Le droghe della nuova narrativa

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Le droghe della nuova narrativa
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Le droghe della nuova narrativa
Drugs
A cura di Divier Nelli, con Gianni Biondillo,
Teresa Ciabatti, Marcello Fois, Elisa Genghini,
Laura Del Lama, Gianluca Morozzi, Divier
Nelli, Valerio Varesi, Marco Vichi, Guanda
Parma 2011, pp.260, € 16,50.
MILLY CURCIO
E’
buona in partenza l’idea dell’editore Guanda
di riunire un gruppo di nove scrittori italiani,
diversi per linguaggio e per temperamento, intorno a un tema che fungesse da filo conduttore
di altrettanti racconti che, con varie soluzioni
narrative e con esiti originali, avrebbero potuto
riflettere efficacemente la sfaccettata realtà dei
nostri tempi. Con tutte quelle forme di dipendenza da cui nessuno è immune, e che ciascuno
di noi assume, più o meno consapevolmente,
per le più svariate ragioni: per colmare un
vuoto, per incapacità di affrontare le inevitabili
difficoltà del vivere, per quell’oscuro senso di
inadeguatezza o di disagio che talvolta ci attanaglia, per il terrore di rimanere soli. Oppure,
semplicemente perché si è alla ricerca del piacere in sé, o perché si coltiva una passione
senza misura, con una dedizione tale da sconfinare nel patologico: può succedere con uno
sport, con un videogioco, con un social network,
o, più nobilmente, con un’arte (si pensi alla
magnifica ossessione che rappresentò la pittura
per Gaugin: egli finì i suoi giorni senza smettere
mai di dipingere su ogni pezzo di tela e di muro
e in ogni spazio della propria stanza). La parola
chiave è dunque Drugs.
A differenza di quello che ci saremmo aspettati, Drugs, il libro edito da Guanda, contiene
nove storie che narrano proprio di dipendenza,
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fisica o psicologica, dalle droghe in senso
stretto: le sostanze stupefacenti, per intenderci.
Questa interpretazione letterale del termine –
che solo in due casi di cui dirò è il pretesto per
una rielaborazione davvero personale del tema – restringe il campo e gli orizzonti, conferisce alla raccolta un tono monocorde, paralizza gli scrittori che ora annaspano alla ricerca
di qualcosa di non-detto, ora faticano a «chiudere» il racconto (come Morozzi in Quel cielo
così bianco), li àncora su formulette scontate
e, senza apprezzabili guizzi di creatività, consegna al lettore storie scialbe e indecise (Lo
sciopero di Vichi), confuse (Che caos, Cosmedin
di Biondillo!), o già sentite (Melancolia della
Genghini, Un lavoro per vecchi di Nelli), immagini già viste sui giornali (il palazzinaro, gli
escort, l’omosessuale derubato ne Il tuffo della
Ciabatti;) o nelle innumerevoli fiction televisive
(lo squallido ispettore Carnevali in Visto, ma
mai guardato di Fois).
I racconti proposti appaiono, per lo più,
esercitazioni da laboratorio di scrittura, fotografano circostanze, ambienti, esistenze dal
di fuori, fermandosi alla superficie, senza indagare sugli stati d’animo e sulle dinamiche
profonde che sono all’origine dei comportamenti umani. Personaggi scipiti, situazioni
tipo, niente di emotivamente coinvolgente,
fatta eccezione per due racconti, al contrario
notevoli, firmati da Valerio Varesi e Laura Del
Lama.
Tanto Varesi (Bisogna esserci stati in mezzo)
quanto Del Lama (La cagna) costruiscono
due storie appassionanti e convincenti, sia
nell’elaborazione dell’intreccio sia nell’uso
del linguaggio. La voce narrante, in entrambi
i casi, è un io che racconta (il genere è quello
della confessione, rispettivamente di un ciclista dopato ad un giudice e di una madre
eroinomane alla propria figlia), in un’operazione maieutica che, con un movimento che
va dal basso verso l’alto, dall’interno verso
l’esterno, è prima di tutto un atto liberatorio.
Non a caso i due racconti si presentano come
due lunghi monologhi, nei quali l’altro non
ha ragione di esprimersi (le battute del giudice
in Varesi sono riportate sotto forma di discorso
indiretto o comunque sempre filtrate dalla
voce del protagonista), e non assume dignità
di interlocutore perché, nelle intenzioni del
parlante, è il muto destinatario di un messaggio così drammaticamente perentorio da non
prevedere repliche. Così ne La cagna, una
sorta di lettera-testamento cui non ne seguiranno altre (c’è un tempo anche per la confessione, passato il quale, nulla ha più senso!)
e che, com’è giusto che sia, finirà «in fondo al
cestino della carta straccia»; così in Bisogna
esserci stati in mezzo, in cui incolmabile appare la distanza tra chi parla e chi ascolta, inconciliabili i mondi a cui i due appartengono.
Qui, più che il così fan tutti invocato per autoassolversi, sono le accorate parole di uno
che «si è rotto il culo in sella» per campare (al
contrario di «’sto giudice che prende lo stipendio tutti i mesi sia che lavori sia che scaldi
la sedia») a catturare il lettore; è il racconto
sofferto di una vita di fatica, di sudore, di
sforzi sovrumani, di paura di non farcela a
turbare, inaspettatamente, persino il giudice
(è quel che dice il narratore), come se in lui si
«fosse smosso un fondale torbido decantato
da tempo».
Ma, nonostante la bella prova di Varesi, occorre dire onestamente che se questo libro
ha un senso lo si deve esclusivamente alla
scrittura originale, non conformista rispetto
al tema e particolarmente stimolante di quel
piccolo gioiello di narrazione che è La Cagna
di Laura Del Lama.
La scrittrice fiorentina non si lascia mettere
in soggezione dal tema; al contrario, e qui sta
la sua forza, fa finta di dimenticarsene: descrivere gli effetti della dipendenza da eroina
poco interessa alla sensibilità della Del Lama
di fronte all’urgenza di affondare le unghie (e
graffiare) nel complesso e intricato rapporto
tra due donne adulte che si sono dette tutto,
o forse niente: una madre e la propria figlia
neomamma. Come dire: attenzione, le dinamiche familiari sono spesso imperscrutabili
e tali possono rimanere per tutta l’esistenza,
irrisolte e irrisolvibili, grovigli inestricabili,
grumi che possono non sciogliersi mai e divenire più devastanti delle droghe stesse!
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[LE DRO GHE DELLA NUOVA NARRATIVA]
Con acutezza psicologica non comune
Laura Del Lama narra il perché e il come una
matura signora di mezza età, non un’adolescente, decida improvvisamente di «farsi di
eroina». E’ un discorso incalzante, che spiazza
il lettore, che non risparmia nessuno: i padri
che scompaiono dopo il primo sussulto di
paternità, i figli che ti succhiano la linfa vitale
finché campi, le donne lasciate sole, impaurite, col corpo sfatto «perché poi alla fine i
figli sono di chi li fa».
In un colpo solo la scrittrice sbaraglia coraggiosamente luoghi comuni, fa a pezzi la
melensa retorica legata all’idea di maternità,
infrange impudicamente un antico tabù nonché la sacralità di un ruolo che già fu della
Madonna, madre di Cristo e madre di tutte le
madri: «Ma i discorsi che hai sentito finora
sulla maternità non erano forse universali,
uguali per ogni donna? Non sono altro che
frasi fatte, ecco la verità. Nessuno ti ha mai
detto che quei momenti meravigliosi hanno
un prezzo molto alto, che diventare madre è
per tante donne un’esperienza drammatica.
Per me è stato così».
In una scrittura caustica, con parole affilate
come la lama di un coltello, e che suonano
scandalose perché più vicine all’istintivo sentire di una «cagna» (mi guardavi come si
guarda una cagna che ha appena abbandonato il suo cucciolo…») che ai sentimenti
propri di una madre («la verità è che non ti
volevo, non ti ho mai desiderato»; «Invece ho
desiderato che tu morissi. Alcune volte l’ho
desiderato davvero tanto»), Del Lama confessa
l’inconfessabile: l’atroce sofferenza che si
può provare nel diventare madre, quel punto
di non ritorno che fa sì che una donna uccida
se stessa nell’attimo stesso in cui dà la vita
alla sua creatura: «Poi sei nata tu. Di tutte le
cose che avevo fatto, di tutti i pensieri positivi
per il mio futuro, non è rimasto che una manciata di polvere. Come se fosse passato un
prestigiatore e avesse fatto la magia: sparito
tutto». Ad una dipendenza non voluta perché
arrivata nel momento sbagliato (Teresa è giovane, ha tanti sogni, è una brillante ricercatrice) e poi subita per lungo tempo, Teresa ne
sostituirà un’altra, quella dall’eroina: questa
sì voluta e cercata e trovata nel momento
giusto, l’estremo anelito di libertà quando
tutti i sogni sono ormai infranti, quando l’ultima felicità possibile è quella indotta dalla
droga.
Laura Del Lama, dopo il romanzo d’esordio
Non so dove ho sbagliato (edizioni Cult, Firenze 2009), conferma con La cagna il suo talento nel narrare i sentimenti più profondi e
contrastanti che albergano nell’animo femminile, la sua naturale capacità di andar
dritto alla sostanza delle cose, con un linguaggio che nulla concede agli stereotipi in
cui sembra cadere tanta parte della narrativa
contemporanea.
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