
Allegria illuminista
La cronologia del piacere e della morale batte un’altra ora. Il Settecento – con
un’anticipazione nella filosofia libertina
del secolo precedente – vede aprirsi un
nuovo ciclo. Lentamente si affaccia una
libertà di matrice epicurea che si affermerà poi nel periodo illuminista: a partire dalla Restaurazione inglese nel 1660 e
dalla fine del regno oppressivo di Luigi
XIV nel 1715 in Francia, il piacere carnale
non è più visto – almeno dalle élite aristocratiche e filosofiche – come un peccato
mortale ma come una trasgressione che
libera il pensiero e infrange le convenzioni, il “fottere” al pari del mangiare e del
bere diventa qualcosa di naturale così come insegnano i sempre più numerosi manuali di educazione sessuale che troveranno nell’opera letteraria del marchese
De Sade il loro naturale compimento e
già a partire da metà Seicento si assiste a
una “svolta pornografica” che sdogana –
almeno sul piano teorico delle parole e
delle immagini – tutta una serie di perversioni fino ad allora inimmaginabili
(amore lesbico, masturbazione femminile, sodomia, sesso orale, orge) concedendo timidamente alla donna – addirittura! – un primo diritto all’orgasmo.
Ma quella libertina e illuminista non
è che una breve seppure intensa ondata
liberatoria prima di un frettoloso ripiego. L’età vittoriana incombe e avvolge
coi suoi veli le nudità di Eva e i pensieri
impudichi di Adamo. I modelli sono la
buona educazione, l’autocontrollo, il
culto del letto coniugale. L’ideale borghese – in una società come quella inglese nella quale la severissima legislazione contro gli omosessuali, i celebri mollies, non contemplava pene per le lesbiche perché la regina Vittoria si rifiutava
di credere che gli amori saffici potessero
esistere – ha come parole d’ordine moderazione, probità e monogamia. “Il
grande gelo della pruderie vittoriana”
(prendendo a prestito l’espressione con
la quale il critico d’arte Kenneth Clarke
bollò i gusti dell’epoca) scende su ogni
forma del vivere sociale: la vista della
nudità diventa scioccante, i medici mettono in guardia dagli eccessi nei rapporti
coniugali (ancora in pieno ’900 c’è chi
sconsiglia una durata del coito superiore
ai dieci minuti), l’onanismo è considerato peccato mortale dai teologi e potenzialmente letale dai fisiologi, i casi di divorzio sono sempre più rari e il sesso in
generale un tabù tale che dopo due generazioni di rigore morale e repressione,
all’alba della psicanalisi, Freud e KraffEbing si trovano a curare individui che
non osano utilizzare i loro organi genitali credendo di rischiare la morte per gli
eccessi del piacere. Ci vorrà un nuovo
secolo, due guerre mondiali e la “bomba
atomica” del Rapporto Kinsey sul comportamento sessuale degli americani del
1948 prima che i rigori vittoriani (quan-
l’era vittoriana getta
un’ombra lunga quasi
fino a noi. gl’inglesi
coprivano anche i piedi
del pianoforte
do gli inglesi coprivano per pudore anche i piedi dei pianoforti) inizino ad attenuarsi. E bisognerà aspettare il vento di
libertà del ’68 per vederli spazzati via
definitivamente.
Per l’Occidente, la rivoluzione erotica dei Sixties ha avuto sui costumi e la società la stessa carica dirompente, la stessa influenza in termini di cambiamenti
apportati e le stesse conseguenze per gli
stili di vita degli individui, di quanti ne
ebbero la Rivoluzione francese sul piano
politico e la Rivoluzione industriale inglese su quello economico. È superfluo,
visto che ne viviamo ancora gli strascichi, ricordare l’effetto devastante della liberazione sessuale dei “favolosi anni
Sessanta”, del femminismo, della pillola
anticoncezionale, della rivendicazione
dei diritti del “terzo sesso”, dell’esplosione del fenomeno porno (Gola profonda
esce negli Usa nel 1972 e cinque anni dopo arriva in Italia), della diffusione del
Viagra e della possibilità del sesso virtuale 24 ore su 24 in Internet.
Benvenuti al giorno d’oggi
Il ciclo è così compiuto. L’orgasmo è
di tutti e per tutti: uomini, donne, anziani
(spesso purtroppo anche bambini),
omosessuali, transessuali, transgender&affini. Senza limitazioni di fantasia,
senza sensi di colpa, senza più i lacci, o
quasi, della morale. Almeno nell’edonista Europa, mentre l’America (che pure è
e l’america? resta
così “virtuosa”
da scandalizzarsi
per un seno che sfugge
in diretta tv
stata capace di riconoscere per la prima
volta il matrimonio omosessuale, in
Massachusetts nel maggio 2004) è ancora così “virtuosa” da scandalizzarsi per
un seno furtivamente mostrato in diretta
tv, come accadde con Janet Jackson durante il Super Bowl Halftime Show del
febbraio 2004. Come dire che sulla strada
della piena liberazione sessuale manca
sempre un ultimo passo.
Ma la storia dell’orgasmo e della sessualità è anche quella dei desideri proibiti e del corpo nascosto, delle vergogne
e dei tabù legati alle funzioni organiche.
E in questo senso, a ulteriore dimostrazione di come non sempre il sesso lasciato agli accademici debba per forza
annoiare, particolarmente curioso (anche per la ricchezza dell’apparato iconografico: dipinti, stampe e incisioni sui
temi del nudo, del bagno, del voyeurismo, dell’autoerotismo e del sesso dentro e fuori dal letto coniugale) è il saggio
di Paolo Sorcinelli Avventure del corpo.
Culture e pratiche nell’intimità quotidiana (Bruno Mondadori, pp.198, e15,00)
che dal Medioevo alle soglie del ’900 –
tra abitudini igieniche dei secoli sporchi
e scandalosi “oggetti d’amore di quelli
illuminati” manuali di teologia sui peccati sessuali e letteratura libertina, prescrizioni mediche e credenze della tradizione popolare – ripercorre il difficile
rapporto, a lungo snobbato dagli studiosi, tra l’uomo e tutto ciò che riguarda la
sfera sessuale.
Un campo a volte imbarazzante da
attraversare ma che finisce per insegnare
sui cambiamenti della società e l’evoluzione del pensiero molto più di cento manuali “tradizionali”. Fermarsi a riflettere
sul fatto che rispetto ai secoli “bui” in cui
ci si spidocchiava in famiglia a lume di
candela, il Settecento libertino per favorire l’abluzione delle dame ebbe il genio
e l’ardire di inventare il bidet – o violon,
alla francese – può aiutare a comprendere, grazie alle piccole innovazioni della
“carne”, anche le grandi Rivoluzioni dello spirito.
•
ARTE E DINTORNI
S A B AT O 2 D I C E M B R E 2 0 0 6
IL DOMENICALE 11
DANZA
Qui accanto: Il poeta Cechov,
1921 – 22, terracotta,
cm. 50x80x50, Rovereto,
Mart – Collezione Pallini
In alto a destra: Ofelia
(particolare), 1922, gesso,
cm. 135x89x39,
collezione privata
Sotto: La pisana (particolare),
1928, pietra di Vicenza,
cm. 142,5x73x57,
collezione privata
Inaugura la Scala
ed è subito “Aida”.
Anche in mostra
Nelle lettere di quegli anni si percepisce l’avversione quasi fisica per l’arte che
aveva intrapreso fin da bambino: «un Artista completo si sente offeso nel fare lo
scultore, come se a lui fosse imposto un
istrumento di una sola nota, mentre lui
sente quanto sia smisurata la sua urgenza», scrive all’amico Gino Scarpa nell’agosto 1944. Sta pensando soltanto al libro: «io non farò più una scultura a costo
di fame e di qualsiasi altra conseguenza».
Classico anche nella modernità
A vent’anni dall’ultima rassegna
pubblica di Arturo Martini, una grande
mostra aperta a Milano e poi a Roma raccoglie oltre cento opere per rievocarne la
grandezza, intera e troppo dimenticata.
Mentre a Milano, oltre alle sale espositive, è stato organizzato un percorso guidato alle opere monumentali – la Ca’ Granda, il Cimitero Monumentale, il Palazzo
di Giustizia, l’Università Bocconi, l’Arengario – la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, che conserva una delle
raccolte più significative delle sue opere,
ne presenta una vasta e rara antologica.
«L’arte è la cosa più facile di questo
mondo [...] è un’operazione naturale [...]
averla in testa non significa niente. L’arti-
za accademismi né l’ossessione di una
modernità schiava dell’avanguardia.
Agli inizi della sua avventura artistica
espose con i futuristi, conobbe Umberto
Boccioni, frequentò assiduamente Parigi, assimilò l’opera di Medardo Rosso.
La sua indole più profonda gli suggerì
tuttavia le regole di una personalissima
concezione plastica che sembra superarsi di scultura in scultura, di periodo in periodo, da quello “di Ca’ Pesaro” (1908 –
13) con influenze indirette di Gauguin,
PRIGIONIERO DELLA PROPRIA ARTE
Milano e poi Roma celebrano il talento plastico di Arturo Martini. Che iniziò a scolpire bambino, e con somma maestria,
per raccontare l’uomo e la sua storia, pur odiando la sua musa e sminuendola in ogni dove. Ma lei non gli volse le spalle
di Beatrice Buscaroli
n giorno, il maestro a scuola,
legge il “Cuore”: Dagli Appennini alle Ande. […] Gli altri, finito il racconto, sono usciti di scuola come niente fosse, tutti lieti. Io ho dovuto essere accompagnato a casa dal bidello, e per sette giorni ho pianto. Questa era la misura tra il mio sentimento e
quello degli altri».
La sua vita, le sue lettere, i ricordi di
chi ha scritto di Arturo Martini parlano di
un personaggio diviso, macerato, spezzato a metà. Fu spezzato dal fascismo,
cui aderì da giovane, prima della marcia
su Roma; fu spezzato nella famiglia, diviso tra due donne che l’amarono e finirono
con l’essergli accanto, fisicamente vicine
al suo letto di morente; e fu spezzato nell’arte. Fu inquieto, tormentato: a metà
degli anni ’40, quando tutto era al culmine, la guerra, la sua vita privata, il futuro
incerto per tutta l’Europa, decise di farla
finita con la scultura. Pubblicò il libro
Scultura lingua morta, che uscì nel 1945.
Da qualche anno aveva cominciato a
dipingere: nel 1940 aveva tenuto la sua
prima personale alla galleria Barbaroux
presentando solo opere di pittura: «Io farò assolutamente il pittore […] La mia
conversione non è un capriccio, ma è
grande e forte come quella di Van Gogh»,
scriveva in quel febbraio.
«U
In quegli anni, Arturo Martini (Treviso 1889 – Milano 1947) era un artista importante, chiaramente riconosciuto tra i
primi scultori italiani.
Pensieri duri come frecce, taglienti
come dardi, si scagliano contro la scultura nella forma di aforismi: «Riprova della
serietà della scultura al soggetto l’impos-
sibilità di metafora»; «Poesia pittura e
musica si giovano frequentemente di
questa risorsa; per esempio L’ aurora dalle dita di rosa è immagine che si potrebbe
esprimere anche in pittura o in musica»;
«Così, per far comprendere che quel vecchio dalla barba irsuta è un Nettuno, sarà
d’obbligo mettergli in mano il tridente».
ARTURO MARTINI,
MILANO,
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sta è un operaio. Non ha qualità particolari a sua disposizione se non questo sacco poetico: quando ci mette le mani, tira
fuori». Basterebbe questa dichiarazione
per riassumere la naturale urgenza fisica
nell’intendere la scultura, in cui l’emozione, la spontaneità e il mestiere divengono condizione essenziale per lavorare.
Sono forse questi presupposti, una
naturale e invincibile inquietudine, che
porteranno Martini a superarsi di continuo, sempre alla ricerca di una“modernità” che fosse realmente figlia dei tempi
senza l’ossessione dell’originalità che,
secondo l’artista, «è la più tremenda delle
prigioni: come la prostituta che deve apparir vistosa per attrarre l’estraneo».
Guardando alla sua indole passionale e
romantica da un lato e alla lezione della
classicità dall’altra, l’artista si trova al
centro di una costante ricerca dell’assoluto, in una sequenza inesausta di episodi espressivi, di riduzioni, di schiacciamenti ed eruzioni telluriche nelle forme
plastiche. Il dramma della sua vita fu
quello di riuscire a restare un classico,
pur sentendo che la scultura aveva esigenze nuove che cominciavano a farla
uscire dalla forma, reagire con lo spazio:
«Mio padre aveva la siringa per dare la
forma al burro. Io vorrei fare la scultura
così: allargarla, stringerla spingendo». La
sua conquista è quella di essere rimasto
nell’ambito dell’umana figurazione sen-
Matisse e Boccioni, al “periodo di Valori
Plastici” che richiama volumi geometrici
puri; dalla crisi creativa (1924 – ’28) al
trionfale “periodo del canto” (1935), in
cui raggiunse la sua poetica più alta, ma
sempre e comunque legato al racconto
plastico dell’uomo come storia.
Dopo la guerra fu epurato dall’insegnamento; soffrì orribilmente: «siccome
morivo di fame col giolittismo ho creduto
a questo movimento, cioè al fascismo,
per il miglioramento delle sorti mie e dell’Italia». Nel 1950 Orio Vergani scrisse:
«l’epurazione lo aveva stroncato. Per
guardar la gente faccia faccia, beveva dieci aperitivi prima di ogni pasto e consumava un tubetto di simpamina al giorno».
Era un animo nobile, capace di aspirare soltanto alla purezza. Le ultime lettere sono tutte alla moglie. L’aveva abbandonata, tradita, ferita, ma desiderava tornare con la sua famiglia. «Carissima Brigida il mio programma è questo: [...] Ultimo e più importante che tu mi scriva che
la mia venuta ti fa contenta e che seppellito il passato non se ne parli più. Insomma, ho una gran voglia di vita nuova». Lei
gli chiese di aspettare, lui continuava. Il
22 marzo 1947 morì improvvisamente a
Milano, senza aver rivisto la sua casa.
«Speriamo nella costituente, speriamo nella bomba atomica, speriamo e
spereremo sempre che finiscano le chiacchiere e le promesse...».
•
AVANGUARDIE
Il Novecento e l’anima sua
Scultura e pittura nella raccolta di un insolito mecenate
li austeri spazi del piacentino
Palazzo Farnese ospitano L’Anima del Novecento. Da De
Chirico a Fontana. La Collezione
Mazzolini. Una mostra nata dal gesto
di generosità di Rosa Domenica Mazzolini e dalla curiosa storia del suo passato. Infermiera presso lo studio dentistico milanese Giovanni Battista Simonetti, ubicato in Brera, la donna ha
infatti donato alla Diocesi della sua
città la cinquantennale collezione
d’arte che ereditò dal medico. Il quale,
come documenta Renato Barilli nel
suo saggio in catalogo, fu una sorta di
mecenate per gli artisti che frequentavano il suo studio e che spesso lo ricompensavano con le loro opere.
L’Anima del Novecento rappresenta un unicum di eccezionale valore
in quanto documenta il susseguirsi di
tutti i movimenti della tradizione figurativa italiana del secolo scorso. Gli
872 quadri e le 27 sculture della collezione, per volontà della Diocesi, sono
esposte a Piacenza presso il Museo
Vescovile di Bobbio (insieme a preziosi oggetti di arte sacra solitamente
non visibili al pubblico) e nelle sale del
Palazzo del podestà di Castell’Arquato (per informazioni: Cenacolo srl, tel.
0523/590372).
Fino al 4 febbraio 2007, l’emozione della scoperta, lo stupore di un silenzio di fronte a un quadro, la libertà
inventiva di ritrovare la propria verità
nei colori, saranno scelte soggettive o
paradossi inquietanti che il visitatore
potrà decidere di rischiare approcciando un Carrà, un De Chirico o un
Campigli. Allegato alla collezione esiste un interessante carteggio tra Simonetti e gli artisti del tempo, a testimonianza dei contatti amichevoli intercorsi tra le parti come dell’acceso
dibattito culturale di quegli anni.
G
Ma chi sono dunque i protagonisti di questa antologia dell’arte italiana nel secolo più drammatico del passato europeo?
Dalla Metafisica al Novecento
Italiano, dal Chiarismo al Gruppo Corrente, dall’Astrattismo al Realismo
Esistenziale, tutti i movimenti delle
avanguardie figurano in mostra. Ricordiamo di Giorgio De Chirico Ippocrate che rifiuta i doni, affiancato da
Musa metafisica, un rapsodico manichino scenograficamente strutturato
sullo sfondo di una piazza lontana.
Diverse sono le opere di Filippo
De Pisis, abile nel ritrattare il gioco delle apparenze con segni fantastici di lucida consapevolezza dai tratti espressionisti: Hommage a Moranti e Grigia
Parigi sono momenti allucinanti di un
animo alla ricerca. Massimo Campigli
ne Le Tessitrici rivive ricordi arcaici di
un’infanzia di paese. L’itinerario prosegue con tele di pittura di forme libere, nature e paesaggi di Barilli e Turcato, per arrivare al movimento spaziale
di Lucio Fontana e concludersi con
l’Achrome di Piero Manzoni, in cui
viene superato il concetto stesso di
colore. Didattica, immediata e storicamente strutturata, la mostra vive di
sensibilità segrete, di intensa condivisione che illumina il presente sul mecenatismo novecentesco che in questo caso diventa meritorio e di slancio.
Fusione di linguaggi, vibrare di
spiriti in consonanza, creazione e fruizione danno vita a un coro di manifestazioni culturali che, intorno all’Anima del Novecento, riveleranno artisti
e giovani critici d’arte in convegni e
seminari sul collezionismo attuale e
sui sistemi museali. Chiesa e arte si incontrano e credono insieme nell’universalità di un messaggio.
•
Maria Giovanna Forlani
L’intima vocazione della pittura
A 50 anni dalla morte, Bologna ricorda Bertocchi e la sua arte “di paese”
apitato a vivere in un momento
di leggerezze critiche e sperimentali, Bertelli oppose la solennità e la fermezza delle sue composizioni [...]. Scontò la sua resistenza e la
sua certezza nel modo più duro: ma la
sua opera è ancora un punto di riferimento, una eredità preziosa». Non è un caso
se per raccontare la pittura di Nino Bertocchi scegliamo di partire dalle parole
con cui lui stesso rese omaggio a quella di
Luigi Bertelli. Tutt’altro, è un tributo alla
coerenza del suo pensiero di uomo e di
pittore, alla costanza con cui lui stesso resistette alle tentazioni delle avanguardie
e all’indifferenza della critica per tenere
fede a quell’idea di arte che gli cambiò la
vita. D’improvviso, dopo una laurea in
Ingegneria che servì solo per costruire la
sua abitazione e che poi ripose in un cassetto per lasciare posto al demone della
pittura, suo nuovo e folgorante amore.
Passione che coltivò da autodidatta,
ispirandosi a Bertelli, appunto, e ai Macchiaioli toscani, a Courbet e a Cézanne,
agli impressionisti francesi. All’Ottocen-
«C
to, insomma, lui che solo per un soffio
nacque nel XX secolo, e che di quell’incalzante Novecento non condivise mai il
nichilismo né la voglia di sensazione, il
rifiuto dei canoni né la fuga dalla forma.
La sua pittura, infatti (fatta di oli, carboncini, matite e incisioni) disegnò un
sentiero unico nella figurazione del “reale”, un incedere sicuro tra ritratti, nature
morte e vedute campestri, trovando soprattutto in quest’ultimo tema la via per
dare sfogo al suo sentimento quasi religioso per la natura. Perché, scriveva, «l’amore per la pittura di paese ha coinciso e
coinciderà in infiniti casi col gusto della
contemplazione solitaria, col desiderio
di un’intimità spirituale che consenta all’uomo di comunicare con Dio in un linguaggio dei più patetici e dimessi».
E, proprio come una fede, questa tensione ideale verso il bello non lo lascerà
mai. Ossessiva e totalizzante, con tutto
quel carico di aspettative tradite e senso
di inadeguatezza che ne fecero un critico
severissimo, con gli altri (recensendo
mostre per il Resto del Carlino, Italia Let-
Qui sotto: L’aia, 1943, olio su tela su cartone, Bologna, Fondazione Archivio Bertocchi–Colliva
Sopra a destra: Studio per autoritratto, 1926, tecnica mista su carta, Bologna, collezione privata
rima che giovedì 7 dicembre,
Aida, opera inaugurale della
stagione scaligera, ci “stupisca” com’è nel desiderio di Franco
Zeffirelli, regista e gran visir dell’evento, è il caso di fare un salto al
secondo piano del Museo del Teatro alla Scala. Dove si è appena
aperta la mostra, curata da Vittoria
Crespi Morbio e Maria Pia Ferrari,
dal titolo Celeste Aida (fino al 14
gennaio). Il percorso è breve, denso e affascinante. La mostra è la
prima tappa dei festeggiamenti
per il bicentenario di Casa Ricordi,
che offre la vera chicca dell’esposizione: la partitura autografa di Aida, alla quale Verdi lavorò nel
1870. Accanto, le lettere del musicista che accompagnarono l’accettazione del lavoro, pensieri che ci
restituiscono uno spaccato dell’uomo Verdi. Il percorso offre poi
figurini di Comelli, costumi di Caramba, musica, diapositive e varie
incursioni multimediali nei meandri dello spartito.
Un secondo e forse più incisivo
piacere lo offre il catalogo della
mostra, che approfondisce soprattutto la parte costumistica e scenografica. E lo stupore è tutto per i
“moderni” e affascinanti costumi
di Attilio Comelli, proprio per l’allestimento del 1906 alla Scala. In
essi già si sentono i moti del nuovo
P
teraria, Frontespizio e Casabella) e soprattutto con se stesso. Lavorando e distruggendo le proprie tele in un «martirio
assillante e inconclusivo». Vivendo la
pittura come una vocazione spirituale,
faticosa e sofferta, alla ricerca di una perfezione stilistica che inseguì fino all’estremo giorno. Letteralmente, perché il
22 giugno del 1956 terminò il suo Ultime
rose, e l’indomani morì. Nella casa dove
tornava ogni primavera, a Monzuno, tra
le valli e i campi che circondavano la sua
Bologna. Che oggi, a cinquant’anni dalla
morte, lo ricorda con una grande retrospettiva presso gli spazi di Casa Saraceni
(fino al 15 dicembre; info: www.fondazionecarisbo.it). Dove, finalmente, si
raccoglie l’intera eredità della sua arte,
attraverso una novantina di dipinti, una
ricca scelta di incisioni e disegni, e l’antologia completa dei suoi scritti, come critico, giornalista e autore di monografie di
artisti. Dedicate a Giacomo Manzù, a
Gianni Vagnetti e al “suo” Bertelli.
•
Matteo Tosi
secolo irrompere nelle trasparenze, nella leggerezza dei tessuti,
nelle eleganti nudità di una più intima interpretazione di Aida.
Ma la cosa che più sorprende
sono i colori: oro, naturalmente, e
verde acqua. Gli stessi toni e trasparenze per le scene di Franco
Zeffirelli che ha usato anche nuovi
materiali – come i costumi di Maurizio Millenotti, che non dovranno
comunque sottrarsi alla grandiosità tipica dell’opera.
Grandiosità e forza, un connubio che si identifica anche in Zeffirelli – Vassiliev, regista e coreografo (nella foto, durante le prove)
che insieme hanno già firmato,
molte altre opere.
Per Vladimir Vassiliev, uno dei
più grandi danzatori del XX secolo
– con Nureyev e Barishinikov, infatti, forma la prestigiosa “triade
russa” della danza maschile – non
è la prima volta alla Scala. Debuttò
con Noëlla Pontois in Giselle l’11
febbraio 1984. Di Vassiliev, formatosi al Bolscioi e sua guest per un
ventennio e poi all’estero nei più
grandi teatri, ricordiamo gli insuperati Ivan il terribile, Spartacus e
Zorba il Greco, diretto, all’Arena di
Verona, dallo stesso Theodorakis.
Dotato di una grande capacità
tecnica unita a una grande espressività, gli abbiamo chiesto che cosa riuscirà a portare della sua esperienza di danzatore e di coreografo
operistico.
«Credo la forza interpretativa.
La danza sarà un fluido che correrà per tutti gli atti e seguirà la musica. Il mio lavoro è ancora in divenire, lo concluderò con l’alzarsi del
sipario la sera del 7, solo così sarà
vibrante. I danzatori dovranno
emozionarsi ed emozionare il
pubblico, al pari dei cantanti. Luciana Savignano, che mi stupisce
ogni volta per il suo talento artistico, sarà la Sacerdotessa che presiederà gli eventi. Roberto Bolle,
che ho trovato artisticamente più
maturo di qualche anno fa, danzerà con Mirtha Kamara, guest americana del New York City Ballet e
del Miami Ballet. Entrambi saranno i protagonisti della grande scena di danza del secondo atto. Ma,
come Zeffirelli, ho avuto particolare cura per i movimenti del terzo e
quarto atto, più intimi. Qui si deve
sentire che scorre il Nilo e vivono
le Ninfe ed è il posto dove alla fine
deve scorrere anche la pace».
La pace che alla fine abbraccerà anche i protagonisti, Violeta Urmana e Roberto Alagna, il direttore Riccardo Chailly e tutto il nutritissimo staff di interpreti e tecnici
di questo spettacolo. Che, anche
senza ospiti esotici, non rinuncia
mai alla sua grandiosità.
•
Aurora Marsotto
WEEK END
LA GITA
Montemerano
Tra le colline della Maremma toscana, vicino Saturnia, si può
scoprire un piccolo gioiello: il
borgo medievale di Montemerano, abbarbicato su un picco
della valle dell’Albegna. Sorto
intorno all’anno Mille, conserva
ancora intatta la cinta muraria
con i suoi bastioni cilindrici. Addentrandosi negli stretti vicoli
dell’abitato si può poi visitare la
splendida chiesa di San Giorgio e
quindi fermarsi a pranzare Da
Caino (tel. 0564/602817) per
gustare la magistrale cucina di
Valeria Piccini.
L’EVENTO
Ultima chiamata:
Moda e Letteratura
Roba di altri tempi? Assolutamente no. Domenica 3 dicembre, all’interno del negozio
Ralph Lauren di via Montenapoleone a Milano, ci sarà un
Litterary tea: un vero e proprio
incontro letterario in cui la
scrittrice e attrice Francesca
D’Aloia reciterà insieme alla
giovane attrice Margherita
Missoni brani presi dal suo ultimo libro Il sogno cattivo, edito
da Mondadori. Naturalmente il
tutto rigorosamente accompagnato da tè e pasticcini.
IL DVD
V Per Vendetta
Una pellicola avvincente e provocatoria, tratta dai fumetti di
Alan Moore. Ambientato nel futuristico paesaggio di una Gran
Bretagna dominata da un regime totalitario, narra la storia di
una giovane donna, Evey, la cui
vita viene salvata da un uomo
mascherato conosciuto come
“V” che scatenerà una vendicativa rivoluzione per sollevare i
suoi concittadini contro la tirannia e l’oppressione. Molto ricca
la sezione extra, con documentari e approfondimenti sul film.
Regia di James McTeigue.
L’APPUNTAMENTO
Alla scoperta
di idee e talenti
Fino al 3 dicembre alla Fortezza
da Basso di Firenze c’è il Festival della creatività, un appuntamento ricco di idee, ricerca e
innovazione. Il programma
presenta 120 eventi e 200
espositori accompagnati da
convegni, laboratori e artisti internazionali. Ingresso libero e
aperitivi offerti da Mtv. Info:
tel. 055/2719931.
LA MUSICA
Note d’amore
Down on my knees, il suo implorante e disperato canto d’amore,
l’ha imposta
all’attenzione di tutti
grazie a una
rotazione
radiofonica
ad altissima
frequenza.
E così, la
scorsa settimana, Ayo è sbarcata in Italia, a
Milano e Roma, per presentare
Joyful, l’album d’esordio
(Polydor, ¤15,90), con due
concerti per soli palati fini. In
un’atmosfera sognante, sospesa tra la malinconia del
blues e la vitalità del reggae, illuminata dalle alte vibrazioni
della sua voce d’ebano e dallo
squillare del suo sorriso.
LA MOSTRA
Annibale Carracci
A Bologna, fino al 7 gennaio
2007, al Museo Civico Archeologico si può ammirare la mostra
di Annibale Carracci, un protagonista della pittura secentesca.
Un’esposizione ricca di ritratti,
caricature, dipinti e paesaggi del
grande maestro che si ripeterà a
Roma dal 23 gennaio al 6 maggio 2007, ospitata nel Chiostro
del Bramante. Catalogo Electa.
Info: tel. 02/54915.
EDICOLE AMICHE DEL “DOM”
Venendo incontro alle richieste di alcuni lettori pubblichiamo un elenco di edicole dove il Domenicale
è sicuramente disponibile. Facendo presente che il giornale è ordinariamente reperibile in 11.000
rivendite, invitiamo altri edicolanti di tutt’Italia che gradissero essere segnalati a comunicarci il loro recapito
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NUMERO CHIUSO IN REDAZIONE
IL 28 NOVEMBRE 2006
MERANO
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p.zza Stazione
• Eheim, interno Stazione
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lungo Passerio
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