La mostra intende presentare una serie di opere dle
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La mostra intende presentare una serie di opere dle
La rivoluzione di Caravaggio di Claudio Strinati La mostra intende presentare una serie di opere del Caravaggio che permettano di ricostruirne in modo attendibile la carriera e i risultati conseguiti: la nostra speranza, attraverso una selezione di dipinti certi e fondamentali, è quella di presentare a tutti coloro che vorranno venire a vedere l’esposizione l’immagine più chiara del sommo maestro, da molto tempo circonfuso di una fama e di una gloria che hanno pochi confronti con altri pittori del passato. Il Caravaggio costituisce per la cultura contemporanea una vero e proprio “banco di prova” su cui ciascuno è in grado di esercitarsi, fatto questo che non accade per quasi nessun pittore antecedente l’Impressionismo. Il rapporto tra lo spettatore e il Caravaggio è diverso dal rapporto di qualunque altro artista con coloro che si pongano a osservarne l’opera. Sembra che nel tempo l’incontro con il Caravaggio abbia assunto una rilevanza non solo estetica ma anche psicologica per l’osservatore che mette a nudo la propria anima assecondando un implicito suggerimento dell’artista. Di fronte al Caravaggio non ci si limita a pronunciare il giudizio positivo o negativo ma si manifesta il proprio pensiero a partire dall’opera d’arte. C’è chi ha eletto Michelangelo Merisi a proprio punto di riferimento, chi ne scopre particolari sollecitazioni verso il proprio essere, chi si interroga sulla persona dell’ artista al di là delle solite curiosità per la biografia di chi ha avuto fama e successo nella vita. Al giudizio sul Caravaggio si lega, per lo più, una particolare assunzione di responsabilità in ciò che si dice, quasi che l’opera del maestro obbligasse l’osservatore a una serietà di esame insolita e necessaria. Affermare soltanto il piacere o il dispiacere di trovarsi di fronte al lavoro di un siffatto maestro è troppo poco. Mentre è quasi sempre questo l’ approccio che si ha con l’opera d’ arte. Da qui deriva il desiderio. Caravaggio è oggetto, più di ogni altro maestro antico, di desiderio. Chiunque voglia organizzare una mostra o un evento artistico incentrato sull’arte antica vuole il Caravaggio come supremo esponente dell’arte pittorica occidentale che interessa, peraltro, anche la cultura orientale ansiosa di conoscerlo più di ogni altro maestro. C’è forse soltanto il Botticelli a poter reggere il paragone ed è infatti l’unico altro pittore antico che ha immesso nel suo lavoro una formidabile e imprescindibile componente autobiografica, proprio come sembra che abbia fatto il Caravaggio distinguendosi anche in questo da ogni altro. Il Caravaggio attrae perché si sente che la sua vita e la sua opera sono strettamente e quasi necessariamente connesse. Un tempo questo fatto veniva spiegato in modo semplice e, almeno in apparenza, diretto. Aveva vissuto una vita tragica e disperata, si sosteneva da parte di tanti esegeti, e quindi tale vita era riflessa nella potenza estrema dell’ opera (qualcuno diceva anche nella bruttezza), carica di violenza, di tragedia, di ineluttabile destino, di disperazione. Oggi questa interpretazione è contestata dai maggiori studiosi proprio perché sono emerse tante informazioni e deduzioni che inducono a vedere molto al di là di tale schematica applicazione delle esperienze esistenziali allo spazio estetico. Ma il principio di fondo non è cambiato, è cambiato soltanto il punto di vista da cui il problema viene esaminato. L’autobiografia affascina profondamente e costituisce il fondamento stesso di tradizioni letterarie e filosofiche determinanti per la nostra cultura. La civiltà occidentale dipende dai Dialoghi di Platone e dalla Divina Commedia come dall’Odissea e dal Faust di Goethe. Ma per secoli questa dimensione di autobiografia generante l’opera d’arte non è stata ammessa nella pittura. È impensabile una interpretazione in chiave autobiografica delle opere di Giotto, di Masaccio, persino di Piero delle Francesca. Sembra, invece, di veder trapelare questa dimensione nei maestri supremi del Rinascimento. Appare quasi certa in un personaggio come Michelangelo Buonarroti, forse si manifesta in Leonardo da Vinci, forse in Raffaello. Ma nessuno di questi maestri dice costantemente Io. Lo dice Michelangelo, non tanto nel concreto dell’ opera d’ arte realizzata, quanto in certe poesie sue. Lo afferma sovente Leonardo nei suoi appunti. Chiaramente lo dice solo il Botticelli, sia pure in rarissimi casi come la Natività mistica di Londra, tanto che la sua esperienza appare strana, sconcertante, sbalorditiva, come fuori dal tempo: il suo edonismo evidente è uno schermo al di là del quale si vede un mondo intero che per lo più si volle identificare nella esperienza savonaroliana. Botticelli rappresenta la Divina Commedia e si collega esplicitamente a chi come Dante aveva portato l’autobiografia, immaginaria e nel contempo verissima, al livello della comunicazione universale. E la Commedia, raccogliendo e sviluppando una tradizione letteraria già solidissima nella travagliata Italia, è veramente scritta in prima persona. In Caravaggio ciò che cento anni prima sembrava incerto diventa esplicito, anche se non ci sono le prove di ciò che appare evidente e che cioè la sua opera è in ogni caso una trasposizione nell’opera figurativa del piano esistenziale personale. La vera “rivoluzione” del Caravaggio è qui, non soltanto nei mirabili contrasti di luce e ombra, negli sconcertanti attraversamenti dell’edonismo più esplicito e della cupezza più assoluta, nelle contrapposizioni tra vuoto totale e densità incombente su chi osserva e trema di emozione. La “rivoluzione” è forse nel fatto che il maestro parla di sé dall’inizio alla fine e interroga lo spettatore come mai prima nessuno aveva fatto. In molte opere del Caravaggio i personaggi si rivolgono esplicitamente all’osservatore come l’Amore Vincitore di Berlino, il meraviglioso Bacco degli Uffizi, i Musici del Metropolitan di New York o il cosiddetto S. Giovannino capitolino, e addirittura l’Amore Vincitore ride, cosa anche questa molto insolita nella tradizione iconografica. Caravaggio invece, quando compare in prima persona nelle sue opere, si raffigura mentre si pone di fronte a chi osserva ma non riesce a guardarlo in faccia, come quando esce dalla scena del Martirio di S. Matteo o quando urla di dolore nella testa di Golia del David e Golia della Galleria Borghese. In altri casi le immagini avanzano verso il primo piano perché il discorso del maestro interpreta quel varco esistenziale che non può raggiungere ma verso cui tende esplicitamente. Forse la quintessenza del fascino del lavoro di Caravaggio è nella pretesa di fare autobiografia elevando la propria vicenda a metafora universale, proprio come fece Dante e come fece, in tutt’altro modo ma con altrettanta evidenza, Shakespeare, suo contemporaneo, anche se, restando in ambito letterario, sarebbe più logico avvicinare l’attività caravaggesca alla figura di Giovan Battista Marino, poeta di grande spicco all’epoca anche se oggi molto meno noto, di cui il Merisi fece un ritratto (documentato) finora perduto. Marino, Shakespeare e il Caravaggio erano quasi coetanei e non c’è dubbio che qualcosa unifichi sul serio questi personaggi di eccelsa levatura. Se si ammette infatti che il Caravaggio modificò radicalmente il modo di fare e percepire la pittura, occorre ammettere anche come una tale caratteristica sia altrettanto evidente nel discorso poetico sia di Shakespeare sia di Marino. Su versanti diversi e con qualità ben diverse entrambi i sommi scrittori puntarono sulla frenetica attivazione delle capacità di comprensione del lettore o dello spettatore. Shakespeare e Marino scrivono secondo i principi di un’arte che aggredisce il fruitore frastornandolo, ma nel senso più alto ed esaltante del termine, di immagini, metafore, slanci impetuosi, visioni folgoranti, vere e proprie peregrinazioni nei recessi della mente. Entrambi traggono ispirazione dalla grande tradizione classica per iniettarvi una energia sovrumana che tende a trasfigurare le parole per spremerne una sublime quintessenza che sveli i segreti stessi del vivere. Certo il Marino è oggi ricordato anche per una sorta di eccesso retorico che lo trascinerebbe verso un esasperato formalismo, mentre Shakespeare è l’emblema stesso dell’ uomo moderno che apre gli occhi sui più reconditi ambiti della coscienza, ma è indubbio che i due scrittori siano da considerare come veri simboli di un’epoca intera che sarebbe però temerario definire poi nei termini di “manierismo” o “barocco”. E questo vale anche per il Caravaggio che è infatti non collocabile nelle suddette categorie storiografiche in cui solo con una autentica forzatura potrebbe essere trascinato. Mentre vige per lui l’opposto principio di individuazione del proprio stile e del proprio universo espressivo a partire dall’elemento autobiografico: un principio completamente estraneo alla cultura manierista e inapplicabile al sistema figurativo denominabile come “barocco”, ben lontano dall’essere anche solo adombrato quando il Merisi lasciava questo mondo nel 1610. Ma l’autobiografia di un pittore, come del resto quella di un poeta, di un drammaturgo o di un musicista (forse il Caravaggio subì l’influsso del coevo compositore fiorentino Emilio de’ Cavalieri, precoce esponente del nuovo sistema del “recitar cantando”), la si fa attraverso i personaggi e tutti i personaggi di Caravaggio sono personaggi cercati e trovati da un unico autore che tiene sempre le fila di un discorso unitario e vuole essere percepito così, mettendo duramente alla prova chi lo guarda. Aderire o meno al Caravaggio non è solo una dimostrazione di gusto e competenza ma una presa di possesso di una dimensione della psiche che appartiene a ciascuno e che, a prescindere dai progressi scientifici, tecnici e tecnologici della storia, rimarrà sempre la stessa. Caravaggio di solito è ricordato come il pittore del contrasto tra luce e ombra. Di tali contrasti sono state fornite le più diverse e complementari spiegazioni. È un dato clamoroso del suo stile. Ha certo dei precedenti ma è formulato dal maestro in maniera incomparabile. La sua opera sollecita, di conseguenza, l’interpretazione e le interpretazioni che sono state date dei suoi dipinti sono infatti innumerevoli e affascinanti, quanto e talvolta più delle opere stesse. Interpretare Caravaggio è un atto di potere da parte dell’esegeta stesso perché è chiaro che l’interpretazione della sua opera porta lo studioso a incidere nel giudizio conseguente sulla vita sociale, sui costumi e gli orientamenti di una popolazione, sulle capacità stesse di discernimento degli esseri umani del proprio tempo e del tempo dell’artista. Mai come nel caso del Caravaggio, infatti, la polemica tra gli studiosi ha raggiunto punte così acri e crudeli di astio, diffamazione, accusa vera e propria inerente alla moralità, al senso di giustizia, alla rettitudine dei comportamenti. L’attribuzione di un quadro al Caravaggio, ad esempio, non viene quasi mai formulata con la mentalità e le procedure tipiche di questo tipo di attività. Al contrario può provocare forti e gravi tensioni intellettuali (e non solo tra personalità eminenti), può far emergere alla luce meschinità e grandezze, può incrinare amicizie o provocarne di nuove, può ingenerare sospetti pesanti tra persone che frequentano ambienti analoghi, può essere il fondamento di rapporti costruttivi o distruttivi tra singoli o istituzioni. Detenere un’opera del Caravaggio, a livello sia pubblico sia privato, è un segno di autorità, di prestigio incontrovertibile. Può essere addirittura una colpa in certi casi. Le luci e le ombre sono intrinseche alla ricostruzione della sua personalità e la mostra ha l’ambizione di presentare opere certe che mettano in condizione il visitatore, dal più esperto al meno esperto, di incontrare e conoscere il maestro nel modo migliore. Le opere esposte non sono moltissime ma sono sufficienti per potersi creare una idea precisa del Caravaggio. Il suo stile fu improntato in definitiva a una grande sobrietà fondata sulla scelta di pochi essenziali elementi. E la mostra è stata modellata proprio su questo principio per quel che riguarda la individuazione delle opere. Si è voluto far comprendere nel modo migliore quella idea dell’“andare al sodo” che fu tipica del Caravaggio nel concreto del suo operare, idea nella quale si potrebbe forse intravedere il fondamento della sua immensa grandezza per cui il maestro appare da un lato immediatamente comprensibile e coinvolgente affascinando chiunque sia disposto a vedere le sue opere senza alcuna mediazione di tipo critico o filologico ma parla con altrettanta forza e pregnanza ai sapienti che non cessano, con stupore e ammirazione, di cercare i più complessi e riposti significati nei suoi eccelsi dipinti. Non tutte le opere che sarebbero state indispensabili per rendere questo incontro il più valido possibile sono presenti. Ci sono tre pale sacre fondamentali per avere una idea chiara del percorso del Caravaggio ma assenti dalla mostra perché negate dai detentori. Si tratta della Morte della Vergine che è al Louvre, delle Sette Opere di Misericordia a Napoli presso la chiesa del Pio Monte della Misericordia, della Decollazione del Battista nell’Oratorio annesso alla CoCattedrale di Valletta a Malta. Non ci resta che suggerire al visitatore appassionato di cogliere l’occasione delle celebrazioni promosse dal Comitato Nazionale istituito dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali per fare un viaggio a Parigi, uno a Napoli e uno a Malta per andare a vedere queste tre opere capitali su cui poter verificare ciò che ha appreso nella nostra mostra. Ciò che si vorrebbe venisse colto in questa straordinaria occasione espositiva è il poter guardare il Caravaggio nel modo migliore e più esatto. Le attribuzioni sono sovente discutibili e difficili, le interpretazioni sono talvolta persino opposte di fronte a capolavori assoluti. E proprio questo si vorrebbe che la mostra aiutasse a comprendere: l’indiscutibile evidenza del lavoro del maestro. Gli esperti conoscono bene i problemi caravaggeschi, sempre enumerati e discussi in tutte le pubblicazioni serie sul Merisi. Non è necessario ribadirli in questa sede. Si può solo notare come del Caravaggio si sappia da un lato moltissimo e da un altro pochissimo. Sono innumerevoli i documenti d’archivio che sono stati scoperti sul suo conto o che sono stati collegati alle vicende della sua vita. Ferma restando la difficoltà di interpretare i documenti stessi, è sbalorditivo osservare come manchino comunque documenti sicuri su alcune aspetti fondamentali dell’attività del maestro. Ad esempio, e si tratta di un punto decisivo, nulla si sa della sua giovinezza dal punto di vista storico-artistico se non che fu scolaro del nobile pittore Simone Peterzano. Non è nemmeno possibile capire quali fossero i veri rapporti con l’ambiente che ruotava intorno al Peterzano e la cosa resta importante perché si è parlato e si parla spesso con indubbio fondamento dei precedenti lombardi del Caravaggio, con riferimenti a Savoldo, a Moretto, a Romanino, ma non sempre si tiene ben conto del fatto che il Merisi si formò non genericamente nell’area lombarda ma proprio a Milano. Poteva avere maggiore senso una ricerca estesa alle cerchie artistiche di Brescia, Bergamo, Cremona quando si riteneva che Michelangelo Merisi fosse veramente nato a Caravaggio nel bergamasco. Ma, ora che sappiamo per certo, attraverso documenti, che nacque a Milano e lì si formò, cambia anche l’ottica di una possibile ricostruzione della sua prima formazione. Ed è ben probabile che l’alunnato presso il Peterzano non sia stato solo di carattere tecnico ma si sia nutrito anche di quegli apporti intellettuali e figurativi che il Peterzano stesso non poteva non trasmettere a un allievo così valente, ancorché nessuna opera eventualmente prodotta dal Caravaggio in quel tempo sia nota. A Milano era viva la fama dell’Arcimboldi, pur attivo presso la corte imperiale di Praga, a Milano viveva Giovan Paolo Lomazzo che proprio negli anni della formazione del Merisi presso Peterzano stava scrivendo il suo grande trattato sull’arte figurativa, l’Idea del Tempio della pittura, pubblicato nel 1590 e mai sufficientemente lodato come testo di assoluto riferimento per gli artisti lombardi, e non solo lombardi, del tempo. Lomazzo stimava profondamente il Peterzano e i rapporti tra questi due artisti di alto livello sono ben documentati. È logico che il Caravaggio assorbisse prioritariamente da queste figure di eminenti pittori tutta una serie di problematiche che avrebbe poi sviluppato, prima fra tutte proprio quella della luce e dell’ombra centrali nella vita e nella teoria del Lomazzo, pittore dottissimo e divenuto sciaguratamente cieco nel pieno della sua carriera. Nella triste fase finale della sua esistenza il Lomazzo si era a lungo interrogato sugli elementi costitutivi della pittura e potrebbe essere che il Caravaggio abbia constatato con i suoi occhi la sconvolgente esperienza di un pittore che non vede più la luce ma avanza nella consapevolezza attraverso la luce dell’intelletto. Nulla poi si sa di eventuali viaggi, tranne di quelli obbligati dopo l’uccisione di Ranuccio Tomassoni nel 1606 e la conseguente fuga da Roma. E si potrebbe continuare. Ma quel che si vede si sa, sia pure attraverso quella forma peculiare di sapienza che è generata dalla visione. E si capisce bene come il fascino, la difficoltà di comprensione del Caravaggio e la sua capacità di generare il giudizio e la responsabilità siano intrinseci al sistema figurativo da lui messo in atto nel corso di tutta l’esistenza, sia pure tra contraddizioni e dubbi. La contraddizione è quasi implicita in lui. È strutturale al suo pensiero ed egli la mostra perentoriamente. Non è solo il contrasto tra luce e ombra a caratterizzare la sua arte. È il contrasto in sé che il maestro individua e che ha fatto sempre pensare a una trasposizione quasi automatica tra arte e vita nei suoi lavori maggiori. Caravaggio indica in maniera formidabile i momenti di contrasto visivo e su quelli attira l’attenzione di chi guarda, senza che l’osservatore comprenda fino in fondo le ragioni che hanno mosso il pittore in quella direzione tra ripensamenti e rielaborazioni continue. Nella Cappella Contarelli in san Luigi dei Francesi, nel laterale di sinistra Cristo entra nella stanza e tutto nasce da lì, mentre nel laterale di destra Caravaggio in persona esce dalla scena del Martirio come inseguito da una minaccia che incombe e grava pesantemente: l’elementare tema dell’entrata e dell’uscita determina il giudizio estetico orientandolo verso quello morale. Nella Cappella Cerasi in santa Maria del Popolo, nel laterale di sinistra Pietro viene sollevato verso l’alto perché si compia la crocefissione a testa in giù che lo consacrerà santo. Nel laterale di destra Saulo è sdraiato sulla terra e alza le braccia per salire in cielo. I quadri sono ridotti all’osso. Non c’è niente altro se non la salita e la discesa. Alcuni quadri del Caravaggio sono, del resto, simboli attoniti e formidabili dell’idea stessa dell’entrare o uscire di scena. Come il Cupido dormiente Pitti che sembra passare in un’altra dimensione, oltre il quadro stesso. O la Fiscella dell’Ambrosiana che si accampa sul piano dell’esistenza assorbendone la precaria immobilità che non può essere tenuta ferma se non nello spazio estetico. La discesa verso la terra contrapposta all’ansia di salire in cielo è il tema della Deposizione Vaticana, dove il braccio del Cristo cala sulla pietra del sepolcro mentre salgono al cielo le braccia oranti di Maria di Cleofa. Ed è analogo il tema della Madonna di Loreto in S.Agostino, dove la tradizione racconta che il popolo si indignò per i piedi sporchi dei due pellegrini ostentati in primo piano. Naturalmente l’aneddoto non è vero ma il tema della terra dovette realmente impressionare gli osservatori che di piedi ostentati ne avevano già visti una infinità. La Madonna del Riposo Doria Pamphilj dorme china sul suo bambino, seduta a terra, e la testa le cade logicamente verso il basso in uno sfinimento totale e sublime, mentre il marito si gratta i piedi sulla terra pur ascoltando con scrupolo il Cantico dei Cantici in una esecuzione angelica per violino solo. La Madonna dei Palafrenieri, dipinta per S. Pietro e oggi alla Borghese, punta verso terra dove Madre e Bambino schiacciano il serpente. Il Seppellimento di S. Lucia a Siracusa è una cerimonia di interramento dove il gravame vuoto e immane della latomia soprastante induce proprio a scrutare in basso accentuando l’idea del contrasto ancestrale tra il “sopra” che è il buio e il “sotto” che è luce. La Morte della Vergine del Louvre vede il culmine nella figura della donna piangente di cui non si vede il volto, collocata nel punto più basso della solenne adunata che sembra scendere implacabile su un corpo poggiato su un cavalletto. E così i pastori disposti entro un triangolo perfetto nella Adorazione di Messina crollano letteralmente addosso alla madre posata sulla nuda terra. Le Sette Opere di Misericordia di Napoli sono organizzate come in un quadro di proverbi di Bruegel e la Vergine plana dall’alto per scrutare i dolori della terra. La firma unica del Caravaggio come Fra Michelangelo si spande sulla terra nella Decollazione di Malta, scaturendo nel sangue che scorre dalla testa decapitata del Battista. C’è una sostanza strutturale nelle immagini caravaggesche che fa pensare a un monito autobiografico travalicante i concetti di pace e violenza. I veri criteri del Merisi sono forse quelli spiegati dal van Mander nelle due parole scritte su di lui, che giustamente vengono costantemente richiamate dagli esegeti moderni. Che fa il Caravaggio quando il van Mander lo vede a Roma? Lavora intensamente oppure non fa nulla. Consuma la sua vita, almeno in apparenza, nella trascuratezza di sé e degli altri. Non ha altro da fare che dipingere. Ma lo fa quando gli viene voglia. Allora l’opera d’arte sarà per lui il prodotto della necessità e della concentrazione. A livello esistenziale si direbbe un dispersivo che forse non vuole niente di particolare. Se però sono vere certe sue dichiarazioni, la coerenza c’è. Disse, infatti, il Caravaggio, stando alla testimonianza del marchese Vincenzo Giustiniani, che metteva tanto impegno per fare un fiore come per fare una persona. Ma questo si può interpretare in modo contraddittorio. Può voler dire che tutto è alla pari sul piano rappresentativo, come può voler dire che il vero pittore è o può essere sostanzialmente indifferente a cosa si rappresenta perché per lui non ha importanza la rappresentazione della cosa o della persona. Ha importanza invece la rappresentazione in sé che lui chiama “manifattura”, termine in cui si compendiano la capacità tecnica di lavorare e la capacità speculativa di formulare l’ immagine. Ha importanza, insomma, il prodotto in sé e per sé. Dice infatti il Caravaggio, nel processo del 1603, che i bravi pittori rappresentano le cose naturali e può voler dire con ciò che egli è il padre del naturalismo moderno capace di guardare la realtà in modo diretto. Ma, di nuovo, può anche voler dire che non importa cosa si rappresenta: basta che l’obbiettivo dell’artista sia appunto quello di rappresentare, cioè di costruire un universo di immagini che equivalgano a una qualsivoglia idea di reale e che facciano, ancora una volta, sistema a sé. Non è detto che per il Caravaggio debba funzionare per forza il parallelismo, in ogni caso molto suggestivo e convincente, con Galileo e l’Accademia dei Lincei ma è indubbio che il senso profondo del lavoro del Merisi nel suo complesso e nei suoi dettagli sia nel richiamo alla responsabilità dell’artista. Bravo artista è chi si sente responsabile di ciò che fa perché in tal modo onora il fine supremo dell’ arte: rappresentare, anzi rappresentarci. Non siamo tutti uguali però e l’ esercizio del mestiere dell’ artista può essere democratico fino a un certo punto, come la Democrazia stessa, del resto, che è tale solo a condizione di porre delle limitazioni ai suoi stessi criteri. Nessun artista, in nessun momento della Storia, potrà mai rappresentare una intera “popolazione”, categoria comunque priva di reale fondamento. Ma non è vero neanche il contrario e che cioè la società, qualunque società, sia fatta di singoli individui tutti diversi e incomunicanti. L’ipotesi caravaggesca è proprio quella che oggi si chiama della “comunicazione”. L’arte non può arrivare a tutti, questo è ovvio, ma di tempo in tempo può porsi l’obbiettivo di mandare i messaggi più ampi consentiti dalle circostanze storico-politiche in cui si trova a operare. È lo strumento che può incidere sul mondo più di qualunque altro perché si espande su grandi aree e in molte direzioni. Il Caravaggio per primo intuì che la dimensione autobiografica è l’arma per antonomasia che apre il passaggio a un flusso comunicativo immenso in grado di arrivare a chiunque viva l’esperienza estetica. L’esperienza estetica, così filtrata e concepita, la vivono tutti. È la democrazia in sé, scaturita da una mente aristocratica che scruta i segni di tutte le cose sparpagliate in un universo caotico e disordinato il cui destino è un perpetuo andirivieni di precarietà e stabilità di cui l’arte può essere talvolta unità di misura.