Narciso e il doppio di Ugo Mondini

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Narciso e il doppio di Ugo Mondini
Narciso e il doppio
di Ugo Mondini - classe III B
Il mito di Narciso appare a noi, figli della cultura occidentale contemporanea, come un mito di
eziologia psicopatologica, che parla di un malato di narcisismo che cade innamorato della sua
immagine riflessa nello stagno. In realtà questo è un mito che parla del doppio, della scissione che
può verificarsi all’interno di un’identità che genera una falsa alterità.
Narciso si diverte a prendersi beffe di coloro che si innamorano di lui e perciò è colpito da una
maledizione: uno dei suoi amanti lo maledice in nome della dea Nemesi, chiamata secondo un topos
catulliano Rhamnusia: questa divinità lo punisce con la sua stessa beffa che imponeva ai suoi
amanti, ovvero un’illusione (in-ludere: prendere in giro) che non potrà mai toccare (come nella
sezione in cui si parla degli amanti, così nella sezione che narra l’illusione dello specchio si usa il
verbo tetigi). Oltre alla maledizione di Nemesi, a Narciso è stata predetta la condizione per avere
una lunga esistenza: “se non conoscerà se stesso”, il profeta cieco Tiresia disse a sua madre Liriope.
Una massima che ribalta la massima delfica e poi socratica dello gnw=Jij seauto/n. Un
controsenso, un adunaton, che tutti ritengono un vaneggiamento (vana), ma invece vuole indurre
Narciso a non conoscersi mai attraverso lo specchio.
Per comprendere al meglio il mito di Narciso, bisogna parlare dello specchio nella cultura latina.
In latino, il termine usato per definire specchio è speculum: la radice di questo vocabolo è *spec, la
stessa del verbo raramente attestato specio, verbo che è di solito accompagnato da preverbi, come in
inspicio, conspicio, respicio. È la stessa radice del verbo greco ske/ptomai “io analizzo, io valuto
attentamente”, e quindi anche di skoph/, “osservazione”, “vedetta”. In latino la stessa radice
origina altre parole come species (apparenza, immagine), specimen (indizio), specula (osservatorio
posto in un luogo alto per vedere le azioni del nemico). Come si può ben notare dalla somiglianza
fonica e grafica, speculum e specula, composti dalla radice *spec e dal suffisso –culum, -cula che
dà l’idea di “che serve a…”. Mentre lo speculum è l’oggetto che serve a guardare, la specula è il
luogo da cui si osserva. Ma la somiglianza continua a sussistere. Se poi consideriamo che da *spec
derivano parole come spia, espion (francese) attraverso la parola alto tedesca speha (osservazione
attenta), lo speculum non è il luogo dove si rispecchia l’immagine, bensì l’oggetto che rispecchia
l’immagine, un’azione attiva contro quella passiva che noi potremmo supporre. È molto importante
per comprendere Narciso ciò che dice Seneca nelle Naturales Quaestiones1. In particolare, Seneca
dice che gli specchi furono inventati perché l’uomo “conoscesse se stesso”, per sapere se
l’individuo è bello o brutto, oppure conoscere virtù e manchevolezze del corpo. Questa funzione di
riconoscimento è ancora ritenuta valida, visto che molti zoologi ed etologi utilizzano specchi per
sperimentare se gli animali si riconoscono nella propria immagine riflessa. Una visione più
“misterica” si ritrova in Apuleio, nell’Apologia pro se de magia2, dove l’autore afferma che lo
specchio serve solo a specchiarsi, senza altre implicazioni magiche. Tuttavia permette di capire
un’altra implicazione filosofica dovuta allo specchio: mentre altri tipi di immagini permettono di
fissare un momento della nostra vita, l’immagine dello specchio deperisce con noi. Mentre le altre
immagini sono morte, quella dello speculum è sempre aequaeva rispetto alla persona che si
specchia. L’immagine di Narciso è un eterno “io specchiato”, duplicato nella fonte.
1
2
Seneca, Naturales Quaestiones, 1, 17
Apuleio, Apologia, 13, 5-14
Narciso non conosce ancora se stesso, non può riconoscersi. Così quando si innamora di ciò che
crede altro da lui, prova gli stessi sentimenti che un poeta elegiaco esprime in un canto disperato del
paraxlausi/Juron. Dapprima si rimira, vede ogni qualità dell’imago: il colore della pelle, la
conformazione fisica, che sembra essere una statua marmorea di Paro. Questo particolare ricorda al
dotto lettore di età augustea altre imagines, quelle dei maiores che erano scolpite in marmo e messe
a protezione della domus. Immagini di morte, quindi, come quella che Narciso ama.
Narciso inizia un lungo discorso a sé stesso che Ovidio intesse di ironici e tragici doppi sensi: il
personaggio riconosce in sé alcuni aspetti tipici dell’elegia, ma anche segni rivelatori della sua
identità con la figura. E quando arriva ad analizzare i suoi movimenti, capisce di amare se stesso.
Dice “iste ego sum”. Iste è il pronome che indica lontananza di un oggetto sia dal parlante sia da
colui che ascolta, perciò è usato nelle invettive giudiziarie3 dall’avvocato per allontanare da sé e
dalla società astante l’imputato che ritiene colpevole, nonché in poesia erotica, di solito per definire
con disprezzo il rivale in amore4. Tuttavia l’intera frase è un unicum in tutta la letteratura latina.
Non esiste un altro autore in cui i pronomi iste e ego sono l’uno predicato dell’altro; è invece
frequente ille e ego, ille ego sum (io sono colui che… è tipico della poesia erotica ovidiana e non).
Forse è uno dei casi limite che erano insegnati nelle scuole di retorica5 oppure è un voluto nonsense, che amplifica l’irrazionalità, la follia dell’amore di Narciso. Un non-senso come il consiglio
di Tiresia: non conoscere te stesso. Impossibile, ma così come si voleva ribaltare il detto delfico e
poi socratico, ora Narciso porta al parossismo una delle condizioni etiche imposte da un’altra
auctoritas filosofica, Aristotele. Il fi/lautoj dell’Etica Nicomachea diviene ora il bruciarsi
dell’“amor mei”: Ovidio gioca sulla mancanza di una varietà di lessico per tradurre e)/rwj e fili/a,
che si traducono entrambi con amor (in particolare le traduzioni latine dell’Etica Nicomachea
traducono fi/lautoj con amo e se). Il suo pianto per aver capito di amare l’impossibile altrui fa
sparire l’immagine dall’acqua della fonte. Narciso si batte il petto, come ad un funerale facevano le
matrone romane, ed anche il suo doppio. Ovidio mette in scena il doppio in tutta la sua forza:
percussit pectora e pectora percussa sono un chiasmo fenomenale, allitterante, assonante, con
l’allitterazione della p che, come si è già detto, indica fonosimbolicamente la collisione con una
parete dura, soprattutto di vetro. Quindi bisogna immaginare, attraverso queste semplici quattro
parole, che mentre nella realtà il Narciso-sé si percuote, anche l’immagine contemporaneamente fa
la stessa azione. Ma mentre il Narciso-sé-riflesso è diventato ormai quella statua che accompagna il
suo stesso funerale (l’imago mortuorum), e quindi dà colpi che pesano come marmo (come invece
era di marmo Pario la visione iniziale) su ciò che è inesistente nell’acqua, Narciso-sé dà colpi che
feriscono la sua tenera pelle e la riducono come un pomo dell’uva mezza matura. Queste due
similitudini costruite con un’accortezza retorica degna di Omero e di Lucrezio, non sono solo
abbellimento. Narciso è sempre stato definito come mezzo puer e mezzo iuvinis, così come ora, sul
punto di morte, è mezzo acerbo e mezzo maturo. Alla fine Narciso trova la sua identità tramite la
sua metamorfosi, un fiore.
Come si è visto, il testo ovidiano appare molto complicato sia dal punto di vista retorico sia dal
punto di vista lessicale. Tuttavia questa complicatezza o, come alcuni critici la definiscono, questo
“barocco ovidiano”, in questo passo delle Metamorfosi assume un ulteriore valore più profondo.
L’utilizzo di figure retoriche di tutti i generi (di suono, di senso, di posizione, metriche) fanno
3
Ad esempio nelle Verrine o in qualsiasi altra orazione ciceroniana.
In Properzio II 9a iste quod est ego saepe fuit.
5
Vedi Priciano, Institutionum grammaticarum III, 180, 11-6 Hertz: nemo enim dicit “ego tu es” vel “tu ego sum”
4
subito pensare ai teorizzatori dello stile retorico in ambito greco, i sofisti, e ai loro “dissoi\
lo/goi”, i doppi discorsi. I discorsi duplici erano antilogici, cioè i sofisti prima sostenevano e poi
confutavano una stessa tesi, a dimostrazione di come non vi sia una Verità, bensì una relatività di
pensiero e che il miglior retore fa apparire verità il verosimile.
Questa concezione di “discorso doppio” e di verità contro verisimiglianza, molte volte arbitraria, è
naturalmente uno dei fili conduttori di tutto l’episodio di Narciso. Narciso pronuncia un discorso
elegiaco che al lettore appare in un altro modo, ovvero una folle invocazione a se stesso; Eco vuole
dire addio a Narciso, ma egli pensa che la voce della ninfa sia in realtà quella del suo doppio; un
esempio su tutti è proprio Eco, che durante il primo incontro con il Tespiese, pronuncia ogni singola
parola di Narciso, attribuendo ad esse il senso opposto del discorso del figlio di Cefiso.
Narciso, come giustamente afferma Umberto Curi6, è espressione dopo il riconoscimento “della
pura identità, o più esattamente di una natura incapace di cogliere fuori di sé altro se non se stesso, e
dunque impossibilitata a concepire l’alterità, se non come proiezione della propria identità”: per
Narciso non vi è un alius o un idem, c’è solo se stesso dopo il noscere. La metamorfosi di Narciso
in un unico fiore dal duplice colore diviene quindi l’unico mezzo per ridurre a identità ciò che si era
creduto, o meglio sperato, essere alterità anche dopo il riconoscimento. Quando l’acqua si conturba
a causa delle sue lacrime, Narciso infatti lotta con se stesso per conquistare l’alterità del suo amato,
una lotta impossibile che termina con la metamorfosi. L’errore che ha caratterizzato tutta la vicenda
è stato l’adhaerere verso la spes sine corpore, anziché l’abesse da essa.
Si era aperto il breve excursus sulla figura di Narciso descrivendolo come un caso psicopatologico.
Uscendo dall’ambito in cui Freud ha ristretto il mito con “Introduzione al Narcisismo”, forse il
filosofo che più rimase vicino alla concezione ovidiana originaria del mito fu Plotino. Egli parla di
Narciso in un passo delle Enneadi7:
“Bisogna che colui che vede la bellezza dei corpi non corra ad essi, ma sia consapevole che essi
sono immagini, tracce e ombre e fugga verso quella Bellezza di cui essi sono immagini”. Per
Plotino i corpi sono belli (e non Belli) non per sostanza, “per partecipazione”: dopo la prima
impressione di essi l’anima deve essere ricondotta all’intelligenza, al Logos/Uno da cui tutto nasce.
Solo nell’Unità vi è il Bello, nella molteplicità vi sono vari belli fallaci: bisogna tornare alla
contemplazione, già del Simposio di Platone8, dell’ampio mare del Bello e non dei belli molteplici,
che sono solo ombre. I corpi sono ombre e sono folli chi li ritengono Belli. Nell’anima deve sorgere
quella suprema lotta per raggiungere la più bella delle visioni: l’Uno. Mentre Narciso è sedotto dalla
propria forma, la morfh/ che subirà la metamorfosi, l’Uomo (anche Plotino, come Ermete, usa il
concetto di ÃAnJrwpoj) deve inseguire la propria natura, non la propria forma. Plotino vede
Narciso come emblema di una visione cosmologica del tutto identico a sé, come propagazione
dell’Uno, una concezione già ermetica.
Un Narciso come immagine del Cosmo, poi come immagine degli amanti di sé. Forse bisognerebbe
vederlo come grande e)/poj sulla duplicità dell’animo umano, dovuta alla conoscenza che porta a
comprendere sempre più cose ed essere perciò confusi da se stessi. Si può affermare ciò perché
l’ultimo momento di pace di Narciso è un fiore, che è inconsapevole della propria bellezza.
6
Umberto Curi, Endadi. Figure della duplicità, Feltrinelli, Milano 1995, pag. 81
Plotino, Enneadi, 1, 6
8
Platone, Simposio, 210d 4
7
L’inconsapevolezza che un uomo, per quanto tenti, non potrà mai possedere e perciò Narciso non
poteva che morire, anzi subire una metamorfosi, e diventare uno dei più importanti e famosi miti
che ci sono pervenuti dall’antichità classica.
Bibliografia e sitografia
Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, vol. I, libri I-II, a cura di Alessandro Barchiesi, traduzione di Ludovica
Koch, con un saggio introduttivo di Charles Segal, Milano, Fondazione Lorenzo Valla Arnoldo Mondadori
Editore, 2005, pagg. XV-CLXIII
Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, vol. II, libri III-IV, a cura di Alessandro Barchiesi e Gianpiero Rosati,
traduzione di Ludovica Koch, Milano, Fondazione Lorenzo Valla Arnoldo Mondadori Editore, 2005,
pagg. 33-45, 175-207
Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, introduzione di Gianpiero Rosati, traduzione di Giovanna Faranda
Villa, note di Rossella Corti, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 1997, pagg. 189-201
Plotino, Enneadi, a cura di G. Faggin e R. Radice, Milano, Bompiani, 2000
Bettini, Maurizio, Pellizer, Ezio, Il mito di Narciso. Immagini e racconti dalla Grecia a oggi, Torino,
Einaudi, 2003
Curi, Umberto, Endiadi. Figure della duplicità, Milano, Feltrinelli, 1995
Freud, Sigmund Introduzione al narcisismo, a cura di A. Pascale, Newton&Compton, 2008
Per Seneca, Naturales Quaestiones:
http://www.thelatinlibrary.com/sen/sen.qn1.shtml
Per Umberto Curi:
http://www.emsf.rai.it/tv_tematica/trasmissioni.asp?d=304