Rifigurare la Parola trasmessa. Una comprensione storico
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Rifigurare la Parola trasmessa. Una comprensione storico
RSB 2_2015_IV bozza.qxp 8-06-2015 16:43 Pagina 5 GIUSEPPE BELLIA Rifigurare la Parola trasmessa. Una comprensione storico-teologica del canone Approfondire la trasmissione della Parola nelle prime comunità cristiane significa in concreto analizzare le forme della comunicazione della fede adottate dentro e fuori la Chiesa delle origini, come anche avere una conoscenza dei peculiari modi comunicativi dell’ultimo autorivelarsi di Dio nella storia dell’uomo, com’è testimoniato nel Nuovo Testamento (cf. Eb 1,1-2). Argomento arduo, complesso, che impegna il ricercatore su diversi piani, su quello storico e antropologico e su quello teologico, o meglio teologale. Da una parte, deve coniugare la diveniente realtà del comunicare umano, prevalentemente trasmesso per mezzo del linguaggio orale e scritto, con l’effettiva sociologia della comunicazione attuata dalle situate comunità di credenti; dall’altra, deve impegnarsi a conoscere la trasmissione della fede nella sua oggettiva attinenza con l’indisponibile verità teologale di un Dio che si rivela. Su questo aspetto e sulle implicazioni che comporta con il piano storico ed esegetico della trasmissione della Parola, argomenti affrontati in questo numero monografico con misura e competenza da diversi esperti, vorrei proporre alcune brevi riflessioni di teologia biblica. In particolare mi sembra utile richiamare l’attenzione sul nesso procedurale che collega il passaggio dall’oralità alla scrittura, attraverso il racconto, forma poetica della storia, per stabilirsi nel libro sacro come forma poetica della rivelazione e quindi al suo naturale e progressivo costituirsi come corpus normativo della fede ecclesiale. Giustamente è stato osservato che la comunicazione biblica della fede non può ridursi a informazione di un insieme di idee più o meno accettabili dalla ragione o a descrizione di soluzioni appetibili per risolvere i problemi della vita. Trasmettere la parola della fede significa comunicare un’esperienza viva di relazione con un Dio che parla all’uomo attraverso l’uomo, attraverso la storia d’Israele, attraverso l’umanità del Cristo, attraverso la Chiesa, suo corpo storico-sacramentale.1 La rivelazione non è riducibile ai concetti umani e la forma scritta della parola non esau- 1 Per R. GUARDINI, Il Signore, Milano 2005, 721, la fede cristiana richiede di «assumere Cristo come criterio di misura del reale e del possibile»; G. BELLIA, «Dalla parola al corpo: la storia. Per una lettura biblica del farsi Chiesa», in R. LA DELFA (ed.), Il compiersi del corpo ecclesiale. «Mi hai preparato un corpo» (Eb 10,5), Roma 2011, 100-128. 5 RSB 2_2015_IV bozza.qxp 8-06-2015 16:43 Pagina 6 risce la potenzialità dei significati comunicati. La trasmissione della Parola impegnava le Chiese e i credenti a rendere plausibile la fede senza addomesticare la verità scandalosa della rivelazione che nel suo nucleo più recondito non rispondeva ai criteri totalizzanti della razionalità gnostica. Ed è in questo inevitabile scarto tra rivelazione e inevidenza che l’esperienza della fede nel comunicarsi oralmente è divenuta racconto e quindi testo scritto, è divenuta libro. In questo passaggio si attivava una dinamica comunicativa con l’uditore/lettore, sollecitato ad ascoltare/leggere e interpretare una parola, un testo, un libro che, a sua volta, interpellava, leggeva e interpretava lo stesso uditore/lettore.2 Si realizzava così il potere immaginativo del racconto inteso come forma poetica capace di generare conoscenze nuove, vitali e tuttavia non facilmente omologabili e perciò inquietanti perché vanno oltre gli orizzonti culturali della critica storica e di là dei confini noetici segnati dai poteri interpretativi egemoni.3 LA SCRITTURA FORMA POETICA DELLA RIVELAZIONE Il percorso che conduce la Parola rivelata a oggettivarsi ben presto nelle pagine di un libro non nasce da richieste o apprensioni autoritative, ma risponde alla dinamica costitutiva della stessa fede in un processo che, nella Bibbia ma anche nella persona di Cristo, passa attraverso il linguaggio verbale per condensarsi nella forma narrativa. Si può supporre che, nella trasmissione orale, la potenzialità della parola comunicata avesse un’amplificazione e un’enfatizzazione molto coinvolgenti.4 Tuttavia, in una prospettiva estetica, è nella struttura del racconto che l’esperienza trasmessa della fede ha trovato la forma poetica più adeguata e coerente con la trama storica disegnata dalla storia della rivelazione. Lo schema tripartito dell’ermeneutica del testo, elaborato da Paul Ricoeur, permette di cogliere la scansione temporale di questo naturale processo antropologico, aiutandoci a comprendere come la trasmissione della Parola diviene narrazione per approdare al testo scritto e continuare la sua corsa entrando nel mondo del lettore.5 Nella visione ricoeuriana, il racconto in- 2 E. PARMENTIER, «Dieu a des histoires. La dimension théologique de la narrativité», in D. MARGUERAT (ed.), La Bible en récit. L’exégèse biblique à l’heure du lecteur. Colloque international d’analyse narrative des textes de la Bible, Genève 2003; E. STEFFEK – Y. BOURQUIN (edd.), Raconter, interpréter, annoncer. Parcours de Nouveau Testament. Mélanges offerts à Daniel Marguerat pour son 60° anniversaire, Genève 2003. 3 R. ALTER parla di «ottusità di certe preoccupazioni accademiche a proposito di una presunta precisione storica»: L’arte della poesia biblica, Roma-Cinisello Balsamo (MI) 2011, 81; ID., L’arte della narrativa biblica, Brescia 1990. 4 Per J.D.G. DUNN, Gli albori del Cristianesimo. 1. La memoria di Gesù. I. Fede e Gesù storico, Brescia 2006, 253-268, la tradizione orale risalirebbe allo stesso ministero itinerante di Gesù. Per R. GUARDINI, L’essenza del cristianesimo, Brescia 1989, 83, «un contenuto dottrinale è cristiano se viene dalla bocca di Cristo». 5 P. RICOEUR, Tempo e racconto. I, Milano 1986; Tempo e racconto. II. La configurazione del racconto di finzione, Milano 1987; Tempo e racconto. III. Il tempo raccontato, Mi- 6 RSB 2_2015_IV bozza.qxp 8-06-2015 16:43 Pagina 7 teso aristotelicamente come mythos e mimesis si rapporta alla nozione di tempo, elaborata da Agostino, secondo una triplice partitura mimetica. Nell’esperienza della fede si ha il presupposto del racconto, il tempo prefigurato; nell’articolata narrazione della creazione poetica c’è il tempo configurato; mentre negli effetti prodotti dalla lettura ricettiva del testo nel lettore si ha il tempo rifigurato. È nel momento della configurazione mimetica, quello della «costruzione dell’intrigo», che il racconto storico s’intreccia con il racconto di finzione di cui lo storiografo si serve per dare consequenzialità a una trama storica di un passato di cui non dispone appieno.6 Nello stesso tempo l’immaginazione poetica si serve della configurazione della storia per dare consistenza e sensatezza alla sua opera di finzione. Attraverso il racconto, che mette in relazione autore e lettore, si crea quindi un vero circolo ermeneutico tra narrazione e tempo che implica il contatto tra storia e finzione nella necessaria e conseguente rifigurazione operata dal lettore. Il racconto si rivela quindi come la forma poetica della storia, consentendo al lettore di riferirsi al tempo narrato per interpretare la propria storia e rinarrarla a sua volta.7 Questo processo dinamico può essere intravisto e applicato anche al racconto sacro e in particolare a quella raccolta di testi sacri che costituiscono il «grande codice» o, meglio, il canone della trasmissione della fede.8 Si potrà allora leggere il grande e unitario racconto della Bibbia come la forma poetica della rivelazione.9 La sacra Scrittura prospetta dunque lo stesso intreccio di storia e finzione, non soltanto raccontando la storia della salvezza ma anche collaborando a realizzarla, trasmettendo una parola che invita e orienta l’uditore/lettore a rifigurare la propria esistenza con la risposta della fede, con la responsabilità della conversione.10 Si deve però evidenziare, non solo graficamente, che il beneficiario reale della trasmissione della Parola all’interno della struttura sociale e culturale della Chiesa antica, dato l’assai limitato livello di alfabetizzazione del lano 1988; ID., Il conflitto delle interpretazioni, Milano 1972; ID., La memoria, la storia, l’oblio, Milano 2003; ID., «L’identité narrative», in P. BÜHLER – J.-F. HABERMACHER (edd.), La narration. Quand le récit devient communication (Lieux théologiques 12), Genève 1988, 287-300. Cf. A. GESCHÉ, Dio per pensare. Il Cristo, Cinisello Balsamo (MI) 2003, 59-142. 6 RICOEUR, Tempo e racconto. I, 143-332; sulla «referenza incrociata» tra racconto storico e racconto di finzione, vedi Tempo e racconto III. Il tempo racconto, 154-157.279-295. 7 Per DUNN, Gli albori del cristianesimo, 1.I, 265, «gli ascoltatori di un vangelo sarebbero da considerarsi parte della trasmissione orale/uditiva che veniva rinarrata in altre cerchie di oralità». Per RICOEUR, Tempo e racconto. III. Il tempo raccontato, 369, «non ci sarebbe tempo pensato se non raccontato». 8 G. SEGALLA, «Unità della Scrittura? Per una teologia del canone biblico», in Teologia 31(2006), 276-284. 9 G. BONACCORSO, L’estetica del rito. Sentire Dio nell’arte, Cinisello Balsamo (MI) 2013, 78-86, in part. 83-86; vedi anche ID., Il corpo di Dio. Vita e senso della vita, Assisi 2006, 133-148; ID., «La comunicazione della fede. Introduzione metodologica», in P. CIARDELLA – S. MAGGIANI (edd.), La fede e la sua comunicazione, Bologna 2006, 41-43. 10 W. BOOTH, The Company we keep. The Ethics of Fiction, Berkeley, CA 1988. 7 RSB 2_2015_IV bozza.qxp 8-06-2015 16:43 Pagina 8 mondo greco-romano, non era un lettore quanto piuttosto un uditore.11 Osservazione necessaria perché permette di rimarcare una fenomenologia in genere sottaciuta: la configurazione, come scrittura del racconto, si colloca tra i poli di una realtà antropologica che trova nella corporeità dell’espressione verbale, nella «potenza della parola parlata», la propria e congenita ambientazione di origine e di destinazione. Realtà inevitabile nel mondo antico che collegava, mediante il testo, il «corpo» del locutore/autore al «corpo» dell’uditore/lettore.12 La comunicazione orale e l’oralità avevano dunque una funzione costitutiva e non accessoria nella trasmissione della Parola.13 Ha ragione Roberto Vignolo nel far notare che «lo studio delle tradizioni orali connaturalmente soggiacenti ai testi deve rendere avvertiti di questa dimensione costitutiva della parola biblica, la cui attestazione scritta respira ancora del retrostante atto di parola che la genera, ovviamente irriproducibile nella sua primitiva ricchezza referenziale, ma ancora vibrante della sua più antica traccia di oralità, di cui la più limitata referenzialità testuale resta in ogni caso ben intrisa».14 L’atto della scrittura, oggettivando l’esperienza religiosa dell’incontro con Dio, dona alla parola di rivivere una nuova corporeità, giungendo al destinatario come «discorso emancipato dalla propria originaria fonte di produzione, rispetto alla voce smagrito in enfasi, ma cresciuto in sapienza autoriflessiva», assicurando alla Parola tramandata un’universale e più garantita accessibilità.15 È verosimile che questo sia accaduto nei primi due secoli dell’era cristiana. La stessa rapida divulgazione del vangelo, la sua capillare diffusione all’interno del mondo greco-romano è avvenuta attraverso le distinte, ma non contrapposte, strutture comunicative dell’oralità e della 11 H.Y. GAMBLE, Libri e lettori nella chiesa antica, Brescia 2006, 18-29. Vedi anche il diverso parere di M. JAFFEE, Torah in the Mouth. Writing and Oral Tradition in Palestinian Judaism, 200 BCE – 400 CE, Oxford 2001, 14-19; T. THATCHER, «Beyond Texts and Traditions: Werner Kelber’s Media History of Christian Origins», in ID. (ed.), Jesus the Voice and the Text. Beyond The Oral and the Written Gospel, Waco, TX 2008, 1-26. 12 W. J. ONG, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Bologna 1982, 60; ID., La presenza della parola, Bologna 1970; ID., Interfacce della parola, Bologna 1990. 13 Cf. J. VANSINA, La tradizione orale. Saggio di metodologia storica, Roma 1976; L.-J. CALVET, La tradition orale, Paris 1997; E.A. HAVELOCK, La Musa impara a scrivere, Roma-Bari 1987; ID., Cultura orale e civiltà della scrittura: da Omero a Platone, Roma-Bari 1995; P. ZUMTHOR, La presenza della voce: introduzione alla poesia orale, Bologna 1984. 14 R. VIGNOLO, «La parola, il libro, la vita. La testimonianza scritturistica come trasmissione della fede», in CIARDELLA – MAGGIANI (edd.), La fede e la sua comunicazione, 48; ID., Metodi, ermeneutica, statuto del testo biblico. Riflessioni a partire da «L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa», in G. ANGELINI (ed.), La rivelazione attestata. La Bibbia tra Testo e Teologia, Milano 1998, 29-97; ID., «Scripturae secundum Scripturas. Valenza narrativa e riflessiva del Libro nella Torah e nei Profeti Anteriori. Per una fenomenologia del testo biblico tra poetica e teologia», in RStB XII(2001)1-2, 27-83. 15 VIGNOLO, «La parola, il libro, la vita», 48-49; J.P. FOKKELMAN, Come leggere un racconto biblico. Guida pratica alla narrativa biblica, Bologna 2002, 203-205. 8 RSB 2_2015_IV bozza.qxp 8-06-2015 16:43 Pagina 9 scrittura, congiunte in un consequenziale processo d’integrazione e di rifigurazione. Un fenomeno peraltro già conosciuto e praticato in Israele in piena età monarchica, com’è testimoniato dalla vivace opposizione profetica e dalla tradizione deuteronomica.16 DAL RACCONTO ORALE ALLA PAROLA RIFIGURATA La dinamica tra parola tramandata oralmente e parola trascritta in un testo è divenuta di recente attuale nell’ermeneutica biblica interessata a conoscere quando e come sia avvenuto il passaggio dall’oralità alla scrittura. La teologia biblica in particolare si è sentita chiamata in causa dalla conoscenza del valore fondante e non accidentale della dimensione orale, ancora operante nella tradizione rabbinica, tenace testimone della centralità della Torah orale.17 L’interesse per la trasmissione orale, per quanto sia stato in qualche modo sempre presente negli studi biblici, in realtà si accontentava in passato di spiegazioni ovvie e sommarie, tutte modellate secondo un’impostazione letteraria e ideologica che faceva affidamento sul consenso critico raggiunto dalla ricerca. Oggi però, per l’irrompere di metodologie che hanno spiazzato la supremazia dei tradizionali approcci storico-critici occidentali, per una maggiore conoscenza del giudaismo del Secondo Tempio, per l’attuale riflessione critica della filosofia o antropologia del linguaggio e per una mutata sensibilità liturgico-pastorale nella prassi delle comunità cristiane, di quel consenso è rimasto ben poco. Il sapere critico moderno ritiene che la genesi della Bibbia, il suo formarsi come corpus scritturale si siano realizzati attraverso diversi e successivi stadi redazionali, ricostruibili con una rigorosa metodologia storico-critica, coadiuvata dall’apporto dell’analisi retorica e sorretta dal 16 R. ALBERTZ, Storia della religione nell’Israele antico. I. Dalle origini alla fine dell’età monarchica, Brescia 2005, 263-291; ID., Geschichte und Theologie: Studien zur Exegese des Alten Testaments und zur Religionsgeschichte Israels, Berlin 2003, 135-156; J.-P. SONNET, The Book within the Book. Writing in Deuteronomy, Leiden 1997. 17 Alcuni studiosi di fede ebraica, ritenuti «prescientifici» dagli esegeti occidentali, hanno esaltato la peculiarità e la centralità della trasmissione orale nell’ebraismo. Riprendendo le procedure ermeneutiche della tradizione rabbinica, facevano scaturire il senso profondo di ogni conoscenza biblica dal ricorso della Torah scritta (Torah she-bi-ktav) alla Torah orale (Torah she-be-‘al pe) e dalla loro connessione. La Torah orale era anzi considerata come il fondamento e la continuità della rivelazione: E.E. URBACH, The Sages, Their Concepts and Beliefs, Jerusalem 1979, 286-314. Vedi inoltre U. CASSUTO, The Documentary Hypothesis and the Composition of the Pentateuch: Eight Lectures, Jerusalem 1961 (originale ebraico 1941); ID., A Commentary on the Book of Genesis, 2 voll., Jerusalem 1961-1964; ID., Biblical and Oriental Studies II, Jerusalem 1973-1975. La peculiarità della visione ebraica, in polemica con la «sostituzione cristiana», è riaffermata da J.D. LEVENSON, The Hebrew Bible, the Old Testament, and Historical Criticism: Jews and Christians in Biblical Studies, Louisville, KY 1993, 33-61; ID., The Death and Resurrection of the Beloved Son: The Transformation of Child Sacrifice in Judaism and Christianity, New Haven 1993. 9 RSB 2_2015_IV bozza.qxp 8-06-2015 16:43 Pagina 10 contributo degli approcci umanistici e contestuali. Con poche eccezioni, come nel caso della scuola scandinava (Nyberg, Engnell, Nielsen), meno investigato è stato lo stadio orale della Bibbia, convenendo per lo più gli studi biblici sul fatto che, per ogni testo, si doveva ipotizzare un previo e indeterminato periodo di transizione dall’oralità alla scrittura.18 La letteratura orale era vista come la necessaria e intricata preistoria del testo, ma rimanevano generiche e insoddisfacenti le argomentazioni addotte per spiegare il concreto passaggio dalla mentalità orale, considerata in genere primitiva e arcaica, al raffinato e composito mondo letterario della Bibbia scritta. In dettaglio si sono rivelate inadeguate a cogliere la peculiarità della cultura e della sensibilità biblica, ebraica e protocristiana, soprattutto per la diversa prospettiva ermeneutica elaborata dalla modernità. La coscienza moderna occidentale, erede del pesante retaggio cartesiano, interpreta i linguaggi, scritti e orali, come oggetti neutri a se stanti, come funzionali strumenti di trasmissione dei contenuti mentali, assegnando un valore assoluto e totalizzante al primato noetico nella convinzione che la varietà del reale sia riconducibile a un principio unitario.19 La tradizione biblica, tanto dell’Antico quanto del Nuovo Testamento, mostra una visione molto distante dalla mentalità raziocinante della cultura occidentale, perché non si preoccupa di ridurre a unità i molteplici e differenti aspetti della realtà raccontata. Ancor meno è tentata di appiattire la realtà velata della rivelazione, il mistero dell’autorivelarsi di Dio ai contenuti noetici della forma scritta. La Bibbia, infatti, non solo contiene e rivela quanto serve a comprendere la storia della salvezza, ma come forma poetica della rivelazione collabora a operare la stessa salvezza che annuncia e racconta. Il passaggio dal linguaggio orale alla forma scritta è dunque costitutivo di quel processo di rifigurazione che generazioni di credenti hanno consegnato nelle pagine bibliche con timbro polifonico, raccontandolo poeticamente in molti modi. Come rogito notarile di un patto vincolante (Dt 31,24 e Gs 24,26), come precisa disposizione divina consegnata al profeta (Ger 30,2), come memoriale 18 Cf. K.I.A. ENGNELL, «Methodological Aspects of Old Testament Study», in VTS 7(1960), 13-30; ID., The Pentateuch. A Rigid Scrutiny, Nashville, TN 1969; E. NIELSEN, Oral Tradition: A Modern Problem in Old Testament Introduction, London 1954; J. D. NILES, «Understanding Beowulf. Oral Poetry Acts», in Journal of American Folklore 106(1993), 131-155. 19 Per C. THEOBALD, «Jésus n’est pas seul», in P. GIBERT – C. THEOBALD (edd.), Le cas Jésus Christ. Exégètes, historiens et théologiens en confrontation, Paris 2002, 388: «La storia delle tre ricerche sul Gesù storico è intimamente legata al destino della ragione in Occidente». La tradizione dualista, riproposta con la dicotomia cartesiana mente-corpo, ha ingenerato nel pensiero occidentale la consuetudine di considerare il reale nell’ottica dell’unità concettuale; tutta la realtà sensibile è posta sotto il dominio della parte intelligibile dell’uomo, riducendo tutte le cose a meri strumenti, lasciati all’arbitrio della ratio umana: G. BATESON, Verso un’ecologia della mente, Milano 41984; ID., Mente e natura. Un’unità necessaria, Milano 1984; Z. BAUMAN, Modernità liquida, Roma-Bari 2002; ID., La società individualizzata, Bologna 2002. 10 RSB 2_2015_IV bozza.qxp 8-06-2015 16:43 Pagina 11 dell’impegno preso da Dio con i suoi poveri (Ml 3,16), come inno di ringraziamento del messia (Sal 40,7-9) o con l’afflato cosmico contemplato da Ben Sira che vede la sapienza farsi libro (24,1-23). Nel Nuovo Testamento questo passaggio è testimoniato dalla successione di generazioni che si costituiscono in libro (Mt 1,1), dall’acribia diegetica dell’autore del terzo Vangelo (Lc 1,1-4), dall’affabile vena narrativa del discepolo amato (Gv 20,30), nella solenne celebrazione liturgica della Lettera agli Ebrei (10,7) o dal pathos poetico del visionario dell’isola di Patmos (Ap 1,11).20 Lo studio della Bibbia, vista come coralità polifonica di testi relazionati tra loro nel loro specifico ambiente comunicativo, negli ultimi decenni, ha inciso non poco nel lavoro interpretativo di esegeti e di storici. Ha indicato nuove strade per le teologie della Bibbia e per la stessa teologia biblica.21 Quest’ultima, per interpretare un Umwelt culturale segnato da numerose e differenti tipicità, deve compiere un deciso mutamento di prospettiva, accettando la dimensione della molteplicità per muoversi sotto la copertura epistemologica del paradigma della complessità. Deve cioè esercitarsi a spiegare la parte col tutto, concentrando l’attenzione non sull’oggetto conosciuto o sul soggetto conoscente ma sulla relazione intenzionale del loro reciproco rapportarsi che pone al centro l’intero processo conoscitivo e non soltanto una sua parte.22 Nelle Scritture, l’epistemologia della complessità prospetta un modello interpretativo attento, oltre che al pluralismo metodico ed ermeneutico, anche al pluralismo di fede delle comunità credenti. Non considerate però solo alla luce delle concrete procedure di trasmissione della Parola conosciute dalle singole comunità, ma rapportate alla totalità della fede condivisa e quindi inevitabilmente a un canone.23 Esige quindi una contaminazione di generi e di culture, una traversabilità degli antichi confini tra i vari saperi che va ben oltre la semplice e impersonale adozione dei nuovi modelli di ricerca.24 La teologia biblica, per sua parte, è impegnata a rispettare e accordare lo spessore antropologico dello scritto con la sua oggettiva pro- 20 Cf. R. ALTER, L’arte della poesia biblica, Roma-Cinisello Balsamo (MI) 2011, 50-102. Si veda, ad esempio, l’avvincente interpretazione unitaria data al Salterio dall’approccio canonico: E. ZENGER, «Dai salmi al Salterio. Nuove vie della ricerca», in RivB 58(2010), 5-34; R. VIGNOLO, «Teologia biblica e teologia della Bibbia e dintorni», in RivB 56(2008), 129-155. 22 E. MORIN, Introduzione al pensiero complesso, Milano 1993; ID., «Le vie della complessità», in G. BOCCHI – M. CERUTI (edd.), La sfida della complessità, Milano 2007, 6183; ID., La sfida della complessità, a cura di A. ANSELMO e G. GEMBILLO, Firenze 2011. 23 C. THÉOBALD, «Le canon des Écritures. L’enjeu d’un «conflit des facultés», in ID. (ed.), Le Canon des Écritures. Études historiques, exégétiques et systématiques, Paris 1990, 13-73; T. SÖDING, Einheit der Heiligen Schrift? Zur Theologie des biblischen Kanons, Freiburg 2005, 402. 24 BATESON, Mente e natura, 285 mette in guardia sull’abbaglio epistemologico della cultura postmoderna in ambito accademico: «Mentre buona parte di ciò che le università insegnano oggi è nuovo e aggiornato, i presupposti o le premesse di pensiero su cui si basa tutto il nostro insegnamento sono antiquati e, a mio parere, obsoleti». 21 11 RSB 2_2015_IV bozza.qxp 8-06-2015 16:43 Pagina 12 pensione teologica. Deve cioè saper cogliere le costanti e le peculiarità del laborioso processo di trasmissione storico-culturale che dall’originaria enunciazione orale è approdato alla scrittura dei libri biblici, senza misconoscere le pretese di verità e i modelli di realtà presenti nel testo sacro.25 Nella Bibbia, Dio non solo agisce ma per prima cosa e di continuo parla.26 Una parola di autorivelazione divina che, seppure affidata a un contesto relazionale storicamente dato, resta sempre avvolta nel mistero, non essendo riducibile a evidenze concettuali e alle stesse parole in cui si consegna.27 Nella Bibbia resta sempre un’ultima pagina da sfogliare. VERSO LA QUALITÀ CANONICA DELLE SCRITTURE La Parola, ricordava Walter Brueggemann, è consegnata alla Chiesa e non alla corporazione critica, sempre propensa a ricercare «forme di accomodamento a una più ampia razionalità, sia della modernità, sia del cristianesimo classico». Precisazione che illustra i modi dominanti di conoscenza della critica storica, incapace di assumere l’oggetto teologico proprio della Scrittura come autorivelazione di Dio e perciò inidonea a comprendere la Wirkungsgeschichte propria della Parola.28 Anche se non sono convincenti le proposte di Childs per una lettura canonica dell’AT, troppo tesa a rendere testimonianza a Cristo, restano condivisibili le sue critiche sull’opera di distorsione e di frammentazione compiuta dalla critica storica, incapace di far dialogare i due Testamenti e, soprattutto, refrattaria a leggere ogni singolo testo alla luce del tutto.29 La Bibbia allora si risolve in una congerie di libri disparati, in una raccolta confusa di 25 K. BARTH, Dogmatica ecclesiale, Bologna 1968, ammoniva che non si dà una storia del tutto innocente, neutrale, scevra d’intenzionalità; il mitema dell’interpretazione disinteressata è solo un’illusione dell’illuminismo perché ogni ricerca si basa su conoscenze fiduciarie: cf. M. POLANYI, Conoscenza personale. Verso una filosofia post-critica, Milano 1998. 26 Osservazione richiamata con forza da J. BARR, The Concept of History and Revelation, in Old and New in Interpretation: A Study of the Two Testaments, London 1966, 65-102; ID., «Revelation through History in the Old Testament and in Modern Theology», in Interpretation 17(1993), 193-205. 27 Per P. Beauchamp, la teologia biblica che sente l’istanza di una lettura razionale, avverte l’esigenza di fondare una esegesi su una certezza di fede, «vale a dire negando alla scienza l’ultima parola»: E. FAINI GATTESCHI (ed.), Il libro e l’uomo. Colloquio con P. Beauchamp, Milano 2001, 50. 28 W. BRUEGGEMANN, Teologia dell’Antico Testamento. Testimonianza, dibattimento, perorazione, Brescia 2002, 121; ha denunciato più volte le influenze ideologiche e gli interessi contingenti nell’opera di esegeti e storici (33, 41, 71, 91-92), non perché non possano essere neutrali, «ma perché disobbediscono apertamente al soggetto che dichiarano di studiare, vale a dire l’opera e la presenza del Santo Dio che non può essere afferrato con categorie convenzionali e autonome» (p. 33). 29 B.S. CHILDS, Teologia biblica: Antico e Nuovo Testamento, Casale Monferrato (AL) 1998, 25-42 e 71-113; cf. A.M. ARTOLA – J.M. SANCHEZ CARO, Bibbia e parola di Dio, Brescia 1994, 53-115; B.M. METZGER, The Canon of the New Testament. Its Origin, Development, and Significance, Oxford 1989. 12 RSB 2_2015_IV bozza.qxp 8-06-2015 16:43 Pagina 13 testi messi insieme in modo inconsueto e privo di ordine.30 In realtà la Bibbia lascia trasparire non un disordine ma quello che Rainer Albertz ha chiamato un pluralismo di voci non sempre accordate che mostrano la formazione del canone come un progressivo esercizio di compromesso tra le concezioni dei diversi protagonisti della vita pubblica e religiosa d’Israele nel postesilio.31 Anche Brueggemann sostiene che «la fede d’Israele, non ha un punto di consenso accettato» e non è riducibile a un unico modello esplicativo, perché molto di ciò «che la comunità scientifica ha considerato edizione o redazione» è in realtà un progressivo lavoro di affinamento che cerca di dare maggiore autorevolezza e guadagnare consensi per la propria comprensione della comune tradizione di fede.32 Il dinamismo vero della formazione del canone non è comprensibile riconducendolo al solo piano storico o al solo piano teologico o al loro accordo, perché la Bibbia non è uno schedario inerte di eventi o un raccoglitore di contenuti dottrinali ma è forma originaria della rivelazione che continua nel tempo il compiersi, in Cristo, di quella storia della salvezza che racconta, immerso dunque nel flusso del tempo. E se il racconto «è un modo di trattare questo flusso», la narrazione cui si fa riferimento è però tutta la sacra Scrittura, vista come «cornice intertestuale» che collega tra loro i libri biblici, tessendo un connettivo di concatenazione e d’integrazione all’interno della collezione canonica.33 Il paradigma della complessità, riconoscendo la necessità di interpretare la parte col tutto, spiega perché non un singolo libro o un qualunque scritto poteva pretendere di dare adeguata e fedele testimonianza dell’esperienza della fede. Era quindi inevitabile che la Bibbia, come forma poetica della rivelazione, si venisse a costituire progressivamente come un dispositivo testimoniale, riconosciuto e riconoscibile, come corpus normativo della fede condivisa. Lo stesso ossimoro di un vangelo unico e quadriforme, che testimonia l’unico Gesù in molti racconti, subito accettato dalla Chiesa, segnala che il principio del canone, ben più importante del suo perimetro selettivo di libri, è stato incessantemente operante in una logica intertestuale di complemento e di compimento.34 Un vangelo quadriforme ri- 30 È la critica di W. ZIMMERLI all’esegesi per aver ridotto il Salterio a «un coacervo amorfo di elementi separati», cf. «Zwillingspsalmen», in J. SCHREINER (ed.), Wort, Lied und Gottesspruch: Beiträge zu Psalmen und Propheten. FS J. Ziegler, Würzburg 1972, 111. 31 R. ALBERTZ, Storia della religione nell’Israele antico. II. Dall’esilio ai Maccabei, Brescia 2005, 557-559; 657-663 e 671-673. 32 BRUEGGEMANN, Teologia dell’Antico Testamento, 92; Osservazione analoga per il NT in H.Y. GAMBLE, The New Testament Canon, Philadelphia, PA 1985, 35. 33 ONG, Oralità e Scrittura, 198; VIGNOLO, La parola, il libro, la vita, 53-55; P. GISEL, «Statut de l’Écriture et vérité en christianisme», in RSR 95(2007), 373-392, in part. 379-382. 34 METZGER, The Canon of the New Testament, 262; P. VALLIN, «La formation de la Bible chrétienne», in THÉOBALD (ed.), Le canon des Écritures, 189-236; M. HENGEL, The Four Gospel and the One Gospel of Jesus Christ. An Investigation on the Collection and Origin of the Canonical Gospels, London 2000. 13 RSB 2_2015_IV bozza.qxp 8-06-2015 16:43 Pagina 14 mane per sempre come aporia, paradosso e anomalia per ogni successiva raccolta che aspira a divenire canonica, cioè regola e misura oggettiva della fede della Chiesa stessa, segnalando che ogni racconto, essendo incompleto e imperfetto, apre alla pluralità sinfonica del tutto che interpreta la parte. Il passaggio dall’euagghelion orale alla forma scritta dei vangeli era la naturale distensione narrativa del kerigma originario, un’operazione indispensabile per consegnare una «memoria Jesu» che si dà «solo come “memoria interpretante” ed è accessibile solo come “memoria interpretata”. Il vangelo come Libro scritto è il sedimento creato da questo duplice gesto della comunità primitiva» che apriva ai lettori di ogni tempo e luogo la via di accesso alla stessa esperienza di salvezza annunciata.35 È stata la custodia della memoria Jesu, del suo amore che genera speranza, per i frutti di fedeltà e di consolazione arrecati dalle Scritture (cf. Rm 15,4-5), che ha accompagnato il lento cammino di discernimento verso la qualità testimoniale e normativa della Parola narrata. Il nostro convegno di studi, pur nell’articolazione di diversi percorsi tematici di approfondimento, ha trovato, nella riflessione sul passaggio dall’oralità alla scrittura dei libri neotestamentari, un filo conduttore che ha legato tra loro tutti gli interventi. La lettura storica della trasmissione della Parola, attenta agli aspetti letterari, sociali e culturali, ha evidenziato nell’interpretazione sintonie e contrasti, attingendo a studi di carattere sociale o di storia materiale e, meno, dalla riflessione più propriamente teologica. Nondimeno si segnala a buon diritto nel panorama italiano per l’originalità di contributi che offrono un approfondito confronto critico sulla formazione del corpus cristiano normativo, un tema ancora poco trattato nella nostra ricerca. 35 F.G. BRAMBILLA, «I molti racconti e l’unico Gesù. La memoria Jesu principio di unità e diversità delle narrazioni evangeliche», in AA. VV., Fede, ragione, narrazione. La figura di Gesù e la forma del racconto, Milano 2006, 47-93, qui 92. 14