Inibitori di pompa protonicafratture osteoporotiche

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Inibitori di pompa protonicafratture osteoporotiche
Inibitori di pompa protonica e rischi correlati,
con particolare riguardo a quello delle fratture osteoporotiche
(elaborazione tratta dalle comunicazioni periodiche della Società Italiana di Farmacologia)
Gli IPP sono utilizzati nel trattamento della patologia gastrica acido-correlata, di
solito cronica, soprattutto negli anziani nei quali è molto alto il rischio di
interazioni tra IPP e gli altri medicinali.
I dati della segnalazione spontanea
Gli IPP di solito provocano pochi effetti collaterali, tra i quali: cefalea, nausea,
dolore addominale, stipsi, flatulenza, diarrea.
L’uso prolungato potrebbe portare alla carenza di vitamina B12, per ridotto
assorbimento.
Sono stati riportati rari casi di miopatia subacuta, artralgia, rash cutaneo grave,
nefrite interstiziale acuta.
Le interazioni sono le più temute, esse sono soprattutto di tipo farmacocinetico,
cioè dovuto ad interferenze a livello dell’ADME (assorbimento-distribuzionemetabolismo-escrezione) e sono legate alla riduzione dell’acidità gastrica che
modifica l’assorbimento di molti farmaci, riducendone la biodisponibilità.
Tra gli effetti collaterali più rari, contemplati nella Rete Nazionale di
Farmacovigilanza (RNF), vi sono 2 segnalazioni di tetania, associata ad
ipomagnesemia a causa dell’uso prolungato di IPP (6 e 10 anni di terapia).
Tale reazione avversa è dovuta al magnesio (comune catione cellulare col ruolo
chiave in molti processi intracellulari) e non è ancora presente nella scheda
tecnica degli IPP.
L’omeostasi del magnesio è garantita dall’equlibrio tra assorbimento intestinale ed
escrezione renale (riassorbimento) nonché dallo scambio con l’osso, che
rappresenta più della metà dei suoi depositi.
La carenza di magnesio può comparire in molte situazioni patologiche e può
causare
tetania,
convulsioni,
aritmie
cardiache,
ipoparatiroidismo
ed
ipocalcemia/ipopotassiemia.
L’assorbimento del magnesio, presente negli alimenti, avviene in due modi:
passivamente nel piccolo intestino attraverso gli spazi paracellulari e secondo
gradiente di concentrazione.
Altra patologia correlata agli IPP è l’osteoporosi, patologia molto diffusa che
colpisce il 16% delle donne ed il 7% degli uomini >50 anni di età.
Sono stati identificati numerosi fattori di rischio predisponenti alle fratture
osteoporotiche: l’etnia, un basso indice di massa corporea, la mancanza di
esercizio fisico ed il sesso femminile.
Studi recenti hanno suggerito che un utilizzo di inibitori di pompa protonica (PPI)
per uno o più anni possa determinare un’aumentata predisposizione alle fratture
osteoporotiche. Uno studio retrospettivo è stato condotto su una coorte di
pazienti residenti in Canada. Sono stati inclusi 15.792 casi di fratture da
osteoporosi correlati a 47.289 controlli. Sono stati definiti casi di pazienti di età
>=50 anni visitati, con diagnosi di frattura vertebrale, del polso o dell’anca dal
1996 al 2004. Sono stati esclusi i pazienti in terapia con principi attivi
osteoprotettivi nell’anno precedente la frattura. Ogni caso è stato correlato a tre
controlli, paragonabili per età, sesso, etnia, comorbidità e senza storia di fratture.
Dal momento che la correlazione tra utilizzo di PPI e fratture osteoporotiche
sembra essere più forte in caso di esposizione continua al farmaco, i casi ed i
controlli sono stati raggruppati sulla base della durata totale dell’esposizione ai
PPI. Outcome primario dello studio è stato valutare se la comparsa di una frattura
osteoporotica potesse essere correlata alla durata dell’esposizione continua a PPI.
È stata valutata la forza dell’associazione tra l’esposizione continua a PPI e la
comparsa di fratture combinate anca-colonna vertebrale piuttosto che frattura di
anca isolata. Dall’analisi statistica elaborata dagi Autori è stata comunque
evidenziata una correlazione tra un utilizzo cronico di PPI per un periodo >=7
anni e la comparsa di fratture osteoporotiche; la frattura dell’anca è correlata ad
un utilizzo >=5 anni, mentre l’utilizzo a breve termine di questi farmaci non
sembra aumentare il rischio di frattura.
Si evidenzia che lo studio presenta alcuni limiti tra i quali la mancanza di dati
antropomorfici e di informazioni circa l’utilizzo concomitante di calcio, vitamina D,
fumo di sigaretta o abuso alcolico che possono essere fattori confondenti.
Inoltre, non è stato possibile stabilire se i PPI aumentino il rischio di fratture,
perché alterano il metabolismo osseo o per mero aumento del rischio di cadute.
Infine, come per ogni studio osservazionale, potrebbero esserci dei fattori
confondenti tra casi e controlli in grado di alterare i risultati dello studio stesso.
Il meccanismo attraverso il quale i PPI aumentano il rischio di frattura non è
ancora del tutto chiarito, anche se verosimilmente potrebbe essere correlato
all’inibizione della secrezione acida gastrica quale fattore favorente la perdita
ossea, attraverso la riduzione dell’assorbimento intestinale di calcio (il calcio
carbonato, maggior fonte di calcio assunta con la dieta, è insolubile ad elevati
valori di pH).
Inoltre, sembra che i PPI siano in grado di inibire anche la pompa H+/ATPasi
presente sulla membrana cellulare degli osteoclasti.
Conclusioni
Il rischio di fratture osteoporotiche in pazienti in terapia cronica con PPI impone la
necessità di un utilizzo ponderato di questi farmaci, anche se sono necessari studi
prospettici o trial randomizzati e controllati per confermare tale correlazione.
Nota informativa redatta a cura del Responsabile Locale della Farmacovigilanza per conto dell’ASL di Brescia
Dr.ssa Sandrina Masiello
Tel.030/3839235 Fax 030/3839327
([email protected])