Identità umana ed artificio. Idee per una libertà sostenibile
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Identità umana ed artificio. Idee per una libertà sostenibile
Eugenio Mazzarella Identità umana ed artificio. Idee per una libertà sostenibile “Un tempo era la ricerca della realtà, che avevo formulato come: ‘Cosa è reale? Cosa non lo è?’ – il mio tema. Ma credo che invece la domanda ‘Cosa è umano? Cosa non lo è?’ sia più vitale, e che fosse presente già allora, sotto l’altra. Dopotutto, la parte di reale che ci consente di fare qualcosa della nostra vita di cui possiamo fare tesoro è proprio la realtà stessa degli altri umani. Definire cosa è reale equivale a definire cosa è umano, se si è interessati agli umani. Chi non prova interesse per loro è un soggetto schizoide, per come la vedo io, un androide: dunque un non umano, e quindi non reale”. È una riflessione di Philip Dick che va tenuta a mente, quando la filosofia riflette sulle possibilità di ibridazione tecnologica che tecnica e biotecnologie offrono oggi alla struttura psico-biologica e in definitiva storica dell’esserci umano, alla sua identità diveniente, al modo in cui abita il suo mondo e se stesso. Giacché ciò che è in gioco è proprio l’identità a se stessa riconoscibile di ciò che fino ad oggi è stato umano. C’è un passo di un romanzo di Dick, che è una lapide sul rapporto tra agire e sapere dell’uomo della tecnica. È il romanzo che ha ispirato Blade Runner. Lo scenario letterario del testo riguarda i postumi prevedibili di fine millennio di una guerra atomica immaginati nel 1968, ma in generale ha invero i toni di una glossa a margine all’inconsapevolezza, all’inerzia del sapere riflessivo quanto alla sua capacità di incidere sulle magnifiche sorti e progressive dei saperi operativi dell’umano: “Prima dell’Ultima Guerra Mondiale, questo rudere ormai senza padroni – Dick sta descrivendo le città ormai rarissimamente abitate dalla rarissima vita che è rimasta in giro – aveva goduto di cure e lavori di manutenzione…era stata una guerra disastrosa nonostante le predizioni spavalde del Pentagono e del suo tronfio vassallo scientifico, la Rand Corporation… inoltre, nessuno oggi si ricordava del perché ci si fosse trovati in guerra, né chi avesse vinto, ammesso che qualcuno avesse vinto. La polvere che aveva contaminato la maggior parte della superficie del pianeta non aveva avuto origine in una nazione particolare, e nessuno, nemmeno il nemico al tempo della guerra, l’aveva prevista. Dapprima, stranamente, erano morte le civette. A quel tempo era stato quasi buffo: gli uccelli, imbottiti nella loro lanugine chiara, giacevano stecchiti qua e là, nei giardini e lungo le strade. Dato che uscivano dal nido solo dopo il crepuscolo, secondo quelle che erano state le loro abitudini prima di estinguersi, di solito le civette sfuggivano all’osservazione. Le pestilenze medievali si erano manifestate in modi simili, con morie di moltitudini di topi. Questa epidemia, invece, era calata dall’alto”1. Non so quanto Dick, a livello subliminale, fosse consapevole di stare usando una classica metafora della filosofia, sapere che arriva sempre a cose fatte, quando la realtà presunta razionale è andata avanti, e rimugina di notte la realtà già effettuata del giorno. Certo che più che comprenderla e metterla in forma la realtà, è da un po’ che sarebbe più saggio per la filosofia contribuire ad interdirla di giorno, e non solo a rimuginarla di notte. Anche per se stessa. Un sapere di orientamento dell’agire inefficace ed inefficiente, sarebbe il primo a cadere dall’albero della vita e della scienza, a cose fatte – su questo terreno: il terreno di ciò che la vita come sapere operativo e solo operativo può fare di sé, della sua identità riconoscibile. Questo tanto più oggi che la vita non è più un presupposto indiscusso, che può sì essere tolto di mezzo, ma non può essere, se è, spogliato dei suoi “modi”, altrimenti da come è nel suo “nudo” respiro. È per questo che oggi se ne può dare o fare una “politica”, una biopolitica , come si usa dire. Il che vuol dire che si tratta di decidere, ed in effetti si decide, se, e quale forma della vita si voglia tutelare o promuovere. Le astrazioni sono sempre determinate. Che oggi possa farsi oggetto di politica la forma di vita che noi siamo, anche come forma naturale, e non solo sociale, che può esserci “politica”, manipolazione sociale, non solo dei bioì, dei modi di vita, ma anche della zoé, la “nuda” vita come presupposto biologico di quei modi e mero diritto ad esserci, nella vita, di quei modi e di questo presupposto – è l’esito conseguente, il compimento, di quest’autocomprensione della modernità come azione capace di sé – vale a dire di darsi a sè stessa – della stessa ragione strumentale. Sotto questo riguardo, la biopolitica è un’eugenetica generale della vita, come vita che si adatta sempre più alle sfide della sua azione, almeno quanto a quelle della natura. Un’eugenetica dove la “Selezione naturale”, quest’agente generale dell’Evoluzione, passa sempre più in secondo piano per l’auto-selezione consapevole, o pensa di poterlo – passa sempre più per il medio del “mondo”, come fattura ed artificio, che la vita umana si procura in sé, nella propria “natura” biologica, altrettanto che fuori di sé come habitat naturale e 1 P. Dick, Do Androids Dream of Electric Sheep?(1968), tr. it., Ma gli androidi sognano pecore elettriche? Fanucci, Roma 2000. storico (cultura), che da sempre si costruisce. Non sempre è stato così. Il tragico antico conosceva bene il proprio rapporto alla zoè, la fatica per i bioì di emergervi, e la durezza di restarvi, nel sentimento di un ritorno sempre pre-visto, e incombente – anche nell’acme della forza e della fortuna. E l’eone cristiano sa altrettanto bene che tutta la buona volontà dell’azione della vita non la salva da sola, non solo per la vita che vede, ma nemmeno per quella che non vede, e spera contro ogni speranza. Pure oggi, nell’epoca dei cyber può apparire fuori tempo massimo parlare della “vita” alla vita, di esserci, di effettività, di tragico, di spirito vivente. Gli schermi a cristalli liquidi dei computer poco ne vogliono sapere del soffio che appanna una lastra, un vetro sul paesaggio. Anche se in Blade Runner è un cyber che ancora uccide il padre per estorcergli un po’ di durata alla sua vita, e alla fine, mentre si spengono i circuiti, sogna d’essere quella fragile cosa tra le sue mani che è un uomo, e una colomba – quella nuda mortale vita che era già stato il sogno di ogni burattino animato, di ogni bugia di legno della vita; è un cyber che sogna di tornare, dopo averlo avanzato in ogni cosa, all’uomo da cui veniva. C’è un frammento di un romanzo di Philiph Dick, del 1949, che così comincia: “Ecco cos’è successo alle cose uscite dall’umida terra, dal lurido fango e dalla polvere. A tutte le cose viventi, grandi e piccine. Hanno fatto la loro comparsa, divincolandosi a fatica da quell’umidità appiccicosa. E poi, dopo qualche tempo, sono morte”2. È un testo, come tutta l’opera di Dick, che è tra le fonti d’ispirazione di tutto quel variegato universo letterario, futurologico, parascientifico e scientifico che si assomma nei movimenti transumanistici ed estropiani, nell’ambito di quel che oggi mira a configurarsi come post-humanism, dove gli scenari futurologici retti dalla fiducia nello sviluppo tecnico sono tutti intrisi di una svalutazione/ aborrimento – come medio infetto della propria vita – di principio della corporeità, ridotta a wetware, per restare al lessico di Dick, a sostanza informe, molliccia, secondaria e oltrepassabile; di un’avversione a ciò che questi movimenti individuano come “mortalismo, l’accettazione della finitudine e del limite che è intrinseco all’umano” Se ha un senso il nesso metafisica e violenza – mediato dalla tecnica, così ricorrente nello heideggerismo del ‘900 – ciò in ultima istanza può solo significare 2 P. Dick, Vita breve e felice di uno scrittore di fantascienza, Feltrinelli, Milano 2001. l’assimilazione a presunte strutture stabili dell’essere, viste nella teoria, o all’atemporalità della logica, del fenomeno, dell’apparizione, dell’essere vivo; in un modo o in un altro scamparlo a forza dal suo divenire. Il sapere umano è essenzialmente questo programma: scamparsi a forza dal proprio divenire – ad ogni costo, anche a costo degli altri che con noi questo destino condividono. Ma è sapere umano, anche umano, e forse soprattutto umano, sapere che fa uomo l’uomo, la natura a tempo di questo programma – ciò che consegna il sapere, per dirla con Eraclito, alla sua “creativa impotenza”. Noi siamo ancora quell’ente che il naturalista Plinio, il Vecchio (23-79 d.C.) così collocava nella Naturalis Historia: “Solo all’uomo, fra gli esseri viventi, è stato dato il pianto; solo a lui il piacere, che si manifesta in infiniti modi e nelle forme proprie alle singole parti del corpo; solo a lui l’ambizione, l’avidità, una smisurata voglia di vivere, la superstizione, la preoccupazione della sepoltura e anche di ciò che accadrà dopo la morte. Nessuno ha una vita più precaria, né maggiore brama di ogni cosa; nessuno è preda di angosce più disordinate, né di un furore più violento. In conclusione gli altri animali vivono bene tra i propri simili. Li vediamo aggregarsi ed opporre resistenza contro le specie diverse; ma i leoni non sono spinti dalla loro ferocia a combattere altri leoni, il morso dei serpenti non assale altri serpenti, e neppure i mostri marini e i pesci incrudeliscono, se non contro specie differenti. Invece, per Ercole, all’uomo la maggior parte dei mali è causata da un altro uomo”3. Oggi questa ferocia, questa violenza per restare proprio lui, più ancora che la sua specie, o al più la sua specie come ambiente per conservarvi appieno il “suo caro io” a costo di disincarnarlo o di plastificare la sua carne nel Cyborg che vorrebbe o presume di diventare, oggi questa insurrezione metafisica del sapere come tecnica – insurrezione che da teorica si è fatta sempre più operativa – contro la verità scolpita da Anassimandro sulle porte della filosofia occidentale, si è portata sull’ultimo fronte. Si esercita sul suo stesso phylum, la struttura biologica data alla/della sua specie, per assolverlo dalla morte, per proseguire sulla linea della sua assoluzione dal tempo, che è il sogno attorno a cui si organizza la metafisica come individuazione di ciò che regge, genera o sostiene la fisica e la sua corruttibilità. La spiritualizzazione della 3 Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, lib.VII, 5 (tr. di G. Ranucci, Einaudi, Torino 1983). tecnica intesa come promessa o assolvimento da parte sua d’aspirazioni o di promesse che sono state e sono tradizionale patrimonio di filosofie e religioni si è da tempo impegnata a realizzare il transfert del sogno dell’immortalità dallo spirito individuale al corpo individuale, al corpo proprio, in linea con quell’individualismo proprietario che sembra essere l’ideologia vincente della contemporaneità post-moderna. Se prima questa aspirazione doveva essere affidata all’ibernazione perché il corpo proprio arrivasse freddo all’eternità confidando nei progressi della scienza, oggi la futurologia dell’Intelligenza Artificiale cerca nei progressi della biotecnologia la chiave per aggirare l’orologio biologico, per “silenziare” i geni responsabili del “programma” di invecchiamento dell’organismo. Un diffuso club di visionari dell’immortalità, inteso a raggiungere l’obiettivo che l’albero della vita non sia più potato, a scapito magari che nulla più sorga di nuovi fiori, che nessun nuovo frutto ne nasca, per sopportare i vecchi; e questo per non accettare il calore umido del cuore, la corruttibilità – svilita a wetware, a sostanza putrida e vischiosa dalla quale bisogna liberarsi – che è l’altro lato della generatio aequivoca dello spirito dall’humus, dal limo originario in cui è insediato. Nella specie il desiderio di eternarsi ha la sua soluzione nell’impulso alla riproduzione – è chiaro che in un diverso scenario di realizzazione di questo desiderio l’impulso alla riproduzione, fonte già biologica della struttura comunitaria e proiettata in avanti dell’essere umano, base stessa di un’ontologia della natalità come essenza di sé alla cui cura, alla cui tutela innanzi tutto è chiamato l’essere umano quale è, quale si conosce, questo impulso alla riproduzione che sostiene per l’uomo e la sua vita biologica e la sua vita dello spirito come cultura, potrebbe bene ridursi ad un fossile della sua struttura psico-biologico conosciuta, della sua struttura pulsionale, per riorganizzarsi e risolversi tutta all’interno dell’individuo definitivamente singolarizzato, nell’eterno presente raggiunto degli individui dati, che si siano visti e costruiti – per loro, e solo per loro – la “fine del mondo”. È il sogno-incubo della clonazione del mio ‘caro io’. Ma ha un senso tutto questo? Ha un senso una tale proiezione della tecnica, dell’artificio sugli scenari della vita già sul piano delle aspettative dell’agire, sul piano della riconoscibilità umana a venire dell’uomo per se stesso, prima ancora che su quello della praticabilità, della fattibilità di fatto non eseguibile per fortuna di siffatte aspettative? È sintomatico ed istruttivo in questo senso che proprio nel libro – Ma gli androidi sognano pecore elettriche? – che ha ispirato Blade Runner Philip Dick, il “visionario tra i ciarlatani”, come ebbe a definirlo Stanislaw Lem, abbia descritto per tempo il doppio vincolo che lega l’uomo all’androide, l’identità umana alla sua ibridazione con l’artificio. Da un lato, l’avversione dell’umano a consegnarsi ad una mera intelligenza da prestazione, tanto più potente quanto più depurata della sfera sensibile-emozionale, della dimensione ‘empatica’ (nel lessico di Dick) radicata nel chiasmo affettivo tra corpo e sensibilità, depurata del supporto vivente, e perciò stesso mortale, dello psichismo umano; dall’altro, l’aspirazione dell’androide a tornare all’umano, a quella vita che muore che nella sua artificialità biologica ha superato. In altri termini l’uomo sogna l’androide, e l’androide sogna l’uomo. Nel romanzo di Dick gli androidi non sono in grado di superare il test sull’empatia, che verifica la loro appartenenza alla comunità umana: per questo devono essere “ritirati”, soppressi, quando da strumenti di lavoro, da protesi esistenziali, pretendono di emergere a soggettività, senza però essere in grado di recare in sé il DNA comunitario e patico dell’essere umano. È l’insurrezione dell’artificio alla vita intelligente che l’ha creato: ma questa insurrezione non è nient’altro che la metafora del vicolo cieco di una vita intelligente, l’uomo, che per la sua intelligenza come calcolo si è dimenticata come vita, ha dimenticato il suo legame empatico con la sua zolla biotica, con la vita come emergenza terrena e spirituale, magari per rimuovere il “gemito” che la connette a tutte le creature e alla creazione. L’anti-utopia tecnologica di Dick ha questo scenario di mira. E d’altro canto assunto nella fiction che l’androide organico fosse producibile, il germe infetto della vita lavora anche in lui. Roy Baty, l’androide che ha scatenato la ribellione dal bollettino della polizia risulta assumere “un atteggiamento sicuro ed aggressivo di autorità surrogata, ed incline a riflessioni misticheggainti”, è stato questo androide, che sogna l’umano, “a proporre la fuga di gruppo da Marte, sostenendola ideologicamente con l’illusoria pretesa di una presunta sacralità della cosiddetta ‘vita’ degli androidi”, a rubare e fare esperimenti “con diversi farmaci per la fusione mentale e quando è stato scoperto ha sostenuto che sperava in quel modo di favorire tra gli androidi esperienze di gruppo analoghe a quella del Mercerianesimo, che, ha fatto notare, non è accessibile agli androdi”, a cercare di riportare nell’intelligenza artificiale l’empatia. Neanche il droide è capace di resistere a lungo alla solitudine che grida dalle sue viscere, appena si progetti come umano, all’urlo che Munch ha saputo mettere in figura: “Phil Resch – un cacciatore di taglie, che è l’alter ego del protagonista, Dick Deckard, che teme di essere un droide senza saperlo – si fermò davanti a un quadro ad olio e si mise a guardarlo con attenzione. Il quadro mostrava una creatura calva ed angosciata, con la testa che pareva una pera rovesciata, le mani premute sulle orecchie e la bocca aperta in un immenso urlo muto. Onde contorte del tormento della creatura, echi del suo grido, fluttuavano nell’aria che la circondava; l’uomo, o la donna, qualunque cosa fosse, aveva finito per essere contenuta nel proprio urlo. Si era coperta le orecchie proprio per non sentirlo. La creatura era in piedi su un ponte e non c’era nessun altro presente; urlava nell’isolamento più totale. Tagliata fuori dal suo sfogo – oppure nonostante il suo sfogo… Secondo me – disse Phil Resch – è così che deve sentirsi un droide” . Il rischio dell’uomo della tecnica, dell’uomo virtuale che essa, nei suoi incubi o nei suoi sogni continua a prometterci, è di portarsi senza avvedersene su questo ponte di Munch, di illudersi di poter passare il limite della sua umanità. Ma quello che troverebbe è già forse tutto in questa sosta desolata davanti al quadro di Munch in queste pagine di Dick. Prima ancora che nelle smentite della teoria le spinte postumane dei programmi dell’Intelligenza Artificiale, almeno nelle sue versioni forti, vi hanno trovato per tempo un monito che non ci consente di tapparci le orecchie. Al di là di ogni fascino, e portentosa utilità dell’ibridazione tecnologica, artificiale dell’umano, il paradigma dell’antropologia moderna, sostenuto dalla tecnica, di un carattere indefinitivamente evolutivo dell’identità umana, non è più tenibile, neanche nella teoria: nella pratica si smentisce da sé; le repliche della realtà sono tradizionalmente dure. Resta in piedi la tesi, ed è il punto decisivo, che l’identità di mantenimento – mantenersi divenendo in ciò che si è – resta la stella polare anche di ogni identità diveniente (per antonomasia quell’umana, ma riguarda ogni pensabile identità reale) che voglia restare identità, vale a dire presso di sé nella forma di riconoscibilità dell’autoriconoscimento. Vorrei in chiusura notare che per valutare appieno gli scenari futuri dell’ibridazione tecnologica dell’umano sia sul piano socioculturale che psico-biologico, e i loro risvolti etici, la nozione di ibridazione tecnologica andrebbe considerata in modo olistico, non ristretta cioè all’ibridazione tecnologica in senso stretto, ma in connessione analogica con il ben più esteso dominio dell’artificialità dell’umano, che non si restringe certo all’artificio tecnicomateriale per così dire. Le convenzioni politico-sociali sono esempi paradigmatici di tecnologia sociale nel senso dell’implementazione artificiale dell’umano, e ancorché possa sembrare scientista il lessico dell’ “ingegneria sociale”, della “tecnica” politica è sufficientemente espressivo di questa realtà. Prima ancora degli automi progettati dalla cibernetica e dall’ingegneria biologica magari, una “costituzione” è un automa politico posto in essere dalla costruttività sociale, automa persino in grado di usare gli umani per dirigere, correggere, e magari eliminare altri umani secondo un programma, regolarne la convivenza. L’automa politico in questo senso, come nella logica di ogni automatismo, ha un fondamentale carattere di “esonero”, intendendo il carattere di esonero nel senso di un percorso di “facilitazione” alla vita in un qualche suo assetto, biologico, psichico, culturale, sociale. E tuttavia nonostante ogni vantaggio immaginabile degli automi, degli artifici che l’homo cultura è in grado di mettere in campo, il problema è di non cedere sovranità – cioè capacità di riplasmare ove necessario l’azione umana – agli automi umani di qualsiasi specie oltre misura, che cioè il “programma” da far girare sull’automa ibridato con noi sia sempre in una qualche misura “negoziabile”, e non ci espropri di questa capacità di negoziazione tra natura e artificio cum grano salis che è in definitiva la nostra libertà conosciuta. Chi ha scelto il seguente esergo di Pico della Mirandola per questo convegno ha scelto bene: Non ti ho dato o Adamo né un posto determinato, né un aspetto proprio, né alcuna prerogativa tua, perché quel posto, quell’aspetto, quelle prerogative che tu desidererai, tutto secondo il tuo voto e il tuo consiglio ottenga e conservi… Non ti ho fatto né celeste, né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti; tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine. Vi è già tutto in questa ripresa di Pico della tradizione dell’uomo Proteo il programma dell’antropologia moderna di una difettività umana che può fare di sé quello che vuole, che il punto di forza dell’azione dell’uomo moderno sia la sua costitutiva mancanza di essenza orientata alla sua libera autodeterminazione. L’uomo si è fatto immagine di un Dio pensato come libero autodeterminazione della sua essenza. Ma l’uomo è davvero questo, può davvero essere questo: autodeterminazione incondizionata? O qui il suo essere immagine è resta comunque un riflesso inciso e deciso dal tutto in cui si inscrive, anche nelle sue possibilità di cangiare? Insomma, l’uomo sarà pure immagine divina, e però proprio come quest’immagine per costituirsi ha bisogno di una fonte di luce, deus sive natura. La questione per l’uomo moderno, enfasi piena dell’uomo dell’artificio, sua costitutiva natura, è non passare sotto silenzio il “quasi” della sua libertà richiamato ancora in questo passo di Pico. L’uomo è sempre chiamato a determinare il “quasi” sostenibile della sua libertà. In altre parole tenere in vista fonti normative all’azione – spirito e natura si sarebbe detto una volta – che non sono nella sua disponibilità. Questo potrebbe sembrare non troppo moderno, ma a mio avviso è forse l’unica possibilità di assicurare ancora un futuro al modus hodiernus di oggi di vivere e di agire, nell’ancoraggio ad un ieri che non passa.