Quell`ultima partita
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Quell`ultima partita
Quell’ultima partita "E quando l' Agnello aprì il settimo sigillo, si fece nel cielo un silenzio di circa mezz' ora": l' uomo viene a conoscenza dei misteri della vita in questa mezz' ora? Allo stesso modo, il cavaliere che procrastina la morte sfidandola a scacchi, per un' ultima azione che abbia un senso", riesce a dare un significato alla sua esistenza?" I. Bergman, Il settimo sigillo, tad. It. di Alberto Criscuolo, Milano, 1999. Mi torna sovente alla memoria la visione di una scena del film di Bergman “Il settimo sigillo”, nella quale il protagonista gioca a scacchi con la morte. Forse complice questa immagine, indugio talvolta a chiedermi quando e quale sarà l’ultima partita che giocherò in questa vita. Come se qualcuno, in un ipotetico aldilà, potesse chiedermi: “Che colore avevi ? Che apertura hai usato ? Hai vinto o perso ?”. Con gli stessi occhi riguardo l’ultima partita di torneo di un amico affetto da un male incurabile, che sarebbe morto di lì a pochi mesi. Le ultime mosse di quella partita appaiono come i movimenti di un balletto muto, una scenografia in cui i suoni dell’orchestra si sono congelati in un silenzio rotto soltanto dai lividi colpi dei passi dei ballerini sul palco. Sento il bisogno di rigiocare questa mia ultima partita continuamente, senza che ciò influisca sulla percezione dell’identità del mio avversario. Avversario che non chiede apparenza alcuna, né disposizione spaziale o temporale, ma solo delle mosse in risposta alle mie. Che partita è ? E’ un gambetto di Re, ho i bianchi. La mia partita preferita. Le mosse terminano, la partita finisce. Tempo scaduto. il Re è morto. E lì sarà contenuta ogni cosa. Tra le sessantaquattro caselle c’è la vita e la morte, speranza e disperazione, inganno e ingenuità. Negli scacchi c’è tutto l’uomo. Se c’è un oggetto che dovremmo collocare in una sonda indirizzata verso eventuali civiltà extraterrestri con il compito di descrivere e caratterizzare l’uomo, questo potrebbe essere una scacchiera con i suoi pezzi. Naturalmente l’ultima partita non è mai come la si immagina. Il destino, Dio o chi per lui, è maestro nel confondere le carte in tavola e nel gettarci addosso le nostre esperienze in maniera ben diversa da come ce le eravamo indossate. Il sapore di una mela non è mai come il pensiero del sapore della mela, l’avversario non è quasi mai disposto a giocare come vogliamo o peggio, come avevamo immaginato giocasse. E’ un meccanismo beffardo ed inesorabile, non possiamo sfuggirgli. E’ come prepararsi per un torneo studiando la variante di cambio della Spagnola e poi ritrovarsi impantanati in una palude di Siciliane, Pirc e Caro-Kann. Quasi sempre, come non fosse la prima volta, non riusciamo a districarci dalla ragnatela stuporosa in cui cadiamo. Negli scacchi, come nella vita, bisogna essere preparati a tutto. Ma non sempre è possibile. Non lo è quasi mai. Nessuno è immune da questa condanna di inconoscibilità. Capablanca se lo aspettava che lo sconosciuto dalla maschera bianca se lo sarebbe portato via nel bel mezzo di quella partita (forse stava solo guardando una partita al biliardo) al Manhattan Chess Club ? No, perché altrimenti avrebbe ordinato un drink e si sarebbe sistemato comodamente in poltrona con un avana fra le dita. O forse voleva proprio quello. Alechine è morto mentre faceva colazione, davanti a sé la scacchiera. Che posizione c’era su quella scacchiera ? Che partita stava studiando ? Forse la scacchiera era vuota. Molti Grandi Maestri lo fanno, Per allenare la facoltà di visualizzazione. Noi comuni mortali ci accontentiamo di vagare nell’incerto limbo di una manciata di mosse. Spesso non siamo consapevoli dell’inesattezza dei nostri passi: talmente presi dalla nostra piccola combinazione non ci accorgiamo che l’avversario, con quello scacco intermedio, annullerà tutti i nostri sforzi. Figuriamoci se, così presi dalla nostra frenesia quotidiana, scorgiamo l’insinuarsi tra i nostri giorni di quelle dita pallide. Molti Maestri o sconosciuti giocatori di circolo sono morti riflettendo su una posizione o inseguendo una loro segreta variante. E’ un momento privilegiato. Per un non giocatore il fatto di pensare ad una mossa può sembrare un esercizio mentale come un altro, un atto intellettuale analogo a quello di ricordare di aggiungere il latte alla lista della spesa. Per uno scacchista non è così. Il seguire una variante sulla scacchiera, su un monitor o nel quieto cortile della propria mente, presuppone la sussistenza di qualcosa di molto vasto e profondo, di un ente significante che allarga le sue conseguenze al di là dello spazio e del tempo. In questo contesto, “giocare” è una parola che mostra tutta la sua inadeguatezza. E’ lo stesso verbo che si utilizza per correre dietro ad una palla o vestire una bambola. Invece – lo sentiamo ma non riusciamo ad afferrarlo pienamente - è molto di più. Soprattutto è diverso. Non so se esiste un contenitore verbale in cui inserire l’esercizio degli scacchi. Un singolo vocabolo non è sufficiente. Dovremmo inventare un sintagma che racchiudesse, unendoli, i significati di esperienza, esplorazione dell’ignoto (che sovente è in noi stessi), incontro di anime. E’ un gettare lo sguardo in porzioni di universo altrimenti invisibili, una tensione spasmodica nel tentativo di appropriarci della quantità di infinito (o divinità, per chi crede) contenuto in ognuno di noi. Cosa facciamo quando giochiamo a scacchi ? muoviamo delle figure di legno su una tavola quadrettata ? creiamo un’opera d’arte imperitura (in tal caso siamo degli Alechine) ? verifichiamo delle conoscenze, il contenuto della nostra memoria ? L’elenco delle interrogazioni potrebbe allungarsi indefinitamente. Tutte le risposte sono valide, nessuna è esclusa, nessuna esclusiva nella sua incompletezza. Il gioco degli scacchi non morirà mai. Non perché non si riuscirà a costruire alcuna macchina che fisicamente esaurisca tutte le mosse possibili – un numero indicibile – ma perché l’uomo, giocando, imprimerà ad esso sempre nuove emozioni, passioni e idee, in un travaso continuo ed inesauribile. E sempre nuovi significati. Perché dove c’è vita, c’è lotta per qualcosa. Solo chi è morto ha smesso di lottare, non per stanchezza, ma per il raggiungimento della pace assoluta. Nella morte risiede la definitività della lotta tra i bianchi e i neri, tra le loro opposte strategie di vita. Negli scacchi esistono tre ordini di leggi. Primo, le regole del movimento dei pezzi, fisse ed immutabili. E’ il regno dell’assioma. Al secondo cerchio troviamo l’insieme delle norme per una giusta condotta di gioco, come un corretto sviluppo, la difesa del Re e così via. Questo secondo regno è, al contrario del primo, mutevole e soggetto a diversi gradi di evoluzione ed assimilazione. Al terzo cerchio c’è il mondo delle sfere celesti. Qui gli scacchi sono gravati da un’indefinibile quantità di significati, in una sorta di transustanziazione geometrica . Qui c’è l’inferno, qui forse il paradiso. E’ qui che lei ci attende, ansiosa di fare la prima mossa.