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M arocco
Mohammed VI, re del Marocco, durante una
cerimonia per il dodicesimo anniversario
della sua ascesa al trono, a Tetouan,
vicino a Tangeri, il 31 luglio 2011
Quando tradizione e modernità
Ha riformato la Costituzione dopo la “primavera araba”,
con il consenso del popolo e mantenendo la monarchia.
«Il Marocco gioca il gioco della democrazia, sapendo che
non c’è sulla terra una città ideale. Abbiamo reso lingua ufficiale
l’amazigh, quella di sant’Agostino».
Incontro con Hassan Abouyoub, più volte ministro
e parlamentare, oggi ambasciatore in Italia
di Hassan Abouyoub
ra tutti i Paesi della regione
araba mediterranea, il Marocco è l’unico che dopo l’indipendenza del 1956 ha avuto una
Costituzione basata su multipartitismo, libertà sindacale e diritto d’associazione. Una peculiarità che ha
una lunga storia: la nostra monarchia dura da quasi 1.400 anni e la
nostra ultima Costituzione, approvata dal referendum popolare del
T
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1° luglio scorso, è l’ottava; la prima
bozza risale al 1906, segno di un
dibattito politico vivace, soffocato,
in seguito, dal protettorato impostoci da Francia e Spagna. Questo
processo di “negoziazione permanente” nel Paese ha creato un vasto consenso verso le istituzioni, alimentato successivamente dallo sviluppo della stampa. Manifestare
pacificamente sarà forse qualcosa
di nuovo per i Paesi limitrofi, ma
non per noi. A Rabat da quindici
anni si tengono ogni giorno manifestazioni di fronte al Parlamento.
Siamo un Paese normale, in cui
non c’è ragione di mettere in causa
la legittimità delle istituzioni, anche
se alcuni modi di governare sono
contestati. E senza timori posso ricordare che, dopo l’indipendenza
del 1956, emersero in Marocco
correnti repubblicane, che attentarono alla monarchia nel 1971 e nel
1972 con colpi di Stato falliti. Abbiamo partiti politici che hanno
sessanta, settant’anni di vita: magari non sono ancora completamente al passo con la globalizzazione, ma senza dubbio possiedono gli
ingredienti della modernità. Alcune
novità previste nella nuova Costituzione – come la regionalizzazione,
la questione dell’identità, lo status
della donna – permettono oggi al
Paese di fare un salto epocale, e
danno al governo gli strumenti per
confrontarsi con la globalizzazione,
dopo che questa ha messo in crisi il
ruolo dello Stato centrale e oltrepassato il modello dello Stato nato
a Westfalia. Il Marocco gioca il gioco della democrazia, sapendo che
sulla terra non esiste la città ideale.
ze di correnti politiche, religiose,
culturali. Perciò il Marocco è africano, è arabo, è amazigh [berbero,
ndr], ha una dimensione mediterranea, ed è legato all’Europa da cinquecento anni – la prima ambasciata del Marocco in Europa risale al
XVII secolo. Tra l’altro, nella Costituzione del nostro Paese, arabomusulmano, sono menzionate anche le radici ebraiche. Il più vecchio
cimitero ebraico risale a oltre duemila anni fa ed è ancora lì, nel sud
del Paese… Possiamo dire che l’originalità del Marocco è stata “consacrata” con la Costituzione. E nel
preambolo di questa troviamo l’elemento centrale: la scelta del malikismo come spina dorsale del sistema
spirituale: un islam ortodosso e
aperto, che ha sempre valorizzato
la facoltà, che l’islam lascia aperta,
Una manifestazione per le strade
di Casablanca con un cartello che dice
“sveglia!”. Domenica 18 settembre 2011
si uniscono
Nella nostra “negoziazione permanente” siamo riusciti a conciliare
i diritti universali dell’uomo con la
sharia. La nuova Costituzione ha
saggiamente tagliato questo nodo
affermando che non abbiamo nulla
su cui dividerci e decidere, perché il
Paese è plurale, aperto alle influen-
migliaia di attivisti per la democrazia
in Marocco hanno manifestato
in tutto il Paese
dell’itjihad, cioè la disponibilità a
rinnovare le regole. Accanto al
madhhab maliki [la dottrina malikita, ndr], il Paese si fonda su un’istituzione unica nel mondo musulmano: un re che è ufficialmente
amir al mouminine, cioè commendatore dei credenti, ultima
istanza arbitrale per impedire lo
sfruttamento in ambito politico del
fatto religioso. È questa la nostra risposta al dibattito sulla laicità. Tale
qualifica del re sottrae alla dialettica
politica la dimensione religiosa.
Questo modello istituzionale con il
re al vertice – meccanismo su cui
c’è il consenso nazionale – ha anche la funzione di garantire la libertà religiosa, cioè proteggere anche gli altri monoteismi. Nel centro
delle città in Marocco, infatti, si
possono visitare chiese o sinagoghe; come a Rabat, dove c’è la Cattedrale di Saint Pierre, che fa parte
del tessuto urbano, senza la necessità di misure di sicurezza particolari... Allo stesso modo, la comunità
ebraica marocchina non patisce
problemi di identità rispetto ai nativi musulmani, e quegli ebrei marocchini che hanno abbandonato il
Paese (molto numerosi: 600mila
nella sola Israele), mantengono con
la patria un vincolo forte – peraltro
la loro cittadinanza non decade ma
è mantenuta. Nel sistema giudiziario marocchino, infine, la legge
ebraica viene rispettata come fonte
di diritto dalla Corte suprema, a beneficio della comunità ebraica.
Quanto accaduto in Tunisia,
Egitto e Libia, ovvero la cosiddetta
“primavera araba”, prima di essere
commentato va capito. I casi tunisino ed egiziano sono quasi equivalenti, diversi da quello libico. In generale, vi sono ancora punti oscuri:
non è chiaro il ruolo dei poteri esterni né quello dei media non nazionali
nell’amplificare gli eventi. E non è
chiaro il vero livello di “rivoluzione”
sviluppato. Intendo con ciò il reale
cambiamento che una rivoluzione
opera nell’ordinamento, nella nomenclatura, eccetera. Sono domande che tra poco avranno una risposta, perché sarà lampante che il
caso non è chiuso né risolto. E che
forse la rivoluzione, per come la storia la ricorderà, deve ancora accadere, perché dovrà essere non violenta ma culturale, capace di mettere in causa i sistemi di governo, arabi e non solo, e l’organizzazione
delle collettività. Il caso marocchino
è differente, perché abbiamo una
stabilità istituzionale indiscutibile,
che nessuno ha messo in forse, ¬
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anche nei giorni delle manifestazioni. Da noi s’effettuavano proteste di piazza
anche prima della cosiddetta “primavera araba”.
Proteste contro la corruzione o specifiche scelte
governative, ma nulla più.
D’altronde le difficoltà del
Mediterraneo sono comuni alla sponda Sud come a
quella Nord: la disoccupazione, la distanza tra istruzione e tecnologia, un deficit di visione politica. Tutti
fattori che saranno probabilmente motivo di instabilità sociale per gli anni a venire, perché nessuno ancora possiede risposte. E mi duole dire che a
questo riguardo manca un approccio comune con l’Europa, che non
vuole entrare in una sintonia di lungo periodo con la sponda Sud,
condannata perciò a lavorare da
sola e con pochi mezzi a disposizione… Sappiamo che nel prossimo futuro occorrerà creare nel
Mediterraneo ben quaranta milioni
di posti di lavoro, al di là di tutti i ragionamenti sulla democrazia e sui
modelli di governo. Non si può immaginare una democrazia chiusa
dentro la povertà, dove ai giovani
viene consegnato un futuro buio.
Questo è un problema che l’Europa dovrebbe affrontare con urgenza, insieme a quello della libertà di
circolazione degli uomini, che è
uno dei diritti umani universali.
Nella Costituzione abbiamo
sancito come lingua ufficiale, accanto all’arabo, l’amazigh, il berbero, che è la lingua di sant’Agostino, e anche la mia lingua materna. Un salto epocale che ha posto
fine al discorso sulla nostra identità. Sono convinto che tutti i Paesi
che hanno compiuto il loro percorso verso la modernità e sono
riusciti a distribuire equamente le
proprie ricchezze alla popolazione, alle varie etnie e categorie,
hanno avuto come pregiudiziale la
soluzione della questione sull’identità. L’Italia è un testimonial fantastico di pluralismo culturale identitario, che ha accettato, risolvendo così problemi secolari. Anche
noi accettando tale pluralismo ab68
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A sinistra, il giovane principe
Moulay Hassan, futuro re Hassan II
del Marocco, circondato da ufficiali
francesi e membri
della “Guardia Nera”,
a Casablanca, in una foto
del 1936; sotto, il sultano del Marocco
Mohammed V, in piedi nell’auto
al centro della foto, al suo ritorno
in patria dall’esilio, a Rabat,
il 16 novembre 1955
biamo dato un esempio. In questo
campo allora parlerei di un “modello marocchino” su come gestire
le minoranze nel mondo arabomusulmano, e non soltanto. La
mappa disegnata dal colonialismo
occidentale in Medio Oriente non
ha ancora prodotto quella pace
che tutti sogniamo. Non conosco il
futuro, ma c’è un modo per riparare i guasti del colonialismo: l’autonomia identitaria su base regionale e locale. È il modello regionale
sancito nella nostra ultima Costituzione, che anche l’Europa riconosce e valorizza come ottimo modulo di governo.
La stabilità del Marocco nella
temperie della primavera araba credo si debba al sincero e diretto rapporto tra la monarchia e il popolo.
Dal re Mohammed V sino ad oggi si
è mantenuta questa relazione non
comune ed è il motivo per cui le
questioni circa la legittimità del potere – cioè le vere premesse delle rivolte della primavera araba – da noi
non sono emerse. Quando in Marocco una minoranza ha un progetto alternativo, può esprimerlo alla
luce del sole, anche in maniera organizzata. La stragrande maggioranza del popolo, che ha votato “sì”
al referendum di luglio, si è pronunciata in maniera chiara a favore di
un “conservatorismo positivo”, che
nella vita quotidiana si esprime nelle
nostre due dimensioni costanti: la
tradizione e la modernità. Dove invece regimi dittatoriali hanno umiliato il popolo per decenni, la rabbia
sociale ha un significato, una violenza e un obiettivo diversi. Anche se
INCONTRO CON L’AMBASCIATORE HASSAN ABOUYOUB
poi è necessario capire chi guida tali
moti. Quello che infatti manca e
rende difficile prevedere l’esito della
primavera araba, giunta ormai all’autunno, è che non riusciamo a individuare i timonieri delle rivoluzioni. In Marocco invece c’è un leader
che dal 1999, dal suo primo giorno
di governo, col discorso di Casablanca sul “concetto di autorità”,
aveva già delineato la strada da percorrere, e quello che la nostra Costituzione afferma era già tutto in quel
discorso. Di alcune riforme ora attuate iniziammo a discutere nel
petuto sino alla noia ai miei amici
italiani ed europei di non fare paragoni tra la sponda Sud e l’Europa
dell’Est: là si tratta di restaurare la
democrazia, nel Mediterraneo occorre invece instaurarla.
Per ricreare stabilità e sviluppo,
considerato quanto è accaduto nell’area euro-mediterranea, occorre
anzitutto gestire in modo intelligente la transizione democratica. Cioè
mobilitare il popolo per un progetto
di società che sia in sintonia con i
valori comuni del Mediterraneo democratico. Il percorso
compiuto dal Marocco
per giungere alla qualità
del testo di quest’ultima
Costituzione ha richiesto
non una “primavera”,
ma cinquant’anni di
riforme e sette Costituzioni precedenti. E un’intensa attività di negoziazione tra popolo e istituzioni. Occorre capire
che cosa significa imparare la democrazia: il
tempo ha un senso. Ed è
su questo lungo processo che s’innesta la seconda condizione, cioè l’offerta all’immaginario
collettivo della speranza
Mohammed VI presiede un Consiglio dei ministri
che ai sacrifici seguirà il
per discutere la riforma costituzionale, Rabat,
benessere. Provate a
17 giugno 2011
convincere chi è da lungo
tempo disoccupato, ed è
1906; e le prefigurammo nella Co- laureato, della bontà di un sistema
stituzione del 1962. Ci abbiamo democratico che aveva ingenerato
messo tanto, ma ce l’abbiamo fatta, tante speranze e della lungimiranza
per ora. Una Costituzione, infatti, è del progetto politico ideato dalla
un’opera umana, per sua natura classe dirigente del proprio Paese.
perfettibile, mai veramente ultimaSempre a proposito di islam e
ta. C’è nel mondo chi vorrebbe come esito finale la Costituzione della democrazia, ricordo che quando in
Città ideale di Platone, o quella di febbraio ci furono le manifestazioni
Montesquieu o di Tocqueville, ma fi- di protesta, i partiti islamici marocnora non conosco genio umano chini si divisero: uno a favore della
che possa inventare l’“ultima” Co- piazza, l’altro a sostegno del re e
stituzione. Ciò si collega drammati- della stabilità. E ciò perché il caso
camente alla questione centrale del- del Marocco, a proposito di islam
la leadership dei giovani nel mondo politico, è peculiare. Quando si dearabo, che in questi ultimi quaranta cise di accettare il Pjd [il Partito della
anni di dittature è stata purtroppo giustizia e dello sviluppo, una forinterpretata da stranieri, da leader e mazione islamica, ndr] nel nostro
ideologie che si rifanno agli anni sistema politico-istituzionale fu
Sessanta. Che però non sono state creato un precedente ancora più indi alcuna utilità, perché non hanno teressante, a mio parere, dell’avcreato un’alternativa politica. Ho ri- vento al potere dell’Akp turco, av-
venuto all’interno di una democrazia preesistente e matura. Da noi il
dibattito sull’apertura al Pjd s’è imposto quando il consolidamento democratico era ancora in corso d’opera: ma il Pjd fu accolto. E nel gioco della democrazia marocchina
siede oggi all’opposizione, tenendosi a debita distanza da un’altra
formazione islamica, che ha fatto
una scelta extraparlamentare e non
accetta la legittimità delle nostre istituzioni. Il popolo ha approvato la
Costituzione e le riforme che gli
proponevamo, ci ha incoraggiato.
Ora dobbiamo vedere sino a che
punto esso seguirà la nostra offerta
di una “via media”. Media nel senso
pieno del termine, comprendendo
tanto la religione, quanto la politica
e l’economia. Una scelta non basata su dogmatismi. L’elemento centrale della nostra Costituzione è la
moderazione: non abbiamo mai
usato il dogma come fonte di ispirazione. Ora spetta al popolo dare ragione di quanto abbiamo costruito
attraverso la comprensione e la mediazione. Potremmo anche dire che
tutto ciò deriva dall’origine della figura del re come commendatore
dei credenti. Esiste un’espressione
potente del dialogo tra il popolo e il
re, che è la Tajdid Al-baia, la festa
annuale del trono, dove si rinnova il
contratto tra il monarca e il popolo.
La cultura che questa celebrazione
esprime è quella del consenso, all’interno di una dimensione di identità nazionale in cui la dialettica
maggioranza-minoranza non dovrebbe neppure esistere, almeno
per come si esplica sovente nei sistemi di democrazia occidentale. Su
alcune questioni che toccano il bene supremo della nazione – è il caso
delle decisioni in materia di debito
pubblico sulla quale si dibatte oggi
in Occidente e che vede i vari governi alle prese con decisioni le cui conseguenze ricadranno sulle generazioni future – l’istituzione monarchica, proprio per la longevità di un regnante, può essere una garanzia
per operare scelte con lo sguardo rivolto al lungo termine, senza essere
vincolati al contingente.
(Conversazione
con Giovanni Cubeddu
rivista dall’autore)
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