Impaginato ok - Comitato Dante Alighieri Siracusa

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Impaginato ok - Comitato Dante Alighieri Siracusa
PAGINE IN CONTROLUCE 8
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“Da molte stelle mi vien questa luce”
Par. c. XXV, 70
Altera Alteri
BRUNELLA BRUNO - ELISABETTA FERRARINI
LECTURAE DANTIS
Prefazione di Gioia Pace
Anemone Purpurea
Proprietà letteraria riservata
© 2008 Anemone Purpurea editrice
www.anemonepurpurea.it
Sede legale:
Via Enea,12
00041 Albano Laziale (Roma)
aprile 2008
I diritti di traduzione, riproduzione, adattamento totale o parziale
(copie fotostatiche e microfilmati) sono riservati per tutti i Paesi.
ISBN 978-88-89788-20-2
Illustrazioni in copertina dell’arch. Francesca Peratoni “Transumanar” acrilico su
tela, 2007
Progetto grafico di copertina di Angela Tomasello e Eleonora Romani - Hoop
Impaginazione di Paolo Giovannucci
PREMESSA
Da dieci anni la Dante Alighieri di Siracusa ha inteso diffondere
l’opera del divino poeta tra i cultori con appuntamenti annuali nella
cornice suggestiva della chiesa di San Martino, tesoro romanico in
Ortigia, in sintonia con lo spirito della Associazione culturale, di cui
il nostro comitato fa parte.
Il crescente interesse che l’iniziativa ha suscitato nella cittadinanza
ha suggerito alla scrivente l’idea di raccogliere in volume le conversazioni tenute dalle relatrici Brunella Bruno ed Elisabetta Ferrarini.
Quale la novità di queste Lecturae Dantis? Concepite in armonia
con i temi prescelti nei successivi anni sociali, esse hanno dimostrato
che la Commedia è ancora perfettamente attuale e che Dante è davvero il poeta del terzo millennio, così come è stato eletto dalla cultura mondiale. Ed ancora ogni canto è solo il punto di partenza, un qualunque possibile esordio d’un universo così compatto ed omogeneo
che ogni suo nucleo può essere centrale, un’immersione in quel mar
dell’Essere al qual tutto si move; pertanto, per godere della poesia di
Dante non è necessario cominciare la lettura dalla selva e concluderla nella rosa, basta cogliere un suggerimento casuale e proiettarsi nel
suo spettro di luce. Prescindendo dunque dall’analisi squisitamente
filologica del testo, che comunque costituisce trama essenziale di ogni
sviluppo concettuale, si tracciano continui rimandi e nuovi percorsi
contestuali, intertestuali ed ipertestuali volti ad interpretare il messaggio dantesco non solo in relazione alla sua epoca, ma all’innegabile eredità culturale che ne deriva. Leggere Dante infatti esige di collegare il particolare all’universale, insomma al suo mondo, al suo tempo, alla sua cultura, alla sua religione, alla sua politica ed alla sua morale, poiché Dante uomo è tutto questo ed è tutto nella sua opera, ma
Dante poeta sconfina nella posterità.
Nella pubblicazione si scardina però l’ordine cronologico delle letture per privilegiare nuclei tematici ulteriori; pertanto i canti XIX dell’Inferno, VI e XVI del Purgatorio e XXV del Paradiso colgono
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aspetti precipui della storia contemporanea al poeta, evidenziandone
la corruzione dei poteri universali e la risposta individuale, l’impegno
civile e l’anelito alla libertà che, nonostante gravi sacrifici personali,
induce l’uomo di ogni tempo alla speranza del riscatto. Così, i canti V
dell’Inferno, III del Paradiso e XXX del Purgatorio, nel disquisire
sulle intense figure femminili della Commedia, individuano un climax
ascendente che ne ripercorre il verticalismo, conducendo il lettore
dalla concezione terrena dell’eros alla sublimazione di Intelletto e
Amore. Allo stesso modo i Canti XXVI dell’Inferno, XI del Purgatorio e I / XXXIII del Paradiso mirano ad esaltare gli effetti dell’ingegno umano nell’incessante ricerca della conoscenza, nella sua riproduzione estetica e nella sua ineffabile trasumanazione poetica. Infine
il canto I del Purgatorio suggella compiutamente questo slancio insopprimibile dell’umano che corrotto dal peccato si proietta pur sempre
nel divino. Ogni segmento, quindi, persegue un disegno ideale ora
storico, ora antropologico, ora artistico, ora metafisico, che implica
un’ampiezza di riferimenti da intendersi non come esercizio erudito,
ma come lucida interpretazione delle innumerevoli interferenze tra
l’animo del poeta e la sua opera.
Un’opera che per tutti questi motivi si apre naturalmente all’interesse anche dei giovani, da sempre alla ricerca di valori e sentimenti
sinceri, di autentici modelli, capaci di indicare loro una concreta dimensione umana, che nel misurarsi con la realtà, senza sconti e senza
timori, sappia sostenere coraggiosamente i propri ideali tra l’astrattezza e la vacuità di un modus vivendi omologato.
Gioia Pace
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PARADISO, c. XVII
“mentre ch’io era a Virgilio congiunto
su per lo monte che l’anime cura
e discendendo nel mondo defunto,
dette mi fuor di mia vita futura
parole gravi,…”
(cfr. ib . XVII vv. 19-23)
Con questi versi Dante riannoda in paradiso i fili della tela ordita con
ansia attraverso le rivelazioni di alcune anime incontrate nel suo viaggio
oltremondano, improntato ad un rigoroso verticalismo che solo ora, finalmente, il poeta può contemplare dall’alto dell’esperienza compiuta. Il
chiarimento necessario, fornito da Cacciaguida, la trama di tutta la sua vita, viene distesa senza pieghe ed oscurità sotto gli occhi di tutti noi, consapevoli di quanto Dante - poeta si sia davvero “infuturato”, come i suoi
padri gli avevano insegnato: il suo maestro di giovinezza, Brunetto, gli
aveva indicato la strada del ben fare, garantendogli quella fama che s’acquista solo con opere dettate dalla giustizia e dalla morale; Cacciaguida,
alla fine di tanto arduo percorso, lo attende per attribuirgli il primato non
solo etico e civile, ma ora anche poetico e profetico, che nasce dalla fede.
La nostra lettura del canto privilegia, quindi, gli anni dell’esilio, come
prerogativa della missione salvifica del poeta: tempi, luoghi, personaggi e
profezie si avvicendano nella Commedia in un resoconto minuto e fervido di significati riposti, che ci preme evidenziare non solo per ricostruire
cronologicamente le tappe, ma per interpretare lo stato d’animo di Dante esule, il quale mai avrebbe potuto adempiere il suo compito se non
avesse affrontato questa difficile prova: l’esilio è la “conditio sine qua non”
che gli consente di spaziare oltre la cerchia antica di Firenze (De Monarchia), di ampliare e di arricchire senza limiti lo sperimentalismo letterario
degli esordi (Rime e Convivio), Di investire le sue energie nella valorizzazione del patrimonio linguistico come bene culturale inalienabile (De vulgari eloquentia), di rivestire la sua Commedia di valori atemporali ed universali, capaci di travalicare anche sentimenti e contingenze personali:
“Non vo’ però ch’a’ tuoi vicini invidie,
poscia che s’infutura la tua vita
via più là che ’l punir di lor perfidie”.
(ib. vv.97-99)
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Una vicenda esistenziale così devastante solo di rado nei benefattori dell’umanità si traduce nel vigore spirituale, nell’anelito alla rivincita e all’affermazione di una superiorità generosa e caritatevole
quale quella espressa dal poema:
“Questo tuo grido farà come vento,
che le più alte cime più percuote;
e ciò non fa d’onor poco argomento”.
(ib.vv.133-135)
Se l’esilio è il suo martirio, la Commedia è la sua crociata.
Qual venne a Climenè, per accertarsi
di ciò ch’avëa incontro a sé udito,
quei ch’ancor fa li padri ai figli scarsi;
tal era io, e tal era sentito
e da Beatrice e da la santa lampa
che pria per me avea mutato sito.
Per che mia donna “Manda fuor la vampa
del tuo disio”, mi disse, “sì ch’ella esca
segnata bene de la interna stampa:
non perché nostra conoscenza cresca
per tuo parlare, ma perché t’ausi
a dir la sete, sì che l’uom ti mesca”.
“O cara piota mia che sì t’insusi,
che, come veggion le terrene menti
non capere in trïangol due ottusi,
così vedi le cose contingenti
anzi che sieno in sé, mirando il punto
a cui tutti li tempi son presenti;
mentre ch’io era a Virgilio congiunto
su per lo monte che l’anime cura
e discendendo nel mondo defunto,
dette mi fuor di mia vita futura
parole gravi, avvegna ch’io mi senta
ben tetragono ai colpi di ventura;
per che la voglia mia saria contenta
d’intender qual fortuna mi s’appressa:
ché saetta previsa vien più lenta”.
Così diss’ io a quella luce stessa
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che pria m’avea parlato; e come volle
Beatrice, fu la mia voglia confessa.
Né per ambage, in che la gente folle
già s’inviscava pria che fosse anciso
l’Agnel di Dio che le peccata tolle,
ma per chiare parole e con preciso
latin rispuose quello amor paterno,
chiuso e parvente del suo proprio riso:
“La contingenza, che fuor del quaderno
de la vostra matera non si stende,
tutta è dipinta nel cospetto etterno;
necessità però quindi non prende
se non come dal viso in che si specchia
nave che per torrente giù discende.
Da indi, sì come viene ad orecchia
dolce armonia da organo, mi viene
a vista il tempo che ti s’apparecchia.
Qual si partio Ipolito d’Atene
per la spietata e perfida noverca,
tal di Fiorenza partir ti convene.
Questo si vuole e questo già si cerca,
e tosto verrà fatto a chi ciò pensa
là dove Cristo tutto dì si merca.
La colpa seguirà la parte offensa
in grido, come suol; ma la vendetta
fia testimonio al ver che la dispensa.
Tu lascerai ogne cosa diletta
più caramente; e questo è quello strale
che l’arco de lo essilio pria saetta.
Tu proverai sì come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scendere e ’l salir per l’altrui scale.
E quel che più ti graverà le spalle,
sarà la compagnia malvagia e scempia
con la qual tu cadrai in questa valle;
che tutta ingrata, tutta matta ed empia
si farà contr’ a te; ma, poco appresso,
ella, non tu, n’avrà rossa la tempia.
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Di sua bestialitate il suo processo
farà la prova; sì ch’a te fia bello
averti fatta parte per te stesso.
Lo primo tuo refugio e ’l primo ostello
sarà la cortesia del gran Lombardo
che ’n su la scala porta il santo uccello;
ch’in te avrà sì benigno riguardo,
che del fare e del chieder, tra voi due,
fia primo quel che tra li altri è più tardo.
Con lui vedrai colui che ’mpresso fue,
nascendo, sì da questa stella forte,
che notabili fier l’opere sue.
Non se ne son le genti ancora accorte
per la novella età, ché pur nove anni
son queste rote intorno di lui torte;
ma pria che ’l Guasco l’alto Arrigo inganni,
parran faville de la sua virtute
in non curar d’argento né d’affanni.
Le sue magnificenze conosciute
saranno ancora, sì che ’ suoi nemici
non ne potran tener le lingue mute.
A lui t’aspetta e a’ suoi benefici;
per lui fia trasmutata molta gente,
cambiando condizion ricchi e mendici;
e portera’ne scritto ne la mente
di lui, e nol dirai”; e disse cose
incredibili a quei che fier presente.
Poi giunse: “Figlio, queste son le chiose
di quel che ti fu detto; ecco le ’nsidie
che dietro a pochi giri son nascose.
Non vo’ però ch’a’ tuoi vicini invidie,
poscia che s’infutura la tua vita
vie più là che ’l punir di lor perfidie”.
Poi che, tacendo, si mostrò spedita
l’anima santa di metter la trama
in quella tela ch’io le porsi ordita,
io cominciai, come colui che brama,
dubitando, consiglio da persona
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che vede e vuol dirittamente e ama:
“Ben veggio, padre mio, sì come sprona
lo tempo verso me, per colpo darmi
tal, ch’è più grave a chi più s’abbandona;
per che di provedenza è buon ch’io m’armi,
sì che, se loco m’è tolto più caro,
io non perdessi li altri per miei carmi.
Giù per lo mondo sanza fine amaro,
e per lo monte del cui bel cacume
li occhi de la mia donna mi levaro,
e poscia per lo ciel, di lume in lume,
ho io appreso quel che s’io ridico,
a molti fia sapor di forte agrume;
e s’io al vero son timido amico,
temo di perder viver tra coloro
che questo tempo chiameranno antico”.
La luce in che rideva il mio tesoro
ch’io trovai lì, si fé prima corusca,
quale a raggio di sole specchio d’oro;
indi rispuose: “Coscïenza fusca
o de la propria o de l’altrui vergogna
pur sentirà la tua parola brusca.
Ma nondimen, rimossa ogne menzogna,
tutta tua visïon fa manifesta;
e lascia pur grattar dov’ è la rogna.
Ché se la voce tua sarà molesta
nel primo gusto, vital nodrimento
lascerà poi, quando sarà digesta.
Questo tuo grido farà come vento,
che le più alte cime più percuote;
e ciò non fa d’onor poco argomento.
Però ti son mostrate in queste rote,
nel monte e ne la valle dolorosa
pur l’anime che son di fama note,
che l’animo di quel ch’ode, non posa
né ferma fede per essempro ch’aia
la sua radice incognita e ascosa,
né per altro argomento che non paia”.
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LEGNO SANZA VELA E SANZA GOVERNO
Dante, tra i combattenti per la fede in paradiso, vede farglisi incontro con effusa sollecitudine un astro che si muove sulla lista radiale della croce inscritta nella circonferenza celeste: in uno scenario
metafisico, contrassegnato dal simbolo mistico per antonomasia,
un’anima lucente e benedicente riserva al poeta un’accoglienza solenne e vibrante di ardente affetto (cfr. Par. XV, v. 43):
“O sanguis meus, o superinfusa
gratïa Deï, sicut tibi cui
bis unquam celi ianüa reclusa?”.
(Par. XV, vv. 28-30)
È l’antenato Cacciaguida, che solo nei vv. 135 e sgg. dello stesso
canto rivelerà compiutamente al pellegrino la sua ascendenza biografica, ma già dall’esordio lo appella come figlio (v. 52) e lo accredita
quale ultima fioritura del suo albero genealogico, sottolineando con
una incisiva citazione scritturale1 l’ansia del congiungimento ed il riconoscimento della loro sostanziale identità naturale:
“O fronda mia in che io compiacemmi
pur aspettando, io fui la tua radice”
(Par. XV, vv. 88-89)
A suffragare la sua rivelazione il trisavolo rievoca la Firenze da cui
entrambi provengono: quella del primo una città ideale, riposante,
onesta e fidata (cfr. vv. 130-132); quella del secondo ora guasta da interessi economici e mercantili (cfr. Par. XVI, v. 61) e corrosa dall’arrivismo di numerosi parvenu sostenuti da spregiudicati appoggi politici2; ora indebolita da intrighi familiari capaci di sostituire le solide
insegne cittadine, sovvertendo i valori tradizionali e il tessuto sociale.
Dal mos maiorum al mos partium et factionum di sallustiana memoria.
Con alterne vicissitudini la città muta e rinnova continuamente
membra (cfr. Purg. VI, vv. 145-147). Dante sarà tra queste e Firenze,
da grembo accogliente e protettivo, l’ovil di San Giovanni, come spes-
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Matteo III, 17; Marco I, 11; Luca III, 22.
Il riferimento è a Giano della Bella in Par. XVI, vv. 131-132.
so il poeta devotamente la definisce3, si rivelerà verso di lui spietata e
perfida noverca (cfr. ib. v. 47), insidiandolo e calunniandolo ingiustamente come Fedra nei confronti di Ippolito, exul immeritus4 da Atene. Autentica figura genitoriale rimane Cacciaguida per Dante, due
volte apparentato a personaggi mitologici che ne rivelano la pietas paterna e la fides materna: l’analogia Anchise - Enea5 rinnova nel c. XV
lo slancio generoso del padre verso il figlio atteso, a cui dovrà conferire un’alta missione; l’analogia Climene - Fetonte6, simmetrica alla
precedente, riproduce nell’incipit del c. XVII la rassicurante protettività di una madre verso il figlio insicuro e turbato da ambigue insinuazioni e funesti presagi. Con questo spirito di carità quello amor paterno (cfr.ib.135) risponde alla domanda impetuosa di Dante (ib.
vv.19-23) con lucida chiarezza, senza ricorrere alle formule enigmatiche, di cui facevano uso gli oracoli pagani, per sciogliergli i nodi del
futuro, che sin dall’inizio del suo cammino oltremondano lo avevano
inquietato, nonostante una inedita solidità si fosse in lui accresciuta
nel percorso salvifico7. Ma, in virtù del fatto che padre e figlio nel cielo di Marte si riconoscono segnati entrambi dalla croce del martirio
(cfr. Par. XV, v. 146), l’uno caduto nella seconda crociata guidata da
Corrado III Hohenstaufen nel 1147-49, l’altro vittima della nequizia
del tempo, di cui si sente penosamente gravare le spalle ( cfr.ib.v.161),
Beatrice autorizza la confidenza del poeta, affidando al suo progenitore le parole rivelatrici. Ogni scrupolo di diplomazia è vinto nell’animo di Cacciaguida da molteplici motivi, che rispondono ad un’unica esigenza di verità:
1) Dante vuole sapere qual fortuna gli s’appressa (cfr.ibvv.25-26);
2) conoscere può costituire l’unica difesa per parare il colpo (ib.
v.27):
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Cfr. Par. XVI, v. 65 ; Par. XXV, v. 5.
Con questa formula, florentinus exul immeritus, ripetutamente D. indirizza
le sue Epistolae latine.
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Cfr. Par. XV, vv.25-27.
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Cfr. Ovidio, Metamorfosi I, v. 748 sgg.
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Cfr. ib. vv. 23-24.
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“Ben veggio, padre mio, sì come sprona
lo tempo verso me, per colpo darmi
tal, ch’è più grave a chi più s’abbandona”
(ib. vv. 106-109);
3) la realtà futura è comunque immutabile, dipinta indelebilmente
nel cospetto etterno (cfr. ib. v. 39), non perché predeterminata da Dio,
ma perché tutti i tempi sono in Lui compresenti:
“così vedi le cose contingenti
anzi che sieno in sé, mirando il punto
a cui tutti li tempi son presenti;”
(ib. vv. 16-18)
Senza mezzi termini Cacciaguida: “…di Fiorenza partir ti convene”
(cfr.ib.v.48);
“Tu lascerai ogne cosa diletta
più caramente; e questo è quello strale
che l’arco de lo esilio pria saetta.”
(ib. vv. 55-57),
alludendo alle medesime circostanze politiche che gli erano già state
anticipate da Ciacco nell’inferno. Il goloso, a tinte forti e rapide, in
una rassegna scarna ed essenziale, aveva tratteggiato il clima di tensione dei primi del 1300 nella città partita (cfr. Inf. VI, 61), dilaniata
da urla, pianti e oltraggi: l’aggressione a Ricoverino de’ Cerchi nel Calendimaggio, la cacciata dei Neri, la rivalsa di questi ultimi sulla parte
selvaggia (v. 65), con la forza di tal che testè piaggia (v. 69)8. Che si tratti di Carlo di Valois? Di costui, inviato dallo stesso pontefice a Firenze per “conservare la città in pacifico e buono stato”9 si fa memoria a
questo riguardo in Purgatorio XX, in cui sprezzantemente il poeta lo
definisce un Giuda che, a tradimento, pressa con la lancia il grembo
di Firenze fino a farlo scoppiare, facendone fuoriuscire gli umori mefitici e le viscere malsane:
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Cfr. Boccaccio, Commento alla Commedia, piaggiare: “dicesi appo i Fiorentini colui piaggiare il quale mostra di volere quello che egli non vuole o di che egli
non si cura che venga”.
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G. Villani, Nuova Cronica, IX, 49.
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“Tempo vegg’io, non molto dopo ancoi,
che tragge un altro Carlo fuor di Francia,
per far conoscer meglio e sé e’suoi.
Sanz’arme n’esce e solo con la lancia
con la qual giostrò Giuda, e quella ponta
sì, ch’a Fiorenza fa scoppiar la pancia.”
(vv. 70-75)
O che si tratti di Bonifacio VIII? L’allusione al vicario di Cristo
(cfr. Purg. XX, v. 87), che simula e dissimula, promettendo un intervento da paciere tra le parti, ma in realtà appoggiando gli interessi finanziari dei Donati, già presente nelle parole di Ciacco, verrebbe ribadita autorevolmente anche da Cacciaguida, che focalizza direttamente su Dante le trame oscure e malefiche tessute nella curia pontificia dal papa simoniaco:
“Questo si vuole e questo già si cerca,
e tosto verrà fatto a chi ciò pensa
là dove Cristo tutto dì si merca”.
(ib. vv. 49-51)
Con atteggiamento assai più coinvolto, rispetto a Ciacco, nel sabbione infuocato dei sodomiti, la cara e buona immagine paterna (cfr.
Inf. XV, v. 85) di Brunetto Latini aveva spontaneamente presagito all’amato discepolo quanto l’ingrato popolo maligno (cfr. v. 61) gli sarebbe stato nimico per il suo ben far (cfr. v. 64): la cittadinanza fiorentina, come anche il goloso puntualizzava10, gent’è avara, invidiosa e
superba (v. 68), miope ed istrionica, incompatibile per natura e per
costume col poeta11 come i lazzi sorbi col dolce fico (cfr.vv.65-66). Brunetto aveva insistito sull’urgenza di purificarsi dai loro modi e mentalità, anche se ciò avrebbe potuto ripercuotersi dolorosamente sulla
sua vita:
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Cfr. Inf. VI, vv. 74-75.
Nell’incipit dell’epistola XIII il poeta si autodefinisce infatti florentinus natione non moribus.
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“La tua fortuna tanto onor ti serba,
che l’una parte e l’altra avranno fame
di te; ma lungi fia dal becco l’erba.
Faccian le bestie fiesolane strame
di lor medesime, e non tocchin la pianta,
s’alcuna surge ancora in lor letame,
in cui riviva la sementa santa
di que’ Roman che vi rimaser quando
fu fatto il nido di malizia tanta”.
(Inf. XV vv. 70-78):
sia che l’espressione di Brunetto “l’una e l’altra parte avranno fame di
te” (cfr. v. 71) voglia intendere che i Neri gli si avventeranno contro
per condannarlo e i Bianchi per vendicarsi, sia che si pensi che le due
fazioni vogliano trarre vantaggio dall’onore che la fortuna gli riserva
(cfr. v. 70), comunque “lungi fia dal becco l’erba” (cfr. v. 72), ossia è
impossibile tra il poeta e i partiti avversi alcuna forma di conciliazione. Ma anche la semplice convivenza nel nido di malizia tanta (cfr. v.
78) risulta impraticabile, come amaramente scrive Cino da Pistoia nel
carme CLXIV, In morte di Dante: Firenze infatti rimarrà nuda di tanta fonte di ingegno12 e solo allora potrà dare liberamente sfogo al suo
sconforto, perché ormai sarà definitivamente lontana l’erba dal becco:
“Canzone mia, a la nuda Firenza
oggima’ di speranza, te n’ andrai.
Di che ben po’ trar guai,
com’ai ha ben di lungi al becco l’erba”.
(vv. 27-30)
La ripresa dello stesso proverbio popolare nei due testi avvalora la
riconosciuta superiorità intellettuale e d’animo di Dante rispetto ai
suoi concittadini degeneri: Brunetto condisce la metafora con ulteriori termini comico-realistici come strame (v. 73) e letame (v. 75) in
antitesi rispettivamente alla pianta (v. 74) e alla sementa santa (v. 76)
__________
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In morte di Dante, vv.1-8: “Su per la costa, Amor, de l’alto monte,/ dietro a
lo stil del nostro ragionare/ or chi potrà montare,/poi che son rotte l’ale d’ogni ingegno?/I’ penso ch’egli è secca quella fonte,/ne la cui acqua si potea specchiare/ciascun del suo errare,/ sebben volen guardar nel dritto segno”.
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del poeta, che solo incarna la discendenza illustre dei Romani, incontaminato dalla parentela dura e montanara dei Fiesolani.
Brunetto partecipa sentitamente alle vicende di Dante, perché egli
stesso ebbe consapevolezza dello strazio dell’esilio, essendone stato
colpito nel 1260 in una situazione curiosamente analoga a quella del
poeta: ambasciatore del Comune fiorentino presso Alfonso X di Castiglia, appresa la disfatta di Montaperti e la conseguente fuoriuscita
dei Guelfi, fu impedito dal ritornare in patria e costretto a trattenersi
tra Spagna e Francia per ben sei anni, fino alla battaglia di Benevento del 1266, quando, mutate le sorti del ghibellinismo con la morte di
Manfredi, i Guelfi ritornarono al potere. In questo frangente il maestro di retorica, sradicato dalla terra di appartenenza, dovette patire
anche la perdita dell’identità linguistica, per cui l’aver composto il
Tresor, trattato didattico-allegorico di argomento scientifico in lingua
d’oil, costituirebbe la vera motivazione del contrappasso infernale: è
questa la seducente ipotesi del Pézard13, che attribuisce a questa scelta linguistica sofferta, ma innaturale, la sua collocazione tra i sodomiti nell’inferno14.
Protagonista della medesima situazione storico-politica, ma dalla
parte avversa, si profila la figura statuaria ed imponente di Farinata
degli Uberti, capo ghibellino, vero artefice della vittoria di Montaperti. Fuoriuscito nel 1258, sferrò con gli alleati senesi ed alemanni
l’attacco decisivo ai Guelfi fiorentini; rientrato in tale occasione, fu
però così leale verso la sua patria natia da difenderla a viso aperto
(cfr. Inf. X,v.93) nel Concilio di Empoli, dove era stata proposta dai
vincitori la distruzione della città. Dante aveva già espresso il desiderio di incontrare Farinata proprio a Ciacco, quasi a corollario della seconda domanda posta al dannato: “s’alcun v’è giusto” (cfr. v. 62).
Il goloso, che aveva frettolosamente liquidato la richiesta dell’Alighieri con un’espressione generica “giusti son due…” (cfr. v. 73), gli
aveva indicato l’infima collocazione di quelle anime, di cui chiedeva
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Pézard, Brunetto Latini sous la plui de feu, Paris, 1950.
Non risulterebbe da riscontri precisi una specifica propensione all’omosessualità da parte dell’intellettuale che così la stigmatizza nel suo Tesoretto ai
vv. 2.859-2864: “Ma tra questi peccati/son vie più condannati/que’ che son soddomiti:/deh, come son periti/que’ che contro natura/brigan cotal lussuria”.
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notizie. Tra costoro Farinata è il primo della lista ed il primo in cui
il fiorentino s’imbatte nella città di Dite: tra gli avelli infuocati degli eretici Farinata si solleva con piglio autorevole e con sguardo
sprezzante, irresistibilmente attratto dall’accento familiare e dalla loquela suadente che gli rende manifesta l’appartenenza del pellegrino al suo stesso luogo d’origine. Torna curiosamente, in antitesi con
l’involontario tradimento linguistico di Brunetto, l’attaccamento alla
lingua naturale dei due esuli, che grazie ad essa si riconoscono natii
di quella nobil patria (cfr. v. 26), alla quale forse furono entrambi
troppo molesti15. Ambedue sommamente rispettosi nei confronti di
Firenze, sono animati da una vivace conflittualità partitica per la
quale si contrastano lealmente a suon di parole taglienti e pungenti: al primo assalto di Farinata “Chi fuor li maggior tui?” (cfr. v. 42),
la parata e risposta di Dante “non gliel celai, ma tutto gliel’ apersi”
(v. 44); fa seguito la botta dritta di Farinata:
“…Fieramente furo avversi
a me e a miei primi e a mia parte
sì che per due fïate li dispersi”
(cfr. vv. 46-48),
a cui risponde il controtempo del poeta:
“S’ei fur cacciati, ei tornar d’ogne parte
…l’una e l’altra fïata;
ma i vostri non appreser ben quell’arte”.
(cfr. vv. 49-51)
Bisognerà attendere l’intermezzo di Cavalcante de’ Cavalcanti collocato nello stesso sepolcro con il con suocero per assistere all’ultimo
affondo del duello verbale tra i due:
“S’elli han quell’arte”, disse,”male appresa,
ciò mi tormenta più che questo letto.”
(vv. 77-78)
__________
15
Cfr. Inf. X, v. 27. Secondo Ronconi, Lingua nostra, 1946, pagg. 53-54, molesto equivale a malvisto; in tal caso l’accezione linguistica sarebbe facilmente
estensibile anche all’esilio di Dante.
20
Alla ferita di punta inferta da Dante, il magnanimo rivale reagisce
con amarezza, facendogli pesare la gratuità della ripicca con la crudeltà della rivelazione profetica:
“Ma non cinquanta volte fia raccesa
la faccia della donna che qui regge,
che tu saprai quanto quell’arte pesa.”
(vv. 79-81)
Eppure subito appresso sembra ridimensionare drasticamente livore e dispetto con una domanda rassegnata e amara sull’ostilità reiterata ed ingiustificata dei concittadini contro di lui e la sua discendenza16, così come succederà anche agli Alighieri. Farinata, infatti,
morto nel 1264, subì un processo post mortem per eresia nel 1283; riconosciuto colpevole, fu condannato al rogo e bruciato dentro la sua
stessa sepoltura, com’era in uso a quei tempi, e già nel 1266 le abitazioni degli Uberti erano state rase al suolo: nessuna ricompensa o riconoscenza per la generosità dimostrata dal capostipite degli Uberti
ad Empoli (cfr. vv. 89-93). Firenze è dunque ingrata contro tutti i suoi
figli, specie coloro ch’a ben far puoser li ‘ngegni (cfr. Inf. VI, v. 81); per
questo l’inimicizia politica fra i due non degenera in reciproco disprezzo, ma piuttosto si ricompone nell’apprezzamento vicendevole
dell’onestà intellettuale e della dignità d’intenti nei confronti della
propria patria.
Non così si propone lo scontro tra il poeta e Vanni Fucci, vero nemico di fazione ed antagonistico rispetto a lui per fede e moralità. Il
personaggio, mul e bestia, per sua stessa ammissione (cfr. vv. 124126), nella bolgia dei ladri, c. XXIV, era stato l’ultimo a ventilargli accese minacce sotto forma di profezia; egli era apparso improvvisamente alla vista dei due viandanti accendersi, ardere ed incenerirsi
trafitto dal morso di un serpente, per poi riformarsi di butto (cfr. v.
105) con la stessa rapidità con cui era scomparso, simile all’Araba fenice (cfr. vv. 106-108). Al risveglio allampanato del dannato, a seguito della domanda di Virgilio sulla sua identità, egli risponde di essere
appena morto nei primi mesi del 1300 e di aver goduto di vita violenta
__________
16
Cfr. Inf. X, vv. 83-84; Par. XVI, vv. 109-110.
21
e sanguinaria nella città di Pistoia, degna tana (cfr. v. 126) di cotanta
belva, per la quale non prova maggior rispetto di quanto ne abbia
avuto per il suo prossimo e per Dio. Ed infatti, alla provocazione di
Dante:
…“Dilli che non mucci,
e domanda che colpa qua giù ‘l pinse;
ch’io ‘l vidi omo di sangue e di crucci.”
(cfr. vv. 127-129),
il peccatore, irritato di essere stato riconosciuto come ladro e sacrilego17, anziché come individuo brutale e bastardo, si vendica con bassezza del suo rivale, annunciandogli il rapido succedersi degli eventi
a Pistoia e a Firenze tra il 1302 e il 1305:
“Ma perché di tal vista tu non godi,
se mai sarai di fuor da’ luoghi bui,
apri li orecchi al mio annunzio, e odi.
Pistoia in pria d’i Neri si dimagra;
poi Fiorenza rinova gente e modi.
Tragge Marte vapor di Val di Magra
ch’è di torbidi nuvoli involuto;
e con tempesta impetüosa e agra
sovra Campo Picen fia combattuto;
ond’ei repente spezzerà la nebbia,
sì ch’ogne Bianco ne sarà feruto.
E detto l’ho perché doler ti debbia!”.
(vv. 140-151):
Marte, il feroce Dio della guerra, indurrà Moroello Malaspina, capitano dei Lucchesi, alleati dei fiorentini di parte nera, allo scontro armato contro i Bianchi di Pistoia in Campo Piceno; la sconfitta di costoro e la conseguente distruzione della città coinvolgerà anche le sorti dei fuoriusciti bianchi di Firenze. È questa l’ultima soddisfazione
__________
17
Cfr. vv. 136-139: nonostante la riconosciuta fama di violento, la collocazione infernale nella bolgia dei ladri è determinata dal furto sacrilego di arredi
sacri dalla sacrestia di S. Jacopo a Pistoia, del cui delitto fu accusato un suo complice.
22
che lo spietato Vanni Fucci si prende su chi per l’eternità ha rivelato
la sua condanna tra i ladri e nel suo disprezzo accomuna Dante e Dio
stesso, a cui rivolge un gesto osceno e blasfemo:
“Al fine de le sue parole il ladro
le mani alzò con amendue le fiche,
gridando: “Togli, Dio, ch’ a te le squadro”.
(Inf. XXV, vv. 1-3)
I quattro atti della sequenza infernale inquadrano il tortuoso intreccio del tempo dell’esilio: dall’inizio delle guerre civili tra Guelfi e
Ghibellini (1260), al conflitto interno tra Guelfi bianchi e Guelfi neri (1300), alle ultime dolorose battute dei ripetuti tentativi di rientro
dei Bianchi (1305). Nell’asse narrativo principale Firenze si configura
come l’oggetto del desiderio del poeta, il loco più caro (cfr. ib. v. 110);
eccetto Brunetto, che addirittura si rammarica di essere morto prima
del 1295 per non aver potuto accompagnarlo coi suoi affettuosi consigli nell’agone della vita politica18, tutti gli altri personaggi nell’asse
della partecipazione assumono il ruolo di antagonisti, ciascuno con la
sua particolare focalizzazione: Ciacco, invero, non esibisce alcuna
emotività, ma con puntuale ed asettica referenzialità gli dà serio motivo di riflessione sin dal suo esordio:
…“La tua città, ch’è piena
d’ invidia sì che già trabocca il sacco,
seco mi tenne in la vita serena”.
(cfr. vv. 49-51);
Farinata, meditando tra sé e sé, tutto preso dal suo dramma esistenziale, dalla tormentata esperienza di un esilio dei suoi mai concluso, lo accomuna al proprio destino, quasi confermandogli la sua
stessa sorte: la condanna al rogo, che presuppone una scomunica per
eresia, estesa ai suoi figli maschi, la confisca dei beni patrimoniali e la
stessa damnatio memoriae; infine Vanni Fucci, perfido e spregevole,
__________
18
Cfr. Inf. XV v. 58-60: “E s’io non fossi sì per tempo morto,/veggendo il celo
a te così benigno,/dato t’avrei a l’opera conforto”.
23
da vero oppositore politico si compiace di alienargli ogni rifugio financo nella sua stessa regione. Eppure è certo che nei primi anni dell’esilio Dante si fermò in Toscana con quei compagni di sventura scellerati ed empi, con cui rimase fino alla vigilia della disfatta della Lastra (1304), quando a seguito di calunniose insinuazioni per aver provato a distoglierli dall’impresa sconveniente, decise di far parte per se
stesso:
“E quel che più ti graverà le spalle,
sarà la compagnia malvagia e scempia
con la qual tu cadrai in questa valle;
che tutta ingrata, tutta matta ed empia
si farà contr’a te; ma poco appresso,
ella, non tu, n’avrà rossa la tempia.
Di sua bestialitate il suo processo
farà la prova; sì ch’a te fia bello
averti fatta parte per te stesso”. 19
(ib. vv. 61-69)
Proseguendo nell’analisi narratologica dell’esilio, lo spazio si rivela, nel canto XIV del Purgatorio per bocca di Guido del Duca, selvatico, popolato da gente feroce lungo tutto il corso dell’Arno; pretesto
per la definizione di quella che D’Ovidio20 chiama “la geografia dello
sdegno politico di Dante” è l’incontro con due spirti (v. 7) della seconda cornice del purgatorio, Guido del Duca e Rinieri da Calboli ,
entrambi illustri cittadini romagnoli: la reticenza del poeta nel dire da
dove provenga e chi sia:
__________
19
Un mese prima dell’irruzione dei fuoriusciti in Firenze, nella prima delle
sue Epistulae, quella rivolta a Niccolò da Prato, investito del ruolo di paciere dal
nuovo Papa Benedetto IX, Dante ribadisce le sue ragioni, ispirate a criteri di viva giustizia, nati dalla necessità di mantenere la pace e la libertà di Firenze contro chi aveva messo fine ai diritti civili con temeraria determinazione (I, 2). È
probabile che tale Epistola sia contemporanea alla canzone CIV, che esprime lo
stesso anelito alla pacificazione tra le parti.
20
D’Ovidio, Il Purgatorio, pag. 331.
24
…“Per mezza Toscana si spazia
un fiumicel che nasce in Falterona,
e cento miglia di corso nol sazia.
Di sovr’esso rech’io questa persona:
dirvi ch’i’sia,saria parlare indarno
ché ‘l nome mio ancor molto non suona”.
(cfr. vv. 16-21,)
suscita lo stupore delle anime che ne chiedono la ragione:
“E l’altro disse lui: “Perché nascose
questi il vocabol di quella riviera,
pur com’om fa de l’orribili cose?”.
E l’ombra che di ciò domandata era,
si sdebitò così:“Non so; ma degno
ben è che ‘l nome di tal valle pera;”
(vv. 25-30)
Guido del Duca fornisce un elenco dettagliato dei luoghi e dei rispettivi abitanti che, simboleggiati da sgradevoli e violenti animali,
sembrano tratti da un bestiario medievale: dalla sorgente alla foce dell’Arno tutti i Toscani hanno mutato natura, come fossero stati soggetti
ai sortilegi di Circe:
“vertù così per nimica si fuga
da tutti come biscia, o per sventura
del luogo, o per mal uso che li fruga:
ond’hanno sì mutata lor natura
li abitator de la misera valle,
che par che Circe li avesse in pastura”.
(vv. 37-42)
Così gli abitanti del Casentino sono brutti porci (cfr.v.43), gli Aretini botoli rinchiosi (cfr. vv. 46-47), i Fiorentini lupi (cfr. v. 50), gli astuti
Pisani volpi (cfr. v. 53); il resoconto impietoso fatto da Guido del Duca, l’innominato invidioso con cui il poeta si intrattiene si conclude con
un ennesimo tono profetico sulle sventure di Firenze perpetrate a danno dei Bianchi nel 1303 dal sanguinario Fulcieri da Calboli, podestà
della città favorito dai Neri in cambio di stragi efferate ed esecuzioni
sommarie, tali da sterminare inesorabilmente l’intera cittadinanza:
25
“Io veggio tuo nepote che diventa
cacciator di quei lupi in su la riva
del fiero fiume, e tutti li sgomenta.
Vende la carne loro essendo viva;
poscia li ancide come antica belva;
molti di vita e sé di pregio priva.
Sanguinoso esce de la trista selva;
lasciala tal, che di qui a mille anni
ne lo stato primaio non si rinselva”. (vv. 58-66)21
A detta loro, se non di così brutali costumi, ma ormai prive del
tratto distintivo della liberalità e della cortesia sono anche tutte le più
illustri casate di Romagna22 diretate (v. 108) ed imbastardite le loro famiglie (v. 99), decadute le loro città (Bologna, Faenza, Ravenna, Bertinoro, Bagnacavallo, Castrocaro e Conio). Con quanta accorata malinconia, fino al pianto, Guido del Duca ricorda:
“le donne e’ cavalier, li affanni e li agi
che ne ’nvogliava amore e cortesia
là dove i cuor son fatti sì malvagi”.
(vv. 109-111)
A corollario di questo canto, nel XVI tra gli iracondi anche Marco Lombardo in poche battute tratteggia la degenerazione morale
della Lombardia:
“In sul paese ch’Adice e Po riga,
solea valore e cortesia trovarsi,
prima che Federigo avesse briga;
or può sicuramente indi passarsi
per qualunque lasciasse per vergogna,
di ragionar coi buoni o d’appressarsi”.
(vv. 115-120):
__________
21
Dante nel marzo del 1303 si trova a Forlì presso Scarpetta degli Ordelaffi,
in qualità di cancelliere del comitato dei Bianchi in esilio, quando si verificano
gli eventi indicati.
22
Cfr. Purg. XIV, vv. 88 e sgg.
26
la crisi dei valori secondo il penitente, è conseguente alla crisi del potere imperiale nella Val Padana, per cui solo in tre vecchi rampogna
“l’antica età la nova, e par lor tardo
che Dio a miglior vita li ripogna:
Currado da Palazzo e ‘l buon Gherardo
e Guido da Castel, che mei si noma,
francescanamente il semplice Lombardo”.
(cfr. vv. 121-126)
A questa svalutazione etica non si sottrae neanche Alberto della
Scala, padre di Bartolomeo, Alboino e Cangrande, il quale è protagonista nel canto XVIII del Purgatorio di una tirata denigratoria per
aver investito del priorato di San Zeno il figlio naturale Giuseppe, deforme nel corpo e ancor più nell’animo;23 eppure proprio qui, a Verona, presso il gran Lombardo filo-ghibellino, con ogni probabilità Bartolomeo della Scala, signore dal 1301 al 1304, il poeta troverà lo primo suo rifugio e ‘l primo ostello (v. 70): l’accoglienza benevola e cortese di Bartolomeo ricalca i più autentici crismi della liberalità, il donare spontaneo prima ancora del domandare, che risana almeno in
parte l’amara ferita impressa dallo strale dell’esilio e l’umiliazione del
dover mendicare l’ospitalità altrui.
“Tu proverai sì come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scender e ‘l salir per l’altrui scale”.
(vv. 58-60)
È probabile che, dopo aver lasciato Verona, Dante si sia recato
prima, nell’estate 1306, da Gherardo da Camino, suo ospite nella
Marca Trevigiana, e nello stesso autunno in Lunigiana presso i Malaspina, il cui pregio de la borsa e de la spada (Purg. c. VIII, 129)
viene esaltato nella valletta dei principi negligenti grazie all’incontro
__________
23
Purg. XVIII, vv. 121-126. Insieme ad Alberto per altro, anche il figlio Alboino non gode di ottima fama in Convivio IV,16,6, dove Dante lo mette direttamente a confronto con la nobiltà di Guido da Castello di Reggio, conosciuto
da Dante a Verona, proprio uno dei gentiluomini citati da Marco Lombardo.
27
con Currado, cugino di quel Moroello che, nonostante le divergenze politiche, era diventato amico del poeta. Nel dialogo tra i due,
celebrando la fama della casata dominante in Val di Magra, palese
per tutta Europa (cfr. v. 123), a Dante viene preannunciato dall’anima purgante con una profezia post eventum che anch’egli avrebbe
sperimentato la gentilezza di cuore della sua famiglia, trovando in
essa aiuto ed ospitalità24:
“Ed elli: “Or va; che ‘l sol non si ricorca
sette volte nel letto che ‘l Montone
con tutti e quattro i piè cuopre e inforca,
che cotesta cortese oppinïone
ti fia chiavata in mezzo de la testa
con maggior chiovi che d’altrui sermone,
se corso di iudicio non s’arresta”.
(vv. 133-139)
Quindi, se l’indifferenza per gli ideali cavallereschi dilaga in tutta
l’Italia settentrionale, solo in pochi si mantiene vivo l’abito di vertude,
sì morale come intellettuale25, per cui i Malaspina, privilegiati dall’esercizio costante delle virtù e dell’ingegno, si contrappongono autorevolmente alle deviazioni dei poteri universali. Tra il 1307 e il 1309 il
poeta si rifugia presso i conti Guidi nel Castello di Poppi in Casentino e a Lucca dalla nobildonna Gentucca26, a cui fa veloce riferimento Bonagiunta Orbicciani nel canto XXIV del Purgatorio:
__________
24
Un documento del 6-10-1306 riporta il nome del poeta quale procuratore
del marchese Franceschino per la conclusione di un trattato di pace col vescovo
di Luni.
25
Convivio, I, 11,7.
26
Purg. c.XXIV,v.37-38:”El mormorava; e non so che “Gentucca”/sentiv’ io
là,…”. L’espressione, variamente interpretata, farebbe pensare ad una Gentucca
Morla, moglie di Bonaccorso di Lazzaro di Fondora, che Dante frequentò al seguito di Morello Malaspina, uomo politicamente molto influente anche nella vicina Lucca. La sua ospitalità fu tanto più generosa in quanto a Lucca gli esuli
Bianchi fiorentini erano visti con ostilità, come si intravede dalle parole di Bonagiunta.
28
“Femmina è nata, e non porta ancor benda”,
cominciò el, “che ti farà piacere
la mia città, come ch’om la riprenda.
Tu te n’ andrai con questo antivedere :
se nel mio mormorar prendesti errore,
dichiareranti ancor le cose vere”.
(vv. 43-48)
Le tribolazioni sofferte da Dante in quel lasso di tempo sono ben
raffigurate in due personaggi riservati e silenziosi, che nella loro individuale fierezza sono additati da terzi come emblema di autorevolezza ed integrità, nonché di grande disponibilità. Il primo è Provenzan Salvani27 che tra i superbi precede Dante a colloquio con
Oderisi da Gubbio: proprio quest’ultimo ne rievoca in pochi versi
le vicende terrene, rivelando come si sia guadagnato l’accesso diretto in purgatorio. Narra Oderisi che il superbo Provenzan si era umiliato già in vita:
“Quando vivea più glorïoso”, disse,
“liberamente nel Campo di Siena,
ogne vergogna diposta, s’affisse;
e lì, per trar l’amico suo di pena,
ch’e’ sostenea ne la prigion di Carlo,
si condusse a tremar per ogne vena.”,
(vv. 133-138)
ed aggiunge che non passerà molto tempo ed anche il poeta potrà sentire fino in fondo lo strazio di quel gesto umiliante. In quest’ultima
profezia del Purgatorio, la focalizzazione del racconto è tutta interna
al personaggio di Provenzan: questo politico arrogante, capace di
convertire il suo tumor in bona umiltà (v. 119), come un fraticello
francescano, è controfigura di Dante stesso, che appiana il suo orgoglio nella mortificazione della questua. Il secondo è Romeo da Villanova, la cui luce beata splende nel cielo di Mercurio; ad esaltarne i
pregi è Giustiniano, che ne riabilita l’azione e la competenza infangate dalle parole biece (Par.VI,v.136) dei cortigiani. Infatti Romeo fun-
__________
27
Cfr. Purg. XI, vv. 121 e segg. Confronta Exegi monumentum, nota n. 4.
29
zionario dell’ultimo Conte di Provenza, Raimondo Berengario IV, fu
chiamato da quest’ultimo a render conto del suo operato nell’amministrazione dei beni. Con estrema dignità questo giusto (v.137), che
aveva accasato regalmente le quattro figlie del suo signore e ne aveva
addirittura accresciuto il patrimonio (cfr.v.138), si rassegna all’ingiustizia terrena, allontanandosi povero e vetusto (v.139) e riprendendo la
vita raminga del pellegrino:
“e se ‘l mondo sapesse il cor ch’ elli ebbe
mendicando sua vita a frusto a frusto,
assai lo loda, e più lo loderebbe”.
(vv. 140-142)
In queste parole finali di Giustiniano non c’è tecnicamente una
profezia, ma un’evidente allusione: Dante e Romeo sposano gli stessi
principi etici e sociali, esprimendoli nel loro vissuto con azioni responsabili e coerenti; subiscono l’invidia speciosa dei loro nemici, costretti a vagabondare con eroica forza d’animo, serrando nel cuore
l’amarezza e la precarietà dell’esilio. Così infatti si legge nel Convivio:
“…Ahi, piaciuto fosse al dispensatore de l’universo che la cagione de la
mia scusa mai non fosse stata! ché né altri contra me avria fallato, né
io sofferto avria pena ingiustamente, pena, dico, d’essilio e di povertate.
Poi che fu piacere de li cittadini de la bellissima e famosissima figlia di
Roma, Fiorenza, di gittarmi fuori del suo dolce seno – nel quale nato e
nutrito fui in fino al colmo de la vita mia e nel quale, con buona pace di
quella, desidero con tutto lo cuore di riposare l’animo stancato e terminare lo tempo che m’è dato -, per le parti quasi tutte a le quali questa
lingua si stende, peregrino, quasi mendicando, sono andato, mostrando
contra mia voglia la piaga de la fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata. Veramente io sono stato legno sanza
vela e sanza governo portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco
che vapora la dolorosa povertade; e sono apparito a li occhi a molti che
forseché per alcuna fama in altra forma m’aveano imaginato, nel cospetto de’ quali non solamente mia persona invilio, ma di minor pregio
si fece ogni opera, sì già fatta, come quella che fosse a fare” (I, III, 3-5).
E se l’umanità, che pure infligge il tormento e perseguita i giusti, non
riesce a riconoscerne i meriti, è però vero che essi troveranno il loro
compenso nella Giustizia divina, sola dispensatrice di verità:
30
“La colpa seguirà la parte offensa
in grido, come suol; ma la vendetta
fia testimonio al ver che la dispensa”.
(ib. vv. 52-54)
L’unica possibile consolazione per Dante è allora sub specie aeternitatis.
Che la provvida sventura dell’esilio si connoti di tinte contrastanti
nell’opera dantesca appare ormai chiaro: nell’inferno l’esperienza dolorosa si esprime con accenti disincantati e quasi cronachistici, invitando il lettore ad un esame oggettivo di fatti, luoghi, tempi e personaggi; nel purgatorio, invece, i toni si fanno più intimi ed emotivi, le
rievocazioni di quelle atmosfere di solitudine alludono a sentimenti,
stati d’animo, ad inconsapevoli e ansiosi presentimenti che si insinuano attraverso le parole degli interlocutori del poeta; nell’incontro con
Cacciaguida, infine, si rivela in piena luce il destino di Dante e si annunzia per chiare parole e con preciso/ latin (cfr. vv. 34-35) il provvidenzialismo della missione ad esso congiunta.
Fulcro ricorrente nel profetismo della Commedia è il personaggio
di Cangrande della Scala; a lui Cacciaguida riserva nel nostro canto
un trattamento di favore, dedicandogli ben sei terzine, in cui si condensano i tratti marziali di eccezionale vigore, l’impronta miracolistica che lo accomuna addirittura a Beatrice28, il lodevole ideale politico
filo-imperiale, il disinteresse per i beni mondani, la magnanimità esaltata financo dai nemici. Insomma, un vero e proprio magnificat, culminante nel riconoscimento dei suoi indiscutibili meriti sociali attraverso gli strumenti della politica e nella sincera professione di gratitudine personale da parte di chi ne ha sperimentato le alte qualità:
“A lui t’aspetta e a’ suoi benefici;
per lui fia trasmutata molta gente,
cambiando condizion ricchi e mendici;
e portera’ne scritto ne la mente
di lui, e nol dirai”; e disse cose
incredibili a quei che fier presente”.
(ib. vv. 88-93)
__________
28
Cfr. Vita Nuova, II,1.
31
E se Cangrande fosse anche il veltro del I canto dell’inferno, considerazione ben sostenibile in virtù delle numerose analogie espressive dei due luoghi poetici? Inoltre, l’importanza esegetica dell’Epistola XIII a lui indirizzata sull’allegorismo del poema e l’onore di essere
il dedicatario della terza cantica conferiscono al benefattore un ruolo
privilegiato fra gli attanti della vicenda umana di Dante, in qualità di
suo generoso ospite dal 1313 al 131829. Dopo tale data pare che egli
stesso abbia inviato il poeta a Ravenna presso Guido Novello da Polenta per assolvere delicati incarichi diplomatici nel contrasto sorto
tra questa città e Venezia a proposito del monopolio sul sale ed altre
merci assunto da quest’ultima. Da quel momento, anche per le affettuose insistenze del da Polenta, il nostro si ferma a Ravenna per comporre le divergenze economiche ed al rientro da una ennesima ambasceria a Venezia, colpito da febbri malariche, muore tra il13 e 14 settembre del 1321.
A differenza dei primi anni di peregrinazione inquieta ed incessante, i due ultimi lunghi soggiorni a Verona e a Ravenna testimoniano quanto questi asili siano stati confortati dall’amicizia, dalla stima e
dal rispetto reciproco, che rendono meno opprimente la richiesta
d’aiuto e più appetibile l’offerta del cibo; non è casuale il ricorrere
della metafora del pane e dell’acqua che estinguono la fame di giustizia e diluiscono l’asprezza del sale: così, in questa sintesi profetica
compaiono i termini sete (v. 12), sale e pane (vv. 58-59), forte agrume
(v. 117), vidal nodrimento (v. 131); ma ricordiamo anche il mendicar
sua vita a frusto a frusto di Romeo di Villanova. È singolare che la metafora del pane non ricorra altrimenti nel poema se non in riferimento al cibo spirituale dell’Eucaristia30 e ciò è degno di nota, poiché il
poeta, drammaticamente perseguitato dalla chiesa, condivide in quegli anni la scomunica inferta a Cangrande nel 1317 dal papa Giovanni XXII per cause politiche:
__________
29
Si legga a riguardo l’intestazione dell’epistola dedicatoria: “Magnifico atque
victorioso domino dominoCani Grandi de la Scala, …devotissimus suus Dantes
Alagheriiflorentinus natione non moribus, vitam orat pre tempora diuturna felicem et gloriosi nominis perpetuum incrementum. Magnificentie laus …”.
30
L’espressione il pan de li angeli in Par. II, v. 11, sta ad indicare la sapienza
filosofica illuminata dalla rivelazione cristiana.
32
“Già si solea con le spade far guerra;
ma or si fa togliendo or qui or quivi
lo pan che ‘l pïo Padre a nessun serra”.
(Par. XVIII, vv. 127-129)31
Qui il termine pane assume il valore pregnante di comunione spirituale che si instaura nel nome di ideali condivisi o della fede tra chi
dona e chi è beneficato, tra Dio e i fedeli e in ultima analisi tra Cangrande e Dante32. Ben si addice a questa circostanza l’espressione
sentenziosa che conclude l’Epistola XII inviata dal poeta ad un amico fiorentino: “Né certo mancherà il pane”.33 L’Epistola, scritta proprio
a Verona, si riferisce ad una seconda amnistia dopo quella del 1311,
concessa ai fuoriusciti nel 1315 a costo di pratiche penitenziali pubbliche e umilianti. Ma il poeta, sdegnato e fermo nella consapevolezza dei propri meriti e della propria onorabilità, così replica: “È codesta la graziosa revoca con cui è richiamato in patria Dante Alighieri, che
ha sofferto l’esilio quasi per tre lustri? Ciò meritò l’innocenza a tutti
manifesta? Ciò il sudore e l’assidua fatica nello studio? Sia lontano da
un uomo familiare con la filosofia una così inconsulta bassezza d’animo
da sopportare di offrirsi come un carcerato al modo di un Ciolo e di altri infami! Sia lontano da un uomo che predica la giustizia che avendo
patito ingiurie paghi il suo denaro a coloro che l’ingiuria arrecarono, come se ben lo meritassero!Non è questa, padre mio, la via del ritorno in
patria; ma se prima da voi o poi da altri se ne trovi un’altra che non deroghi alla fama e all’onore di Dante, l’accetterò a passi non lenti; ché se
per nessuna siffatta s’entra a Firenze, a Firenze non entrerò mai. E che?
Forse che non vedrò dovunque gli specchi del sole e degli astri? Forse
__________
31
Cfr. Purg. III, vv. 133-135 sul medesimo tema della scomunica ( maladizion) inferta per motivi politici a Manfredi da Clemente IV.
32
Cfr. n° 27. Ci chiediamo a questo punto quanto peso abbia l’Epistola XIII
dedicatoria del Paradiso a Cangrande (1317-1320): semplice profferta di amicizia e di devozione, o vero e proprio risarcimento della scomunica appena subita e quindi polemica risposta alla maledizione papale, troppo spesso abusata per
ragion di stato?
33
La rinuncia di Dante a rientrare in Firenze determinò l’esilio perenne dei
suoi figli maschi, banditi nel novembre 1315 con sentenza emanata da Ranieri
d’Orvieto, vicario di Roberto d’Angiò.
33
che non potrò dovunque sotto il cielo indagare le dolcissime verità, senza restituirmi prima abietto anzi ignominioso al popolo e alla città di Firenze? Né certo mancherà il pane”.34
Ben merita dunque Firenze l’anatema lanciatole da Cino da Pistoia
nella canzone In morte di Dante:
“Ecco, la profezia che ciò sentenza
or è compiuta, Firenza, e tu ‘l sai:
se tu conoscerai,
il tuo gran danno piangi che t’acerba;
e quella savia Ravenna che serba
il tuo tesoro, allegra se ne goda,
ch’è degna per gran loda”.
(vv. 31-36)
Se solo questa Firenze, tanto amata da Dante da essere presente,
persona e personaggio, in ogni sua opera, avesse dato ascolto alla sua
invocazione di pace e di riconciliazione a costo di un perdono elargito, ma mai richiesto:
“Canzone, uccella con le bianche penne;
canzone, caccia con li neri veltri,
che fuggir mi convenne
ma far mi poterian di pace dono
però nol fan che non san quel che sono:
camera di perdon savio uom non serra,
ché ‘l perdonare è bel vincer di guerra”35.
__________
34
Cfr. Epistola XII, Ad un amico fiorentino, 3-4. (Dante Alighieri, Tutte le
Opere, a c. di L. Blasucci, Sansoni, Firenze 1965, pagg. 340-341).
35
Tre donne intorno al cor, vv. 101-107.
34
INFERNO, c. XIX
Il XIX canto dell’Inferno è uno di quelli in cui la verve polemica
di Dante si arricchisce di motivi assai diversi, tutti ben analizzati dalla critica che, con dovizia di argomentazioni, ha messo in evidenza ora
il realismo delle immagini, accentuato dai cenni al quotidiano, all’autobiografismo, al costume sociale; ora la tendenza al comico e al grottesco, esplicitata nelle situazioni tragicomiche e nell’asprezza del linguaggio; ora l’indignatio del poeta, che, da vero protagonista, si lancia in una sprezzante invettiva moralistica contro la chiesa degenere;
ora, infine, e non ultimo, il messaggio politico che il canto veicola.
La nostra lettura non vuole essere un’antologizzazione critica delle varie posizioni fin qui emerse, piuttosto una proposta d'analisi che,
individuando nel capovolgimento il leit motiv del canto, attraverso
una serie di possibili giochi interpretativi, intende porre in rilievo le
implicazioni religiose, etico-sociali e politiche del peccato di SIMONIA nel Medioevo, ben consapevoli che la Commedia di Dante è una
summa, una trama fittissima d'agganci e connessioni che percorrono
l’intera opera, conferendole coerenza e unitarietà tematica e poetica.
O Simon mago, o miseri seguaci
che le cose di Dio, che di bontate
deon essere spose, e voi rapaci
per oro e per argento avolterate,
or convien che per voi suoni la tromba,
però che ne la terza bolgia state.
Già eravamo, a la seguente tomba,
montati de lo scoglio in quella parte
ch’a punto sovra mezzo ’l fosso piomba.
O somma sapienza, quanta è l’arte
che mostri in cielo, in terra e nel mal mondo,
e quanto giusto tua virtù comparte!
Io vidi per le coste e per lo fondo
piena la pietra livida di fori,
d’un largo tutti e ciascun era tondo.
Non mi parean men ampi nè maggiori
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35
che que’ che son nel mio bel San Giovanni,
fatti per loco d’i battezzatori;
l’un de li quali, ancor non è molt’ anni,
rupp’ io per un che dentro v’annegava:
e questo sia suggel ch’ogn’ omo sganni.
Fuor de la bocca a ciascun soperchiava
d’un peccator li piedi e de le gambe
infino al grosso, e l’altro dentro stava.
Le piante erano a tutti accese intrambe;
per che sì forte guizzavan le giunte,
che spezzate averien ritorte e strambe.
Qual suole il fiammeggiar de le cose unte
muoversi pur su per la strema buccia,
tal era lì dai calcagni a le punte.
“Chi è colui, maestro, che si cruccia
guizzando più che li altri suoi consorti”,
diss’io, “e cui più roggia fiamma succia?”
Ed elli a me: “Se tu vuo’ ch’i’ ti porti
là giù per quella ripa che più giace,
da lui saprai di sé e de’ suoi torti”
E io: “Tanto m’è bel, quanto a te piace:
tu se’ segnore, e sai ch’i’ non mi parto
dal tuo volere, e sai quel che si tace”
Allor venimmo in su l’argine quarto;
volgemmo e discendemmo a mano stanca
là giù nel fondo foracchiato e arto.
Lo buon maestro ancor de la sua anca
non mi dipuose, sì mi giunse al rotto
di quel che si piangeva con la zanca.
“O qual che se’ che ’l di sù tien di sotto,
anima trista come pal commessa”,
comincia’ io a dir, “se puoi, fa motto”.
Io stava come ’l frate che confessa
lo perfido assessin, che, poi ch’è fitto,
richiama lui per che la morte cessa.
Ed el gridò: “Se’ tu già costì ritto,
se’ tu già costì ritto, Bonifazio?
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Di parecchi anni mi menti lo scritto.
Se’ tu sì tosto di quell’ aver sazio
per lo qual non temesti torre a ’nganno
la bella donna, e poi di farne strazio?”.
Tal mi fec’ io, quai son color che stanno,
per non intender ciò ch’è lor risposto,
quasi scornati, e risponder non sanno.
Allor Virgilio disse: “Dilli tosto:
‘Non son colui, non son colui che credi’”;
e io rispuosi come a me fu imposto.
Per che lo spirto tutti storse i piedi;
poi, sospirando e con voce di pianto,
mi disse: “Dunque che a me richiedi?
Se di saper ch’i’ sia ti cal cotanto,
che tu abbi però la ripa corsa,
sappi ch’i’ fui vestito del gran manto;
e veramente fui figliuol de l’orsa,
cupido sì per avanzar li orsatti,
che sù l’avere e qui me misi in borsa.
Di sotto al capo mio son li altri tratti
che precedetter me simoneggiando,
per le fessure de la pietra piatti.
Là giù cascherò io altresì quando
verrà colui ch’i’ credea che tu fossi,
allor ch’i’ feci ’l sùbito dimando.
Ma più è ’l tempo già che i piè mi cossi
e ch’i’ son stato così sottosopra,
ch’el non starà piantato coi piè rossi:
ché dopo lui verrà di più laida opra,
di ver’ ponente, un pastor sanza legge,
tal che convien che lui e me ricuopra.
Nuovo Iasòn sarà, di cui si legge
ne’ Maccabei; e come a quel fu molle
suo re, così fia lui chi Francia regge”.
Io non so s’i’ mi fui qui troppo folle,
ch’i’ pur rispuosi lui a questo metro:
“Deh, or mi dì: quanto tesoro volle
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Nostro Segnore in prima da san Pietro
ch’ei ponesse le chiavi in sua balìa?
Certo non chiese se non ‘Viemmi retro’.
Né Pier né li altri tolsero a Matia
oro od argento, quando fu sortito
al loco che perdé l’anima ria.
Però ti sta, ché tu se’ ben punito;
e guarda ben la mal tolta moneta
ch’esser ti fece contra Carlo ardito.
E se non fosse ch’ancor lo mi vieta
la reverenza de le somme chiavi
che tu tenesti ne la vita lieta,
io userei parole ancor più gravi;
ché la vostra avarizia il mondo attrista,
calcando i buoni e sollevando i pravi.
Di voi pastor s’accorse il Vangelista,
quando colei che siede sopra l’acque
puttaneggiar coi regi a lui fu vista;
quella che con le sette teste nacque,
e da le diece corna ebbe argomento,
fin che virtute al suo marito piacque.
Fatto v’avete dio d’oro e d’argento;
e che altro è da voi a l’idolatre,
se non ch’elli uno, e voi ne orate cento?
Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,
non la tua conversion, ma quella dote
che da te prese il primo ricco patre!”.
E mentr’io li cantava cotai note,
o ira o coscienza che ’l mordesse,
forte spingava con ambo le piote.
I’ credo ben ch’al mio duca piacesse,
con sì contenta labbia sempre attese
lo suon de le parole vere espresse.
Però con ambo le braccia mi prese;
e poi che tutto su mi s’ebbe al petto,
rimontò per la via onde discese.
Né si stancò d’avermi a sé distretto,
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sì men portò sovra ’l colmo de l’arco
che dal quarto al quinto argine è tragetto.
Quivi soavemente spuose il carco,
soave per lo scoglio sconcio ed erto
che sarebbe a le capre duro varco.
Indi un altro vallon mi fu scoperto.
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39
UNA SPELONCA DI LADRI
Si narra negli Atti degli Apostoli (VIII, 9-20) che un tal Simone,
mago di Samaria, pretendeva di comprare da Pietro e da Giovanni la
facoltà di imporre le mani e di comunicare lo Spirito Santo; a lui Pietro rispose: “Vadano i tuoi denari in perdizione con te, poiché hai creduto che il dono di Dio si può acquistare con denaro”.
È costume dantesco ricorrere alla solennità biblica, o in forma di
citazione testuale o anche soltanto di reminiscenza concettuale, allorquando l’indignazione del poeta moralista necessita di supporti incontrovertibili, che assumono valore di legge morale per un pubblico,
come quello medievale, sicuramente aduso alla lettura dei testi sacri:
“che l’animo di quel ch’ode, non posa
né ferma fede per essempro ch’aia
la sua radice incognita ed ascosa,
né per altro argomento che non paia” (Par. XVII, vv.139-142)
E quale dimostrazione più evidente degli argomenti biblici, i quali assolvono nella struttura della Commedia la stessa funzione che
hanno gli affreschi nei templi della cristianità, ossia costituiscono un
mezzo di comunicazione immediato ed efficace: hanno cioè, il compito di colpire l’immaginario dell’ascoltatore o lettore che sia, di suggestionarlo e quindi di persuaderlo della giustezza delle tesi dell’autore, secondo i parametri canonici delle artes dictandi, valorizzando
col realismo la struttura retorica della poesia.
Orbene, l’utilizzazione della fonte scritturale suggerisce già un
primo possibile capovolgimento: Simon mago chiede agli apostoli che i doni dello Spirito gli siano concessi dietro pagamento del
proprio danaro, mentre i chierici medievali non solo comprano,
ma vendono anche decime, benefici, indulgenze, ordinazioni sacerdotali e privilegi personali e ad essi il Papa, a differenza di Pietro, consente ed avalla tale turpe commercio delle cose sacre. Sono Pietro e Dante che assolvono, invece, la medesima funzione,
poiché la perdizione profetizzata da Pietro a Simon mago, colpevole in fondo di aver soltanto ingenuamente creduto di poter per40
fezionare la propria arte taumaturgica, viene in questo canto comminata da Dante ai papi degeneri, rei di aver pesantemente e coscientemente infiltrato il malcostume della Simonia nella chiesa
medievale.
Che Dante ascriva l’ignobile peccato di cupidigia, simboleggiato
allegoricamente dalla lupa nel I canto dell’Inferno, a tanti cherci corrotti lo si vede già nel VII canto della stessa cantica 1; ma il peccato di
Simonia compete alle alte sfere della gerarchia ecclesiastica, fatta oggetto di dura condanna in relazione ai valori religiosi, etico-sociali e
politici che formano la coscienza dantesca.
Dante non esita, infatti, ad inserire in questo canto tre Papi –
Niccolò III, Bonifacio VIII, Clemente V – ma non tralascia di delineare a tratti fortemente negativi, nell’intera Commedia, altri Papi a
lui contemporanei (14 in tutto dal 1265 al 1316, anno della elezione di Giovanni XXII); di questi uno solo, Giovanni XXI, è sollevato alla gloria del Paradiso, posto nella seconda corona degli spiriti
sapienti (i mistici), ma di lui si parla in quanto filosofo, Pietro Spano, lo qual già luce in dodici libelli (cfr. Par. XII, vv. 134-135), e non
in quanto Papa.
Di altri cinque tace, quasi a voler confermare il suo Non ragioniam
di lor, ma guarda e passa (Inf. III, v. 51), rivolto agli ignavi, tra cui si
individua bene la figura di Celestino V, senza volerlo colpevole della
elezione pontificale di Papa Caetani.
Nel Purgatorio Clemente IV è tristemente noto come colui che mise il pastor di Cosenza alla caccia di Manfredi; Martino IV, che ebbe
la Santa Chiesa in su le braccia, purga per digiuno la sua golosità (cfr.
XXIV, vv. 22-23). Adriano V è posto tra gli avari, in un contesto che
riproduce perfettamente la punizione dei simoniaci infernali; essi sono tutti rivolti bocconi verso la terra:
“Si come l’occhio nostro non s’aderse
in alto, fisso a le cose terrene,
così giustizia qui a terra il merse”
(Purg. XIX, vv. 118-120).
__________
1
Cfr. Inf., c. VII, vv. 37-39.
41
Chiarissima la simmetria tra i canti XIX delle due cantiche ed analoghe le posizioni capovolte delle anime; ma il capovolgimento si intensifica per i simoniaci nell’escogitazione di un contrappasso per
contrasto rispetto alla loro colpa: essi sono conficcati in terra, fonte
della ricchezza e dei beni a cui aspirarono intensamente in vita, per
analogia col peccato commesso; in contrasto con il ministero apostolico da loro esercitato, rivolgono al cielo i piedi circonfusi di fuoco,
con una specie di aureola rovesciata, che ricorda il fiammeggiar delle
cose unte (cfr. ib. v. 28), anch’essa scoperta allusione all’unzione sacerdotale; e pongono in borsa se stessi.2
Infine, il Papa Giovanni XXII, ancora in vita alla morte di Dante,
è ricordato due volte nella Commedia per la sua indegnità: è accusato con feroce sarcasmo di Simonia nel XVIII canto del Paradiso:
“Ma tu che sol per cancellare scrivi,
pensa che Pietro e Paulo, che moriro
per la vigna che guasti, ancor son vivi”
(vv. 130-133)
poiché scomunica e per danaro annulla le scomuniche; ancora, Giovanni XXII è assimilato da S. Pietro al nostro simoniaco Clemente V
nel canto XXVII del Paradiso, attraverso i quali il primo papa denuncia la decadenza dell’istituzione 3. L’accusa verso questo Papa è la
stessa formulata contro i Papi del nostro canto ai vv. 90-96, in cui
compaiono, a suffragare la legittimità di tale duro giudizio, ben quattro citazioni scritturali, tre desunte dai Vangeli 4 condensate nell’unica espressione Vemmi retro (v. 93) ed una dagli Atti degli Apostoli 5:
questi Pontefici guastano la vigna per cui vivono nella gloria eterna
Pietro e Paolo e pertanto viene esplicitamente capovolto e contrapposto l’operato dei Papi medievali rispetto a quelli dei loro modelli
evangelici.
L’immagine della vigna come metafora della Chiesa, tratta dal
__________
2
Cfr. ib. v. 72: e qui me misi in borsa.
Cfr. Par. XXVII, vv. 40-60.
4
Cfr. Matteo IV, 19; Matteo XVI, 18-19; Marco 1, 17.
5
Cfr. Mattia 1, 23-26.
3
42
XVIII canto del Paradiso appena citato, ricorre frequentemente nei
testi biblici 6 e viene prescelta anche da Dante nel Par. XII a proposito di S. Domenico, eletto da Cristo quale agricola destinato
“
...a circuir la vigna
che tosto imbianca, se ‘l vignaio è reo”
(vv. 86-87)
La Santa Sede, un tempo generosa verso i poveri giusti, traligna
dunque per colpa di colui che siede, abusando spesso a proprio vantaggio di rendite e decime – quae sunt pauperum Dei – sostiene espressamente il poeta (cfr. Par. XII, vv. 88-93). Si capovolge così un vincolo essenziale che lega la chiesa ai principi apostolici di povertà e di comunione di beni: quello stesso vincolo che viene individuato insistentemente da Dante nel canto precedente a quello testé citato come un
vero sacrum commercium, ovvero le mistiche nozze tra Cristo-Francesco e la Chiesa-Povertà. Tale immagine, mutuata da Dante dalla mistica medievale, suole esprimere realisticamente – come evidenzia in
particolare Auerbach – lo stretto rapporto che intercorre tra la chiesa e i suoi adepti ed insiste sulla sacralità dei voti di povertà, obbedienza e castità a cui questi ultimi sono tenuti. Così Francesco, sposo
dopo millecent’anni e più della Povertà, privata del primo marito –
Cristo – rinnova nello spiritualismo medievale l’ideale pauperistico
rinnegato dalla mondanità ecclesiastica e per tal donna – Madonna
Povertà, appunto – non esita a correre in guerra del padre 7; i Papi simoniaci invece non temono di
“torre a’nganno
la bella donna e poi di farne strazio”
(ib. vv. 56-57)
come si dice esplicitamente a proposito di Bonifacio VIII.
Si configura così un evidente capovolgimento del legame maritale
__________
6
Cfr. i testi veterotestamentari di Genesi, Deuteronomio, Isaia; è nota la
parabola evangelica degli operai della vigna in Matteo XX, 1-6.
7
Cfr. Par. XI, vv. 58-75.
43
tra la Chiesa-Povertà ed il suo sposo terreno, che disonora il vincolo,
adulterandolo e tradendolo e per di più costringendo la sposa alla
sordida umiliazione della prostituzione. Il “mistico adulterio” – così
ci piace indicare il capovolgimento delle mistiche nozze – si evince da
quattro passi del canto in oggetto: nei vv. 2-4 i miseri seguaci di Simon
Mago vengono apostrofati come coloro che per oro e per argento
adulterano le cose di Dio, che devono essere spose di virtù; non temono di fare strazio della bella donna, dopo averla sposata con la frode (è sicuramente d’effetto l’uso del latinismo “uxorem o mulierem
tollere”); ancora più incisiva è l’interpretazione della profezia apocalittica di S. Giovanni (XVII, 1-3), viva negli ambienti spirituali medievali, in cui Dante ravvisa nella Roma cristiana, ossia la chiesa corrotta, la meretrice con la quale fornicarono i re della terra: ella, dotata dei sette sacramenti e sostenuta dai dieci comandamenti (le sette teste e le dieci corna, cui si fa riferimento ai vv. 109-110), rimase virtuosa finchè virtute al suo marito piacque (v. 111); infine, quando illegittimamente Costantino fornisce alla Chiesa i beni dotali, ossia il
temporalismo, la sposa, – non più dispetta e scura (cfr. Par. XI, v. 65)
– diviene ambita e ricercata proprio in virtù della sua ricchezza.
I papi, allettati da questa dote e colpevoli d’adulterio, si è detto, in
questo canto sono tre: Niccolò III è l’unico con cui – per ovvi motivi
storici (25/11/1277 - 22/08/1280) – Dante si intrattiene. Il meschino
e patetico personaggio (vv. 67-72) si riconosce subito come
“cupido si per avanzar li Orsatti”
(ib. v. 71).
Nell’espressione comica si coglie il condannabile nepotismo e l’indecoroso interesse privato che egli esercitò a scapito del proprio ufficio spirituale; il giudizio di Dante verso Niccolò III, Papa Orsini dedito all’accrescimento della propria prestigiosa famiglia, è certamente
severo:
“Però ti sta, che tu se’ ben punito”
(ib. v. 97),
poiché le rendite ecclesiastiche, arricchendolo, lo hanno reso arrogante anche contro l’autorità statale, se è vero che il Papa promosse
44
la sollevazione dei Vespri siciliani contro Carlo I D’Angiò nel 1282,
evento a cui, come leggiamo al v. 99, Dante sembra credere. Ma l’indignazione non raggiunge ancora toni drammatici; prevale, infatti,
una certa tendenza all’ironia e al grottesco, tesa a sminuire la statura
umana di un Papa che, in quanto vestito del gran manto (v. 69) ha sostenuto prioritariamente la propria famiglia, esercitando a suo vantaggio un favoritismo esasperato.8
Egli si cruccia, guizzando (vv. 31-32), piangeva con la zanca (v. 45)
come un bambino che pesta i piedi, con atteggiamento opposto alla
ieraticità del sommo sacerdozio ricoperto in terra, e sembra quasi voler giustificare le proprie colpe, rivelando che altri lo precedettero simoneggiando, ma che due soprattutto, ben più colpevoli, lo seguiranno nella dannazione.
Il primo successore, Bonifacio VIII, di cui si anticipa la punizione
eterna, ha ottenuto la cattedra pontificale per Simonia, ingannando
Celestino V; odioso a Dante anche per le feroci persecuzioni attivate
contro gli spirituali francescani, tra i quali fu sua vittima illustre Jacopone da Todi, è considerato dal Poeta il vero artefice delle lotte civili
tra Guelfi bianchi e Guelfi neri, poiché, alleato dei banchieri e dei ceti più facoltosi di Firenze, aveva favorito l’entrata di Carlo di Valois in
città e la conseguente cacciata dei Bianchi. Bonifacio VIII non è soltanto nemico personale di Dante, a danno del quale ordisce la trama
fraudolenta dell’esilio
“Questo si vuole e questo già si cerca
e tosto verrà fatto”
(Par. XVII, vv. 49-50),
ma è anche colui che fa pubblico mercato delle cose divine là dove
Cristo tutto dì si merca (Par. XVII, 51). La simonia di Bonifacio è pertanto più grave di quella di Niccolò, poiché non privilegia la sfera privata e gli interessi famigliari, ma si irradia nella vita politica italiana ed
__________
8
Nei bestiari medievali l’orsa era considerata animale avido ed ingordo, e
molto amante della prole. Gli Orsini erano detti “De filiis ursae”: l’etimologia
del cognome, a cui Dante fa scoperta allusione, conferma l’adesione del poeta al
nominalismo scolastico (nomina sunt consequentia rerum).
45
interferisce col tessuto sociale ed umano, facendo vittime innocenti,
come Dante stesso, exul immeritus. In questo climax ascendente Clemente V (Bertrand de Got) è certamente più colpevole: riconosciuto
dallo stesso Niccolò di più laida opra, un pastor sanza legge (cfr. ib, vv.
82-83), Clemente ha comprato l’appoggio del re Filippo il Bello per
l’elezione al pontificato e ne diventa succube; ha trasferito la sede della Curia pontificia ad Avignone ed ha complottato con lo stesso re per
la persecuzione e la spoliazione dei Templari 9 fino alla soppressione
dello stesso ordine cavalleresco: egli è il novello Giasone di cui si legge nei Maccabei (II, IV, 7-26), che comprò dal re Antioco IV Epifane
la dignità del Sommo sacerdozio; ma soprattutto ha contribuito al fallimento dell’impresa militare di Arrigo VII di Lussemburgo, in cui
Dante aveva riposto grandi speranze per il rinnovamento della politica imperiale:
“Ma pria che ’l Guasco l’alto Arrigo inganni” (Par. XVII, v. 82).
Scandalosa è dunque, l’opera di Clemente, la cui simonia non è solo privata e non si irradia solo nel contesto comunale italiano, ma investe in pieno il problematico rapporto tra Chiesa ed Impero, e la
stessa allusione veterotestamentaria, a lui riferita, rende più incisivo il
biasimo dell’autore.
Il riprovevole esempio fornito dai Papi degeneri non può che ripercuotersi sui costumi morali dell’intero consesso civile: la cupidigia
professata ed esercitata da coloro che dovrebbero costituire la guida
spirituale della comunità cristiana induce ad un inevitabile capovolgimento dei valori umani, poiché calcando i buoni e sollevando i pravi
(ib. v. 105), torce il mondo verso l’idolatria e verso il male.
La citazione biblica ravvisabile al v. 112 10 solennizza l’accusa di
Dante nei confronti di chi non solo delinque, ma istiga alla delinquenza, come sembra emergere anche nel Purgatorio (VIII, v. 131), in
cui il capo reo che torce il mondo dalla retta via è comunemente inteso dai commentatori come il detentore dell’autorità papale, e sempre
__________
9
10
46
Cfr. Purg. XX, vv. 91-93.
“Argentum suum et aurum suum fecerunt sibi idola”, tratta da Osea.
nel Purgatorio ( XVI, vv. 98 e segg.), in cui reo è il mondo che vede il
proprio pastore procedere senza distinguere il bene dal male e la cui
mala condotta induce l’umanità a farsi ghiotta di beni terreni.
Tali beni terreni, a cui aspira l’umanità in virtù della sua natura
mondana, dovrebbero essere ben distinti dai beni celesti, cui dovrebbe tendere l’umanità medesima in virtù della sua natura spirituale
proprio dietro la guida del Pontefice: l’inopportuna confusione dei
due poteri, quello temporale e quello spirituale, nelle mani dell’unica
persona del Papa, inaugurata dall’illegittima donazione di Costantino
è, secondo Dante, la causa del traviamento del mondo.
Il problema, sollevato da Dante nei vv. 115-117 del nostro canto,
viene sviscerato dal poeta – come si sa – nel libro III del De Monarchia: l’Impero, paragonato ad una tunica inconsutile, non può essere
alienato dal suo Imperatore né la Chiesa può accettare una proprietà
di cui non può detenere il possesso, “se bene intende ciò che Dio le
nota” (cfr. Purg., VI, v. 93); tale donazione, pertanto, pur fatta con pia
intentio 11 è fonte di quei gravissimi danni religiosi, morali e politici
che investono tutta la Chiesa, mostruosamente degradata e rappresentata anche nel Purgatorio 12 quale prostituta discinta, che seduce
con atteggiamento provocante, invitando alla corruzione, facendo
sempre ricorso a quella stessa immagine apocalittica già utilizzata ed
evidenziata nel nostro canto ai vv. 106-108. L’intenzion sana e benigna
di Costantino 13, ossia la dote fornita alla Sposa di Cristo, diventa pertanto nelle mani dei vicari degeneri di Pietro la causa dell’ingiustizia
umana.
La simonia religiosa, in quanto violazione di vincoli sacramentali
ed alterazione di norme e precetti essenziali della dottrina cristiana,
altro non è che peccato di eresia, come sostiene anche S. Tommaso
nella Summa Theologiae, a conferma della condanna conciliare della
simonia, emessa dal Concilio Lateranense del 1059.
D’altronde, l’analogia concettuale con il canto X dell’Inferno, in
__________
11
Cfr. De Monarchia II, 11-18.
Cfr. Purg. XXXII, vv. 142 e segg.
13
Cfr. Purg. XXXII, v. 138.
12
47
cui in avelli infuocati sono relegati gli epicurei e gli eretici, si delinea
in vari possibili accostamenti, caratterizzati dal motivo del capovolgimento; già Porena, nel 1902, aveva definito Niccolò III un Farinata
capovolto, proprio per l’opposta positura fisica dei due: Farinata si
solleva dalla cintola in su dall’arca infuocata, mentre Niccolò, capofitto nella buca, non a caso definita da Dante una tomba (v. 7), fuoriesce de
“...li piedi e de le gambe
infino al grosso, e l’altro dentro stava”.
(ib. vv. 23-24)
Ma si può sottolineare ancora la presenza del fuoco, che nel canto
X avvolge gli avelli, mentre nel XIX sta sulle piante entrambe accese,
con un aggravio di realistica degradazione, enfatizzata anche dalla durezza del linguaggio
“tal era lì dai calcagni a le punte”
(ib. v. 30).
Opposta è anche la statura morale dei personaggi principali dei
due canti, come si rileva dalla posizione fiera e statuaria di Farinata
che, imperturbabile e dignitoso, mostra d’avere l’inferno a gran dispitto (cfr. Inf. X, v. 36) mentre Niccolò
“... si cruccia
guizzando più che li altri suoi consorti”,
(cfr. ib. vv. 31-32)
e manifesta in tutti i suoi atteggiamenti meschinità e ridicola bassezza
d’animo; eppure, entrambe costituiscono due figurae impletae, Farinata eroico nella sua sofferenza morale che, causata dagli ideali politici delusi, prevale persino sul tormento della dannazione; Niccolò,
smanioso e cinico, bestiale nell’aldilà così com’era stato in vita:
“e veramente fui figliuol de l’orsa” .
(ib. v. 70).
Infine, sia gli eretici che i simoniaci non vedono distintamente il
futuro e pertanto cadono in equivoco sia Cavalcante de’ Cavalcanti,
allorquando teme che il figlio Guido sia già morto, sia Niccolò III, il
48
quale sente la presenza di Dante accanto a sé ed erroneamente suppone che si tratti di Bonifacio, ritto ancora per poco:
“Di parecchi anni mi mentì lo scritto.”
(ib. v. 54).
Eretici sono pertanto anche i simoniaci, i quali hanno adorato
il denaro come unica divinità, divenuta per loro un vero e proprio
Anticristo (un ulteriore capovolgimento!): l’immagine dell’Anticristo è confermata anche dall’avverbio sottosopra (cfr. ib. v. 80), che
si trova solo due volte nel poema, qui riferito a Niccolò III e nel
XXXIV della stessa cantica a Lucifero (v. 104). L’Anticristo, idolo
profano, è enfatizzato dal ricorso ossessivo ai termini oro, argento,
avarizia, avere, borsa, dote e dai durissimi riferimenti scritturali attinenti 14.
La simonia etico-sociale, in quanto causa di degenerazione civile e
d’ingiustizia umana, è assimilata all’omicidio per danaro: non è un caso che Dante ricorra all’immagine realistica dell’esecuzione per propagginazione comminata in epoca medievale ai sicari, che venivano
capovolti in una buca, proprio come Niccolò III, verso il quale Dante si curva come il confessore presso il perfido assessin (cfr. ib. v. 50):
capovolgendo i ruoli, infatti, Dante laico diventa il frate confessore e
Niccolò III, papa addirittura!, il peccatore condannato. Il Poeta, però, non si limita a recepire la confessione del dannato, piuttosto si erge a rigido censore e a giudice inflessibile, quasi un esecutore della
giustizia divina, producendosi in una dura requisitoria che si avvale
delle tecniche più consumate della retorica classica.
La sua impietosa sentenza di condanna, visibilmente gradita alla
guida-ragione, non usa parole ancor più gravi (cfr. ib. v. 103), solo perché lo
“...vieta
la reverenza de le somme chiavi”
(cfr. ib. vv. 100-101).
__________
14
Cfr. i passi già citati del Vecchio e del Nuovo Testamento, Osea ed Apocalisse.
49
Il dubbio pretestuoso di aver trasceso i limiti della reverentia filiale dovuta da ciascun individuo all’autorità del papa è ben espresso
dalla parola folle:
“Io non so s’i’ mi fui qui troppo folle,”
(ib. v. 88),
che nella poesia dantesca assume il senso di chi va oltre i confini del
consentito, di quell’oltranza dissacrante in distonia col disegno divino, spesso attribuita dal poeta al mondo pagano ed ai suoi comportamenti dissennati; basti pensare al folle volo di Ulisse (cfr. Inf., XXVI,
v. 125) o al folle amore raggiato dalla bella Ciprigna (cfr. Par., VIII, v.
2) o alla gente folle, priva cioè della rivelazione cristiana (cfr. Par.,
XVII, v. 31).
L’obbligo morale dell’osservanza di tale reverenza, documentata
chiaramente nel De Monarchia, diventa dunque requisito irrinunciabile di dottrina per il cristiano e come tale ribadito anche nel Purgatorio dove, in riferimento all’oltraggio subito dal papa Bonifacio VIII
ad opera degl’inviati del re Filippo il Bello, episodio noto come lo
“schiaffo di Anagni”, Dante condanna recisamente l’arroganza intollerabile di tale atto ed assimila pure l’odioso ed indegno pontefice a
Cristo, fatto prigioniero nella persona del suo vicario terreno:
“Veggiolo un’altra volta esser deriso;
veggio rinnovellar l’aceto e ’l fiele,
e tra vivi ladroni essere anciso”.
(Purg . XX, vv. 88-90).
Da quanto detto sinora appare chiaro che tale peccato, oltre che
eresia religiosa ed omicidio prezzolato, delitto contro la società civile,
è anche frode politica, poiché si configura come indebita usurpazione d’illegittimo temporalismo, a tal punto ingiustificabile che neanche
la succitata reverenza delle somme chiavi e del gran manto potrebbe
mai indurre il Poeta a rendersi complice della colpevole degenerazione del successor Petri.
Contribuiscono non poco ad esplicitare l’avversione di Dante nei
confronti della Simonia il linguaggio e lo stile del canto XIX, come è
solito avvenire nella Commedia, in cui il plurilinguismo altro non è
che l’apte dicere, di ciceroniana memoria. Ciò che il Poeta prova in50
timamente è un sentimento d’ira e raccapriccio, che si tinge ora di notazioni ironiche:
“che sù l’avere e qui me misi in borsa.”
ora di immagini basse e grottesche:
“puttaneggiare”
“che si cruccia / guizzando”
“e cui più roggia fiamma succia?”
“come pal commessa”
(ib. v. 72);
(cfr. v. 108)
(cfr. vv. 31-32)
(cfr. v. 33)
(cfr. v. 47);
ora d’echi scritturali solenni e declamatori, sin dal primo verso; ora di
un’asprezza fonica costruita ad arte attraverso l’accostamento di ardui
fonemi consonantici, già sperimentato nelle “Rime petrose” (S sorda;
Z dura; consonanti doppie, specie dentali e gutturali; nonché la successione di liquide vibranti); ora, infine, si stagliano nettamente ricercati artifici retorici, quali la “conduplicatio” 15 L’uso di tale conduplicatio comporta non solo l’immediata geminatio di singoli elementi fonici, spesso iterati ed allitteranti (sono numerosissime le parole con
consonanti doppie, specie nei vv. 44-54), ma anche la ripetizione di
intere espressioni, come:
“... se’ tu già costì ritto,
se’ tu già costì ritto, Bonifazio?”
(cfr. ib. vv. 52-53);
“Non son colui, non son colui che credi”
(cfr. ib. v. 62)
fino al capovolgimento di sillabe in forme anagrammatiche, come
guizzavan le giunte (v. 26) o intrambe, strambe, strema (vv. 25; 27; 29)
o orsa, orsatti, borsa (vv. 70; 71; 72).
E perché non dovrebbe esser lecito ricorrere all’espressione pirandelliana, assai più moderna, ma efficace, dell’avvertimento del contrario, per definire lo spirito comico-grottesco del canto, che indivi-
__________
15
Tecnica stilistica teorizzata nel Documentum de arte versificandi di Goffredo di Vinsauf e nell’Ars versificatoria di Matteo di Vendôme, secondo cui la
conduplicatio è l’immediata “geminatio eiusdem dictionis in eodem versu”.
51
dua bene anche nello stile quel leit-motiv del capovolgimento che ci
siamo prefissate di ricercare?
Consentiteci, in chiusura, di suggellare la solennità dell’apostrofe
dantesca contro la simonia, in ossequio alla simmetria circolare che
caratterizza tanti canti della Commedia, proprio con un riferimento al
Vangelo, dato che coi testi sacri abbiamo esordito; tale episodio evangelico che ci accingiamo a leggere, brevissimo ma incisivo, come testimonia la straordinaria coincidenza di termini e di immagini, avrà sicuramente ispirato Dante che, anche se non lo cita esplicitamente,
certo s’atteggia, nel canto che abbiamo esaminato, con lo stesso vibrato sdegno che manifesta Gesù verso i profanatori del tempio.
Narra Matteo che: “Gesù entrò nel tempio e ne scacciò tutti quelli che vendevano e che compravano nel tempio, rovesciò i tavoli dei
cambiamonete e i seggi dei venditori di colombe, dicendo loro: “Sta
scritto: la mia casa sarà chiamata casa di preghiera, ma voi ne fate una
spelonca di ladri”.
Siracusa, maggio 1998
52
PURGATORIO, c. VI
La trattazione politica nell’opera dantesca è ampia, complessa e assolutamente asistematica, come ben sappiamo, eccetto che nel De
Monarchia, in cui essa, articolandosi e svolgendosi secondo i moduli
della Scolastica medievali, perviene a conclusioni originali e del tutto
razionali: parafrasando il libro del Genesi, infatti, Dante dimostra nel
III libro del De Monarchia che i duo magna luminaria biblici non sono affatto l’uno maius e l’altro minus, ossia l’uno brillante di luce
propria e l’altro di luce riflessa, ma sono in realtà due soli, ciascuno
dei quali, diversamente deputati alla felicità dell’uomo, è destinato a
menare dritto altrui per ogne calle (cfr. Inf. I, v. 18).
Tale premessa si rende imprescindibile per la lettura del c. VI del
Purgatorio, dal quale abbiamo inteso muoverci nella nostra indagine
storico-filologica sulla situazione politica contemporanea a Dante per
poterci idealmente ricollegare alla nostra prima conversazione sulla
corruzione del Papato: Papato e Impero sono infatti i due soli, di cui
dicevamo, ed entrambi vengono citati in giudizio – nel nostro canto –
dinanzi al tribunale divino, in quanto rei di condotte illecite e responsabili di guasti morali.
Ecco perché, più efficace degli altri canti politici, il VI del Purgatorio costituisce un punto centrale nell’universo dei possibili riferimenti testuali che la Commedia ci offre sull’argomento e meglio degli
altri risulta databile in strettissima prossimità della composizione del
De Monarchia (la datazione del 1311, già sostenuta da qualcuno, ci è
sembrata la più plausibile, grazie anche a significative comparazioni
testuali che vi sottoporremo).
In secondo luogo, ci è parsa di grande attualità la sua famosissima
“digressione”, in cui, superando i particolarismi municipalistici o di
fazione, ancor oggi assai nocivi, il Poeta concepisce un ideale di nazione che è contemporaneamente “localistico e sovranazionale, particolaristico ed universale”, come dice Getto 1, tutt’altro che utopistico,
__________
1
Getto: La poesia dell’intelligenza, in Aspetti della poesia di Dante, Sansoni,
Firenze 1965.
53
anzi piuttosto realistico per noi che da Italiani ci riconosciamo cittadini d’Europa. L’Italia come nuovo “giardino” d’Europa? Non ci sarebbe da stupirsi: Dante è stato proclamato di recente da autorevoli
voci della cultura mondiale “il poeta del terzo millennio”: ed una
proiezione in un illimitato futuro è insita proprio nella suggestiva dimensione profetica del nostro canto.
La terza, ma non ultima per importanza, sollecitazione alla lettura
del canto è di natura squisitamente poetica: dobbiamo ammettere, infatti, di esserci lasciate suggestionare nella scelta dalla presenza – tutt’altro che secondaria – del poeta Sordello, di cui metteremo subito in
evidenza e l’importanza figurale e la funzione comunicativa altamente emotiva: Sordello da Goito, trovatore franco-veneto, che Dante
mostra di apprezzare anche nel De Vulgari Eloquentia (I. 15.2) proprio per la sua scelta universalistica di poetare in lingua d’oc, era noto nel Trecento per un suo famoso planh, il “Compianto in morte di
Sir Blacatz” (1236), un’apostrofe vivace e polemica in cui egli, passando in rassegna i personaggi politici eminenti dell’epoca, da Federico II ai re di Francia, di Navarra, di Aragona fino ai Signori di Provenza, li invita a cibarsi del cuore di Sire Blacatz per poterne acquisire i pregi.
Orbene, nella nostra conversazione abbiamo cercato di far tesoro
del suggerimento del planh ed infatti anche noi vi proponiamo uno
spaccato di storia medievale ricostruito – o meglio ricucito – filologicamente dalla Commedia dantesca, attraverso la disamina delle due
dinastie principali, quella ghibellina degli Svevi-Asburgo e quella
guelfa degli Angioni.
E dunque nel suo planh Sordello cerca il principe degno, esattamente come Dante, e ne costituisce perciò nel VI canto l’immediato
riflesso poetico: la sua anima, non inserita in alcuna schiera, sembra
far parte per se stessa; è sola soletta ( v. 59), altera e disdegnosa (v .62),
onesta e tarda (v. 63), sguarda a guisa di leon (vv. 66), tutta in sé romita (v. 72). La tensione vibrante che ne caratterizza l’immagine si rivela proprio nella reduplicazione intensiva dell’aggettivazione e fa
emergere con chiarezza il carattere aristocratico e fiero, austero e dignitoso, sdegnoso dei compromessi e piuttosto incline all’isolamento
dalla turba spessa (v. 10) ed al raccoglimento pensoso, tratti caratteriali del tutto analoghi a quelli del poeta, come traspare da tutta la sua
54
opera ed in particolare dall’Epistola XII all’amico fiorentino. Anche
Sordello ci appare nell’Antipurgatorio quasi un “exul immeritus” come Dante lo è in terra e, sprezzante del giudizio dei suoi contemporanei, manifesta la stessa onestà intellettuale di Dante, pur nella consapevolezza che la verità, che spesso ha sapor di forte agrume (cfr. Par.
XVII, v. 117) lo renderà inviso ai potenti: “I Signori mi porteranno
rancore per ciò ch’io dico; ma sappiano che io non li pregio più di
quanto essi pregino me” 2. E però questo magnanimo, che grazie al
suo essere poeta e non politico ha saputo superare i limiti della municipalità, interpellando tutti i potenti del suo tempo, si anima di
grande passione sol per lo dolce suon della sua terra (ib. v. 80), di quello stesso amor di patria di cui freme Dante per Firenze e per l’Italia e
da cui scaturisce il valore universale della ben nota digressione del nostro canto.
Quando si parte il gioco de la zara,
colui che perde si riman dolente,
repetendo le volte, e tristo impara;
con l’altro se ne va tutta la gente;
qual va dinanzi, e qual di dietro il prende,
e qual da lato li si reca a mente:
el non s’arresta, e questo e quello intende;
a cui porge la man, più non fa pressa;
e così da la calca si difende.
Tal era io in quella turba spessa,
volgendo a loro, e qua e là, la faccia,
e promettendo mi sciogliea da essa.
Quiv’era l’Aretin che da le braccia
fiere di Ghin di Tacco ebbe la morte,
e l’altro ch’annegò correndo in caccia.
Quivi pregava con le mani sporte
Federigo Novello, e quel da Pisa
che fe’ parer lo buon Marzucco forte.
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__________
2
Traduzione it. di A. Roncaglia in Le più belle pagine della letteratura d’oc e
d’oil. Nuova Accademia, Milano 1962.
55
Vidi Conte Orso e l’anima divisa
dal corpo suo per astio e per inveggia,
com’e’ dicea, non per colpa commisa;
Pier da la Broccia dico; e qui proveggia,
mentr’è di qua, la donna di Brabante,
si che però non sia di peggior greggia.
Come libero fui da tutte quante
quell’ombre che pregar pur ch’altri prieghi,
si che s’avacci lor divenir sante,
io cominciai: “El par che tu mi nieghi,
o luce mia, espresso in alcun testo
che decreto del cielo orazion pieghi;
e questa gente prega pur di questo:
sarebbe dunque loro speme vana,
o non m’è ‘1 detto tuo ben manifesto?”
Ed elli a me: “La mia scrittura è piana;
e la speranza di costor non falla,
se ben si guarda con la mente sana;
ché cima di giudicio non s’avvalla
perché foco d’amor compia in un punto
ciò che de’ sodisfar chi qui s’astalla;
e là dov’io fermai cotesto punto,
non s’ammendava, per pregar, difetto,
perché ‘l priego da Dio era disgiunto.
Veramente a così alto sospetto
non ti fermar, se quella nol ti dice
che lume fia tra ‘l vero e lo ‘ntelletto:
non so se ‘ntendi: io dico di Beatrice;
tu la vedrai di sopra, in su la vetta
di questo monte, ridere e felice”.
E io: “Segnore, andiamo a maggior fretta,
ché già non m’affatico come dianzi,
e vedi omai che ‘l poggio l’ombra getta”.
“Noi anderem con questo giorno innanzi”,
rispuose, “quanto più potremo omai;
ma ‘l fatto è d’altra forma che non stanzi.
Prima che sie là su, tornar vedrai
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colui che già si cuopre de la costa,
si che’ suoi raggi tu romper non fai.
Ma vedi là un’anima che, posta
sola soletta, inverso noi riguarda:
quella ne ’nsegnerà la via più tosta”.
Venimmo a lei: o anima lombarda,
come ti stavi altera e disdegnosa
e nel mover de li occhi onesta e tarda!
Ella non ci dicea alcuna cosa,
ma lasciavane gir, solo sguardando
a guisa di leon quando si posa.
Pur Virgilio si trasse a lei, pregando
che ne mostrasse la miglior salita;
e quella non rispuose al suo dimando,
ma di nostro paese e de la vita
ci ’nchiese; e ’l dolce duca incominciava
“Mantua...”, e l’ombra, tutta in sé romita,
surse ver’ lui del loco ove pria stava,
dicendo: “O Mantoano, io son Sordello
de la tua terra!”; e l’un l’altro abbracciava.
Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di provincie, ma bordello!
Quell’anima gentil fu cosi presta,
sol per lo dolce suon de la sua terra,
di fare al cittadin suo quivi festa;
e ora in te non stanno sanza guerra
li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode
di quei ch’un muro e una fossa serra.
Cerca, misera, intorno da le prode
le tue marine, e poi ti guarda in seno,
s’alcuna parte in te di pace gode.
Che val perché ti racconciasse il freno
Iustiniano, se la sella è vota?
Sanz’esso fora la vergogna meno.
Ahi gente che dovresti esser devota,
e lasciar seder Cesare in la sella
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se bene intendi ciò che Dio ti nota,
guarda come esta fiera è fatta fella
per non esser corretta da li sproni,
poi che ponesti mano a la predella.
O Alberto tedesco ch’abbandoni
costei ch’è fatta indomita e selvaggia,
e dovresti inforcar li suoi arcioni,
giusto giudicio da le stelle caggia
sovra ’l tuo sangue, e sia novo e aperto,
tal che ’l tuo successor temenza n’aggia!
Ch’avete tu e ‘l tuo padre sofferto,
per cupidigia di costà distretti,
che ’l giardin de lo ’mperio sia diserto.
Vieni a veder Montecchi e Cappelletti,
Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura:
color già tristi, e questi con sospetti!
Vien, crudel, vieni, e vedi la pressura
d’i tuoi gentili, e cura lor magagne;
e vedrai Santafior com’è oscura!
Vieni a veder la tua Roma che piagne
vedova e sola, e dì e notte chiama:
“Cesare mio, perché non m’accompagne?”.
Vieni a veder la gente quanto s’ama!
e se nulla di noi pietà ti move,
a vergognar ti vien de la tua fama.
E se licito m’è, o sommo Giove
che fosti in terra per noi crucifisso,
son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?
O è preparazion che ne l’abisso
del tuo consiglio fai per alcun bene
in tutto de l’accorger nostro scisso?
Ché le città d’Italia tutte piene
son di tiranni, e un Marcel diventa
ogne villan che parteggiando viene.
Fiorenza mia, ben puoi esser contenta
di questa digression che non ti tocca,
mercé del popol tuo che si argomenta.
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Molti han giustizia in cuore, e tardi scocca
per non venir sanza consiglio a l’arco;
ma il popol tuo l’ha in sommo de la bocca.
Molti rifiutan lo comune incarco;
ma il popol tuo sollicito risponde
sanza chiamare, e grida: “I’ mi sobbarco!”.
Or ti fa lieta, ché tu hai ben onde:
tu ricca, tu con pace, e tu con senno!
S’io dico ’l ver, l’effetto nol nasconde.
Atene e Lacedemona, che fenno
l’antiche leggi e furon sì civili,
fecero al viver bene un picciol cenno
verso di te, che fai tanto sottili
provedimenti, ch’a mezzo novembre
non giugne quel che tu d’ottobre fili.
Quante volte, del tempo che rimembre,
legge, moneta, officio e costume
hai tu mutato, e rinovate membre!
E se ben ti ricordi e vedi lume,
vedrai te somigliante a quella inferma
che non può trovar posa in su le piume,
ma con dar volta suo dolore scherma.
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IL PLANH DI DANTE
Il 17 aprile del 1311 Dante indirizza ad Arrigo VII di Lussemburgo un’ampia epistola di argomento politico, che si presta ad una
lettura speculare col canto VI del Purgatorio, costituendone l’irrinunciabile presupposto storico. Arrigo VII, scelto dai grandi elettori nel 1308 quale successore di Alberto d’Asburgo, morto senza eredi, viene preferito a Carlo di Valois, sostenuto dal re di Francia, Filippo il Bello. La fama di Arrigo quale principe giusto fa credere agli
elettori che egli possa essere facilmente influenzabile, una volta che
abbia raggiunto il potere. La novità e la rapida attuazione del disegno politico di Arrigo, intento a sedare le rivolte dei feudatari tedeschi e ad allargare i domini personali, pur senza trascurare i territori del Sacro Romano Impero abbandonati dai predecessori, inducono invece gli intellettuali più illuminati, di cui Dante si fa portavoce nell’Epistola VII, a nutrire fervide speranze che le discordie civili e i contrasti tra i Comuni possano placarsi proprio grazie alla mediazione dell’Imperatore, autorità suprema ed universale, come testimonia a Milano la conciliazione tra la fazione dei Torriani (Guelfi) e dei Visconti (Ghibellini). Il progetto di Arrigo comincia però a
vacillare dopo il 1310, anno in cui si prospettano due eventi determinanti, destinati a rinsaldare il suo potere: un legame matrimoniale con gli Angioini di Napoli, che avrebbe fiaccato la resistenza delle forze guelfe, e l’incoronazione ufficiale a Roma da parte di Clemente V. Ma, come Dante fa predire a Beatrice nel c. XXX del Paradiso, il trono imperiale di Arrigo sarà destinato ad essere occupato
solo in cielo:
“ E ’n quel gran seggio a che tu li occhi tieni
per la corona che già v’è su posta,
prima che tu a queste nozze ceni,
sederà l’alma, che fia giù agosta,
de l’alto Arrigo, ch’a drizzare Italia
verrà in prima ch’ella sia disposta”. (Par. XXX, vv. 133-38)
60
L’Italia non è disposta: fermatosi, infatti, a Milano dove viene incoronato con la corona ferrea Rex Romanorum nel 1311, l’Imperatore assiste alla ribellione delle città lombarde (Cremona, Brescia, Pavia, Bergamo e Vercelli), città che la cieca cupidigia ha rese irrazionali e simili
“ …al fantolino
che muor per fame e caccia via la balia” (Par. XXX, vv. 140-41)
L’imprudente desistenza dell’Imperatore induce allora Dante a
pronunciare le parole famose di Curione a Cesare 3: “Leva gli indugi,
mentre le parti trepidano non fatte solide da alcuna forza; sempre nocque
il differire a chi è pronto: un’uguale fatica ed un uguale timore si pagano
a prezzo maggiore”. Insomma, il pericolo incombente è che l’empia Mirra (Ep. VII, 7, 89), cioè Firenze, con l’aiuto di Roberto d’Angiò riorganizzi le proprie forze, sobillando ogni giorno la superbia dei cattivi; si
vergogni, dunque – prosegue Dante – di essere irretito così a lungo in
una strettissima aia del mondo chi il mondo intero attende; e non sfugga
alla circospezione di Augusto che la tirannide toscana confida nella fiducia del ritardo…aggiungendo temerarietà alla temerarietà (Ep. VII, 2).
L’ostilità crescente delle città guelfe persuade pertanto Clemente V, sostenuto occultamente da Filippo il Bello, all’inganno, ossia a ritirare il
suo appoggio all’alto Arrigo (Par. XVII, v. 82), e la promessa incoronazione nella basilica di San Pietro si svolgerà, per necessità, in San
Giovanni in Laterano, ad opera di un vicario apostolico nel 1312, appena pochi mesi prima dell’improvvisa morte di Arrigo:
“ E fia prefetto nel foro divino
allora tal, che palese e coverto
non anderà con lui per un cammino.
Ma poco poi sarà da Dio sofferto
nel santo officio: ch’el sarà detruso
là dove Simon Mago è per suo merto,
e farà quel d’Alagna intrar più giuso”. (Par. XXX, vv.142-48)
__________
3
Cfr. Ep. VII, 4, 50.
61
Il mondo intero, dunque, attende il suo renovator e la discesa di
Arrigo in Italia sembra colmare quest’attesa messianica e promettere
quella plenitudo temporis 4 annunciata, sul finire del XII sec., dal
“calavrese abate Giovacchino
di spirito profetico dotato” .
(Par. XII, vv.140-141)
Gioacchino da Fiore, che Dante inserisce nella corona dei mistici
in Paradiso, aveva infatti preconizzato l’avvento di una terza era, in
cui ad immani disastri avrebbe fatto seguito una palingenesi universale: tali accenti profetico-apocalittici risuonavano spesso nella mistica francescana, specie nella predicazione di quell’Ubertino da Casale,
capo degli Spirituali, sicuramente conosciuto dal Poeta, che ne fa
esplicita menzione nello stesso canto XII del Paradiso (cfr. v. 124).
Dante, recependo le istanze joachimitiche, si fa a sua volta profeta –
come Giovanni Battista – dell’avvento del Messia; ciò lo induce a rivolgere ad Arrigo VII nella nostra Epistola espressioni solenni, stillanti sacertà evangelica 5 ed afflati apocalittici: “…siamo indotti dall’incertezza a dubitare e a prorompere così nelle parole del Precursore:
“Sei tu che devi venire o aspettiamo un altro?” E benché la lunga sete,
come suole, furiosa pieghi nel dubbio ciò che, per essere vicino, è certo
nondimeno in te crediamo e speriamo, affermando che tu sei il Ministro
di Dio e Figlio della Chiesa e il Promotore della gloria di Roma…Allora in te esultò lo spirito mio, quando in silenzio mi dissi: “Ecco l’agnello di Dio, ecco Colui che toglie i peccati del mondo” (Ep. VII, 2).
Non v’è dubbio che le aspettative di Dante si appuntino dunque
tutte sulla sola figura dell’Imperatore, definito con espressioni addirittura ieratiche, improntate ad un senso grave e solenne di sacralità e
devozione, deluso com’è ormai dalla corruzione dei Pontefici, simoniaci e latitanti, come lo stesso Clemente V, colpevole peraltro di aver
lasciato Roma a causa del trasferimento da lui operato della Curia papale ad Avignone. “La Chiesa ora non è più Chiesa” 6 sostiene con to-
__________
4
Cfr. S. Paolo, Gal. IV, 4; De Monarchia I, 14, 2.
Cfr. Matteo III, 15.
6
Cfr. Apocalisse XVII, 8: “la bestia che tu hai visto fu e non è”.
5
62
ni apocalittici il poeta nel canto XXXIII del Purgatorio, affidando alla verità sapienziale di Beatrice la rivelazione di oscuri eventi futuri ed
imprescrittibili censure divine, ma soprattutto ricevendo da lei la sua
prima investitura ufficiale di poeta-profeta:
“Sappi che ’l vaso che ’l serpente ruppe,
fu e non è; ma chi n’ha colpa, creda
che vendetta di Dio non teme suppe.
Non sarà tutto tempo sanza reda
l’aguglia che lasciò le penne al carro,
per che divenne mostro e poscia preda;
ch’io veggio certamente, e però il narro,
a darne tempo già stelle propinque,
secure d’ogn’intoppo e d’ogne sbarro,
nel quale un cinquecento diece e cinque,
messo di Dio, anciderà la fuia
con quel gigante che con lei delinque.” (Purg. XXXIII, vv. 34-45)
La parafrasi letterale dei versi citati si rende indispensabile per
l’importanza dei riferimenti testuali attinenti: “Non resterà in eterno
senza un erede legittimo l’aquila imperiale che aveva lasciato la sua
autorità alla Chiesa, che per questo divenne mostro e poi preda del gigante; perché io vedo con chiarezza – e perciò te lo rivelo – stelle vicine e propizie annunciare la venuta di un DUX, un messo di Dio, che
ucciderà la ladra con quel gigante che con lei commette peccato”.
Tutto fa pensare che anche in questi versi campeggino i personaggi di
cui ci stiamo occupando e le istituzioni politiche e religiose di cui il
Poeta auspica la renovatio: il vaso o carro e la fuia sono rispettivamente la Chiesa e il Papa Clemente V; il “gigante” 7 è il re di Francia,
Filippo il Bello; il “cinquecento diece e cinque” anagramma di DUX
in cifre romane, l’inviato da Dio, l’erede dell’aquila è con ogni probabilità proprio Arrigo VII di Lussemburgo.
La potentior principalitas di Roma, sede provvidenziale sia dell’Aula che della Curia, viene sostenuta espressamente da Dante nel
__________
7
Nell’Ep. VII assimilato a Golia.
63
De Monarchia: “Opus fuit homini duplici directivo secundum duplicem
finem, scilicet summo pontifice, qui secundum revelata humanum genus
perduceret ad vitam aeternam, et imperatore, qui secundum philosophica documenta genus humanorum et temporalem felicitatem dirigeret” 8.
La medesima concezione viene ribadita efficacemente anche nel c.
XVI del Purgatorio:
“Soleva Roma, che il buon mondo feo,
due soli aver, che l’una e l’altra strada
facean vedere, e del mondo e di Deo” (vv. 106-108).
Ma nel 1311 Roma è deserta e, abbandonata dal Pontefice, invoca
la presenza dell’Imperatore:
“…piagne
vedova e sola, e dì e notte chiama:
“Cesare mio, perché non mi accompagne?” (cfr. ib. vv. 112-114).
Se ora consideriamo che, secondo le conoscenze dantesche, Costantino, indicato nel De Monarchia 9 come primo infirmator Imperii,
aveva trasferito la sede imperiale a Bisanzio nel 333 d.C. (se rispettiamo la cronologia di Brunetto Latini), lasciando Roma in dotazione alla Chiesa, quale sede pontificia, il disegno dell’Imperatore Arrigo VII
di tornare a Roma in assenza del Papa, che aveva trasferito ad Avignone la sua dimora, costituisce proprio ora, nel 1311, un evento
straordinario, che assume il valore di un intervento provvidenziale in
coincidenza con scadenze millenarie, proverbialmente apocalittiche.
Dante confida allora che sia l’Imperatore il Davide inviato ad abbattere Golia, a ripristinare la dignità dell’impero di Roma, di cui si
fa provvidenziale reggitore, pur rimanendo devoto figlio della Chiesa; ed infatti il potere temporale da lui incarnato non riguarda la
Chiesa né da essa deriva.10 In forza di tale convinzione, Dante so-
__________
8
Cfr. De Monarchia, III, 15.
Cfr. De Monarchia, II, 13.
10
Cfr. De Monarchia, III, 13: “Ecclesia non existente aut non virtuante, Imperium habuit totam suam virtutem”.
9
64
stiene così indirettamente le posizioni filo-ghibelline dei Visconti e
di Cangrande della Scala, fidi alleati di Arrigo; la polemica è piuttosto rivolta contro i decretalistae, i giuristi della Curia, che, pervertendo l’insegnamento della Chiesa, forniscono una giustificazione teoretica ai decreti dei Pontefici, attribuendo loro la stessa autorità della Sacra Scrittura; l’ostilità è manifesta anche contro il principio teocratico decretato dalla bolla papale “Unam sanctam”, promulgata da Bonifacio VIII nel 1302, con cui si sancisce la plenitudo potestatis, ossia la legittimità di congiungere la spada col pasturale 11, in caso di vacanza del potere temporale. Tale legittimità è contestata con sdegno da S. Pietro:
“Quelli che usurpa in terra il luogo mio,
il luogo mio, il luogo mio che vaca
ne la presenza del Figliuol di Dio,
fatt’ha del cimitero mio cloaca,
del sangue e della puzza: onde ‘l perverso
che cadde di qua sù, là giù si placa” 12 (Par. XXVII, vv. 22-27)
Tale atteggiamento ideologico potrebbe apparire non del tutto coerente con le coeve affermazioni del De Monarchia, ma in realtà esso
evidenzia la profonda delusione politica di chi, come Dante, ha saldi
valori disattesi dagli eventi storici. Egli è il giocatore della zara
“che perde e si riman dolente,
repetendo le volte, e tristo impara;” (ib. vv. 2-3).
L’avvento di Arrigo VII, che ha i connotati dell’uomo virtuoso, fa
dunque sperare che egli, dopo “Federigo di Soave, ultimo imperatore
dei Romani (ultimo dico per rispetto al tempo presente, non ostante che
Ridolfo e Andolfo e Alberto poi eletti sieno)” sia uomo di “antica ric-
__________
11
Cfr. Purg., XVI, vv. 109-110.
La triplice ripetizione (il luogo mio), i termini in contrasto (cimitero-cloaca), il ritmo anapestico conferiscono particolare forza a quest’ultima invettiva
della Commedia.
12
65
chezza e be’ costumi”, come si legge nel Convivio 13. Proprio la citazione del Convivio rivela l’esistenza di un interregnum tra Federico II
ed Arrigo VII, non colmato, secondo Dante, dalla dinastia degli
Asburgo, succeduta a quella degli Svevi dopo la sua estinzione; non
da Rodolfo, quindi, né da Andolfo né da Alberto d’ Asburgo (12981308), il quale è apostrofato dal poeta nel nostro canto con gli appellativi di tedesco (cfr. v. 97) – particolarismo inaccettabile per chi detiene un potere universale! –, uom sanza cura (cfr. v. 107) e crudele
(cfr. v. 109), ed insistentemente sollecitato a venire in Italia:
“ Vieni a veder Montecchi e Cappelletti”
“ Vieni, crudel, vieni e vedi la pressura
d’ i tuoi gentili, e cura lor magagne”
“Vieni a veder la tua Roma che piagne”
“Vieni a veder la gente quanto s’ama!”
(v. 106)
(vv. 108-109)
(v. 112)
(v. 115)
Il disprezzo nei confronti di Alberto, già enfatizzato nella ripetizione anaforica del vieni, trova addirittura nel nostro canto toni oracolari, a cui Dante ricorre per proferire un anatema contro di lui e
contro la sua discendenza:
“giusto giudicio da le stelle caggia
sovra ’l tuo sangue, e sia novo e aperto,
tal che ’l tuo successor temenza n’aggia!”
(ib. vv. 100-102)
La predizione post eventum si riferisce alla morte del di lui figlio
Rodolfo, erede al trono, avvenuta nel 1307, e alla sua stessa morte, avvenuta violentemente per mano di un nipote nel 1308: il successore,
Arrigo VII, per l’appunto, ne abbia timore, poiché la vendetta è decretata da Dio!
Il padre di Alberto, Rodolfo I d’Asburgo (1237-1291) è collocato
da Dante in Purgatorio, insieme a Carlo I d’Angiò, nella valletta dei
principi noncuranti, poiché anch’egli è sanza cura, ma comunque destinato alla salvezza, e non certamente per i suoi meriti effettivi:
__________
13
66
Cfr. Convivio, IV, 3.
“Rodolfo imperator fu, che potea
sanar le piaghe c’hanno Italia morta,
sì che tardi per altri si ricrea” ,
(Purg. VII, vv.94-96)
laddove altri è, ancora una volta, scoperta allusione ad Arrigo VII di
Lussemburgo.
Inoltre, l’unico accenno all’Imperatore Rodolfo nel nostro canto
risuona come un’accusa di negligente complicità col figlio:
“ch’avete tu e ’l tuo padre sofferto,
per cupidigia di costà distretti,
che ’l giardin de lo ‘mperio sia diserto”
(ib. vv. 102-104)
Neanche di Carlo I d’Angiò – espiante come Rodolfo – Dante mostra di avere alcuna stima: oltre all’allusione indiretta, rinvenibile nel
c. VI del Paradiso (vv. 130-131), in cui si fa riferimento al malgoverno di costui, sotto la cui dispotica signoria era passata come bene dotale la Provenza, v’è un’allusione più diretta, fornitaci dal c. VIII del
Paradiso, in cui si rievoca la rivolta dei Vespri Siciliani del 1282, determinata dalla sua mala signoria (cfr. v. 73); ed infine un’esplicita
enumerazione dei suoi misfatti si legge nel c. XX del Purgatorio:
“Mentre che la gran dota provenzale
al sangue mio non tolse la vergogna,
poco valea, ma pur non facea male.
Lì cominciò con forza e con menzogna
la sua rapina; e poscia, per ammenda,
Pontì e Normandia prese e Guascogna.
Carlo venne in Italia e, per ammenda,
vittima fe’ di Curradino, e poi
ripinse al ciel Tommaso, per ammenda.” (Purg. XX, vv. 61-69)
Le accuse contro Carlo I sono evidenziate dal ritmo ascendente
dei versi, scandito dalla ripetizione della parola ammenda, la quale
determina un’evidente gradazione tonale che passa dall’ironia, al
sarcasmo e all’invettiva: l’usurpazione della dote della moglie Beatrice di Provenza e di altri feudi del Re d’Inghilterra non sazia l’a67
vidità di Carlo I che, chiamato in Italia dal Papa nel 1265 per sottrarre il regno di Napoli a Manfredi, uccide anche il giovane Corradino a Tagliacozzo e, quasi per fargli un piacere, ripinse al ciel
S. Tommaso d’Aquino, secondo dicerie correnti al tempo di Dante, perché sfavorevole alla sua politica. È Carlo I, quindi, il diretto
responsabile dell’estinzione della casa di Svevia, avendo ucciso in
battaglia Manfredi (1266) e giustiziato Corradino (1268): sul primo
dei due ricorrono nell’opera dantesca cenni nell’Inferno e giudizi
lusinghieri nel De vulgari eloquentia 14; ma una suggestiva rivisitazione poetica delle tragiche vicende del monarca occupa tutto il c.
III del Purgatorio:
“biondo era e bello e di gentile aspetto
ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso”
(vv. 107-108)
Il ritratto fisico del personaggio è nella concezione del poeta riflesso della sua nobiltà interiore: esso richiama precedenti biblici e
letterari, in un’ardita contaminazione del David giovane con l’Orlando della Chanson de geste, che ci restituisce l’immagine poetica di un santo laico, vittima degli odi di parte ed eroico campione
dei propri ideali. Il canto di Manfredi è altamente idilliaco: se il Re
di Sicilia non fosse stato ucciso prematuramente, avrebbe potuto
colmare, grazie alle doti eccelse che Dante gli riconosce, equiparandole a quelle paterne, il vuoto di potere verificatosi dal 1250
con la morte di Federico II: padre e figlio vengono definiti , infatti, nel De vulgari eloquentia illustres heroes, nobilitates ac rectitudinem pandentes, brutalia dedignantes e corde nobiles atque gratiarum dotati 14.
Al contrario di Manfredi, se Rodolfo d’Asburgo , principe negligente, e Carlo I d’Angiò, cupido usurpatore, sono annoverati tra gli
spiriti ben finiti e già spiriti eletti (Purg. III, 78) non è di certo per le
loro virtù politiche e morali, ma solo in relazione al colpevole governo dei loro rispettivi discendenti. A conferma di questa tesi ci affidia-
__________
14
12, 3.
68
Inf. c. XXVIII, vv. 16-17; c. XXXII, vv. 115-117; De vulgari eloquentia, I,
mo alle parole, pronunciate nel cielo di Venere da Carlo Martello, nipote di Carlo I d’Angiò e genero di Rodolfo I d’Asburgo:
“E la bella Trinacria, che caliga
tra Pachino e Peloro, sopra ‘l golfo
che riceve da Euro maggior briga,
non per Tifeo ma per nascente solfo,
attesi avrebbe li suoi regi ancora,
nati per me di Carlo e di Ridolfo,
se mala signoria, che sempre accora
li popoli suggetti, non avesse
mosso Palermo a gridar:“ Mora, mora!”
(Par. VIII, vv. 67-75)
Questi versi ribadiscono il giudizio negativo – addirittura feroce –
di Dante nei confronti degli Angioni, tanto più credibile in quanto
proferito da un Angioino beato, discorde dal suo seme. Carlo Martello, figlio di Carlo II d’Angiò, è nel Paradiso l’immagine del principe perfetto e Dante stesso lo appella Segnor mio 15, riconoscendone la
grande autorevolezza, nonostante la giovanissima età: anch’egli infatti, se non fosse morto anzitempo (1271-1295), avrebbe dato prova
delle sue innumerevoli virtù:
… “Il mondo m’ebbe
giù poco tempo; e se più fosse stato
molto sarà di mal, che non sarebbe.”
(Par. VIII, vv. 49-51)
Il suo eloquio malinconico, caratterizzato da una struttura ipotetico-irreale, rivela quella grazia che s’acquista per soavi reggimenti, che
sono: dolce e cortesemente parlare, dolce e cortesemente servire ed operare 16. Ma la sua dote principale, secondo Dante, è la sua speciale inclinazione all’amore, beneficamente infuso dal cielo di Venere, lo bel
pianeto che d’amar conforta 17, dote riconosciutagli anche dal Villani, il
__________
15
Cfr. Par. VIII, v. 36.
Cfr. Convivio IV, 25, 1.
17
Cfr. Purg I, 19.
16
69
quale testimonia che egli mostrò grande amore a’ Fiorentini, ond’ebbe
molto la grazia di tutti 18. Allo stesso Dante Carlo Martello si rivolge
con parole di grande affetto 19:
“Assai m’amasti e avesti ben onde;
che s’io fossi giù stato, io ti mostrava
di mio amor più oltre che le fronde”.
(Par. VIII, vv. 55-57)
L’amore in Carlo Martello è dunque dolce e cortesemente servire ed
operare nell’interesse dei suoi sudditi: è l’amore-carità, che Dante nel
De Monarchia così definisce: Come un minimo di cupidigia onnubila
in qualche modo l’abito della giustizia, così la carità o retto amore lo affina e lo illumina…, la cupidigia, spregiando l’essenza dell’uomo, cerca
beni che sono fuori dell’uomo; la carità, al contrario, spregiando tutto il
resto, cerca Dio e l’uomo e quindi il bene dell’uomo” 20: è perciò l’amore – servizio che lo autorizza a condannare la cupidigia dei suoi avi e
del fratello Roberto:
“ E se mio frate questo antivedesse,
l’avara povertà di Catalogna
già fuggeria, perché non li offendesse;”
(Par. VIII, vv. 76-78).
Roberto è l’ultimo discendente degli Angioini:
“ La sua natura, che di larga parca
discese, avria mestier di tal milizia
che non curasse di metter in arca”.
(Par. VIII, vv. 82-84)
Dante, nel contrapporlo al fratello, con ironia lo definisce tal ch’è
da sermone 21, perché la sua inclinazione naturale non è conforme all’alto ufficio ch’egli svolge: Roberto, detto il saggio, raffinato uomo di
lettere è, però, un avido usurpatore, infatti sottrae con l’aiuto di Bo-
__________
18
Cfr. Villani, Cron., VIII, 13.
Cfr. Par. VIII, 45.
20
De Monarchia I, 11, 23.
21
Cfr. Par. VIII, v. 147.
19
70
nifacio VIII il regno di Napoli al nipote Carlo Alberto, figlio di Carlo Martello; ed è anche un subdolo uomo politico, colpevole agli occhi del poeta di aver guidato nel 1313 l’opposizione guelfa contro Arrigo VII, insieme alla città di Firenze, di cui detiene la signoria per
cinque anni. Anche sulla famiglia degli Angioini, dunque, come su
quella degli Asburgo, si abbatterà il giusto castigo di Dio, come il misterioso presagio, pronunciato nei versi iniziali del c. IX da Carlo
Martello, lascia intuire:
“…“Taci e lascia muover li anni”;
sì ch’io non posso dir se non che pianto
giusto verrà di retro ai vostri danni” (Cfr. Par. IX, vv. 4-6)
Ma già Giustiniano, nel c. VI del Paradiso, aveva rivolto un duro
monito alle due fazioni dei Guelfi e dei Ghibellini, rivolgendosi con
tono particolarmente aspro e sentenzioso al re Carlo II d’Angiò, padre di Carlo Martello, nell’alludere alle sventure che si sarebbero abbattute sui suoi figli:
“Molte fïate già pianser li figli
per la colpa del padre, e non si creda
che Dio trasmuti l’armi per suoi gigli!” (Par. VI, vv. 109-111)
A Giustiniano, dunque, immagine dell’Imperatore perfetto, che
ha operato in concordia col magistero papale ed ha posto il potere
imperiale su fondamenti di giustizia con la compilazione dell’alto lavoro 22, cioè il Corpus iuris civilis, è dato di esprimere, dall’alto della sua visione provvidenziale della storia umana, il verdetto inesorabile di Dio.
La figura di Giustiniano, illuminato compilatore del codex, compare anche nel nostro canto nell’ampia sequenza metaforica della digressione, poiché anche le leggi, fondamento necessario dello Stato,
in Italia vengono disattese; ciò avviene perché non v’è un garante del-
__________
22
Cfr. Par. VI, v. 24.
71
l’ordine pubblico, l’Imperatore, e non v’è un Impero che – come si dice nel De Monarchia – de fonte nascitur pietatis 23.
E però è scritto nel principio del vecchio Digesto “La ragione scritta
– lo ius – è arte di bene e di equitade”. A questa scrivere, mostrare e comandare, è questo ufficiale posto, di cui si parla, cioè lo Imperatore,…Sicché quasi dire si può dello Imperadore, volendo lo suo ufficio figurare con una immagine, che egli sia il cavalcatore della umana voluntade. Lo qual cavallo come vada sanza cavalcatore per lo campo assai è
manifesto, e spetialmente nella misera Italia, che sanza mezzo alcuno alla sua governazione è rimasa” (Conv. IV, 9, 10). L’immagine del Convivio trova precisa rispondenza nel c. VI (cfr. vv. 88-89), in quella metafora del cavallo secondo la quale l’Italia indomita e selvaggia (v. 98)
per non esser corretta da li sproni (v. 95), non ha un imperatore che ne
inforchi li arcioni e ne occupi la sella; piuttosto, la gente che dovrebbe esser devota (v. 91) ne trattiene le briglie, incapace di domarla. A
questa gente Dante si rivolge anche nell’Epistola XI ai Cardinali italiani, dicendo: “E se oggi la miseria ha annientato nel dolore e ha confuso nel rossore tutti gli altri Italiani, chi dubiterà che dobbiate arrossire e dolervi voi, che siete stati allora la causa di una straordinaria eclissi di quello che si dice il suo sole?” 24. L’Italia possiede, dunque, il morso delle leggi, ma non v’è lo cavalcatore che le amministri:
“Sanz’esso fora la vergogna meno”
(ib. v. 90),
tuona con sdegno il poeta. La vergogna è peraltro accresciuta dall’arroganza di potere, la libido dominandi che, oltre alla Chiesa, insensibile al precetto evangelico del Date a Cesare quel che è di Cesare 25 – a cui si allude col v. 93. Se bene intendi ciò che Dio ti nota
– anima anche nelle singole città – delle quali Firenze è specimen ogne villan che parteggiando viene (ib., v. 126), ossia quella gente nova inurbata dal contado che, forte di subiti guadagni 26 osa opporsi
alla autorità legittima.
__________
23
Cfr. De Monarchia II, 5, 5 ed Ep. V, 7.
Cfr. Ep. XI, 10.
25
Cfr. Luca XX, 25 e Matteo XXII, 21.
26
Cfr. Inf. XVI, v. 73.
24
72
Tutti aspirano, dunque, al ruolo di nocchiero della nave che, in balia della tempesta, è travolta dai marosi: così appare anche l’immagine
dell’Italia nel nostro canto: ma quest’altro traslato poetico di ascendenza classica, risalente nel mondo greco ad Alceo ed in quello latino
ad Orazio e Virgilio, ad indicare l’ingovernabilità dello stato, non è infrequente in tutta l’opera dantesca. Esso ricorre nel Convivio in più
luoghi e nell’Epistola ai Fiorentini degeneri, con particolare attinenza
al contesto poetico del nostro canto: Essendo vuoto il trono di Augusto,
tutto il mondo esce dalla sua orbita, poiché il nocchiero e i rematori della navicella di Pietro – il Papato – dormono, e poiché l’Italia, misera, sola, abbandonata all’arbitrio dei privati e priva di ogni pubblica moderazione, è squassata da un tale impeto di venti e di flutti che le parole non
possono esprimere e a malapena i miseri Italiani riescono a misurare con
le lacrime” 27. Ed ancora, espressioni lessicalmente identiche compaiono nell’Epistola XI, ai Cardinali italiani: Ille ad arcam proficiat, qui salutiferos oculos ad naviculam fluctantem aperuit (XI, 5); e viduam et desertam lugere compellimur (XI, 2); o Romam urbem…miserandam, solam sedentem et viduam (XI, 9), ma soprattutto l’incipit Quomodo sola sedet civitas, plena populo: facta est quasi vidua domina gentium (XI,
1) è ripresa testuale delle lamentazioni di Geremia (I, 1):
“Come mai siede solitaria
la città già sì popolosa?
È divenuta quale una vedova,
la grande fra le nazioni.
La signora delle province
è ridotta a servire”.
Un’espressione simile a quella di Geremia, in cui Gerusalemme è
definita domina provinciarum, è presente anche nel Codice giustinianeo, in cui l’Italia è detta non provincia, sed domina provinciarum; ma
Dante, spostandone in antitesi i termini essenziali, escogita la più cruda delle metafore poetiche, apostrofando l’Italia non domina provinciarum, sed meretrix:
__________
27
Cfr. Conv. IV, 4, 5-6 e IV, 5, 8. Cfr. Ep. VI, 3.
73
“Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di provincie, ma bordello!”.
(ib. vv. 76-78)
La digressione sull’Italia non può non coinvolgere anche la città di
Firenze: per sineddoche Firenze costituisce la parte per il tutto, nel
suo piccolo raffigura il disordine civile che dilaga in tutto il paese, ma
l’ironia del poeta trasfigura la sua realtà in un’ampia antifrasi, in cui
protagonista è il popolo 28 che si argomenta (v. 129), che ha giustizia in
cuore (v. 130), e grida: “I’mi sobbarco! (v. 135). Giustizia e leggi presiedono alla vita civile a tal punto che:
“Atene e Lacedemona, che fenno
l’antiche leggi e furon sì civili,
fecero al viver bene un picciol cenno
verso di te, che fai tanto sottili
provedimenti, ch’a mezzo novembre
non giugne quel che tu d’ottobre fili” (ib. vv. 139-144)
Ma l’ironia – davvero sottile – di questi versi non riesce a mascherare il dolore e l’amarezza di chi è in esilio, perché la Firenze ricca, con
pace e con senno (v. 137), che a memoria d’uomo ha rinnovato legge,
moneta, officio e costume e …membre – ossia gli stessi cittadini! – (ib.,
vv. 146-147), è in realtà un’inferma
“che non può trovar posa in su le piume,
ma con dar volta suo dolore scherma” 29.
(ib. vv. 150-151)
Inizio e fine del canto si completano in una poetica ciclicità tematica: il giocatore della zara che rimane dolente repetendo le volte e l’inferma, che con dar volta suo dolore scherma, umanizzano col loro atteggiamento illusorio la delusione e l’angoscia di Dante politico.
__________
28
“Popol tuo” è espressione ricorrente ai vv. 129, 132 e 135.
Il “non trovar posa” traduce nella lamentazione di Geremia, testé citata, il
“nec invenit requiem” (I, 3).
29
74
L’inchiesta di Dante nella storia contemporanea è destinata al fallimento: egli ha messo a nudo gli odi funesti che procurano la morte
di Benincasa da Laterina, di Guccio dei Tarlati, di Guido Novello, di
Iacopo del Cassero, di Bonconte da Montefeltro, di Pia de’ Tolomei;
ha messo a nudo la fallacia dei disegni personali dei potenti della terra e l’effimero della condizione di tutti gli uomini. I mortali sono infatti irretiti da insensate cure e da difettivi silogismi 30 che li inducono
a volgersi verso vani beni terreni e false apparenze, simulacri evanescenti di attraenti ma pericolose vanità, che Dante stigmatizza nel
canto dei superbi:
“Non è il mondan romore altro ch’un fiato
di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi
e muta nome perché muta lato”.
(Purg. XI, vv. 100-102)
In questi versi sembra risuonare il monito dell’Ecclesiaste: “Vanitas vanitatum, omnia vanitas”, perché tutti, e ancor più i potenti, sappiano che:
“La vostra nominanza è color d’erba,
che viene e va, e quei la discolora
per cui ella esce de la terra acerba.” (Purg. XI, vv. 115-117)
e sappiano i potenti che è a Dio che dovranno infine render conto, a
quel Dio implacabile invocato nel salmo 89 della Bibbia:
“Tu fai ritornare i mortali in polvere…
poiché mille anni sono agli occhi tuoi
come il giorno di ieri che trascorse…”
Dante, facendo sua la preghiera del salmista, confida nel supremo
discernimento divino che ha il compito di intervenire sub specie aeternitatis nella storia dell’uomo: la situazione politica vigente, in cui le
sfrenate ambizioni dei singoli e delle fazioni hanno determinato il de-
__________
30
Cfr. Par. XI, vv. 1-2.
75
grado morale dell’intera società, non è solubile con le sole forze umane ed è fin troppo chiaro che l’unica possibile fiducia è da riporre nella Provvidenza di Dio: è per questo che il poeta, la cui angoscia umana è enfatizzata dal tono oratorio e parenetico della digressione, risolve il suo smarrimento proiettando le sue attese nell’invocazione
dell’intervento divino e nella preghiera fiduciosa, sulla cui efficacia
verteva anche il colloquio iniziale con Virgilio 31:
“E se licito m’è, o sommo Giove
che fosti in terra per noi crocifisso,
son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?
O è preparazione che ne l’abisso
del tuo consiglio fai per alcun bene
in tutto de l’accorger nostro scisso?” (ib. vv. 118-123).
Egli non ha dubbi sulla infallibilità del giudizio di Dio, quando
nell’imperscrutabile abisso del suo consiglio si rivela all’uomo come
misericordia infinita, che ha sì gran braccia / che prende ciò che si rivolge a lei (cfr. Purg. III, vv. 122-123) e allo stesso modo non ha dubbi quando Dio s’erge come inesorabile censore e punitore d’iniquità:
“O segnor mio, quando sarò lieto
a veder la vendetta che, nascosa,
fa dolce l’ira tua nel tuo segreto?”
(Purg. XX, vv. 94-96)
laddove il poeta riprende ancora una volta il salmo 89:
“Chi conosce la potenza dell’ira tua
e teme la violenza del tuo sdegno?”
Se, dunque, tutta la storia dell’uomo è sviluppo inconsapevole della
trascendente volontà di Dio, a tal punto che anche i grandi della terra
sono artefici del suo disegno ed inevitabilmente soggetti a rispondere a
Dio del loro operato, allora non c’è da meravigliarsi se è proprio la viva
__________
31
76
Cfr. ib. VI, vv. 25-42.
giustizia di Dio a concedere a Tiberio la gloria di far vendetta a la sua ira
e a Tito quella di far vendetta… de la vendetta del peccato antico 32, perché, come Dante conferma nel De Monarchia: La punizione non è semplicemente la pena di chi ha commesso ingiustizia, ma è la pena inflitta a
chi commette ingiustizia da parte di chi ha la potestà di punire 33; è per questo che Dante riconosce solo alla sapienza di Dio la facoltà di punire i
regnanti degeneri e di accogliere nella sua infinita bontà chi di loro ha
agito degnamente: sui primi si abbatterà la sua ira, che lo stesso poeta
invoca, come abbiamo visto a proposito degli Asburgo e degli Angioini;
sul destino di altri, invece, Dio interverrà misericordiosamente, sottraendoli prematuramente alla violenza della storia e alla contaminazione nefasta di quell’aiuola che ci fa tanto feroci 34, come nel caso di Manfredi e di Carlo Martello. E perché non ascrivere tra queste morti premature anche quella di Arrigo VII di Lussemburgo, che si spegne inaspettatamente a Buonconvento nel 1313, interrompendo bruscamente
l’azione di rinnovamento politico da lui intrapresa? Era forse lui, che
Dante riconosce come il Messia, l’inviato di Dio, il renovator orbis di
gioachimitica memoria, quel veltro del primo canto dell’Inferno che
“…non ciberà terra né peltro,
ma sapienza, amore e virtute”?
(Cfr. Inf. I, vv. 103-104)
Se pure Dante pensò a lui come al detentore della missione salvifica dell’umanità, è certo che per insondabile volontà di Dio egli non
poté compierla: al poeta, piuttosto, in risposta ad ogni sua preghiera,
viene rivelato nel c. XXVII del Paradiso per bocca di S. Pietro il senso provvidenziale della storia e viene confermata quella solenne investitura che prima Virgilio, poi Beatrice e infine Cacciaguida gli avevano conferito nel corso del suo viaggio:
“Ma l’alta provedenza, che con Scipio
difese a Roma la gloria del mondo
__________
32
Cfr. Par. VI, v. 88; v. 90; vv. 92-93.
Cfr. De Monarchia II, 12, 4.
34
Cfr. Par. XXII, v. 151.
33
77
soccorrà tosto, sì com’ io concipio,
e tu, figliuol, che per lo mortal pondo
ancor giù tornerai, apri la bocca,
e non asconder quel ch’ io non ascondo”.
(vv. 61-66)
Nel Paradiso Dante porterà dunque a compimento la renovatio interrotta dagli eventi ed il suo poema risuonerà come il bando ufficiale della sua missione: non ad un uomo politico, ma ad un poeta –
guelfo per tradizioni culturali e ghibellino per contingenze storiche –
Dio stesso affida il suo disegno di removere viventes in hac vita de statu miseriae et perducere ad statum felicitatis 35.
Siracusa, aprile 1999
__________
35
78
Cfr. Ep. XIII, 15.
PURGATORIO, c. XVI
Il vate è quell’intellettuale d’eccezione che per la sua sensibilità
nell’investigare l’animo umano sa comprenderne le fragilità e le inquietudini più recondite; per la lucida consapevolezza dei tempi e
delle interazioni umane nella società sa svelarne i meccanismi complessi, mettendone in luce difformità e perversioni; grazie alle sue doti comunicative, fondate sull’energia del fare poetico e sull’efficacia
emotiva dell’eloquenza espressiva, individuando valori assoluti, induce a percorsi risolutivi non effimeri. Ed infatti il termine “vate” nella
classicità indicava non solo il poeta, ma anche il taumaturgo, il sacerdote, il profeta, coscienze supreme della realtà universale.
In epoca medievale Dante incarna compiutamente la fisionomia
del vate, poiché comprende in sé lo smarrimento di tutta l’umanità,
chiamata ad un destino di salvezza ch’egli stesso sperimenta ed addita; perché indaga sul degrado sociale e politico dei suoi tempi, rintracciandone le cause nella corruzione di quei poteri universali, che
dovrebbero invece cooperare per la realizzazione dei disegni provvidenziali; ed è vate, infine, perché la sua opera, già pregna di significati salvifici per i suoi contemporanei, ancora ci consegna il modello
condivisibile di un incessante impegno intellettuale, di scelte di vita
coraggiose e coerenti e di una fede incrollabile e senza tempo.
Tutti questi motivi è possibile ravvisare, tra gli altri, nel canto XVI
del Purgatorio che, essendo il cinquantesimo dell’intero poema, in
base alle complesse simbologie numerologiche, essenziali per la comprensione della finalità poetica della Commedia, costituisce uno snodo centrale nello svolgimento dell’opera: nella visione pessimistica del
suo protagonista, Marco Lombardo, si compendiano infatti la mala
condotta dei singoli individui (cfr. ib. v. 103) e la colpevole confusione dei poteri universali (cfr. ib. vv. 109-111); ma anche da questo quadro a fosche tinte sarà lecito trarre quei valori positivi ed assoluti, che
ancora oggi sono a fondamento della coscienza moderna.
Buio d’inferno e di notte privata
d’ogne pianeto, sotto pover cielo,
quant’ esser può di nuvol tenebrata,
3
79
non fece al viso mio sì grosso velo
come quel fummo ch’ivi ci coperse,
né a sentir di così aspro pelo,
che l’occhio stare aperto non sofferse;
onde la scorta mia saputa e fida
mi s’accostò e l’omero m’offerse.
Sì come cieco va dietro a sua guida
per non smarrirsi e per non dar di cozzo
in cosa che ’l molesti, o forse ancida,
m’andava io per l’aere amaro e sozzo,
ascoltando il mio duca che diceva
pur: “Guarda che da me tu non sia mozzo”.
Io sentia voci, e ciascuna pareva
pregar per pace e per misericordia
l’Agnel di Dio che le peccata leva.
Pur ‘Agnus Dei’ eran le loro essordia;
una parola in tutte era e un modo,
sì che parea tra esse ogne concordia.
“Quei sono spirti, maestro, ch’i’ odo?”,
diss’ io. Ed elli a me: “Tu vero apprendi,
e d’iracundia van solvendo il nodo”.
“Or tu chi se’ che ’l nostro fummo fendi,
e di noi parli pur come se tue
partissi ancor lo tempo per calendi?”.
Così per una voce detto fue;
onde ’l maestro mio disse: “Rispondi,
e domanda se quinci si va sùe”.
E io: “O creatura che ti mondi
per tornar bella a colui che ti fece,
maraviglia udirai, se mi secondi”.
“Io ti seguiterò quanto mi lece”,
rispuose; “e se veder fummo non lascia,
l’udir ci terrà giunti in quella vece”.
Allora incominciai: “Con quella fascia
che la morte dissolve men vo suso,
e venni qui per l’infernale ambascia.
E se Dio m’ha in sua grazia rinchiuso,
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tanto che vuol ch’i’ veggia la sua corte
per modo tutto fuor del moderno uso,
non mi celar chi fosti anzi la morte,
ma dilmi, e dimmi s’i’ vo bene al varco;
e tue parole fier le nostre scorte”.
“Lombardo fui, e fu’ chiamato Marco;
del mondo seppi, e quel valore amai
al quale ha or ciascun disteso l'arco.
Per montar sù dirittamente vai”.
Così rispuose, e soggiunse: “I’ ti prego
che per me prieghi quando sù sarai”.
E io a lui: “Per fede mi ti lego
di far ciò che mi chiedi; ma io scoppio
dentro ad un dubbio, s’io non me ne spiego.
Prima era scempio, e ora è fatto doppio
ne la sentenza tua, che mi fa certo
qui, e altrove, quello ov’ io l'accoppio.
Lo mondo è ben così tutto diserto
d’ogne virtute, come tu mi sone,
e di malizia gravido e coverto;
ma priego che m’addite la cagione,
sì ch’i’ la veggia e ch’i’ la mostri altrui;
ché nel cielo uno, e un qua giù la pone”.
Alto sospir, che duolo strinse in “uhi!”,
mise fuor prima; e poi cominciò: “Frate,
lo mondo è cieco, e tu vien ben da lui.
Voi che vivete ogne cagion recate
pur suso al cielo, pur come se tutto
movesse seco di necessitate.
Se così fosse, in voi fora distrutto
libero arbitrio, e non fora giustizia
per ben letizia, e per male aver lutto.
Lo cielo i vostri movimenti inizia;
non dico tutti, ma, posto ch’i’ ’l dica,
lume v’è dato a bene e a malizia,
e libero voler; che, se fatica
ne le prime battaglie col ciel dura,
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poi vince tutto, se ben si notrica.
A maggior forza e a miglior natura
liberi soggiacete; e quella cria
la mente in voi, che ’l ciel non ha in sua cura.
Però, se ’l mondo presente disvia,
in voi è la cagione, in voi si cheggia;
e io te ne sarò or vera spia.
Esce di mano a lui che la vagheggia
prima che sia, a guisa di fanciulla
che piangendo e ridendo pargoleggia,
l’anima semplicetta che sa nulla,
salvo che, mossa da lieto fattore,
volontier torna a ciò che la trastulla.
Di picciol bene in pria sente sapore;
quivi s’inganna, e dietro ad esso corre,
se guida o fren non torce suo amore.
Onde convenne legge per fren porre;
convenne rege aver, che discernesse
de la vera cittade almen la torre.
Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?
Nullo, però che ’l pastor che procede,
rugumar può, ma non ha l’unghie fesse;
per che la gente, che sua guida vede
pur a quel ben fedire ond’ ella è ghiotta,
di quel si pasce, e più oltre non chiede.
Ben puoi veder che la mala condotta
è la cagion che ’l mondo ha fatto reo,
e non natura che ’n voi sia corrotta.
Soleva Roma, che ’l buon mondo feo,
due soli aver, che l’una e l’altra strada
facean vedere, e del mondo e di Deo.
L’un l’altro ha spento; ed è giunta la spada
col pasturale, e l’un con l’altro insieme
per viva forza mal convien che vada;
però che, giunti, l’un l’altro non teme:
se non mi credi, pon mente a la spiga,
ch’ogn’ erba si conosce per lo seme.
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In sul paese ch’Adice e Po riga,
solea valore e cortesia trovarsi,
prima che Federigo avesse briga;
or può sicuramente indi passarsi
per qualunque lasciasse, per vergogna,
di ragionar coi buoni o d’appressarsi.
Ben v’èn tre vecchi ancora in cui rampogna
l’antica età la nova, e par lor tardo
che Dio a miglior vita li ripogna:
Currado da Palazzo e ’l buon Gherardo
e Guido da Castel, che mei si noma,
francescamente, il semplice Lombardo.
Dì oggimai che la Chiesa di Roma,
per confondere in sé due reggimenti,
cade nel fango, e sé brutta e la soma”.
“O Marco mio”, diss’ io, “bene argomenti;
e or discerno perché dal retaggio
li figli di Levì furono essenti.
Ma qual Gherardo è quel che tu per saggio
di’ ch’è rimaso de la gente spenta,
in rimprovèro del secol selvaggio?”.
“O tuo parlar m’inganna, o el mi tenta”,
rispuose a me; “ché, parlandomi tosco,
par che del buon Gherardo nulla senta.
Per altro sopranome io nol conosco,
s’io nol togliessi da sua figlia Gaia.
Dio sia con voi, ché più non vegno vosco.
Vedi l’albor che per lo fummo raia
già biancheggiare, e me convien partirmi
(l’angelo è ivi) prima ch’io li paia”.
Così tornò, e più non volle udirmi.
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IL VATE DELLA RINNOVATA BARBARIE
Il poeta è giunto nella terza cornice della montagna ove, dopo
quella dei superbi e degli invidiosi, si purifica la colpa dell’ira, l’ultimo dei peccati capitali commessi per malo obietto (cfr. Purg. XVII, v.
95); gli iracondi procedono occultati da un grosso velo (v. 4) di fumo,
invocando con una concordia (v. 21) inusitata sulla terra l’Agnel di Dio
che le peccata leva (v. 18). E subito uno di essi interpella Dante, dopo
averlo udito parlare con Virgilio, con un chiaro accento di stupore:
“Or tu chi se’ che ’l nostro fummo fendi,
e di noi parli pur come se tue
partissi ancor lo tempo per calendi?” (ib. vv. 25-27)
Se Dante riserva solo brevi cenni alla figura storica di Marco Lombardo 1, tuttavia sembra voler proiettare su di lui con incisività i tratti
nobilitanti dell’uomo magnanimo, dai quali è possibile inferire una
comunanza di atteggiamenti e di virtù morali:
“Lombardo fui, e fu’ chiamato Marco;
del mondo seppi, e quel valore amai
al quale ha or ciascun disteso l’arco.” (ib. vv. 46-48)
Ciò fa sì che anch’egli si arricchisca inopinatamente di quei requisiti che caratterizzano la figura del vate: è …del mondo esperto / e de
li vizi umani e del valore (cfr. Inf. XXVI, vv. 98-99), sui quali non lesina il suo severo giudizio, e per di più l’assenza del volto e del corpo,
offuscati dal buio d’inferno e di notte privata / d’ogne pianeto… (vv. 12) e da quel fummo (v. 5) che acceca tutti i peccatori come lui, ne enfatizza la voce sentenziosa e oracolare 2:
__________
1
Uomo di corte, legato ai valori cortesi decaduti nel moderno uso (cfr. ib. v.
42); di questo personaggio, vissuto nella seconda metà del XIII sec., si legge in
Novellino, 46 e G. Villani, Cron. VII, 121.
2
Cfr. ib. vv. 28/56.
84
“e le tue parole fier le nostre scorte” (ib. v. 44)
Per questi motivi proprio a lui è affidato il compito di chiarire finalmente 3 al pellegrino una questione filosofica più volte toccata nel
poema e variamente dibattuta tra i contemporanei:
“Lo mondo è ben così tutto diserto
d’ogne virtute, come tu mi sone,
e di malizia gravido e coverto;
ma priego che m’addite la cagione,
sì ch’i’ la veggia e ch’i’ la mostri altrui;
chè nel cielo uno, e un qua giù la pone”.
(ib. vv. 58-63)
In che rapporto stanno dunque l’influenza degli astri ed i comportamenti degli uomini?
Il conflitto tra scienza (astronomia, ma soprattutto astrologia) e
fede rimanda alla disamina più ampia sulla responsabilità dei singoli nella storia, poiché la sua risoluzione tende a smascherare gli alibi e le ipocrite giustificazioni di chi demanda al Cielo la propria incapacità di agire sulla terra. Il poeta aveva già preso un’ardita posizione al riguardo, collocando coloro / che visser sanza ’nfamia e sanza lodo (cfr. Inf. III, vv. 35-36) nel vestibolo dell’Inferno: questi sciaurati, che mai non fur vivi (Inf. III, v. 64) sono colpevoli di non aver
mai scelto e la loro pusillanimità indigna Dante, uomo d’azione, e
lo induce ad esporli al ludibrio dei lettori, emarginandoli tra tutti i
peccatori e sottraendoli a qualunque giudizio che non sia il supremo disprezzo:
“Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
non ragioniam di lor, ma guarda e passa”. (Inf. III, vv. 49-51)
__________
3
Nell’interpellare Marco Lombardo lo stesso Dante fa riferimento ad analoghe affermazioni pronunciate da Guido del Duca in Purg. XIV (vv. 37 e segg.),
per cui il suo dubbio “prima era scempio, e ora è fatto doppio” (ib. v. 55).
85
L’interrogativo che Dante pone dunque a Marco Lombardo non è
privo di fondamento: se davvero fossero i cieli a determinare la volontà degli esseri, gli ignavi non sarebbero responsabili della loro viltà e la denuncia della loro accidiosa indolenza si potrebbe considerare solo frutto di rancori personali da parte di chi, come lui, ha subito
l’esilio per sostenere con coerenza le proprie idee. Ma Marco Lombardo sgombra il campo da ogni equivoco:
“Se così fosse, in voi fora distrutto
libero arbitrio, e non fora giustizia
per ben letizia, e per male aver lutto”.
(ib. vv. 70-72)
La struttura ipotetico-irreale dell’affermazione di Marco è risolutiva: se gli uomini agissero di necessitate (v. 69) si annullerebbe la loro facoltà di decidere autonomamente e di conseguenza le loro azioni dovrebbero essere esenti da ogni giudizio di merito; vero è che gli
influssi celesti sono provvidenziali, come confermerà anche Carlo
Martello nel Paradiso, ma non possono esonerare nell’individuo la
volontà che, insieme all’intelletto, costituisce il massimo dono elargito da Dio alle alte creature (cfr. Par. I, v. 106):
“Lo maggior don che Dio per sua larghezza
fesse creando, e a la sua bontate
più conformato, e quel ch’e’ più apprezza,
fu de la volontà la libertate;
di che le creature intelligenti,
e tutte e sole, fuoro e son dotate”. (Par. V, vv. 19-24)
Pertanto, Dio crea l’anima semplicetta che sa nulla (v. 88), emotivamente infantile a guisa di fanciulla / che piangendo e ridendo pargoleggia (vv. 86-87) e scevra da innatismo 4; ed essa, sempre disposta ad
accogliere ciò che la trastulla (v. 90), s’inganna nella percezione del bene per cui, convinta di tornare al Creatore,
__________
4
86
Cfr. S. Tommaso, Summa theologiae I, LIX, 1.
“…da questo corso si diparte
talor la creatura, c’ha podere
di piegar, così pinta, in altra parte”. (Par. I, vv. 130-132)
Ciò che diletta l’anima è l’amore o naturale o d’animo 5: ora, l’amore
naturale si distingue dall’amore d’animo perché è sempre sanza errore
(cfr. Purg. XVII, v. 94), ossia costituisce quell’istinto immediato che ciò
che scocca drizza in segno lieto (Par. I, v. 126); il secondo, invece, puote
errare (cfr. Purg. XVII, v. 95), perché è amore di elezione, ossia procede dalla consapevolezza del bene e del male e coincide con la volontà 6.
Dunque, anche ammesso che gli esseri risentano delle inclinazioni dei
corpi celesti 7, ad essi è dato lume…a bene e a malizia (cfr. ib. v. 75), ossia quella ragione che è a fondamento del libero voler (v. 76):
“Quest’è ’l principio là onde si piglia
ragion di meritare in voi, secondo
che buoni e rei amori accoglie e viglia.
Color che ragionando andaro al fondo,
s’accorser d’esta innata libertate,
però moralità lasciaro al mondo.
Onde, poniam che di necessitate
surga ogne amor che dentro a voi s’accende,
di ritenerlo è in voi la podestate”. (Purg. XVIII, vv. 64-72)
La sollecitazione dei beni terreni è dunque la prima causa del peccato:
“Mentre ch’elli è nel primo ben diretto,
e ne’ secondi sé stesso misura,
__________
5
Cfr. Purg. XVII, vv. 91-93.
Cfr. Convivio IV, XII, 15-16.
7
Cfr. Convivio IV, XXI, 7: “E però che la complessione del seme puote essere
migliore e men buona, e la disposizione del seminante puote essere migliore e men
buona, e la disposizione del Cielo a questo effetto puote essere buona, migliore e
ottima (la quale si varia per le costellazioni, che continuamente si transmutano), incontra che de l’umano seme e di queste vertudi più pura (e men pura) anima si produce”.
6
87
esser non può cagion di mal diletto;
ma quando al mal si torce, o con più cura
o con men che non dee corre nel bene,
contra ’l fattore adovra sua fattura”. (Purg. XVII, vv. 97-102):
finché l’amor d’animo è diretto verso il primo bene – Dio – e modera il suo appetito verso i secondi beni – quelli materiali – esso non può
esser torto da falso piacere (cfr. Par. I, v. 135); ma se si rivolge al male
con maggiore intensità che al bene o a quest’ultimo con minore cura
di quanto dovrebbe, la creatura umana agisce contro il Creatore:
“Ma voi prendete l’esca, sì che l’amo
de l’antico avversaro a sé vi tira,
e però poco val freno o richiamo.
Chiamavi ’l Cielo e ’ntorno vi si gira,
mostrandovi le sue bellezze etterne,
e l’occhio vostro pur a terra mira;
onde vi batte chi tutto discerne”.
(Purg. XIV, vv. 145-151)
Proprio perché dotato di libero arbitrio, dunque, l’uomo deve render conto a Dio del suo operato:
“A maggior forza e a miglior natura
liberi soggiacete; e quella cria
la mente in voi, che ’l ciel non ha in sua cura.
Però, se ’l mondo presenta disvia,
in voi è la cagione, in voi si cheggia;
e io te ne sarò or vera spia”.
(cfr. ib. vv. 79-84)
Che gl’influssi celesti siano provvidenziali è ribadito da Carlo Martello nel canto VIII del Paradiso, con un’insistenza evidenziata dalla
ripetizione del termine-chiave provedenza / proveduto:
“Lo ben che tutto il regno che tu scandi
volge e contenta, fa esser virtute
sua provedenza in questi corpi grandi.
E non pur le nature provedute
88
sono in la mente ch’è da sé perfetta,
ma esse insieme con la lor salute;
per che quantunque quest’arco saetta
disposto cade a proveduto fine,
sì come cosa in suo segno diretta”. (Par. VIII, vv. 97-105):
Dio ha disposto che i cieli infondano la loro virtù operativa sulla
terra, provvedendo non solo all’esistenza degli esseri, ma anche alla
realizzazione delle loro qualità, che dovrebbero esprimersi al meglio
nella vita sociale. Per bocca di Carlo Martello Dante, fedele ai precetti
aristotelici che individuano come prioritaria la dimensione civile dell’uomo 8, da premesse teologiche, di deduzione in deduzione, perviene a tematiche di moderna valenza pedagogica 9:
“La circular natura, ch’è suggello
a la cera mortal, fa ben sua arte”,
differenziando opportunamente nella società ruoli e funzioni,
“ma non distingue l’un da l’altro ostello”. (Par. VIII, vv. 127-129).
“Ond’elli avvien ch’un medesimo legno,
secondo specie, meglio e peggio frutta;
e voi nascete con diverso ingegno”. (Par. XIII, vv. 70-72)
S’infrange così quel determinismo ereditario, già sostenuto da S. Tommaso, secondo cui si escluderebbe la difformità tra generante e generato:
“Natura generata il suo cammino
simil farebbe sempre a’ generanti,
se non vincesse il proveder divino”. (Par. VIII, vv. 133-135) 10
__________
8
Cfr. Convivio IV, 4, 2: “E però dice lo Filosofo che l’uomo naturalmente è
compagnevole animale…”.
9
È la pedagogia psico-sociologica che studia l’interazione sociale del fanciullo (Dewey-Hessen, Ferriere, Decroy ed altri).
10
Cfr. anche Purg. VII, vv.121-123 e Convivio IV, XX, 5: “il divino seme non
cade in ischiatta, cioè in istirpe, ma cade ne le singulari persone”.
89
Così, ad esempio, anche Marco Lombardo nel nostro canto nell’esaltare la probità del saggio Gherardo da Camino lo identifica come
buono in opposizione alla figlia Gaia, nota per la sua dissolutezza 11.
Ed in questa visione provvidenzialistica dell’esistenza, per cui non
solo nella società, ma anche in seno allo stesso nucleo famigliare si distinguono sensibilità ed atteggiamenti diversi, che ruolo gioca la Fortuna? Essa è general ministra (cfr. Inf. VII, v. 78) di Dio e, non più
concepita come la capricciosa Dea bendata dell’età pagana, interviene tuttavia come forza occulta ed imprevedibile sugli splendor mondani (cfr. Inf. VII, v. 77), pur sempre conformandosi all’ordine universale:
“…giri Fortuna la sua ruota
come le piace, e ’l villan la sua marra”. (cfr. Inf. XV, vv. 95-96)
Colui lo cui saver tutto trascende (Inf. VII, v. 73) l’ha disposta quale intelligenza angelica sulla terra come le altre gerarchie sono preposte al movimento dei cieli concentrici: questa provede, giudica e persegue / suo regno (cfr. Inf. VII, vv. 86-87) e come essa esegue di necessità (cfr. Inf. VII, v. 89) rapidamente il suo mandato, così con la medesima velocità si determinano nella vita terrena mutamenti ed avvicendamenti; non si tratta di un cieco meccanicismo, ma di un oculato determinismo metafisico, tale
… “che permutasse a tempo li ben vani
di gente in gente e d’uno in altro sangue,
oltre la defension d’i senni umani;
perch’una gente impera e l’altra langue,
seguendo lo giudicio di costei,
che è occulto come in erba l’angue”. (Inf. VII, vv. 79-84)
Se dunque la ragione umana non è in grado di comprenderne gli
scopi e di resisterle in ogni modo, sua unica virtù può consistere nell’accettare con fede questa …alterna / onnipotenza delle umane sor-
__________
11
90
Cfr. ib. vv. 138-140.
ti 12, non dandole biasmo a torto e mala voce (Inf. VII, v. 93), ma disponendosi piuttosto ad accoglierne imperturbabilmente gli effetti:
ch’a la Fortuna, come vuol, son presto (Inf. XV, v. 93), dice infatti Dante nel suo colloquio con Brunetto Latini.
Quindi la Provvidenza, grazie agl’influssi astrali dall’alto e all’intervento della Fortuna dal basso, regolerebbe la convivenza civile come riflesso della vera cittade (cfr. ib. v. 96):
“E se ’l mondo là giù ponesse mente
al fondamento che natura pone,
seguendo lui, avria buona la gente” 13. (Par. VIII, vv. 142-44)
Ma anche in questo caso interviene il libero arbitrio, per cui uomini atti ad intraprendere la vita politica indossano l’abito religioso e
ad altri inclini alla predicazione è invece assegnata la corona regale:
“Onde la traccia vostra è fuor di strada” (Par. VIII, v. 148)
Gli uomini, allontanandosi dal disegno provvidenziale, travisano
la loro natura e corrompono la società: unico rimedio al disordine
mondano sono le leggi, ma quand’anche esse esistano 14, occorre una
guida che, facendole applicare, garantisca la giustizia e la pace 15:
“Onde convenne lege per fren porre;
convenne rege aver, che discernesse
de la vera cittade almen la torre”
(ib. vv. 94-96)
Nessuno al momento è in grado di farlo, secondo Marco Lombardo, poiché dalla morte di Federico II l’impero è tragicamente vacante
e soprattutto l’autorità papale si è sovrapposta ed ha sostituito quella
imperiale, incrociando la spada col pasturale (cfr. ib. vv. 109-110). Col-
__________
12
Cfr. Ugo Foscolo, Carme Dei Sepolcri, vv. 182-83.
Cfr. ib. v. 105.
14
Cfr. anche Purg. VI, vv. 88-90.
15
Cfr. Convivio IV, 9, 4-10 e De Monarchia I, 13.
13
91
pevoli entrambi di esercitare male l’arbitrio loro assegnato da Dio,
l’Imperatore pecca per “poco di vigore” ed il Papa per “troppo di vigore”; ma in più quest’ultimo col suo esempio degenere ha la responsabilità di frastornare gli appetiti umani, inducendo le anime “semplicette” della gente a cibarsi di quei beni mondani, di cui anche è ghiotta la loro guida spirituale. L’opinione dell’interlocutore rispecchia in
parte quella del Poeta 16, pur tradendo una visione partitica della cagion
che ’l mondo ha fatto reo (cfr. ib. v. 104), poiché al solo Papato attribuisce l’atto di forza che tende a sopprimere l’ufficio imperiale, come
si legge nelle espressioni: l’un l’altro ha spento al v. 109, l’un con l’altro
insieme / per viva forza mal convien che vada ai vv. 110-111, e l’un l’altro non teme al v. 112, ma soprattutto quando afferma recisamente:
“Dì oggimai che la Chiesa di Roma
per confondere in sé due reggimenti,
cade nel fango,e sé brutta e la soma”
(ib. vv. 127-129) 17
Inoltre, all’aperta professione di ghibellinismo si aggiunge una nostalgica rievocazione dei tempi e dei costumi antichi 18, nei quali invece i due Soli illuminavano allo stesso modo l’esistenza terrena degli
uomini ed il loro cammino celeste 19. Ma se l’elegiaco rimpianto dell’antica età che rampogna (ib. v. 121) la nuova ricorre frequentemente nella Commedia, la specifica accusa nei confronti del Papato enunciata da Marco Lombardo viene allargata ad entrambi i poteri da
Dante che, come già illustrato nel VI canto della stessa cantica, ne
spartisce equamente i demeriti.
Che le autorità universali tralignino per l’incapacità delle persone
che le rappresentano, come sostiene Carlo Martello, o che si degradino per la cattiva gestione di una sola delle due, come lamenta Marco
__________
16
Cfr. ib. v. 130.
Non per nulla Dante stesso nella sua replica sottolinea come anche la casta
sacerdotale dei Leviti fosse esclusa da dio dall’eredità dei beni terreni assegnati
a tutti gli altri Ebrei.
18
Cfr. ib. v. 42.
19
Cfr. ib. vv. 106-108.
17
92
Lombardo, o di entrambe, secondo quanto sostiene il Nostro, comunque ciò non esime l’uomo, per sua natura un πολιτικο′ν ζω′ων,
dal contrastare con la dirittura del suo operato l’iniquità altrui.
È questo il severo monito che il lettore deve cogliere dall’esperienza di Dante, figura dell’intera umanità, al quale, vittima di un traviamento morale che non è solo suo, ma di tutti i suoi contemporanei,
Beatrice sulla radura dell’Eden rinfaccia le erronee scelte intellettuali, lo spreco del talento e la cecità della coscienza:
“Non pur per ovra de le rote magne,
che drizzan ciascun seme ad alcun fine
secondo che le stelle son compagne,
ma per larghezza di grazie divine,
che sì alti vapori hanno a lor piova,
che nostre viste là non van vicine,
questi fu tal ne la sua vita nova
virtüalmente, ch’ogne abito destro
fatto averebbe in lui mirabil prova”. (Purg. XXX, vv. 109-117)
In Dante, dunque, non solo gl’influssi celesti sono benefici, grazie
alla felice congiunzione astrale con la costellazione dei Gemelli, che
predispone alle arti e alle scienze, ma anche la superinfusa / Gratia
Dei 20 (cfr. Par. XV, vv. 28-29), imperscrutabilmente elargitagli, è tale
da renderlo virtualmente un privilegiato, in grado per le disposizioni
naturali di produrre effetti meravigliosi. Questa condizione ottimale
viene però vanificata nel mezzo del cammin (cfr. Inf. I, v. 1) da un deviato amore d’animo che lo porta ad attuare nel peccato le doti eccelse in potenza 21. A Dante è provvidenzialmente offerta la possibilità di
redimersi, ma è pur sempre sua la facoltà di scegliere la redenzione;
per cui, se in lui fosse prevalsa quell’incertezza iniziale rimproveratagli anche da Virgilio 22, quella viltà ch’egli stesso subito dopo condanna negli ignavi, avrebbe smarrito per sempre la diritta via. Né è pos-
__________
20
Cfr. ib. v. 40.
Cfr. Purg. XXX, vv. 118-120
22
Cfr. Inf. II, vv. 121-123.
21
93
sibile sostenere che tutti gli accadimenti della vita del poeta siano
esclusivamente opera della Fortuna, e se anche Brunetto Latini, con
spirito laico, sembra voler ricondurre ad essa la ragione della presenza di Dante nell’Inferno, interpellandolo con le parole:
“…Qual fortuna o destino
anzi l’ultimo dì qua giù ti mena?”
(cfr. Inf. XV, vv. 46-47),
è Dante stesso ad ammettere senza infingimenti le proprie responsabilità morali, rispondendogli:
“Là sù di sopra, in la vita serena
…mi smarri’ in una valle,
avanti che l’età mia fosse piena”.
(cfr. Inf. XV, vv. 49-51)
Il maestro di vita e di costumi civili è ora consapevole non solo dell’altezza d’ingegno del suo discepolo, favorita dagli astri, ma anche
della benevolenza del cielo, che lo destinano al netto contrasto con la
realtà sociale e politica, culminante nell’esilio terreno:
“Ed elli a me: “Se tu segui tua stella,
non puoi fallire a glorioso porto,
se ben m’accorsi ne la vita bella;
e s’io non fossi sì per tempo morto,
veggendo il cielo a te così benigno,
dato t’avrei a l’opera conforto”.
(Inf. XV, vv. 55-60)
Nella sua profezia dell’esilio ser Brunetto ascrive alla Fortuna un
tale onore 23:
“La tua fortuna tanto onor ti serba,
che l’una parte e l’altra avranno fame
di te…”
(cfr. Inf. XV, vv. 70-73),
__________
23
Cfr. anche “Tre donne intorno al cuor”: L’essilio che m’è dato onor mi tegno
(R. CIV, v. 76).
94
accennando alla spinosa questione della provvidenzialità del male,
per cui anche questa dolorosa esperienza si rivelerà piuttosto una
provvida sventura, nell’affrontare la quale egli confiderà a Cacciaguida di sentirsi tetragono (cfr. Par. XVII, v. 24), ossia saldo nelle virtù
morali ed armato di provedenza (cfr. Par. XVII, v. 109).
Dante osserverà alla lettera il suggerimento di Brunetto di seguire
la sua stella, tanto che, una volta giunto nel cielo delle stelle fisse, penetrerà fisicamente nella costellazione dei Gemelli e da essa rivolgerà
il suo ultimo sguardo alla terra:
“L’aiuola che ci fa tanto feroci,
volgendom’io con li etterni Gemelli,
tutta m’apparve da’ colli a le foci;” (Par. XXII, vv. 151-153).
Proprio alla sua costellazione, prima origine del suo ingegno, in
congiunzione col sole quand’egli nacque, e nella quale la grazia divina lo ha introdotto, egli rivolge un devoto e vibrante appello perché
lo sostenga nel potenziare quelle virtù che ora più che mai gli sono indispensabili per conseguire l’ultima salute (cfr. Par. XXII, v. 124):
“O gloriose stelle, o lume pregno
di gran virtù, dal quale io riconosco
tutto, qual che si sia, il mio ingegno,
con voi nasceva e s’ascondeva vosco
quelli ch’è padre d’ogne mortal vita,
quand’io senti’ di prima l’aere tosco;
e poi, quando mi fu grazia largita
d’entrar ne l’alta rota che vi gira,
la vostra region mi fu sortita.
A voi devotamente ora sospira
l’anima mia, per acquistar virtute
al passo forte che a sé la tira”.
(Par. XXII, vv. 112-123)
Ma prima di procedere verso l’alto è inevitabile ch’egli, quasi congedandosi dai suoi lettori, dia un’ultima occhiata in basso con quel distacco del filosofo straniato che, rapito dalla perfezione delle sette sfere celesti grandi e veloci (cfr. Par. XXII, v. 149) rotanti sotto i suoi pie95
di, ne raffronti la maestà con la vile angustia del globo terrestre, ormai consapevole della vanitas vanitatum umana:
“Col viso ritornai per tutte quante
le sette spere, e vidi questo globo
tal, ch’io sorrisi del suo vil sembiante;
e quel consiglio per migliore approbo
che l’ha per meno; e chi ad altro pensa
chiamar si puote veramente probo”. (Par. XXII, vv. 133-138)
Certo, la terra può apparire vile e risibile agli occhi di chi, come
Dante, ha ormai portato a compimento il suo percorso di formazione,
ma appunto per questo tocca proprio a lui, una volta ritornato su di
essa, esortare tutti gli altri uomini a porre il loro ingegno al ben fare
(cfr. Inf. VI, v. 81), adoperandosi a realizzare quella felicità terrena
che è prefigurazione della vita ultraterrena.
Così Marco Lombardo, incontrato a metà del suo cammino, invisibile in quell’aria tenebrosa simile all’atmosfera della selva oscura, rievocando quasi la stessa flebile parvenza di Virgilio, assolve la medesima funzione di scorta, una nuova guida razionale che lo induce a
guardare con lucidità alle conseguenze delle azioni umane 24 e a comprendere le cause dei mali che affliggono la società sin dai vertici della sua gerarchia, e non per attendere con rassegnazione un risarcimento futuro 25, ma per rinnovare la coscienza di chi, ricco di talento
e di fede, crede nell’infallibilità del disegno divino ed intende partecipare fattivamente alla sua attuazione, debellando una volta e per
tutte comodi fatalismi e vane renitenze. Solo a queste condizioni l’esistenza di ciascuno, non più opera solo del Cielo o della Fortuna, sarà effetto dell’ingegno e della volontà, quelle doti celesti incarnate
nell’uomo che il Poeta chiama intelletto e amore (cfr. Par. I, v. 120).
È questo un aspetto irrinunciabile dell’umanesimo di Dante, quello che farà dire a Leonardo Bruni nel 1436 26: “Non solamente a lette-
__________
24
Cfr. ib. v. 66.
Cfr. ib. vv. 122-123.
26
L. Bruni, Vita di Dante.
25
96
ratura, ma agli studi liberali si diede”, (che sono propri dell’uomo libero) “niente lasciando a dietro che appartenga a far l’uomo eccellente, né
per tutto questo si racchiuse in ozio, né privossi del secolo (…) niente
tralasciò delle conversazioni umane e civili…”, rintracciando in lui un
modello perfetto di quell’Umanesimo civile che si diffuse proprio nell’ambiente fiorentino, così spesso impietosamente tratteggiato nell’opera dantesca.
Quello che indurrà G. B. Vico, il filosofo della storia ideale-eterna, a definirlo il VATE della spirante barbarie, riconoscendogli la
tempra del poeta eroico e riscoprendo la sublimità di una poesia che
dà ampio spazio alla storia, quel drammatico scenario d’imbarbarimento, da cui emerge però “anche la fantasia e la passionalità, la violenza e la collera generosa ed eroica dell’umanità medioevale” 27: “Ma
quello che è più proprio della sublimità di Dante, egli fu la sorte di nascere grande ingegno nel tempo della spirante barbarie d’Italia 28”.
E ancora oggi a noi, uomini di una rinnovata barbarie, in cui non
già Papato e Impero, ma altri opposti poteri si fronteggiano, insegna
che la suprema dignità dell’uomo è nella sua libertà, che potrà sì indurlo a precipitare nel baratro dello stato ferino, ma anche a sublimarsi tra i cieli rotanti sino alla dimensione angelica; ciò che conta è
che sia sempre artefice di scelte solidali e consapevole di essere il “risultato del proprio atto” 29.
Siracusa, marzo 2004
__________
27
R. Luperini - P. Castaldi - L. Marchiani - F. Marchese, La scrittura e l’interpretazione, vol. II, tomo I, pag. 298.
28
G.B. Vico, La discoverta del vero Dante.
29
E. Garin, L’Umanesimo italiano, Laterza, Bari 1958, pag. 124.
97
98
PARADISO, c. XXV
“Il poema sacro/ al quale ha posto mano e cielo e terra” è la locuzione dantesca che, come spesso accade, si carica delle più svariate
suggestioni e che ha ispirato la struttura binaria della nostra lettura: la
speranza di Dante, che si effonde attraverso il sacrato poema, non è solo teologale, ma anche umana; non è solo virtù concessa per grazia,
ma è sofferta conseguenza di vicissitudini terrene; ed anzi, come non
mai, in questo canto della speranza si completa in entrambe le direzioni il nesso figurale tra tempo ed eterno, come se l’uno fosse figura
dell’altro: non è più solo la terra ad essere umbra futurorum, non più
solo la milizia terrena anticipa dunque il trionfo di Dante nei cieli, ma
essa diventa condizione essenziale perché il poeta, ammesso al cospetto delle verità non parventi nell’al di là, possa farle ricadere sul
mondo, come diluvio lustrale di redenzione, espressione di carità.
Dalla terra al cielo, nella Chiesa trionfante, e dal cielo di nuovo alla
terra, nella Chiesa militante, quindi, ma non basta; poiché per Dante
la speranza teologale si converte, proprio nell’incipit del canto, in speranza terrena: se l’esilio da Firenze lo ha reso degno di compiere la
sua missione salvifica, forse proprio l’assolvimento di essa – attraverso il poema – lo renderà degno di rientrare nella sua città.
Questa è la chiave di lettura del canto: nella nostra “visione” realtà e speranza si compenetrano a tal punto da risolversi in un unico sogno, quello della restauratio orbis.
E vi parleremo anche dei sogni della Commedia, intesi proprio come sogni anagogici, parte integrante della speranza di redenzione, ma
pur sempre connessi al vero, di cui costituiscono insieme l’interpretazione morale e la prodigiosa risoluzione. Questi sogni non trasfigurano dunque la realtà, ma la comprendono 1 e soprattutto contribuiscono anch’essi a tradurre l’astrattezza dell’esperienza individuale in un
concreto messaggio universale; in quanto a densità progettuale sono
__________
1
Secondo l’interpretazione psicoanalitica freudiana, qui straordinariamente
anticipata, ed usando le parole di Maury: “Sogniamo ciò che abbiamo visto, detto, desiderato o fatto”.
99
ben distanti da quegli incantamenti stilnovistici, ai quali il poeta si abbandonava in gioventù nell’intento di gustare solo con pochi adepti
l’estasi della trascendenza d’amore.
Se mai continga che ’l poema sacro
al quale ha posto mano e cielo e terra,
sì che m’ha fatto per molti anni macro,
vinca la crudeltà che fuor mi serra
del bello ovile ov’ io dormi’ agnello,
nimico ai lupi che li danno guerra;
con altra voce omai, con altro vello
ritornerò poeta, e in sul fonte
del mio battesmo prenderò ’l cappello;
però che ne la fede, che fa conte
l’anime a Dio, quivi intra’ io, e poi
Pietro per lei sì mi girò la fronte.
Indi si mosse un lume verso noi
di quella spera ond’ uscì la primizia
che lasciò Cristo d’i vicari suoi;
e la mia donna, piena di letizia,
mi disse: "Mira, mira: ecco il barone
per cui là giù si vicita Galizia".
Sì come quando il colombo si pone
presso al compagno, l’uno a l’altro pande,
girando e mormorando, l’affezione;
così vid’ ïo l’un da l’altro grande
principe glorïoso essere accolto,
laudando il cibo che là sù li prande.
Ma poi che ’l gratular si fu assolto,
tacito coram me ciascun s’affisse,
ignito sì che vincëa ’l mio volto.
Ridendo allora Bëatrice disse:
“Inclita vita per cui la larghezza
de la nostra basilica si scrisse,
fa risonar la spene in questa altezza:
tu sai, che tante fiate la figuri,
quante Iesù ai tre fé più carezza”.
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“Leva la testa e fa che t’assicuri:
che ciò che vien qua sù del mortal mondo,
convien ch’ai nostri raggi si maturi”.
Questo conforto del foco secondo
mi venne; ond’ io leväi li occhi a’ monti
che li ’ncurvaron pria col troppo pondo.
“Poi che per grazia vuol che tu t’affronti
lo nostro Imperadore, anzi la morte,
ne l’aula più secreta co’ suoi conti,
sì che, veduto il ver di questa corte,
la spene, che là giù bene innamora,
in te e in altrui di ciò conforte,
di’ quel ch’ell’ è, di’ come se ne ’nfiora
la mente tua, e dì onde a te venne”.
Così seguì ’l secondo lume ancora.
E quella pïa che guidò le penne
de le mie ali a così alto volo,
a la risposta così mi prevenne:
“La Chiesa militante alcun figliuolo
non ha con più speranza, com’ è scritto
nel Sol che raggia tutto nostro stuolo:
però li è conceduto che d’Egitto
vegna in Ierusalemme per vedere,
anzi che ’l militar li sia prescritto.
Li altri due punti, che non per sapere
son dimandati, ma perch’ ei rapporti
quanto questa virtù t’è in piacere,
a lui lasc’ io, ché non li saran forti
né di iattanza; ed elli a ciò risponda,
e la grazia di Dio ciò li comporti”.
Come discente ch’a dottor seconda
pronto e libente in quel ch’elli è esperto,
perché la sua bontà si disasconda,
“Spene”, diss’ io, “è uno attender certo
de la gloria futura, il qual produce
grazia divina e precedente merto.
Da molte stelle mi vien questa luce;
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ma quei la distillò nel mio cor pria
che fu sommo cantor del sommo duce.
`Sperino in te’, ne la sua tëodia
dice, ‘color che sanno il nome tuo’:
e chi nol sa, s’elli ha la fede mia?
Tu mi stillasti, con lo stillar suo,
ne la pistola poi; sì ch’io son pieno,
e in altrui vostra pioggia repluo”.
Mentr’ io diceva, dentro al vivo seno
di quello incendio tremolava un lampo
sùbito e spesso a guisa di baleno.
Indi spirò: “L’amore ond’ ïo avvampo
ancor ver’ la virtù che mi seguette
infin la palma e a l’uscir del campo,
vuol ch’io respiri a te che ti dilette
di lei; ed emmi a grato che tu diche
quello che la speranza ti ’mpromette”.
E io: “Le nove e le scritture antiche
pongon lo segno, ed esso lo mi addita,
de l’anime che Dio s’ha fatte amiche.
Dice Isaia che ciascuna vestita
ne la sua terra fia di doppia vesta:
e la sua terra è questa dolce vita;
e ’l tuo fratello assai vie più digesta,
là dove tratta de le bianche stole,
questa revelazion ci manifesta”.
E prima, appresso al fin d’este parole,
‘Sperent in te’ di sopr’ a noi s’udì;
a che rispuoser tutte le carole.
Poscia tra esse un lume si schiarì
sì che, se ’l Cancro avesse un tal cristallo,
l’inverno avrebbe un mese d’un sol dì.
E come surge e va ed entra in ballo
vergine lieta, sol per fare onore
a la novizia, non per alcun fallo,
così vid’ io lo schiarato splendore
venire a’ due che si volgieno a nota
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qual conveniesi al loro ardente amore.
Misesi lì nel canto e ne la rota;
e la mia donna in lor tenea l’aspetto,
pur come sposa tacita e immota.
“Questi è colui che giacque sopra ’l petto
del nostro pellicano, e questi fue
di su la croce al grande officio eletto”.
La donna mia così; né però piùe
mosser la vista sua di stare attenta
poscia che prima le parole sue.
Qual è colui ch’adocchia e s’argomenta
di vedere eclissar lo sole un poco,
che, per veder, non vedente diventa;
tal mi fec’ ïo a quell’ ultimo foco
mentre che detto fu: “Perché t'abbagli
per veder cosa che qui non ha loco?
In terra è terra il mio corpo, e saragli
tanto con li altri, che ’l numero nostro
con l’etterno proposito s’agguagli.
Con le due stole nel beato chiostro
son le due luci sole che saliro;
e questo apporterai nel mondo vostro”.
A questa voce l’infiammato giro
si quïetò con esso il dolce mischio
che si facea nel suon del trino spiro,
sì come, per cessar fatica o rischio,
li remi, pria ne l’acqua ripercossi,
tutti si posano al sonar d’un fischio.
Ahi quanto ne la mente mi commossi,
quando mi volsi per veder Beatrice,
per non poter veder, benché io fossi
presso di lei, e nel mondo felice!
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LE VIRTÙ TEOLOGALI TRA REALTÀ E SOGNO
Se la
“fede è sustanza di cose sperate
e argomento de le non parventi”
(Par. XXIV, vv. 64-65)
come Dante risponde a S. Pietro utilizzando un enunciato paolino
della lettera agli Ebrei (XI, 1),
“Spene… è un attender certo
de la gloria futura, il qual produce
grazia divina e precedente merto”.
(cfr. Par. XXV, vv. 67-69)
È questa la risposta che il poeta dà al primo quesito postogli da S.
Giacomo sulla speranza, “dì quel ch’ell’è…” (cfr. ib. v. 46), traducendo fedelmente una sententia di Pietro Lombardo (III, 26), sommo
dottore e maestro di S. Tommaso.
Dante, infatti, ormai giunto alla porta di S. Pietro (cfr. Inf. I, v.
134), come aveva auspicato all’inizio del suo viaggio, che sin d’allora
si prospetta come un itinerario di speranza 2, incontra nel cielo delle
stelle fisse tre anime eccellenti, quelle di S. Pietro, S. Giacomo e S.
Giovanni: loro compito, prima di affidarlo all’autorevole sostegno del
santo sene, S. Bernardo (cfr. Par. XXXI, v. 54), è quello di sottoporlo
ad un severo giudizio per verificarne i meriti umani e la consapevolezza teologica. I tre apostoli lo esaminano pertanto sulle virtù teologali da essi rappresentate figuralmente, secondo l’interpretazione degli intellettuali medievali e di Dante stesso, per cui Beatrice, nell’accogliere S. Giacomo, figura scritturale della speranza cristiana, allude
nei vv. 32-33 del nostro canto alla costante presenza della triade apostolica accanto a Gesù, proprio in virtù di tale valore simbolico:
__________
2
Cfr. Inferno I, v. 41: Sì ch’a bene sperar m’era cagione…; ib. v. 54 Ch’io perdei la speranza de l’altezza; ib. vv. 119-120 …perché speran di venire / quando che
sia a le beate genti.
104
“fa risonar la spene in questa altezza:
tu sai, che tante fiate la figuri
quante Iesù ai tre fe’ più carezza” 3.
Fede e speranza – come gli apostoli – sono dunque strettamente
congiunte nella loro quiditate ( cfr. Par. XXIV, v. 66), ossia nella loro
essenza, come sostiene anche S. Tommaso ( S. Th. II, II, IV, 1), poiché l’una è certezza dell’altra e la seconda, in quanto attender certo de
la gloria futura, è essa stessa fede incrollabile di verità imperscrutabili; l’intima connessione tra di esse è ben esplicitata dal poeta nel c.
XXIV:
“… Le profonde cose
che mi largiscon qui la lor parvenza,
a li occhi di la giù son sì ascose,
che l’esser loro, v’è in sola credenza,
sopra la qual si fonda l’alta spene;” (Par. XXIV, vv.70-74)
Dante si rivela ai suoi esaminatori in pieno possesso di quelle virtù, sostanziate da dottrina Da molte stelle mi vien questa luce (ib. v.
70) e professate con serena fermezza: con atteggiamento esperto, ma
umile
“Come discente ch’a dottor seconda
pronto e libente in quel ch’elli è esperto,
perché la sua bontà si disasconda,” (ib. vv. 64-66)
Dante personaggio appare finalmente trionfante, dopo le tante vicissitudini patite e le innumerevoli emozioni provate, sia sul piano
dottrinario che su quello umano e letterario: la sua sofferta degnità
viene, infatti, benedetta tre volte dalla primizia / che lasciò Cristo d’i
__________
3
Solo Pietro, Giacomo e Giovanni avevano, infatti, condiviso con Gesù, per
sua espressa volontà, tre momenti particolarmente significativi, riportati dai Vangeli: la resurrezione della figlia di Giairo (Luca VIII, 40-56), la trasfigurazione sul
monte Tabor (Matteo XVII, 1-39) e la preghiera nell’orto del Getsemani (Matteo XIV, 32-42).
105
vicari suoi (cfr. ib. vv. 14-15), S. Pietro, il quale, dopo averlo esaminato sulla fede:
“così, benedicendomi cantando,
tre volte cinse me, sì com’io tacqui,
l’appostolico lume al cui comando
io avea detto; sì nel dir li piacqui”
(Par. XXIV, vv. 151-154)
Ma essa soprattutto viene riconosciuta da Beatrice, quella pia che
guidò le penne/de le mie ali a così alto volo (cfr. ib. vv. 49-50), la quale ammette:
“La Chiesa militante alcun figliuolo
non ha con più speranza, com’è scritto
nel Sol che raggia tutto nostro stuolo:”
(ib. vv.52-54)
Non così elogiativa risuonava la breve allocuzione di Beatrice nella radura del Paradiso terrestre, quando, rivelandosi a Dante per la
prima volta, lo aveva duramente interpellato: “Come degnasti di accedere al monte?” (Purg. XXX, v. 74). Ella, dunque, nel Purgatorio,
apostrofando in vario modo il suo fedele, lo aveva costretto ad ammettere le proprie colpe, sollecitando un amaro esame di coscienza,
che era culminato in un vero e proprio atto penitenziale, seguito dalla liturgia lustrale: Beatrice stessa, ministra dell’intera sequenza confessionale, aveva immerso Dante nel Letè per cancellare ogni residua
memoria di peccato, facendo seguire alla prima fase sacramentale
quella purificatrice del battesimo. Subito dopo la donna lo aveva affidato alle sue prime ancelle (cfr. Purg. XXXI, v.108), le quattro virtù
cardinali, che lo avevano circondato a passo di danza, distendendo la
mano sul suo capo, come a proteggerlo dalle tentazioni terrene, le insidie della vita attiva. Le quattro belle (cfr. Purg. XXXI, v. 104) avevano, a loro volta, esortato il poeta a guardare intensamente Beatrice
negli occhi, poiché in essi egli avrebbe scorto le tre di là, che miran più
profondo (Purg. XXXI, v. 111), ossia le virtù teologali, che sono fondamento della vita contemplativa: questo perché Beatrice-Cristo è al
centro della storia umana, in quanto rivelazione divina, e pertanto le
virtù cardinali l’hanno preceduta:
106
“pria che Beatrice discendesse al mondo,
fummo ordinate a lei per sue ancelle” (Purg. XXXI, vv. 107-108)
mentre le virtù teologali procedono da lei, in quanto consentono al
cristiano, che fruisce della rivelazione, di vedere Dio.
Tale rito iniziatico del Purgatorio terminava con la balbettante richiesta di aiuto del poeta alla sua Madonna e con una sostenuta esortazione da parte di questa ad una nuova, lucida consapevolezza:
“Ed ella a me: “Da tema e da vergogna
voglio che tu omai ti disviluppe,
sì che non parli più com’om che sogna”. (Purg. XXXIII, vv. 31-33)
Ed è quindi con rinnovato abito, con una sicurezza che non è iattanza (cfr. ib. v. 62), che il poeta, confortato, testimonia ai santi che ne
sono figura le sue convinzioni teologiche. Così San Giacomo lo sostiene nella sua professione di dottrina:
“Leva la testa e fa che t’assicuri:
ché ciò che vien qua sù del mortal mondo,
convien ch’ai nostri raggi si maturi”.
(ib. vv. 34-36)
E ciò che induce Beatrice a prevenire la risposta di Dante alla seconda domanda di S. Giacomo sulla speranza “…dì come se ne ’nfiora / la mente tua …” (cfr. ib. vv. 46-47), non è il tentativo di sollevare
il poeta dalla difficoltà dei quesiti “…ché non li saran forti” (cfr. ib.
v.61), ma è l’urgenza di attestare anch’ella, da testimone oculare, l’avvenuta conoscenza della verità:
“però li è conceduto che d’Egitto
vegna in Ierusalemme per vedere,
anzi che ‘l militar li sia prescritto”
(ib. vv.55-57)
L’allusione da parte di Beatrice al viaggio figurale di Dante è
espressa metaforicamente con questo riferimento scritturale: come
per gli Ebrei erranti, liberati dalla cattività dell’Egitto, Gerusalemme
era la terra promessa ed il tragitto per raggiungerla costituiva un per107
corso di formazione e di purificazione, irto di difficoltà, ma costellato d’eventi prodigiosi; così anche per Dante pellegrino, salvato dalla
schiavitù del peccato, l’Empireo rappresenta la meta designata dalla
Grazia divina, conquistata con fami / freddi o vigilie (cfr. Purg. XXIX,
vv. 37-38).
L’Itinerarium mentis in Deum di Dante è quello che in termini narratologici moderni si definirebbe un bildungsroman: un procedere
dalla conoscenza della realtà, tramite l’astrazione, che traduce il particolare in universale, alla visione del divino e all’appagamento mistico; ed è proprio attraverso le tappe fondamentali di questo tragitto
pasquale che Dante sperimenta e consolida le tre virtù sulle quali sarà chiamato a rispondere.
La realtà del mondo disperato della dannazione alimenta in lui la
FEDE, concepita come ardente desiderio, pur sempre insoddisfatto,
di redenzione e condivisa in tal senso anche da Virgilio e dagli spiriti
magni del Limbo:
“semo perduti, e sol di tanto offesi
che sanza speme vivemo in disio”
(Inf. IV, vv.41-42) 4
Nel Purgatorio risorge in Dante la SPERANZA, poiché tutto il regno della purgazione vive nell’attesa certa della beatitudine, promessa dall’angelo nocchiero col suo segno della croce alle anime ben nate allorquando, già sul punto di approdare sulla spiaggia della Montagna sacra, esse intonano il salmo CXIII “In exitu Israel de Aegypto” (cfr. Purg II v. 146), apprestandosi ad affrontare quell’ascesa purificatrice che le condurrà, come prefigura la teodia (cfr. ib, v. 73), all’affrancamento da ogni colpa.
Infine, la gravitazione spirituale di Dante attraverso le sfere celesti
è tutta un tripudio di CARITA’: essa è sensibilmente percepibile nella stessa luminosità delle anime che si intensifica quando possono ren-
__________
4
Una condizione che, per estensione, è simile a quella di tutti gli altri dannati, i quali, senza alcuna speranza di salvezza, desiderano comunque affrontare
il giudizio di Dio, per quanto lo temano: “e pronti sono a trapassar lo rio, / ché la
divina giustizia li sprona, / sì che la tema si volve in disio” (Inf. III, vv.124-126).
108
dersi utili al viaggiatore, uniformandosi alla volontà di Dio, abisso di
carità infinita; essa si manifesta nella rotazione armoniosa dei cieli,
che si muovono per l’intenso desiderio che le intelligenze motrici hanno di obbedire a Dio 5; il Paradiso è il ritorno all’amore di Dio che il
poeta aveva smarrito sulla terra.
Nel corso di questo viaggio di formazione Dante, inizialmente timoroso e sfiduciato, muta quindi profondamente 6: quel cammino
tormentato ed accidentato, nell’affrontare il quale egli si riconosceva
inerme:
“…e io sol uno
m’apparecchiava a sostener la guerra
sì del cammino e sì de la pietate”
(Inf. II, vv. 3-5)
viene superato grazie ad armi invincibili, elargite a Dante dall’intercessione della Madonna – la carità –, dall’intervento di Lucia – la speranza – e dalla sollecitudine di Beatrice – la fede –, nonché dal sostegno di Virgilio – la ragione –, e si conclude proprio con quest’ultimo
esame, a cui egli si prepara come per sostenere una nuova guerra:
“sì come il baccialier s’arma e non parla
fin che ’l maestro la question propone,
per approvarla, non per terminarla,
così m’armava io d’ogni ragione
mentre ch’ella dicea, per esser presto
a tal querente e a tal professione”
(Par. XXIV, vv. 46-51).
__________
5
Cfr. Paradiso I, vv. 76-78.
L’immagine del viaggio di formazione trapela nel nostro canto anche ai vv.
17-18, nei quali Beatrice, indicando in perifrasi l’avvento di S. Giacomo, fa riferimento esplicito al pellegrinaggio terreno dei cristiani verso una delle mete più
frequentate in epoca medievale, quella di Santiago de Compostela, nel cui santuario, secondo la tradizione accolta anche da Dante, sarebbe stato sepolto il corpo dell’Apostolo. Il pellegrinaggio terreno della cristianità verso il luogo di culto riservato a S. Giacomo anticipa e prefigura , dunque, il pellegrinaggio celeste
del poeta, figura dell’intera umanità, verso il cielo delle Stelle fisse ed il suo incontro soprannaturale col foco secondo (cfr. ib., v. 37).
6
109
Ma ciò che differisce ormai è lo spessore della sua armatura rispetto agli esordi, quando, rivolto con esitazione a Virgilio, aveva
esclamato:
… “ Poeta che mi guidi,
guarda la mia virtù s’ell’è possente,
prima ch’ a l’alto passo tu mi fidi”. (Inf. II, vv. 10-12)
E ancora:
“Ma io, perché venirvi? O chi ’l concede?
Io non Enea, io non Paulo sono;
me degno a ciò né io né altri ’l crede.” (Inf. II, vv. 31-33),
avanzando anche il timore che la propria indegnità potesse trasformarsi in follia, in un atto di dissacrante arroganza 7, ben diversamente da quei magnanimi, Enea e Paolo, visitatori dell’al di là, prescelti
dalla Provvidenza per finalità eccelse.
Anche Enea e Paolo, infatti, sono protagonisti d’un viaggio di formazione: ad Enea è concesso il privilegio di visitare l’oltretomba per i
suoi meriti umani: la sua pietas ed il senso profondamente religioso delle azioni, lo renderanno degno di fondare la potente stirpe romana:
“ch’ e’ fu dell’alma Roma e di suo impero
ne l’empireo ciel per padre eletto”
(Inf. II, vv.20-21).
Il lungo viaggio di Enea però non muta la sua indole: l’eroe, devoto e rispettoso della volontà dei fati, rimane irremovibile nei suoi intenti predeterminati e la visione delle anime, che si incarneranno per
dare lustro alla gloria di Roma, non interferirà con la missione intrapresa, solo lo renderà più consapevole del valore universale di essa.
S. Paolo invece folgorato dalla Grazia sulla via di Damasco, viene
__________
7
Cfr. Inferno II, v. 35: temo che la venuta non sia folle. È immediato il riferimento al folle volo di Ulisse, artefice d’un viaggio temerario di conoscenza, perché privo di quel giusto senso del limite umano, che connota gli animi nobili.
110
elevato fino al terzo cielo per poter vedere quelle cose non parventi
della fede cristiana, il cui argomento avrebbe dovuto diffondere tra i
Gentili. S. Paolo muta dunque radicalmente la sua vita e i suoi ideali,
dopo essere stato toccato dalla Grazia: egli, persecutore dei primi Cristiani, si fa miracolosamente apostolo delle genti, assumendosi il compito della predicazione del Verbo proprio in quegli ambienti sociali e
culturali, nei quali era precedentemente integrato e che ora lo accolgono con diffidenza ed ostilità. La sua ascesa comporta, dunque, una
svolta radicale, alla quale la visione delle verità arcane conferisce maggiore efficacia persuasiva ed indiscussa autorità dottrinaria:
“Andovvi poi lo Vas d’elezione,
per recarne conforto a quella fede
ch’è principio a la via di salvazione”
(Inf. II, vv.28-30).
Il poeta si sente inadeguato rispetto ai due modelli, ma alle sue valide perplessità, Virgilio non fornisce sul momento una risposta esauriente: solo nel Paradiso Dante comprenderà, dalle parole di San Giacomo,
perché proprio lui sia stato scelto dal Sommo duce (cfr. ib. v. 72) per confortare nell’umanità la speranza d’una “renovatio rerum”:
“Poi che per grazia vuol che tu t’affronti
lo nostro Imperadore, anzi la morte,
ne l’aula più secreta co’ suoi conti,
sì che, veduto il ver di questa corte,
la spene, che là giù bene innamora,
in te e in altrui di ciò conforte”
(ib. vv.40-45).
Il suo mandato si configura ormai chiaramente come la summa
delle due esperienze di Enea e di Paolo: nasce dai meriti e procede
per Grazia; guarda alla terra, ma si proietta nel cielo; ha un pregnante valore politico che si risolve in un arduo progetto di edificazione
morale e religiosa. Come ebbe a dire Cosmo: “Anch’egli voleva dell’Egitto nel quale viveva fare Gerusalemme” 8.
__________
8
U. Cosmo, L’ultima ascesa, Bari 1936.
111
Tale viaggio di formazione viene descritto dal poeta in forma di visione, quasi come un sogno fatto alla presenza della ragione 9, poiché
l’intera esperienza salvifica si proietta fuori dalla realtà, ma, partendo
da essa, la reinterpreta anagogicamente con lucida, superiore consapevolezza. Solo nelle circostanze iniziali Dante rileva l’oscurità della
propria coscienza e la simboleggia nel sonno, quel nocivo torpore della ragione, che determina l’aversio a Deo:
“Io non so ben ridir com’i’ v’intrai,
tant’era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai”
(Inf. I, vv. 10-12).
Anche per Dante il sonno della ragione genera mostri, materializzati
nelle tre fiere che sottomettono la volontà dell’individuo, fino a portarla
all’autodistruzione: nella notte passata con tanta pieta (Inf. I, v. 21) nella
selva, in questo sonno ottundente c’è solo accidia, inerzia morale, paura
dell’ignoto e rappresentazioni del peccato che minacciano di condannarlo alla mortalità; il sogno, invece, secondo Dante, è sperienza d’immortalità, emanazione e prova del trascendente: “Ancora vediamo continua
sperienza della nostra immortalità nelle divinazione de’ nostri sogni, le quali essere non potrebbono, se in noi alcuna parte immortale non fosse; conciossiacosachè immortale convegna essere lo rivelante, o corporeo o incorporeo che sia, se ben si pensa sottilmente” 10. L’attività onirica è legata pertanto ad una coscienza vigile, in grado di recepire l’ispirazione divina, la
quale si palesa nelle prime ore del giorno, al risorgere della Grazia:
“Nell’ora…
e che la mente nostra, peregrina
più dalla carne e men da’ pensier presa,
alle sue vision quasi è divina”
(cfr. Purg. IX, vv. 13/16-19).
Nell’inferno, dunque, è inibita a Dante ogni attività onirica: la perpetua notte del peccato non è mai rischiarata dalla luce della Grazia
__________
9
10
112
T. Ceva, Saggio su F. Lemene.
Cfr. Convivio II, VIII, 13.
e in quell’aura sanza tempo tinta (cfr. Inf. III, v. 29) il pellegrino deve
tenere sempre allertata la sua ragione, senza abbandonarsi al sonno e
tanto meno al sogno: nel primo infatti si configurerebbe un’irreparabile condizione di regressione, nel secondo, invece, un’impossibile
progressione in assenza di Grazia.
Tre sogni si susseguono in altrettante notti trascorse in purgatorio,
dove le tenebre del peccato vengono naturalmente dissipate dalla luce della virtù, e si manifestano tutti all’alba, quando: …presso al mattin del ver si sogna (cfr. Inf. XXVI, v. 7).
Si tratta di eventi prodigiosi, disposti secondo una scansione simbolica segnata dal numero 9 – il numero del miracolo – nei canti IX,
XVIII - XIX e XXVII; ricorrono in situazioni particolarmente ardue,
che giustificano l’intervento provvidenziale di alcune donne allegoriche, attestanti gli effetti benefici delle virtù. Nel primo, infatti, Lucia,
simboleggiata da un’aquila, rapisce Dante che dorme, sollevandolo
dalla valletta dei principi alla porta del purgatorio:
“Dianzi, ne l’alba che procede al giorno,
quando l’anima tua dentro dormia,
sovra li fiori ond’è là giù addorno
venne una donna, e disse: “I’ son Lucia;
lasciatemi pigliar costui che dorme;
sì l’agevolerò per la sua via.”
(Purg. IX, vv. 52-57):
solo così, solo affidandosi alla SPERANZA, il poeta avrebbe potuto
superare quel dislivello tra antipurgatorio e purgatorio, insormontabile per chi va sanz’ala (cfr. Purg. III, v. 54). Nel secondo si fronteggiano due figure femminili, una femmina balba (cfr. Purg. XIX, v. 7)
e una donna …santa e presta (cfr. Purg, XIX, v. 26), la prima simbolo
dell’incontinenza, ultima categoria di peccati espiati nel purgatorio,
l’altra ancora allegoria della Grazia 11, necessaria a svelare l’insidia latente anche nei piaceri apparentemente inoffensivi: con questo sogno
Dante si rivestirà d’una corazza morale contro le lusinghe dei diletti.
Sulla radura dell’Eden, infine, appare in sogno a Dante una donna
__________
11
Forse Beatrice, la Verità rivelata.
113
giovane e bella, che va cogliendo fiori e canta: l’attiva Lia evoca immediatamente nelle sue parole la contemplativa Rachele, entrambe riflesso della felicità terrena e di quella celeste, l’una prefigurata, l’altra
promessa al viaggiatore:
“Per piacermi a lo specchio, qui m’addorno;
ma mia suora Rachel mai non si smaga
dal suo miraglio, e siede tutto giorno.
Ell’è d’i suoi belli occhi veder vaga
com’io de l’addornarmi con le mani;
lei lo vedere, e me l’ovrare appaga.” (Purg. XXVII, vv.103-108).
Questi sogni sono allegorici, in quanto costituiscono l’equivalente
di ciò che Dante desidera, ed anagogici insieme, in quanto rappresentano ciò a cui il poeta aspira e si collocano nel regno della speranza perché ne interpretano figuratamente le istanze; nel primo caso sono dunque veritieri e palesano al poeta di quali armi efficaci servirsi,
nel secondo sono divinatori e ne profetizzano la vittoria. In seguito,
nel Paradiso, la contemplazione della beatitudine sfuggirà alla memoria del veggente e di quel sogno estatico del Divino rimarrà nel cuore
soltanto una dolcezza ineffabile:
“Qual è colui che sognando vede,
che dopo ’l sogno la passione impressa
rimane, e l’altro a la mente non riede,
cotal son io, ché quasi tutta cessa
mia visione, e ancor mi distilla
nel core il dolce che nacque da essa”. (Par. XXXIII, vv. 58-63)
Dante è dunque figura impleta sia di Paolo che di Enea: come Paolo, si fa ricettacolo di Grazia per diffondere presso l’intera umanità i
misteri della realtà ultraterrena 12; come Enea, viene prescelto per rifondare nel mondo l’autorità politica, garanzia per gli uomini di felicità terrena. Lo rendono degno di ciò i suoi precedenti merti, il suo in-
__________
12
114
Cfr. anche Purgatorio XVI, vv. 40-41.
gegno posto al ben fare 13 ed il suo infaticabile impegno militante nella realtà.
È nel canto XV del Paradiso che Cacciaguida fornisce indirettamente a Dante quelle risposte ai quesiti che Virgilio aveva eluso: Cacciaguida, come Anchise verso Enea, si fa incontro a suo figlio (cfr. v.
52) con l’ardente affetto (cfr. v. 43) di un padre che lungamente lo ha
atteso 14, perché la sua venuta era scritta in Dio e voluta da Dio, confermando così il significato provvidenziale ed universale del suo apostolato:
…“Grato e lontano digiuno,
tratto leggendo del magno volume
du’ non si muta mai bianco né bruno,
solvuto hai, figlio, dentro a questo lume
in ch’io ti parlo, mercé di colei
ch’ a l’alto volo ti vestì le piume”.
(Par XV, vv. 49-54)
Ma a Cacciaguida, martire della fede, spetta anche il compito di
chiarire a Dante che tale missione è il giusto riconoscimento d’un
martirio immeritato, l’esilio da Firenze, di cui egli stesso lo ragguaglia
nell’ultima profezia della Commedia:
“Qual si partio Ipolito d’Atene
per la spietata e perfida noverca,
tal di Fiorenza partir ti convene”.
(Par. XVII, vv. 46-48)
Tale definitiva sentenza, sollecitata con accoramento da Dante,
giunge tanto più dolorosa in quanto preceduta da un’ampia e suggestiva rievocazione nostalgica della Firenze antica:
“Fiorenza, dentro da la cerchia antica,
ond’ella toglie ancora e terza e nona,
si stava in pace, sobria e pudica”
(Par. XV, vv. 97-99)
__________
13
14
Cfr. Inferno VI, v. 81 e XV, v. 64.
Cfr. Paradiso XV, vv. 25-27.
115
scevra da tutti quei mali che l’ hanno funestata in così breve volgere
d’anni. Quella città ideale in cui il trisavolo era nato non conosceva
contrasti civili, sfarzo e lussuria; coltivava i valori morali e custodiva
gli affetti famigliari: Cacciaguida si riconosce in quella società e proprio da essa attinge le virtù che gli avrebbero consentito di militare
quale crociato incontro alla nequizia 15:
“Con queste genti, e con altre con esse,
vid’io Fiorenza in sì fatto riposo,
che non avea cagione onde piangesse.
Con queste genti vid’io glorioso
e giusto il popol suo, tanto che ’l giglio
non era ad asta mai posto a ritroso,
né per division fatto vermiglio.”
(Par. XVI, vv. 148-154).
Non è così per Dante, di cui pure Cacciaguida è anticipazione: egli
non ritrova più quegl’irrinunciabili pregi celebrati dal suo antenato
nella Firenze che idoleggia il fiorino:
“La gente nuova e i subiti guadagni
orgoglio e dismisura han generata,
Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni”
(Inf. XVI, vv.73-75);
nella Firenze, in cui intrighi e rissosità inquinano e corrompono gli animi:
“…la città che nel Batista
mutò ’l primo padrone: ond’ei per questo
sempre con l’arte sua la farà trista” (cfr. Inf. XIII, vv.143-14);
nella Firenze, in cui sulla generosità degli ideali e degli affetti prevalgono gli interessi personali ed il gretto materialismo:
“Molti han giustizia in cuore, e tardi scocca
per non venir sanza consiglio a l’arco;
__________
15
116
Cfr. Par. XV, v. 142.
ma il popol tuo l’ha in sommo de la bocca.
Molti rifiutan lo comune incarco;
ma il popol tuo solicito risponde
sanza chiamare, e grida: “I’ mi sobbarco!”.
Or ti fa lieta, ché tu hai ben onde:
tu ricca, tu con pace e tu con senno!” (Purg. VI, vv. 130-137);
nella Firenze, in cui mode volgari e atteggiamenti spregiudicati rendono le donne spudorate:
“a le sfacciate donne fiorentine
l’andar mostrando con le poppe il petto” (Purg. XXIII, vv.101-102).
Dall’indignazione per tanta abiezione morale e nello stesso tempo
dall’insopprimibile amore che egli continua a nutrire per la sua città
nasce lo straziante conflitto che lo dilania: da un lato, il senso rigoroso della giustizia, che fa del poeta un cantor rectitudinis, gl’impone di
denunciare ogni sorta di bassezze e perversioni consumate in quel nido di malizia tanta (cfr. Inf. XV, v. 78); dall’altro, il martirio dell’esilio,
che fa del pellegrino un eletto, non gl’impedisce di rimpiangere acerbamente i valori perduti della sua città e di compiangere amaramente la propria sorte:
“Tu proverai sì come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scendere e ’l salir per l’altrui scale” (Par. XVII, vv. 58-60).
L’allusione a Firenze è già ravvisabile nella selva oscura, le cui fiere
simboleggiano i vizi capitali dei suoi abitanti, avarizia, invidia e superbia 16,
ai quali fa riferimento anche il giudizio morale sulla società fiorentina,
espresso con toni sentenziosi e severi dal suo maestro Brunetto Latini:
“Ma quello ingrato popolo maligno
che discese di Fiesole ab antico,
__________
16
Cfr. Inferno VI, vv. 74-75; XV, v. 68; Purgatorio XIV, v. 64.
117
e tiene ancor del monte e del macigno,
ti si farà per tuo ben far nimico;
ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi
si disconvien fruttare al dolce fico”. (Inf. XV, vv. 61-66).
Questi stessi costumi corrotti, fustigati con sottile ironia dal poeta, hanno reso famosa la sua città per mare e per terra e persino all’Inferno:
“Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande
che per mare e per terra batti l’ali,
e per lo ’nferno tuo nome si spande!
Tra li ladron trovai cinque cotali
tuoi cittadini onde mi ven vergogna,
e tu in grande orranza non ne sali”. (Inf. XXVI, vv. 1-6).
Dante, dunque, disorganico al tessuto civile dal quale è stato generato, deplora le penose condizioni in cui versa la sua patria: “Oh
misera, misera patria mia! Quanta pietà mi stringe per te, qual volta
leggo, qual volta scrivo cosa che a reggimento civile abbia rispetto!” 17,
ma proprio per questo riconosce il suo esilio iniquo quasi come una
necessità ineluttabile, seppure angosciosa:
“ E io, che ascolto nel parlar divino
consolarsi e dolersi
così alti dispersi,
l’essilio che m’è dato, onor mi tegno:
ché, se giudizio o forza di destino
vuol pur che il mondo versi
i bianchi fiori in persi,
cader co’ buoni è pur di lode degno.
E se non che da gli occhi miei ’l bel segno
per lontananza m’è tolto dal viso,
che m’have in foco miso,
__________
17
118
Conv. IV, XXVII, 11; cfr. anche Convivio I, III, 4.
lieve mi conterei ciò che m’è grave.
Ma questo foco m’have
già consumato sì l’ossa e la polpa,
che Morte al petto m’ha posto la chiave”
(Tre donne intorno al cor, vv. 73-87).
La speranza d’un possibile ritorno in patria è pertanto remota, ma
non soffocata: essa viene dapprima affidata al congedo della Canzone
CXVI (vv. 76-84):
“O montanina mia canzon, tu vai:
forse vedrai Fiorenza, la mia terra,
che fuor di sé mi serra,
vota d’amore e nuda di pietate;
se dentro v’entri, va dicendo: “Omai
non vi può far lo mio fattor più guerra:
là ond’io vegno una catena il serra
tal, che se piega vostra crudeltate,
non ha di ritornar qui libertate”
È indubitabile la consonanza testuale con l’esordio del nostro canto; ma se nella rima il rientro appare precluso al suo fattor, nonostante ai suoi versi sia ancora possibile, nel “proemio” del canto XXV del
Paradiso la speranza che ciò possa avvenire sembra materializzarsi
proprio per l’intermediazione di quel poema sacro che lo ha reso per
molti anni macro (cfr. ib. vv. 1-3).
Quello che la speranza gl’impromette (cfr. ib. v. 87) non è soltanto, quindi, la ricompensa eterna decretata per lui dal giudizio divino, secondo l’autorità de “le nove e le scritture antiche” (cfr. ib. v.
88) 18, ma anche il risarcimento terreno, che gli proviene dal giudizio degli uomini:
__________
18
Sorte analoga a quella del poeta è stata anche quella di S. Giacomo, com’egli stesso dice di sé ai vv. 82-84 del canto in oggetto.
119
“con altra voce omai, con altro vello
ritornerò poeta, e in sul fonte
del mio battesmo prenderò ’l cappello”
(ib. vv.7-9).
La speranza di tornare al bello ovile ove dormì agnello (cfr. ib. v. 5)
non può significare soltanto per il poeta una rivalsa personale, ma si
arricchisce di finalità superiori alla grettezza e all’individualismo mercantile della sua terra: vuol dire essere incoronato sommo poeta proprio in virtù di quella fede alla quale egli è stato consacrato in S. Giovanni e che ora lo introduce nella basilica (cfr. ib. v. 30) divina a colloquio con i principi gloriosi (cfr. ib v. 23); significa trionfare nell’aringo (cfr. Par. I, v. 18) della poesia, la cui ispirazione proviene direttamente da Dio:
“O divina virtù, se mi ti presti
tanto che l’ombra del beato regno
segnata nel mio capo io manifesti,
vedrami al piè del tuo diletto legno
venire e coronarmi de le foglie
che la matera e tu mi farai degno”
(Par. I, vv. 22-27).
Ma l’incoronazione poetica, di cui è simbolo il cappello dottorale dovrebbe essere singolarmente in terra riflesso di quell’investitura spirituale ch’egli riceve nell’al di là 19; si capovolge così il
nesso figurale tra tempo ed eterno: nel cielo Dante viene insignito
della missione di restaurator orbis e tale onorificenza gli viene conferita proprio come un’incoronazione, una designazione solenne
rappresentata colle forme rituali di una cerimonia cavalleresca 20,
durante la quale l’adepto, rigerenato da simboliche procedure ini-
__________
19
Il v. 12 del nostro canto: “Pietro per lei sì mi girò la fronte” sembrerebbe
proprio alludere ad un’incoronazione ricevuta per fede (Purg. XXVII, v. 142).
20
Un’immagine di cerimonia solenne è adombrata nel nostro canto ai vv. 103111, in cui si fa riferimento all’avvento dell’ultimo foco (cfr. ib. v. 121), S. Giovanni: la similitudine in cui essa è inserita evoca una scena nuziale ed è contesta
di termini afferenti alla sfera amorosa, in quanto allusivi all’ardore di carità che
l’apostolo prediletto da Cristo rappresenta.
120
ziatiche, è reso consapevole dei propri valori e responsabile dei
propri doveri.
Per ch’io te sovra te corono e mitrio (Purg. XXVII, v. 142); con questa formula sacramentale Beatrice per prima ordina Dante sacerdote,
ne fa un nuovo apostolo delle genti, lo segna col crisma della milizia
spirituale, esortandolo alla divulgazione della verità, di cui è depositario:
“…e quel che vedi,
ritornato di là, fa che tu scrive”
(Purg. XXXII, vv.104-105),
o ancora:
“Tu nota; e sì come da me son porte,
così queste parole segna a’ vivi…” (Purg. XXXIII, vv. 52-53).
Anche Cacciaguida lo rafforza nell’assolvimento dei suoi uffici:
“Ma nondimen, rimossa ogne menzogna
tutta tua vision fa manifesta;
e lascia pur grattar dov’è la rogna.
Ché se la voce tua sarà molesta
nel primo gusto, vital nodrimento
lascerà poi, quando sarà digesta.”
(Par. XVII, vv. 127-132);
S. Pietro insiste sulla funzione profetica della poesia dantesca, al fine di distogliere l’umanità dal male:
“e tu, figliuol, che per lo mortal pondo
ancor giù tornerai, apri la bocca,
e non asconder quel ch’io non ascondo”
(Par. XXVII, vv. 64-66).
Anche S. Giacomo sollecita la valenza didattica della Commedia e
le conferisce il compito di insegnare agli uomini la speranza; al suo invito Dante risponde con entusiasmo, riconoscendo di essere sovrabbondante di quel carisma che ha ricevuto dai suoi scritti e di volerlo
distillare agli altri:
121
“Tu mi stillasti, con lo stillar suo,
ne la pistola poi 21; sì ch’io son pieno,
e in altrui vostra pioggia repluo”
(ib. vv. 76-78).
La metafora della pioggia contiene in sé un significato vivificatore:
la larga ploia / de lo Spirito Santo 22, di cui Dante si è impregnato e che
trasmette agli altri, si risolve in dono, in un atteggiamento d’amore verso il prossimo, che, nella oblazione caritatevole di sé e della sua opera,
rinnova il vigore della sua stessa fede ed alimenta la speranza d’una benefica purificazione dell’umanità. Il versetto davidico “Sperino in te”
(S. IX, 11), due volte ripetuto ai vv. 73 e 98 del nostro canto, echeggia
ora come professione di fede da parte del poeta nell’aiuto di Dio:
“Sperino in te”, ne la sua teodia
dice, “color che sanno il nome tuo”:
e chi nol sa, s’elli ha la fede mia?
(ib. vv. 73-75),
ora come atto di consacrazione da parte dei cieli, che lo designano
quale depositario delle speranze umane:
“Sperent in te” di sopr’a noi s’udì;
a che rispuoser tutte le carole”
(ib. vv. 98-99).
Ordunque, S’elli ama bene e bene spera e crede (Par. XXIV, v. 40),
allora è certamente lui quel veltro tanto atteso, quel detentore di sapienza, amore e virtute (cfr. Inf. I, v. 104), nimico ai lupi (ib., v. 6) cupidi e voraci che l’invidia ha disseminato per il mondo.
“Se per grazia di Dio questi preliba
di quel che cade de la vostra mensa,
prima che morte tempo li prescriva” (Par. XXIV, vv.4-6)
__________
21
L’Epistola di S. Giacomo, ora attribuita non più all’Apostolo, ma a S. Giacomo minore, tratta della larghezza (cfr. ib., v. 29), ossia della generosità di Dio.
Dante ne fa un modello di speranza, poiché da essa trae il precetto dell’irrinunciabile concorso delle opere nel conseguimento della salvezza.
22
Cfr. Par. XXIV, vv. 91-92.
122
ciò significa che Dante ha assimilato la FEDE, la certezza che Dio Padre non abbandonerà mai l’uomo alla sua storia; ha concepito la suprema SPERANZA della redenzione, annunciata da Dio Figlio per
l’uomo in preda al peccato; ha gustato la dolcezza della CARITA’, l’amore di Dio Spirito Santo per l’uomo in balia di se stesso:
“ché l’essere del mondo e l’esser mio
la morte ch’el sostenne perch’io viva,
e quel che spera ogne fedel com’io,
con la predetta conoscenza viva,
tratto m’hanno del mar de l’amor torto,
e del diritto m’han posto a la riva” (Par. XXVI, vv. 58-63).
Con queste parole il poeta potrà davvero dimostrare di aver superato l’esame: l’esule che porta in sé l’esperienza di una realtà di miserie umane, eletto per grazia divina e per meriti, come fregiato d’una
doppia vesta (cfr. ib., v. 92), alla conquista della verità e alla contemplazione di Dio, affiderà alla dettatura divina della sua Commedia,
come Mosé alle tavole della legge 23, il compito di riportare nel mondo la speranza della rinascita ed il sogno di un ritorno all’innocenza
edenica.
Siracusa, marzo 2002
__________
23
A Mosè si riferisce infatti il v. 42 del c. XXVI del Paradiso: “Io ti farò vedere ogne valore”; pertanto Dante è il novello Mosè, destinato a ricondurre la cristianità dall’Egitto a Gerusalemme.
123
124
INFERNO, c. V
Graditissimo al mondo giovanile il canto di Paolo e Francesca;
notissimo ed amatissimo perché parla d’amore, perché riflette nella
trascinante passione dei due eroi gli stati d’animo adolescenziali, inclini alla scoperta delle prime emozioni e delle nuove manifestazioni del sentimento amoroso; perché evoca i desideri sconosciuti ed i
turbamenti improvvisi del cuore al progressivo rivelarsi d’un “piacer
sì forte”.
Tutto ciò suggerisce istintivamente al lettore ingenuo una interpretazione romantica dell’episodio dantesco ed ispira una commozione irrazionale che, sin dalle letture critiche di Foscolo e De Sanctis,
contribuisce a consacrare il personaggio di Francesca come quello di
una donna moderna, “eroina della sua passione” 1; per lo stesso equivoco, nella convinzione di poterne attualizzare il mito, Sanguineti individua in Francesca una “Bovary del Duecento, che sogna i baci di
Lancillotto” 2, confondendo nella sua tragica idealizzazione del sentimento d’amore la realtà con la fantasia letteraria.
Ma la vera Francesca, concepita da Dante come la raffinata madonna d’una corte medievale, partecipe dei gusti e del clima culturale fedelmente riprodotti nel “De Amore” di Andrea Cappellano,
non è soltanto una giovane patetica, innamorata, vittima quasi inconsapevole della sua turbinosa passione, piuttosto è l’incarnazione
di un’intensa meditazione etico-filosofica sulla origine, sui modi e
sulle finalità dell’amore, che impegnerà Dante nel corso della Commedia in ogni cantica, dallo stadio materiale dell’amore sensitivo, a
quello filosofico dell’amore intellettivo, a quello religioso dell’amore mistico. Francesca è dunque l’espediente letterario di cui Dante
si serve per esecrare i valori fuorvianti d’un amore cortese che, lungi dal promuovere il perfezionamento dell’animo e la sua conseguente salvezza, giunge sino alla perversione – il mal perverso (v. 93)
__________
1
Cfr. G.Giacalone, Inferno, Canto V (postilla critica), Signorelli ed. Roma
1972, pag. 84.
2
Cfr. E. Sanguineti, Il realismo di Dante, Firenze 1966, pg. 28.
125
– ed allo stravolgimento dell’etica religiosa, accogliendo financo il
topos dell’amore adulterino.
Così discesi del cerchio primaio
giù nel secondo, che men loco cinghia
e tanto più dolor, che punge a guaio.
Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:
essamina le colpe ne l’intrata;
giudica e manda secondo ch’avvinghia.
Dico che quando l’anima mal nata
li vien dinanzi, tutta si confessa;
e quel conoscitor de le peccata
vede qual loco d’inferno è da essa;
cignesi con la coda tante volte
quantunque gradi vuol che giù sia messa.
Sempre dinanzi a lui ne stanno molte:
vanno a vicenda ciascuna al giudizio,
dicono e odono e poi son giù vòlte.
“O tu che vieni al doloroso ospizio”,
disse Minòs a me quando mi vide,
lasciando l’atto di cotanto offizio,
“guarda com’entri e di cui tu ti fide;
non t’inganni l’ampiezza de l’intrare!”.
E ’l duca mio a lui: “Perché pur gride?
Non impedir lo suo fatale andare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare”.
Ora incomincian le dolenti note
a farmisi sentire; or son venuto
là dove molto pianto mi percuote.
Io venni in loco d’ogne luce muto,
che mugghia come fa mar per tempesta,
se da contrari venti è combattuto.
La bufera infernal, che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina;
voltando e percotendo li molesta.
Quando giungon davanti a la ruina,
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quivi le strida, il compianto, il lamento;
bestemmian quivi la virtù divina.
Intesi ch’a così fatto tormento
enno dannati i peccator carnali,
che la ragion sommettono al talento.
E come li stornei ne portan l’ali
nel freddo tempo, a schiera larga e piena,
così quel fiato li spiriti mali
di qua, di là, di giù, di sù li mèna;
nulla speranza li conforta mai,
non che di posa, ma di minor pena.
E come i gru van cantando lor lai,
faccendo in aere di sé lunga riga,
così vid’io venir, traendo guai,
ombre portate da la detta briga;
per ch’i’ dissi: “Maestro, chi son quelle
genti che l’aura nera sì gastiga?”.
“La prima di color di cui novelle
tu vuo’ saper”, mi disse quelli allotta,
“fu imperadrice di molte favelle.
A vizio di lussuria fu sì rotta,
che libito fé licito in sua legge,
per tòrre il biasmo in che era condotta.
Ell’è Semiramìs, di cui si legge
che succedette a Nino e fu sua sposa:
tenne la terra che ’l Soldan corregge.
L’altra è colei che s’ancise amorosa,
e ruppe fede al cener di Sicheo;
poi è Cleopatràs lussuriosa.
Elena vedi, per cui tanto reo
tempo si volse, e vedi ’l grande Achille,
che con amore al fine combatteo.
Vedi Parìs, Tristano”; e più di mille
ombre mostrommi e nominommi a dito,
ch’amor di nostra vita dipartille.
Poscia ch’io ebbi ’l mio dottore udito
nomar le donne antiche e’ cavalieri,
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pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.
I’ cominciai: “Poeta, volontieri
parlerei a que’ due che ’nsieme vanno,
e paion sì al vento esser leggieri”.
Ed elli a me: “Vedrai quando saranno
più presso a noi; e tu allor li priega
per quello amor che i mena, ed ei verranno”.
Sì tosto come il vento a noi li piega,
mossi la voce: “O anime affannate,
venite a noi parlar, s’altri nol niega!”.
Quali colombe dal disio chiamate
con l’ali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per l’aere, dal voler portate;
cotali uscir de la schiera ov’è Dido,
a noi venendo per l’aere maligno,
sì forte fu l’affettuoso grido.
“O animal grazïoso e benigno
che visitando vai per l’aere perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno,
se fosse amico il re de l’universo,
noi pregheremmo lui de la tua pace,
poi c’hai pietà del nostro mal perverso.
Di quel che udire e che parlar vi piace,
noi udiremo e parleremo a voi,
mentre che ’l vento, come fa, ci tace.
Siede la terra dove nata fui
su la marina dove ’l Po discende
per aver pace co’ seguaci sui.
Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende.
Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.
Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense”.
Queste parole da lor ci fuor porte.
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Quand’io intesi quell’anime offense,
china’ il viso, e tanto il tenni basso,
fin che ’l poeta mi disse: “Che pense?”.
Quando rispuosi, cominciai: “Oh lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso passo!”.
Poi mi rivolsi a loro e parla’ io,
e cominciai: “Francesca, i tuoi martìri
a lagrimar mi fanno tristo e pio.
Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri,
a che e come concedette amore
che conosceste i dubbiosi disiri?”.
E quella a me: “Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e ciò sa ’l tuo dottore.
Ma s’a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice.
Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.
Per più fïate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disiato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante”.
Mentre che l’uno spirto questo disse,
l’altro piangëa; sì che di pietade
io venni men così com’io morisse.
E caddi come corpo morto cade.
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GALEOTTO FU ’L LIBRO
I peccator carnali vengono definiti da Virgilio coloro che la ragion
sommettono al talento (v. 39), cioè coloro nei quali l’appetito sensuale prevale sulla constantia della ragione 3; la lussuria è pertanto peccato d’irrazionalità, come tutti i peccati d’incontinenza, imprevedibile
ed irresistibile, come simboleggia anche l’allegoria della lonza leggiera e presta molto (cfr. Inf. I, v. 32), nella cui immagine seducente – dalla gaetta pelle (cfr. Inf. I, v. 42) – si avverte proprio la fulmineità dell’attrazione per l’oggetto desiderato, quel fascino fatale che afferra simultaneamente chi è sanza alcun sospetto (cfr. ib., v. 129). La leggerezza attribuita alla lonza ritorna nel nostro canto nelle insistite similitudini ornitologiche, nel volo degli stornelli, che vanno a schiera larga e piena (v. 41); in quello delle gru che fanno in aere di sé lunga riga
(v. 47), nelle colombe con l’ali alzate e ferme al dolce nido (v. 83), e
nello stesso incedere abbandonato di
…“quei due che insieme vanno,
e paion sì al vento esser leggieri”
(cfr. ib. vv. 74-5)
Amore è dunque una forza impetuosa, rappresentata nel canto come una tempesta, una bufera infernal:
“La bufera infernal, che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina;
voltando e percotendo li molesta”
(ib. vv. 31-33);
è un fiato che “mena” “li spiriti mali”, “di qua, di là, di giù, di su” (cfr.
vv. 42- 43); è una briga, una diuturna lotta, un eterno contrasto. Amore è quel vento incessante che travolge le anime impotenti, tanto che
Virgilio esorterà Dante ad interpellare i due amanti proprio in nome
di quell’amor che i mena ed ei verranno (v. 78) perché da sempre incapaci di resistergli, a meno di un suo provvidenziale tacere.
__________
3
130
Cfr. Vita Nuova, XXXIX, 2.
L’immagine dell’amore come forza calamitante è un altro topos
della lirica medievale, ricorrente nella Scuola poetica siciliana come
nello Stilnovo: basti ricordare il sonetto di Pier della Vigna, Però ch’amore non si po’ vedere, in cui il poeta sostiene che amore sia quale calamita che
“come lo ferro attira no si vede,
ma sì lo tira signorevolmente”
(vv. 10-11),
o ancora la canzone “Al cor gentil…” di Guido Guinizzelli, in cui
“amore in gentil cor prende rivera
per suo consimel loco
com’adamas del ferro in la minera” (vv. 28-30).
E dunque l’amor che “regna tra la gente” è
“uno desio che ven da core
per abbondanza di gran piacimento” (vv. 1-2),
come sostiene Jacopo da Lentini, e “lo cor… imagina e li piace quel desio” (v. 13), istituendo un legame invisibile, ma dominante, tra amore
e piacere. È questo l’amore avocato anche da Francesca:
“Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende
prese costui della bella persona
che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende.
Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona”.
(ib. vv. 100-105)
Quest’amore sensuale, romanticamente idealizzato nell’attrazione
degli sguardi, nello scolorir del viso, nei dolci pensieri e dolci sospiri,
negli ambigui desideri (quanto disio! - dubbiosi disiri - disiato riso), nel
diletto e nel piacere, ha un “modo” che “offende” e preannunzia il
dramma del doloroso passo.
I verbi di trasformazione nel testo dantesco sono ripetuti ed inequivocabili: “menare” e “condurre” indicano l’ineluttabilità del furor
131
dei sensi contrapposto alla ratio dell’intelletto; in esso non v’è appagamento, ma dolore, poiché la bufera infernale “percuote” e “molesta” gli spiriti affannati , alterati dalla pena d’amore, in questo
…“loco d’ogne luce muto
che mugghia come fa mar per tempesta”
(cfr. ib. vv. 28-29).
Le anime esprimono la loro pena con dolenti note (v. 25) e molto
pianto (v. 27), con strida, compianto e lamento (v. 35), in un climax discendente che raffigura il lacerante tormento intimo di questi peccatori; ma più disperata è la sofferenza delle ombre che amor di nostra
vita dipartille (v. 69), le quali avanzano solitarie e sconsolate, cantando lor lai (v. 46) e traendo guai (v. 48); ecco perché Francesca parlerà
a Dante come colei che piange e dice (v. 126) ed il pianto di Paolo, in
silenzio accanto a lei, simultaneamente diverrà condanna morale d’un
amore colpevole.
Si rinnova qui tragicamente il connubio classico di Amore e Morte, suggerito dall’opposizione semantica di termini-spia d’una più
profonda dialettica psicologica: il conflitto Amore / Morte è analogo
a quello di ragione / talento, libito / licito, dolci pensieri / doloroso passo, tempo felice / miseria, dolci sospiri / dubbiosi disiri, pace / mal perverso, diletto / martiri e tutti insieme i termini citati forniscono il sintomo della fragilità umana e la trasformazione tragica d’un bene che
si risolve in catastrofe.
Tale trasformazione è infatti connessa alla “radice” di questo amore
più che alla fenomenologia di esso, del tutto usuale in epoca medievale
e consacrata da vasta ed illustre tradizione lirico-filosofica: che “l’amor
s’apprenda al cor gentil” o che “a nullo amato amar perdoni” sono principi d’autorità nella cultura contemporanea a Dante e pertanto difficilmente censurabili dal poeta che in vari luoghi s’è fatto banditore di essi; ma se questo amore, invece di apportare salvezza, conduce ad una
morte (v. 106), è inevitabile che la sua stessa finalità perversa ne denunci il modo ambiguo ed, in particolare, l’origine difforme dai precetti
della morale vigente, derivanti sia dalle cognizioni filosofiche che dall’influenza religiosa. Ecco perché Dante, dopo un primo colloquio con
Francesca sulla natura del suo amore, avverte con sgomento e commozione l’esigenza di conoscer la prima radice di esso (v. 124):
132
“a che e come concedette Amore
che conosceste i dubbiosi disiri?”
(ib. vv. 119-120)
Non morbosa curiosità spinge il poeta a sollecitare quest’ultima
confessione, ma il bisogno di comprendere come Amore, questa guida consacrata dai cuori gentili, abbia ceduto il posto a Lussuria; infatti a quell’amore operante nella lunga sequenza dei vv. 100-106 si
sostituisce un nuovo soggetto agente, il libro di Lancillotto e Ginevra.
Demiurgo non è più Amore, forza intima e naturale, che rende i due
giovani vittime innocenti della sua potenza, ma un libro, un elemento
estraneo ad essi e colpevole di seduzioni morbose, idolo che provoca
una progressiva identificazione con vicende note di donne antiche e
cavalieri (v. 71), trasformando i due cognati da lettori inconsapevoli in
peccator carnali, emuli di altri:
“quel giorno più non vi leggemmo avante”
(ib. v. 138).
È questo il momento in cui il talento sopraffà la ragione: la scena
d’amore del romanzo rivive nella sala del castello di Gradara ed il libro galeotto traduce l’amore-virtù in amore-passione, proprio perché
le suggestioni letterarie si concretano “in un punto” nella vita reale:
“ma solo un punto fu quel che ci vinse”
(v. 132).
Il bacio che Lancillotto dà a Ginevra 4, considerato nelle convenzioni dell’amor cortese pegno formale di fedeltà, si configura nel caso dei due amanti come improvvisa rivelazione di affezione reciproca, ed è conseguenza inevitabile d’una situazione eccitante, espressione di quella raffinata galanteria, in cui si riflette lo stile ricercato
della società aristocratica dedita all’otium della lettura ed ai corteggiamenti rituali. L’epilogo tragico della vicenda è pudicamente celato nella negazione dell’atto della lettura, col quale si apre l’intera sequenza finale:
__________
4
La scena del bacio ha ispirato opere pittoriche e scultoree: Previati, Grigoletti, Munro.
133
“noi leggiavamo un giorno per diletto”
(v. 127)
5
“quel giorno più non vi leggemmo avante” (v. 138).
Ma il verbo “ leggere” è posto in posizione centrale ed enfatica anche nel v. 133: Quando leggemmo il disiato riso, preceduto e seguito
dai termini lettura (v. 131) e libro (v. 137): come l’appello all’amor
cortese dei versi precedenti anche questa attribuzione di colpa al libro galeotto suona come una giustificazione studiata ed efficace , seppur tardiva, del loro peccato carnale.
La perorazione della propria causa da parte di Francesca fa vibrare corde pietose nel cuore di Dante, che riconosce nella vicenda della fanciulla i sintomi d’un’umana debolezza, che può traviare gli animi più indifesi: al rigoroso giudizio morale del poeta non è estraneo,
infatti, un coinvolgimento emotivo ed affettivo, che lo rende dapprima pensoso ed infine profondamente turbato, sino alla perdita dei
sensi. Il suo sgomento, ribadito lessicalmente dal sostantivo pietà /
pietade e dagli aggettivi smarrito, tristo e pio, sottolinea che non v’è indulgenza per il peccato, inammissibile per la coerenza morale di Dante, ma v’è συµπα′θεια umana ed immedesimazione nelle vicende d’un
amore che pur distoglie dalla retta via.
Se dunque l’amore è dominio della ragione sul talento, processo
nel contempo di elevazione e trascendenza, se è davvero forza naturale che nasce dall’intimo d’un cuore gentile ed opera la sublimazione
dello spirito che vede perfettamente onne salute 6, allora l’amore di
Francesca e Paolo è tutto quello che non dovrebbe essere, poiché è
fuor d’orto di ragione ed è diventato appetito di fera 7.
Il canto V attinge dunque all’ampia tradizione della lirica cortese medievale ed attesta la capillare diffusione dei coevi romanzi cortese-cavallereschi, rigorosamente sentimentali, e, ricorrendo anche ai
toni e al registro linguistico tipici del contenuto amoroso, cioè di Ve-
__________
5
Tragica opposizione tra i due versi: il primo rappresentante líamore, il secondo la morte.
6
Cfr. Vita Nuova, cap. XXVI.
7
Cfr. Rime CVI.
134
nus, esso è intensamente tragico e coerentemente utilizza quello stile tragico, codificato dal Poeta nel secondo libro del De Vulgari Eloquentia 8.
Il dramma risiede nel dissidio tra amore e virtù, tra l’amore che è
e quello che dovrebbe essere, tra giudizio morale e pietà; il conflitto
dialettico della terminologia e delle sequenze poetiche è anche quello
psicologico dei personaggi e da esso scaturiscono la καθαστροϕη′ degli eventi e la catarsi finale di Dante.
Il canto non si presta, quindi, solo ad una lettura lirico-sentimentale, ma anche ad una drammatizzazione scenica, proprio per la densità del πα′θος e per l’individuazione in esso delle principali parti
strutturali della tragedia: il prologo di Minasse, la πα′ροδος delle anime lussuriose ed il coro delle ombre morte per amore; gli atti, caratterizzati dai colloqui dei personaggi, attraverso i quali le vicende – dal
tempo felice alla miseria – incalzano fino alla α
’′ κµη del bacio, καθα−
στροϕη′ di peccato/morte, che determina la catarsi del Poeta:
“E caddi come corpo morto cade”.
Siracusa, maggio 1999
__________
8
Ciò è dimostrato anche dalla sua continuità letteraria nei secoli successivi:
basti pensare alla “Francesca da Rimini” di Silvio Pellico, tragedia di struttura alfieriana (quattro soli personaggi, azione breve e rapida) ed il dramma omonimo
scritto da Gabriele D’Annunzio per Eleonora Duse.
135
136
PARADISO, c. III
“Fatti non foste a viver come bruti…E le veline?”.
Ad una tale provocazione avremmo potuto rispondere con una
sussiegosa dissertazione sul concetto di vera cultura contrapposto ai
falsi idoli mediatici, sugli alti valori della conoscenza incompatibili
con le vuote immagini martellate dalla società dei consumi. Ma in
tal caso avremmo argomentato l’ovvio e forse avremmo dovuto piegare il testo dantesco ad improponibili attualizzazioni da talk-show.
Perché allora non interpretare testualmente l’assunto? In epoca medioevale bruti erano considerati gli uomini privi d’intelletto (Conv.
III), il cui comportamento era determinato da pulsioni sensitive, come gli animali; essi, totalmente privi di freni inibitori, erano spesso
efferati carnefici di donne indifese, su cui si accanivano con violenza ad ulteriore esibizione della loro gratuita prepotenza. Tre di queste donne, di grande spessore poetico, puntellano le cantiche dantesche nei canti iniziali ed il loro sacrificio personale, al di là del giudizio morale espresso dal poeta, si staglia su una folla di femmine
impudiche e spregiudicate, disseminate qua e là nel poema, al pari
di anonime veline dei tempi moderni; contro di esse si avventa Forese nel c. XXIII del Purgatorio, stigmatizzandone, specie a Firenze, la scandalosa lascivia.
“O dolce frate, che vuo’ tu ch’io dica?
Tempo futuro m’è già nel cospetto,
cui non sarà quest’ora molto antica,
nel qual sarà in pergamo interdetto
a le sfacciate donne fiorentine
l’andar mostrando con le poppe il petto.
Quai barbare fuor mai, quai saracine,
cui bisognasse, per farle ir coperte,
o spiritali o altre discipline?”.
(Purg. XXIII, vv. 97-105)
Al di sopra di tutte costoro è l’idealizzazione stilnovistica della
donna, rappresentata da Beatrice nell’opera dantesca, il modello di
donna angelicata che sfiora appena la terra, destinata a raggiungere il
137
cielo del tutto intatta dalle contaminazioni mondane. Beatrice, la
creazione poetica più compiuta e più complessa dell’universo femminile dantesco, non si commisura con nessuna delle altre, ma ciò non
priva Francesca, Pia e Piccarda di quella coinvolgente intensità
espressiva, che rivela l’attrazione emotiva di Dante per ciascuna di esse. E Piccarda è quella che meglio funge da tramite tra le precedenti
e Beatrice. Questa triade femminile di creature dal tratto rispettivamente drammatico, elegiaco e sublime, accomunata da un tragico destino, racchiude in sé una sofferenza umana che Dante non nasconde,
ma anzi rivela provocatoriamente a tutti, denunciando la meschina
protervia che l’uomo esercita in qualunque tempo e latitudine contro
la donna. Il poeta non è solo l’alfiere di Beatrice, dunque, ma anche
un fine psicologo della vita privata e un acuto testimone del clima sociale in cui si dibatte l’altra metà del cielo.
Quel sol che pria d’amor mi scaldò ’l petto,
di bella verità m’avea scoverto,
provando e riprovando, il dolce aspetto;
e io, per confessar corretto e certo
me stesso, tanto quanto si convenne
leva’ il capo a proferer più erto;
ma visïone apparve che ritenne
a sé me tanto stretto, per vedersi,
che di mia confession non mi sovvenne.
Quali per vetri trasparenti e tersi,
o ver per acque nitide e tranquille,
non sì profonde che i fondi sien persi,
tornan d’i nostri visi le postille
debili sì, che perla in bianca fronte
non vien men forte a le nostre pupille;
tali vid’ io più facce a parlar pronte;
per ch’io dentro a l’error contrario corsi
a quel ch’accese amor tra l’omo e ’l fonte.
Sùbito sì com’ io di lor m’accorsi,
quelle stimando specchiati sembianti,
per veder di cui fosser, li occhi torsi;
e nulla vidi, e ritorsili avanti
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dritti nel lume de la dolce guida,
che, sorridendo, ardea ne li occhi santi.
“Non ti maravigliar perch’ io sorrida”,
mi disse, “appresso il tuo püeril coto,
poi sopra ’l vero ancor lo piè non fida,
ma te rivolve, come suole, a vòto:
vere sustanze son ciò che tu vedi,
qui rilegate per manco di voto.
Però parla con esse e odi e credi;
ché la verace luce che le appaga
da sé non lascia lor torcer li piedi”.
E io a l’ombra che parea più vaga
di ragionar, drizza’mi, e cominciai,
quasi com’ uom cui troppa voglia smaga:
“O ben creato spirito, che a’ rai
di vita etterna la dolcezza senti
che, non gustata, non s’intende mai,
grazïoso mi fia se mi contenti
del nome tuo e de la vostra sorte”.
Ond’ ella, pronta e con occhi ridenti:
“La nostra carità non serra porte
a giusta voglia, se non come quella
che vuol simile a sé tutta sua corte.
I’ fui nel mondo vergine sorella;
e se la mente tua ben sé riguarda,
non mi ti celerà l’esser più bella,
ma riconoscerai ch’i’ son Piccarda,
che, posta qui con questi altri beati,
beata sono in la spera più tarda.
Li nostri affetti, che solo infiammati
son nel piacer de lo Spirito Santo,
letizian del suo ordine formati.
E questa sorte che par giù cotanto,
però n’è data, perché fuor negletti
li nostri voti, e vòti in alcun canto”.
Ond’ io a lei: “Ne’ mirabili aspetti
vostri risplende non so che divino
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che vi trasmuta da’ primi concetti:
però non fui a rimembrar festino;
ma or m’aiuta ciò che tu mi dici,
sì che raffigurar m’è più latino.
Ma dimmi: voi che siete qui felici,
disiderate voi più alto loco
per più vedere e per più farvi amici?”.
Con quelle altr’ ombre pria sorrise un poco;
da indi mi rispuose tanto lieta,
ch’arder parea d’amor nel primo foco:
“Frate, la nostra volontà quïeta
virtù di carità, che fa volerne
sol quel ch’avemo, e d’altro non ci asseta.
Se disïassimo esser più superne,
foran discordi li nostri disiri
dal voler di colui che qui ne cerne;
che vedrai non capere in questi giri,
s’essere in carità è qui necesse,
e se la sua natura ben rimiri.
Anzi è formale ad esto beato esse
tenersi dentro a la divina voglia,
per ch’una fansi nostre voglie stesse;
sì che, come noi sem di soglia in soglia
per questo regno, a tutto il regno piace
com’ a lo re che ’n suo voler ne ’nvoglia.
E ’n la sua volontade è nostra pace:
ell’ è quel mare al qual tutto si move
ciò ch’ella crïa o che natura face”.
Chiaro mi fu allor come ogne dove
in cielo è paradiso, etsi la grazia
del sommo ben d’un modo non vi piove.
Ma sì com’ elli avvien, s’un cibo sazia
e d’un altro rimane ancor la gola,
che quel si chere e di quel si ringrazia,
così fec’ io con atto e con parola,
per apprender da lei qual fu la tela
onde non trasse infino a co la spuola.
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“Perfetta vita e alto merto inciela
donna più sù”, mi disse, “a la cui norma
nel vostro mondo giù si veste e vela,
perché fino al morir si vegghi e dorma
con quello sposo ch’ogne voto accetta
che caritate a suo piacer conforma.
Dal mondo, per seguirla, giovinetta
fuggi’mi, e nel suo abito mi chiusi
e promisi la via de la sua setta.
Uomini poi, a mal più ch’a bene usi,
fuor mi rapiron de la dolce chiostra:
Iddio si sa qual poi mia vita fusi.
E quest’ altro splendor che ti si mostra
da la mia destra parte e che s’accende
di tutto il lume de la spera nostra,
ciò ch’io dico di me, di sé intende;
sorella fu, e così le fu tolta
di capo l’ombra de le sacre bende.
Ma poi che pur al mondo fu rivolta
contra suo grado e contra buona usanza,
non fu dal vel del cor già mai disciolta.
Quest’ è la luce de la gran Costanza
che del secondo vento di Soave
generò ’l terzo e l’ultima possanza”.
Così parlommi, e poi cominciò ‘Ave,
Maria’ cantando, e cantando vanio
come per acqua cupa cosa grave.
La vista mia, che tanto lei seguio
quanto possibil fu, poi che la perse,
volsesi al segno di maggior disio,
e a Beatrice tutta si converse;
ma quella folgorò nel mïo sguardo
sì che da prima il viso non sofferse;
e ciò mi fece a dimandar più tardo.
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141
LE VELATE SVELATE
Chissà se è vero che il cognome degli Alighieri proviene da una
donna! Eppure sembra suggerirlo il venerando progenitore della famiglia, Cacciaguida, incontrato da Dante tra gli spiriti militanti del
Paradiso, in un’ambigua terzina del XV canto:
“Moronto fu mio frate ed Eliseo;
mia donna venne a me di val di Pado,
e quindi il soprannome tuo si feo.” (Par. XV, vv. 136-138)
Questo sarebbe stato possibile soltanto in una realtà in cui la figura femminile fosse centrale e positiva; ne sarebbe conferma lo scorcio
di quella Fiorenza dentro da la cerchia antica (Par. XV, v. 97), tra l’XI
ed il XII sec., delineato dalle parole del trisavolo, in cui Dante scorge
un invidiabile modello di pace, sobrietà e pudicizia (cfr. v. 99), fondato sulla solidità della famiglia, nucleo originario essenziale di ogni
forma di convivenza sociale 1. È così che Cacciaguida ritrae un perfetto interno domestico costituito da coppie affiatate, accomunate dai
medesimi valori morali, pur nella consapevolezza dei ruoli distinti:
“Bellincion Berti vid’io andar cinto
di cuoio e d’osso, e venir da lo specchio
la donna sua sanza ’l viso dipinto;
e vidi quel d’i Nerli e quel del Vecchio
esser contenti a la pelle scoperta,
e le sue donne al fuso e al pennecchio.
Oh fortunate! Ciascuna era certa
de la sua sepultura, e ancor nulla
era per Francia nel letto diserta.
L’una vegghiava a studio de la culla,
e, consolando, usava l’idïoma
che prima i padri e le madri trastulla;
__________
1
142
Cfr. Par. XV, vv. 130-132.
l’altra, traendo a la rocca la chioma,
favoleggiava con la sua famiglia
d’i Troiani, di Fiesole e di Roma.” (Par. XV, vv. 112-126 )
Bellincion Berti 2 e la donna sua ci sembrano provenire dalla stanza da letto l’uno modestamente abbigliato, l’altra senza trucco; e ci
parrebbe quasi di vedere gli esponenti delle note famiglie dei Nerli e
dei Vecchietti uscir di casa con indumenti di umile fattura, lasciando
le loro donne intente alle consuete occupazioni femminili. Cacciaguida non sa trattenersi dall’esaltare la sana vita borghigiana di cui le
donne fiorentine sembravano godere, garantendo quasi, come antiche
vestali, gli affetti sinceri e le poche, ma solide certezze della loro esistenza: il legame profondo col luogo natio, la fedeltà coniugale, la
priorità del vincolo maritale sulla cupidigia determinata dalle esigenze di mercato. Le giovani spose, dedite alla cura materna dei figliuoli, consolando il loro pianto, pargoleggiano a loro modo; alle anziane,
occupate nella filatura,è affidato il compito di tramandare le antiche
tradizioni per rinnovare nell’intimità del focolare l’amore per le proprie onorevoli radici.
La sapiente comparatio per contrarium che caratterizza la tessitura di questo idillico quadretto di costume ci consente, attraverso la
sottile tramatura dell’ordito, di scorgere con chiarezza i nodi cruciali
del testo: se quelle donne non si atteggiavano con frivolezza ed appariscente ostentazione di sé; se era ancora ritenuta una gioia la nascita
d’una figlia femmina; se le case erano allietate da piccoli eredi; allora
è lecito dedurre che la Firenze di Dante sia ormai frequentata da donne impudiche ed esibizioniste; che atterrisca il padre l’idea di dover
fornire una dote esorbitante e prematura alla figlia; che la lussuria e
la depravazione dei costumi sessuali 3 abbia drasticamente limitato le
nascite, impoverendo ulteriormente l’intera popolazione. La contrapposizione tra camera (cfr. v. 108) e letto (cfr. v. 120) evidenzia la mu-
__________
2
Cfr. Inf. XVI, v. 37, in riferimento alle virtù morali della figlia Gualdrada de’
Ravignani, sposa di Guido il Vecchio, capostipite dei Conti Guidi del Casentino.
3
Cfr. Inf. XVI, vv. 43-54, sul presunto peccato di sodomia all’interno di una
coppia eterosessuale.
143
tata destinazione dei luoghi in relazione alle diverse abitudini coniugali: l’ambito del puro piacere subentra a quello destinato prima
esclusivamente alla procreazione (cfr. il termine culla al v. 121); per
ciò stesso sarebbe stato evento eccezionale trovare nella Firenze di
Cacciaguida una Cianghella, donna di dubbia moralità, sicuramente
ben nota all’epoca di Dante, forse una Bocca di rosa dei tempi moderni; piuttosto, secondo l’utopistica ricostruzione del poeta, sarebbe
stato possibile incontrare molte Cornelie, fiere dei loro figli, esemplari in estinzione di virtù femminile 4.
A suffragare la testimonianza dell’antenato di Dante era già intervenuto nel Purgatorio il suo amico di giovinezza, Forese Donati, che,
a proposito della moglie Nella, le ascrive addirittura il merito della
propria rapida purgazione 5 e ne sottolinea la singolarità tra le donne
fiorentine contemporanee:
“Tanto è a Dio più cara e più diletta
la vedovella mia, che molto amai,
quanto in bene operare è più soletta;
chè la Barbagia di Sardigna assai
ne le femmine sue più è pudica
che la Barbagia dov’io la lasciai.”
(Purg. XXIII, vv. 91-96)
Le donne fiorentine, paragonate a quelle della Barbagia, di cui erano proverbiali i rozzi costumi, le superano in lascivia e, quasi irredimibili, non temono ammonizioni religiose o disposizioni civili. Ma,
aggiunge Forese, se sapessero ciò che il Cielo ha in serbo per loro in
breve volger di tempo, già griderebbero di dolore: la grottesca silente maschera delle sfacciate donne fiorentine (cfr. v. 101) è ritratta con
espressionistica densità nel v. 108 “già per urlare avrian le bocche aperte”, e lascia ben intendere quanto i costumi scandalosi di tutta la società, ed in particolare del nume tutelare femminile di essa, impongano una vendetta divina che prima o poi, in quale forma non ci è dato
__________
4
Cfr. Par. XV, vv. 127-129.
Cfr. Purg. XXIII, vv. 85-90: …“Sì tosto m’ha condotto/a ber lo dolce assenzo
d’i martiri / la Nella mia con suo pianger dirotto. / Con suoi prieghi devoti e con
sospiri/tratto m’ha de la costa ove s’aspetta, / e liberato m’ha degli altri giri.”
5
144
ancora di sapere, dovrebbe rieducare a più morigerate usanze le svergognate (cfr. v. 106) 6.
Svergognate, in antitesi con la Nella di Forese, sono anche le mogli
degeneri come Giovanna, citata da Bonconte da Montefeltro nel canto V del Purgatorio, che non si cura della sorte estrema del marito 7,
o peggio, Beatrice d’Este che, vedova di Nino Visconti, guelfo signore della Gallura, trasmuta le bianche bende vedovili passando a nuove nozze con Galeazzo Visconti, ghibellino futuro signore di Milano 8.
Su di lei si concentrano amare, ma toccanti e delicate espressioni del
marito che, incontrato da Dante nella valletta dei principi negligenti
in purgatorio, prega il poeta di ricercare la figlia Giovanna 9 in vece
della consorte, ormai distaccata dal precedente legame coniugale:
“Per lei assai di lieve si comprende
quanto in femmina foco d’amor dura,
se l’occhio o ’l tatto spesso non l’accende.” (Purg. VIII, vv. 76-78)
Beatrice, non più moglie ma pur sempre madre della propria figlia,
è per Nino l’esemplare di donna che si nutre ancora della sensualità
cortese, ignorando senza sua colpa i valori della spiritualità stilnovistica. In questi versi una sopita fisicità vibra nel dritto zelo (cfr. Purg.
VIII, v. 83) che emerge dalle parole del personaggio (femmina - foco occhio - tatto - accende) e insinua una tenue fiamma che si effonde tra
le membra 10 a sollecitare i sensi, pur nella mutata condizione di distacco morale del Purgatorio.
Al pregiudizio umano espresso dal poeta nei riguardi di queste
due vedove, colpevoli semplicemente di aver elaborato il loro lutto, si
sottraggono per talune attenuanti altre due donne già sottoposte al
__________
6
Cfr. Purg. XXIII, vv. 98-111.
Cfr. Purg. V, v. 89.
8
Cfr. Purg. VIII, vv. 73-75.
9
Cfr. anche Purg. III, v. 143: anche Manfredi sollecita i suffragi della buona
Costanza, sua figlia, informandola indirettamente della propria salvezza; sembra
che solo le donne siano vere depositarie di spirito di carità.
10
Cfr. Catullo LI, vv. 9-10 “tenuis sub artus / flamma demanat”.
7
145
giudizio divino, entrambe vittime d’una brutale violenza consumata
tra le pareti domestiche, dissimulata quale delitto d’onore: Francesca
da Rimini e Pia de’ Tolomei.
La prima, nutrita di storie d’amore attraverso la lettura dei romanzi francesi, costretta ad un matrimonio imposto dalla ragion di
stato, subisce la presenza fastidiosa d’un marito deforme e dai modi
sgradevoli e concepisce la naturale attrazione per il bel Paolo, l’affascinante cognato a cui forse aveva sperato di unirsi. Francesca, inseparabile dall’amante terreno, incapace di scindere la realtà vissuta dal
sogno di felicità, vive la sua travolgente passione con sincero trasporto rispetto all’uomo, che forse nel suo ostinato silenzio oltremondano
rimugina sentimenti contrastanti e sensi di colpa. Il presunto bovarismo 11 di Francesca va dunque ridiscusso: non è in lei lo spirito della
sognatrice inconsapevole né della donna tediata dalla monotonia delle consuetudini borghesi, tutt’altro; piuttosto le sue dotte ammissioni
d’amore e di colpa testimoniano anche nell’al di là la determinazione
a sottomettere la ragione a quel preciso talento (cfr. v. 39); Paolo non
è per lei un qualunque amore della sua vita, ma l’Amore:
“Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende.
Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.
Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense”. (Inf. V, vv. 100-107)
Francesca, isolata con Paolo quali colombe nella schiera delle gru,
è l’unico personaggio femminile medievale tra tutte le donne antiche
e i cavalieri (cfr. Inf. V, v. 71) che affollano il girone dei lussuriosi: con
lei anime rinomate del mito e della storia antica, Semiramide, Didone, Cleopatra ed Elena, Achille, Paride e Tristano 12 testimoniano
__________
11
12
146
Cfr. E. Sanguineti, Il realismo di Dante, Firenze, 1966, pag. 28.
Cfr. Inf. V, vv. 58-69.
quanto il foco d’amor possa fiaccare e distogliere dalla realtà personalità di grande vigore umano; e se ciò è vero per gli uomini, lo è ancor
di più per le donne citate dal poeta, eroine in cui amore e potere politico si sovrappongono tragicamente.
Con la stessa lucida sintesi con cui nel canto V dell’Inferno il poeta disegna la storia al femminile dal mito alla modernità, dal XV sec.
a.C. fino ai suoi tempi, attraverso ritratti brevi ed intensi di personaggi illustri, così nel canto V del Purgatorio presenta in una fugace
apparizione lo spettro mite e delicato d’una donna dalla vita poco nota e dalla morte ancor più misteriosa. Assai più reticente e riservata di
Francesca, quasi desiderosa di rievocare il tempo felice pur nella miseria della dannazione, Pia de’ Tolomei rivela in un fulmineo verso
chiastico la sua breve parabola di nascita e di morte:
“Siena mi fè, disfecemi Maremma:
salsi colui che ’nnanellata pria
disposando m’avea con la sua gemma”. (Purg. V, vv. 133-136)
Taluni elementi suggeriscono la sostanziale affinità tra le due dame
di corte: il linguaggio raffinato e squisito, calibrato ad arte nelle rispettive formule di approccio, le associa culturalmente e socialmente;
entrambe fanno espresso riferimento ai rispettivi luoghi d’origine,
collegandoli indirettamente alle potenti famiglie d’appartenenza 13; le
identifica, infine, la condizione anagrafica di giovani spose più o meno contemporanee, vittime di un dispotico diritto maritale. Il topos
cavalcantiano di Amore e Morte, esternato con loquace pathos da
Francesca, viene quasi adombrato con pudico riserbo dalla fanciulla
senese tra monosillabi e silenzi, rotti soltanto dai due lunghi quadrisillabi ’nnanellata e disposando, in posizione enfatica negli ultimi versi del canto. Intorno ad essi ruota tutta la tragica vicenda umana di
Pia: un marito, Nello de’ Pannocchieschi, che la impalma, promettendole chissà quale radioso avvenire, ed il matrimonio che si risolve
in una tomba sia in senso proprio che metaforico, poiché tutto fa pensare che il consorte sia stato il vero responsabile della sua orribile fi-
__________
13
Cfr. Inf. V, vv. 97-99.
147
ne 14. Ma se Francesca nell’ammettere le proprie colpe consegna al ludibrio perenne l’uxoricida, destinato al castigo divino nella Caina,
Pia, al contrario, non confessa e non accusa, piuttosto pentendo e perdonando (Purg. V, v. 53), preferisce infondere la suggestione d’un’agognata felicità violata dalla cruda realtà.
“Luogo è in inferno detto Malebolge” (Inf. XVIII, v. 1), che nella
prima ripa interna brulica d’un ampio corteo di ruffiani e seduttori:
tra di essi Dante, procedendo a ridosso della parete, s’imbatte in un’anima, quella di Venedico Caccianemico, un torvo figuro bolognese di
potente famiglia guelfa, di cui il poeta conosce l’avida indole ed i turpi mercimoni. È l’appello diretto di Dante 15 che lo chiama estesamente per nome e cognome ad indurre il personaggio, che aveva tentato di celarsi, a palesare la causa della sua dannazione eterna:
“Ed elli a me: “Malvolontier lo dico;
ma sforzami la tua chiara favella,
che mi fa sovvenir del mondo antico.
I’ fui colui che la Ghisolabella
condussi a far la voglia del marchese,
come che suoni la sconcia novella.”
(Inf. XVIII, vv. 52-57)
Si autodenuncia, dunque, Venedico ed accusa i molti bolognesi
presenti nella bolgia 16 e tutti i concittadini comunque di essere affetti dal medesimo avaro seno (cfr. Inf. XVIII, v. 63), che li induce agli
atti più scellerati, “esponendo alla libidine figlie, sorelle e mogli, per
soddisfare la loro gola e i loro piaceri” (Benvenuto) 17. Così costui ave-
__________
14
Pia fu fatta precipitare da una finestra del castello della Pietra in Maremma, non si sa se perché scoperta infedele o perché il marito intendesse passare a
nuove nozze.
15
Cfr. Inf. XVIII, vv. 48-51.
16
Cfr. Inf. XVIII, v. 58: “E non pur io qui piango bolognese.”.
17
Cfr. Vincenzo Presta in Enciclopedia Dantesca, Biblioteca Treccani, vol. 6,
pg. 420: “...ideo faciunt turpia lucra, aliquando cum ludis, aliquando cum furtis,
aliquando cum lenociniis, exponentes filias, sorores et uxores libidini, ut satisfaciant gulae et voluptatibus suis”.
148
va costretto la sorella Ghisolabella ad accondiscendere per denaro alle voglie del Marchese di Ferrara, Obizzo II d’Este, e la sconcia novella, divenuta di pubblico dominio, aveva già suscitato tale curiosità
e sdegno da indurre Dante ad anticipare di alcuni anni il debito castigo, se è vero che egli muore solo nel 1302. Caccianemico è dunque
il più crudele esempio di lenocinio ai danni di stretti consanguinei e
la sua condanna viene rimarcata dalle tempestive scudisciate d’un demonio che lo schernisce brutalmente:
…“Via,
ruffian! Qui non son femmine da conio”. (Inf. XVIII, vv. 65-66)
Il malcostume famigliare non ammette distinzioni: i fratelli, aguzzini non meno dei mariti, non sembrano minimamente avvertire i forti legami di sangue e di tenerezza che dovrebbero congiungerli alle sorelle
inermi; ma anzi spesso le usano per procacciarsi alleanze strategiche e
le sacrificano ad interessi di partito. Anche Piccarda Donati è martire
di questa stessa aberrante follia, ricompensata da Dio già sulla terra con
una morte precoce che le offre nell’al di là il riscatto dell’ingiustizia subita. Ella, precedentemente evocata da Dante nel XXIV canto del Purgatorio durante l’affettuoso colloquio col fratello Forese 18 che gliene
anticipa il trionfo celeste, compare in tutto il suo splendore, appena velato dal fulgore della beatitudine, nel primo cielo del paradiso.
Nel cielo della luna, ombreggiato da un effetto chiaroscurale, dottamente spiegato da Beatrice nel secondo canto in relazione alla gradualità della beatitudine, Dante rivela e nasconde le fattezze umane degli spiriti mancanti ai voti: essi gli appaiono improvvisamente davanti
agli occhi e tale è la loro evanescenza che il poeta crede erroneamente
si trovino dietro le sue spalle e si riflettano come su uno specchio:
“Subito sì com’io di lor m’accorsi,
quelle stimando specchiati sembianti,
per veder di cui fosser, li occhi torsi;
__________
18
Cfr. Purg. XXIV, vv. 12-15: “La mia sorella, che tra bella e buona / non so
qual fosse più, triunfa lieta/ne l’alto Olimpo già di sua corona”.
149
e nulla vidi, e ritorsili avanti
dritti nel lume de la dolce guida,
che, sorridendo, ardea ne li occhi santi.”
(ib. vv. 19-24)
Questo coro ci appare tutto al femminile. La femminilità delle anime viene adombrata nei termini di genere promiscuo (facce - specchiati sembianti - vere sustanze - ombra - spirito - aspetti), adoperati ad
arte per lasciare nel vago ciò che dal lettore viene sensibilmente avvertito: per indicare la labilità dei tratti fisiognomici delle anime Dante ricorre, infatti, al raffinato uso muliebre di adornare la fronte con
un pendente di perla impercettibile sul candore dell’incarnato, prova
indiscussa di perfezione estetica e di pudore verginale. Ora, ci parrebbe perlomeno insolito introdurre una simile icona medievale, sempre riferibile, anche nell’arte, a soggetti femminili per individuare degli uomini, peraltro difficilmente preda indifesa di violenze altrui, come qui ci appaiono Piccarda Donati e Costanza d’Altavilla. L’ambientazione è quindi squisitamente claustrale: lo sciame impalpabile
delle visioni rievoca una leggiadra schiera di suorine 19, che si affacciano, uscendo per un attimo dalla clausura, simbolicamente rappresentata dai vetri trasparenti e tersi e dalle acque nitide e tranquille (cfr.
ib. vv. 10-11), pronte a parlare (cfr. ib. v. 16) per poi ritornare velocemente, intonando l’Ave Maria, al colloquio fiducioso con Dio.
La prima ombra che si fa incontro a Dante mostra visibilmente il
suo intenso desiderio di soffermarsi con lui ed il poeta, incoraggiato
da Beatrice, le si rivolge con un formulario cortese che sembra riecheggiare quello utilizzato da Francesca nell’inferno (dolcezza - grazioso - mirabili - risplende), come se toccasse ora a lui rivolgere al ben
creato spirito (cfr. ib. v. 37) una doverosa captatio benevolentiae. Piccarda, già disposta ad esaudire la voglia (cfr. ib. v. 36) del pellegrino,
non rimanda la sua identificazione, ma l’accompagna ad una vera professione di carità: lo stesso spirito divino anima tutta la corte paradisiaca ed ella, improntata alla volontà di Dio, non può sottrarsi alla forma che la beatitudine le infonde, per cui gode e trasmette la sua gioia
celeste:
__________
19
150
Cfr. B. Croce, La poesia di Dante, Bari 1943.
“Li nostri affetti, che solo infiammati
son nel piacer de lo Spirito Santo,
letizian del suo ordine formati”.
(ib. vv. 52-54)
Il suo nome tanto atteso viene proferito al v. 49, quand’ella ha ormai rivelato all’amico di gioventù la sua remota condizione mondana
e la sua recente perfezione oltremondana:
“I’ fui nel mondo vergine sorella;
e se la mente tua ben sé riguarda,
non mi ti celerà l’esser più bella,
ma riconoscerai ch’i’ son Piccarda,
che, posta qui con questi altri beati,
beata sono in la spera più tarda.”
(ib. vv. 46-51)
La terminologia correlata all’incontro con Piccarda, figlia di Simone
Donati , sorella di Forese 20 e di Corso, capo dei Guelfi neri a Firenze,
parrebbe ancora evocare suggestioni cortesi-stilnovistiche (occhi ridenti
- mente - bella - piacer - letizian - sorrise - lieta - arder - amor - foco), ben
poco confacenti alla condizione paradisiaca del personaggio, talché la
critica ottocentesca aveva denunciato quest’ambigua semantizzazione
lessicale, tendente a traslare passioni e ardori dalla terra al cielo. Ma nel
riferire a Piccarda l’aggettivo bella 21, Dante non intende attribuirgli la
medesima accezione che connota la bella persona di Francesca (cfr. Inf.
V, v. 101), poiché mentre Piccarda riconosce di aver ormai acquisito una
bellezza spirituale che addirittura la trasmuta dai primi concetti (cfr. ib.
v. 60), Francesca rivendica la sua avvenenza fisica, sottrattale violente-
__________
20
Cfr. Ernesto Sestan, in Enciclopedia Dantesca, Biblioteca Treccani, vol. 8,
pg. 281: “...una volta, nella tenzone con Forese (Rime LXXVII 12-14), in un’aspra allusione alla vita dissoluta di Forese e dei suoi fratelli, di Bicci e de’ fratei
posso contare / che, per lo sangue lor, del male acquisto / sanno a lor donne buon
cognati stare, (sanno essere e mantenersi verso le loro donne buoni cognati, BARBI-MAGGINI), cioè non le trattano da mariti, ovvero, ma meno probabilmente, commettono adulterio l’un con l’altro”.
21
L’idea della bellezza, intesa come pura contemplazione ideale, sembrerebbe anticipata dal paragone con Narciso ai vv. 17-18 dello stesso canto.
151
mente; pertanto, ciò che alberga nel cuore di Piccarda è il piacere infuso dalla soavità dello Spirito Santo, nell’anima di Francesca, invece, è ancora viva l’attrazione dei sensi esercitata dal corpo di Paolo. Inoltre Piccarda, a differenza di Francesca e Pia, non individua uno specifico luogo d’origine, ma ripete come un refrain la sua scelta di lontananza dal
mondo 22, esibendo la sua vocazione religiosa come naturale appartenenza al cielo: ed infatti, seguendo la regola di S. Chiara,
... “si veste e vela,
perché fino al morir si vegghi e dorma
con quello sposo ch’ogne voto accetta
che caritate a suo piacer conforma”. (ib. vv. 99-102)
La fanciulla si promette quindi allo Sposo divino e liberamente
contrae quelle mistiche nozze che fanno di lei una sposa appagata: il
velo e l’abito monacale, la solenne promessa nuziale, la dolce chiostra
(ib. v. 107) sono anticipazioni di beatitudine in terra ed ella vi si rifugia per evitare il male del mondo:
“Dal mondo, per seguirla, giovinetta
fuggi’mi, e nel suo abito mi chiusi
e promisi la via de la sua setta”.
(ib. vv. 103-105)
Ma l’idillio terreno è fugace, poiché uomini avvezzi al male piuttosto che al bene, scoperta allusione al fratello Corso 23, la strappano
alla sua dimora ed al suo vincolo maritale per consegnarla ad altra
unione “contra suo grado e contra buona usanza” (ib. v. 116):
“Uomini poi, a mal più ch’a bene usi,
fuor mi rapiron de la dolce chiostra;
Iddio si sa qual poi mia vita fusi”.
(ib. vv. 106-108)
__________
22
Cfr. ib. vv. 46-99-103-115.
Di Corso Dante non parla mai direttamente nella Commedia, ma in una
profezia post eventum fatta pronunziare da Forese in Purg. XXIV, vv. 82-84 se
ne decreta la morte violenta e la dannazione eterna.
23
152
L’epitaffio conclusivo del v. 108 “Iddio si sa qual poi mia vita fusi”
sfuma in dissolvenza gli ultimi istanti della sua breve esistenza con la
stessa delicata ritrosia percepibile anche nelle parole della Pia senese.
Piccarda ha sì mancato al suo voto monacale, ma è ugualmente
beata perché “non fu dal vel del cor già mai disciolta” (ib. v. 117) e non
le fu mai strappato dal cuore lo sposo prescelto: il velo ch’ella aveva
indossato, consacrandosi a Lui in terra, è dunque umbra futurorum,
è ora in paradiso quel velo di luce che adorna le sue virtù ed abbellisce la sua essenza. Ella, svelata dagli uomini e velata da Dio, fa di questo velo di mistica luce la propria identità impleta che trasfigura il topos di Amore e Morte, valido per le due protagoniste precedenti: il
suo amore indissolubile per Cristo le procaccia infatti la morte terrena, ma le assicura la vita eterna.
E dello stesso splendor (cfr. ib. v. 109) rifulge Costanza d’Altavilla,
che Piccarda assimila a se stessa 24 – lei, in cielo accanto ad una regina! – poiché:
...”sorella fu, e così le fu tolta
di capo l’ombra de le sacre bende”.
(ib. vv. 113-114)
Una leggenda guelfa tramandava infatti le nozze sacrileghe di Costanza, smonacata a forza, con Enrico VI, figlio di Federico Barbarossa, da cui sarebbe nato Federico II, ’l terzo e l’ultima possanza (cfr.
ib. v. 120) 25. Queste due donne, vittime di soprusi politici, oppresse
da parenti oppressori, sembrano anticipare e capovolgere nel Paradiso dantesco il dramma romantico dell’Ermengarda manzoniana, anch’ella sacrificata alle ragioni del potere: le prime incapaci di ritrovare nel mondo ristoro all’amore proibito per Dio, la seconda invano
desiderosa di appagare nella vita claustrale lo strazio subito dal tradimento del suo amore terreno 26.
Ancora più in alto rispetto a Piccarda Dante inciela (cfr. ib. v. 97)
__________
24
Ib. v. 112.
Ib. vv. 118-120.
26
Cfr. A. Manzoni, Adelchi, coro dell’Atto IV.
25
153
altre due figure femminili che, pur avendo goduto pienamente delle
gioie irradiate dall’influenza della bella Ciprigna (cfr. Par. VIII, v. 2),
hanno evidentemente meritato una maggiore ricompensa, commisurata ai loro meriti. Se i meriti di Piccarda e di Costanza sono palesi e
condivisibili in virtù della loro innocenza, o per lo meno di una non
colpevole sottomissione alla prevaricazione altrui, non altrettanto
chiari appaiono quelli di Cunizza da Romano e di Raab, collocate nel
cielo di Venere: entrambe peccatrici riconosciute rispettivamente dalle cronache contemporanee e dalle Sacre Scritture 27, sicuramente redente agli occhi di Dio, ma non forse agli occhi degli uomini, se Cunizza afferma che la sua condizione “parria forse forte al vostro vulgo”
(cfr. Par. IX, v. 36).
Di Rahab nell’Antico Testamento si legge che fosse una meretrice
di Gerico, che diede ospitalità ai due esploratori mandati da Giosuè
per conquistare la città e, riconoscendo la forza della giustizia divina,
quasi ispirata, suggerì loro la strategia per la salvezza e per il successo dell’impresa, garantendosi l’incolumità per sé e per i suoi famigliari. Tale azione meritoria le assicura dunque la promozione divina, per
cui ella, la prima anima liberata dall’inferno al momento del trionfo
di Cristo, viene rivisitata sin dagli albori dell’era cristiana come allegoria della Chiesa 28; ma come accettare la salvezza decretata da Dio
per una libertina conclamata come Cunizza da Romano?
Nel testo dantesco è lei stessa a fornire di sé, come di consueto, gli
essenziali requisiti biografici: il luogo di nascita, individuato nella
Marca Trevigiana, i nobili natali, l’illustre parentela ed infine il nome 29; come causa della sua beatitudine, poi, ella adduce la positiva
dominanza dell’astro di Venere, lasciando ad intendere di aver per-
__________
27
Giosuè 2,1 segg.
E. Auerbach, Studi su Dante... La presenza di Rahab in cielo è giustificata
dall’interpretazione figurale, che la ripropone come modello della Chiesa redenta dal sacrificio di Cristo attraverso la purificazione della confessione.
29
Cfr. Par. IX, vv. 25-32: “In quella parte de la terra prava/italica che siede traRïalto / e le fontane di Brenta e di Piava, / si leva un colle, e non surge molt’alto,
/ là onde scese già una facella / che fece a la contrada un grande assalto. / D’una
radice nacqui e io ed ella: / Canizza fui chiamata, e qui rifulgo / perché mi vinse il
lume d’esta stella;”.
28
154
donato a se stessa le possibili intemperanze che l’inclinazione all’amore ha potuto farle commettere:
“ma lietamente a me medesma indulgo
la cagion di mia sorte, e non mi noia;”
(Par IX, vv. 34-35)
L’espressione finale “e non mi noia” indica chiaramente che tale
propensione non l’ha affatto danneggiata, richiamando per antitesi
l’espressione di Francesca, assai meno disinvolta nella sua lussuria,
che lamenta invece “e ’l modo ancor m’offende.” (Inf. V, v. 102): se
quello di Francesca è un consapevole amore carnale, del quale l’eroina pretende a ragion veduta di fornire giustificazioni ed attenuanti
personali sulla base d’un legittimo codice comportamentale dell’epoca 30, la franca e serena affermazione di Cunizza lascia intravedere la
sua libera volontà di assecondare un appetito naturale che l’ ha volta
al Bene.
Si è tanto dissertato sull’opportunità di questa scelta dantesca, che
merita più d’una considerazione: la critica individua in lei la necessaria premessa, o è piuttosto la conclusione 31, di un discorso politico
volto a denigrare le recenti scelte antimperialistiche che hanno indotto la Marca Trevigiana a schierarsi contro Arrigo VII e Cangrande
della Scala, per cui la sua presenza sarebbe funzionale all’aspra invettiva a chiusura del colloquio con il poeta. Se pure così fosse, fare
di lei, una donna di dubbia moralità agli occhi dei ben pensanti, uno
strumento di denuncia dei subdoli intrighi di potere nella sua regione, non ne sminuirebbe l’importanza, semmai l’accrescerebbe. Per
noi Cunizza è nel paradiso la peccatrice del Vangelo di Luca 32, figura emblematica e senza nome, che nella casa del Fariseo si prostra davanti a Gesù, bagnandogli i piedi con le sue lacrime ed asciugandoglieli con i capelli; e riferendosi a lei, Gesù sentenzia: “Perciò io ti dico (Simone): i suoi numerosi peccati sono stati perdonati perché es-
__________
30
Andrea Cappellano, De amore.
Il Par. IX si apre infatti con le ultime parole proferite da Carlo Martello sul
malcostume politico degli Angioni.
32
Cfr. Luca 7,36-50
31
155
sa ha amato molto; colui, invece, al quale poco è perdonato, poco
ama”. Come già avvenne ai tempi di Cristo, potrebbe apparire provocatoria la redenzione d’una tal donna 33, perché incomprensibile all’opinione comune, sempre troppo attenta a dirimere il bene dal male secondo criteri morali tutti umani; ma Dante sovverte le ottiche
miopi della terra, nella convinzione autenticamente evangelica che al
peccatore pentito tocchi, come all’operaio dell’ultima ora, la stessa ricompensa dei giusti e tale mercede è appannaggio esclusivo di Dio.
Inoltre tutti i personaggi danteschi, rinnovati dalla sensibilità personale del poeta, assumono valore esemplare 34 e la loro stessa condizione scandalosa ha l’effetto voluto di disturbare le coscienze degli
uomini e di rovesciare i sistemi preconcetti di giudizio: pertanto, a
nostro avviso, la vera ragione della beatitudine di Cunizza sta nella
sua intensa capacità di amare, per cui in lei l’amore, dapprima naturale, si trasforma in amor d’animo, frutto di libera scelta, consapevolmente perseguita 35; la stessa capacità d’amare è severamente punita in Francesca, perché mai riscattata dall’amore per Dio, mentre è
certamente l’ignavia in amore che determina il pregiudizio dantesco
verso le vedove consolabili di Bonconte da Montefeltro e di Nino Visconti. Che anzi, con esplicita ammissione dottrinaria Dante nel Convivio loda chi nella vecchiaia si avvia al porto finale, dopo aver ammainato le vele della gioventù e delle mondane operazioni: “chè nella
loro lunga età a religione si rendero, ogni mondano diletto e opera diponendo. E non si puote alcuno scusare per legame di matrimonio, che
in lunga età il tenga; chè non torna a religione pur quegli che a San Benedetto e a Sant’Agostino e a San Francesco e a San Domenico si fa d’abito e di vita simile, ma eziandio a buona e vera religione si può tornare in matrimonio stando, chè Iddio non vuole religioso di noi se non il
cuore” 36. Orbene, secondo Pietro di Dante il poeta avrebbe conosciuto Cunizza, già avanti negli anni, a Firenze, dov’ella morì nel
1279, dama decaduta, ma caritatevole al punto da rendere la libertà
alla propria servitù: alla luce di quanto detto, il riconoscimento per
__________
33
Cfr. Luca, 8,1-3: le donne della sequela di Cristo; Giovanni 8, 1-11: l’adultera.
Cfr. Par. XVII, vv. 139-142.
35
Cfr. Purg. XVII, vv. 90-96.
36
Cfr. Convivio, IV, 28.
34
156
Cunizza, che ha saputo astrarsi dalle intemperanze giovanili per rivolgere l’indole generosa a gesti più nobili, non è meno doveroso, da
parte del poeta, di quello per Piccarda, a cui l’accomuna peraltro la
parentela con un fratello violento e sanguinario 37.
Le donne dantesche sono comunque amabili, nonostante le loro
colpe, o degne del paradiso; i loro congiunti, fratelli e mariti, vili persecutori, sono esseri ignobili, spesso destinati all’inferno. Questi bruti, visibile malessere di un mondo insano, affetti da putrida malattia
dell’animo, sono cristallizzati in un contrappasso per contrasto: irriducibili nel diffondere guasti e violenze nel pubblico e nel privato,
vengono immobilizzati da Dio nella loro dimora eterna; al contrario
le donne, statiche vittime delle loro angherie, assumono nell’aldilà
una dimensione dinamica, che traduce la leggerezza e la spontaneità
del loro cuore. Così Francesca rotea turbinosamente nella bufera infernal, che mai non resta (Inf. V, v. 31), preoccupandosi di non opporle resistenza; Pia, impegnata in un arduo percorso di redenzione,
accorsa con le altre anime morte di morte violenta verso il poeta per
chiederne i suffragi, gli augura un felice ritorno sulla terra che lo ripaghi della via faticosa, la stessa che ella si accinge a compiere; le anime beate, poi, gli si fanno incontro accordando il loro movimento a
quello dei cieli concentrici, proiettate dalla Luce dilagante dell’Empireo 38. Così Canizza è luce, ma per Piccarda c’è di più 39: alla luce che
la vela e la rivela si aggiunge la mobilità dell’acqua, che lungi dal celarla, ne estende l’immagine.
__________
37
Ezzelino III da Romano, fratello di Cunizza, ch’ella definisce nel suo colloquio con Dante come “una facella / che fece a la contrada un grande assalto”
(Par. IX, vv. 29-30), con probabile allusione alla violenza politica, per cui egli è
punito tra i tiranni (violenti contro il prossimo), immerso nel Flegetonte “infino
al ciglio” (Inf. XII, v. 103); ma di lui sappiamo che non fu restio a compiere delitti privati, come quello di Bornio, amante della sorella, da lui vilmente sgozzato mentre deteneva la carica di Vicario imperiale della città di Padova.
38
Il movimento delle anime beate verso Dio è bene espresso in Par. IX da
neologismi come s’inluia (v. 73); m’intuassi e t’inmii (v. 81).
39
Nell’impegnativo discorso dottrinale di Piccarda (ib. vv. 70-87) v’è un’insistenza lessicale interessante: termini-chiave come volontà / volerne / disiassimo /
157
L’acqua è simbologia d’un ordine cosmico a cui già ella appartiene
“ell’è quel mare al quale tutto si move
ciò ch’ella cria o che natura face”.
(ib. vv. 86-87),
ed emergendone temporaneamente per palesarsi a Dante, in essa
scompare
“...e cantando vanio
come per acqua cupa cosa grave”.
(ib. vv. 122-123)
assimilandosi definitivamente al Creatore: E ’n la sua volontade è nostra pace (ib. v. 85); quella stessa pace a cui avrebbe aspirato anche
Francesca se fosse amico il re dell’universo (Inf. V, v. 91) e che ella nostalgicamente rievoca nel confluire delle acque del Po nel mare Adriatico 40.
Con queste donne che hanno troppo amato, in opposizione all’odio protervo degli uomini, provate dalla vita, cosa ha da spartire Beatrice, onnipresente nell’opera dantesca ed in posizione enfatica nel
nostro canto, di cui costituisce l’incipit ed il suggello? Nella metafora
iniziale e finale della luce e del calore, qualità inscindibili dell’amore
stilnovistico e dell’ardore paradisiaco, si palesa l’amorevole presenza
della gentilissima, rievocata non soltanto nel suo ruolo di dolce guida
e cara 41, ma come memoria d’un inestinguibile amore giovanile: “quella Beatrice beata, che vive in cielo con gli angioli, e in terra con la mia
anima” 42 ritorna a lui come Quel sol che pria d’amor mi scaldò ’l petto
(ib. v. 1) in una sintesi suggestiva di figura reale e simbolica.
La solarità di Beatrice, infatti, bella dell’accecante fulgore della lu-
__________
disiri / voler / divina voglia / nostre voglie / ’n suo voler ne ’nvoglia / volontade
indicano come nel suo amore per Dio non vi sia alcuna larvata reminiscenza della passività terrena, ma una essenziale conformità alla sua carità.
40
Inf. V. vv. 97-99: “Siede la terra dove nata fui/su la marina dove ’l Po discende / per aver pace co’ seguaci sui”.
41
Cfr. Par. XXIII, v. 34.
42
Cfr. Convivio, II, 2, 1.
158
ce paradisiaca, condensa in questo contesto sia l’apparire primo de la
gloriosa donna de la sua mente 43, in cui Dante riconosce che abitava la
sua beatitudine 44, sia la sua funzione speculare, che è quella che ’mparadisa la mente 45 del poeta; ella cioè è raggio luminoso che unisce Dio
all’intelletto e l’intelletto a Dio:
“così la mia memoria si ricorda
ch’io feci riguardando ne’ begli occhi
onde a pigliarmi fece Amor la corda”. (Par. XXVIII, vv. 10-12) 46
Beatrice è quindi un sole in terra e in cielo, le altre donne sono anime lunari, in cui la carne ha scontato l’appartenenza alla terra. A questa schiera non appartiene di certo l’angiola giovanissima, che si veste
e vela di umiltà, quella umiltà che la fa andare tanto gentile e tanto
onesta, donando salute benignamente d’umiltà vestuta 47; quella umiltà che fa umile e alta Maria più che creatura, colei che ha nobilitato l’umana natura a tal punto che l’essere donna non è stato un vincolo, ma
un privilegio:
“Nel ventre tuo si raccese l’amore,
per lo cui caldo ne l’etterna pace
così è germinato questo fiore”.
(Par. XXXIII, vv. 7-9)
E Dante, provocando paradossalmente la sua società, si affida sin
__________
43
Cfr. Vita Nova, II, 1.
Cfr. Vita Nova, XI, 3.
45
Cfr. Paradiso, XXVIII, V. 3.
46
Cfr. Par. XXVIII; vv. 4-9: interessante l’analogia tra questi versi e quelli, in
cui si presentano le anime del cielo della luna: anche qui un effetto ottico di riflessione. La conoscenza del divino avviene dunque per speculum, attraverso gli
occhi: la teologia è mediatrice tra l’uomo e Dio. “Dante accoglie in tal senso la
dottrina dell’analogia, secondo la quale ogni aspetto del mondo è specchio del
suo creatore, la cui impronta si rivela tanto più tersa e limpida, quanto più perfetto è lo specchio in cui si riflette. L’eccezionalità di Beatrice consiste nel rispecchiare più limpidamente l’immagine di Dio rispetto al resto dell’umanità”.
(Bruscagli Tellini, Letteratura e storia, vol. I pag. 335).
47
Cfr. Vita Nova, cap. XXVI.
44
159
dall’inizio del suo viaggio a tre donne benedette 48, manifestazione del
volto caritatevole di Dio, che ha scelto proprio la donna come ultimo
essere del creato, perché senza di lei tutto sarebbe stato difettivo ed
imperfetto; è per questo che se l’immagine di Eva, l’antica matre il cui
palato a tutto ’l mondo costa 49, ricorre frequentemente nel poema dal
c. VIII del Purgatorio, sempre correlata all’idea del peccato, Dante alla fine ne presenta il riscatto, collocando la prima mulier 50 ai piedi di
Maria nella Rosa mistica:
“La piaga che Maria richiuse e unse,
quella ch’è tanto bella da’ suoi piedi
è colei che l’aperse e che la punse”. (Par. XXXII, vv. 4-6)
In Eva, nella carne che si piega allo spirito, è l’archetipo dell’eterno femminino.
Siracusa, 8 marzo 2006
__________
48
Cfr. Inf., II, v. 124.
Cfr. Purg. XXX, v. 52; Par. XIII, v. 39.
50
Cfr. De vulgari eloquentia, I, II, 6.
49
160
PURGATORIO, c. XXX
La lettura intende indagare il metodo della salvezza emerso dalla
Commedia dantesca, partendo, non a caso, dal canto XXX del Purgatorio, canto centrale, come è stato dimostrato attraverso una serrata dissertazione numerologica, della struttura salvifica del poema.
Centrale perché è in questo canto che, insieme all’epifania di Beatrice, che segna un vero e proprio spannung nella struttura narrativa
dell’opera, si conclude la missione affidata a Virgilio e proprio in questa staffetta ideale tra i due si ravvisa la chiave del metodo salvifico.
Di Virgilio si analizza allegoricamente il ruolo svolto nell’Inferno e nel
Purgatorio di duca, di segnore e di maestro, ossia di modello poetico,
ma soprattutto di simbolo della scienza umana, fondata sulla ragione;
di Beatrice, attraverso un puntuale raffronto intertestuale con la Vita
Nuova, si delinea la complessa interpretazione figurale che le attribuisce già in terra connotati divini, destinati a completarsi nell’al di
là: ecco perché ella, già nella vita terrena associabile a Cristo, la ratio
nella Trinità, si rivela come la sapienza divina nella sua apparizione
sulla radura del Paradiso terrestre. Ed indubbiamente scienza umana
e scienza divina, colte nella loro consistenza terrena di INTELLETTO e AMORE, costituiscono i due momenti essenziali del percorso
ascetico di Dante, ma non i soli, poiché a completamento di essi, senza né rinnegarli né contraddirli, l’estasi mistica concluderà nell’Empireo ciò che dai primi era stato intrapreso. A simboleggiare ciò è l’intervento di una terza guida di Dante, S. Bernardo di Chiaravalle che,
superata la fase della ragione e della teologia, consentirà al poeta di
abbandonarsi alla Grazia.
L’intera conversazione, scandita da frequenti citazioni non solo letterarie, affronta anche in termini filosofici l’argomento, soffermandosi sulle possibili cause del traviamento di Dante, simboleggiato dalla
notissima selva oscura nel canto proemiale del poema e ribadito nel
canto in questione dall’aspra requisitoria di Beatrice: escluse, con argomentazioni circostanziate, le ipotesi di nuovi amori successivi alla
morte della gentilissima o di sospetta eresia, determinata dalla contaminazione di fonti averroistiche e islamiche, la tesi è che Dante, giunto allo stato di perfezione, possa finalmente confessare a Beatrice, al161
legoria della verità rivelata, di aver per alcun tempo preferito alla vera Sapienza “le cure insensate” dei beni mortali: il pentimento sincero sarà garanzia del risarcimento della colpa e pertanto Dante invertirà con piena coscienza la sua rotta, anteponendo definitivamente la
teologia alla filosofia. Fino all’ultimo, però, il poeta non rinnegherà lo
sforzo razionale della conoscenza, solo lo sublimerà nel privilegio
ineffabile della “conoscenza” di Dio.
Quando il settentrïon del primo cielo,
che né occaso mai seppe né orto
né d’altra nebbia che di colpa velo,
e che faceva lì ciascuno accorto
di suo dover, come ’l più basso face
qual temon gira per venire a porto,
fermo s’affisse: la gente verace,
venuta prima tra ’l grifone ed esso,
al carro volse sé come a sua pace;
e un di loro, quasi da ciel messo,
“Veni, sponsa, de Libano” cantando
gridò tre volte, e tutti li altri appresso.
Quali i beati al novissimo bando
surgeran presti ognun di sua caverna,
la revestita voce alleluiando,
cotali in su la divina basterna
si levar cento, ad vocem tanti senis,
ministri e messaggier di vita etterna.
Tutti dicean: “Benedictus qui venis!”,
e fior gittando e di sopra e dintorno,
“Manibus, oh, date lilia plenis!”.
Io vidi già nel cominciar del giorno
la parte orïental tutta rosata,
e l’altro ciel di bel sereno addorno;
e la faccia del sol nascere ombrata,
sì che per temperanza di vapori
l’occhio la sostenea lunga fiata:
così dentro una nuvola di fiori
che da le mani angeliche saliva
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e ricadeva in giù dentro e di fori,
sovra candido vel cinta d’uliva
donna m’apparve, sotto verde manto
vestita di color di fiamma viva.
E lo spirito mio, che già cotanto
tempo era stato ch’a la sua presenza
non era di stupor, tremando, affranto,
sanza de li occhi aver più conoscenza,
per occulta virtù che da lei mosse,
d’antico amor sentì la gran potenza.
Tosto che ne la vista mi percosse
l’alta virtù che già m’avea trafitto
prima ch’io fuor di puerizia fosse,
volsimi a la sinistra col respitto
col quale il fantolin corre a la mamma
quando ha paura o quando elli è afflitto,
per dicere a Virgilio: “Men che dramma
di sangue m’è rimaso che non tremi:
conosco i segni de l’antica fiamma”.
Ma Virgilio n’avea lasciati scemi
di sé, Virgilio dolcissimo patre,
Virgilio a cui per mia salute die’mi;
né quantunque perdeo l’antica matre,
valse a le guance nette di rugiada
che, lagrimando, non tornasser atre.
“Dante, perché Virgilio se ne vada,
non pianger anco, non pianger ancora;
ché pianger ti conven per altra spada”.
Quasi ammiraglio che in poppa e in prora
viene a veder la gente che ministra
per li altri legni, e a ben far l’incora;
in su la sponda del carro sinistra,
quando mi volsi al suon del nome mio,
che di necessità qui si registra,
vidi la donna che pria m’appario
velata sotto l’angelica festa,
drizzar li occhi ver’ me di qua dal rio.
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Tutto che ’l vel che le scendea di testa,
cerchiato de le fronde di Minerva,
non la lasciasse parer manifesta,
regalmente ne l’atto ancor proterva
continuò come colui che dice
e ’l più caldo parlar dietro reserva:
“Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice.
Come degnasti d’accedere al monte?
non sapei tu che qui è l’uom felice?”.
Li occhi mi cadder giù nel chiaro fonte;
ma veggendomi in esso, i trassi a l’erba,
tanta vergogna mi gravò la fronte.
Così la madre al figlio par superba,
com’ella parve a me; perché d’amaro
sente il sapor de la pietade acerba.
Ella si tacque; e li angeli cantaro
di sùbito “In te, Domine, speravi”;
ma oltre “pedes meos” non passaro.
Sì come neve tra le vive travi
per lo dosso d’Italia si congela,
soffiata e stretta da li venti schiavi,
poi, liquefatta, in sé stessa trapela,
pur che la terra che perde ombra spiri,
sì che par foco fonder la candela;
così fui sanza lagrime e sospiri
anzi ’l cantar di quei che notan sempre
dietro a le note de li etterni giri;
ma poi che ’ntesi ne le dolci tempre
lor compartire a me, par che se detto
avesser: “Donna, perché sì lo stempre?”,
lo gel che m’era intorno al cor ristretto,
spirito e acqua fessi, e con angoscia
de la bocca e de li occhi uscì del petto.
Ella, pur ferma in su la detta coscia
del carro stando, a le sustanze pie
volse le sue parole così poscia:
“Voi vigilate ne l’etterno die,
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sì che notte né sonno a voi non fura
passo che faccia il secol per sue vie;
onde la mia risposta è con più cura
che m’intenda colui che di là piagne,
perché sia colpa e duol d’una misura.
Non pur per ovra de le rote magne,
che drizzan ciascun seme ad alcun fine
secondo che le stelle son compagne,
ma per larghezza di grazie divine,
che sì alti vapori hanno a lor piova,
che nostre viste là non van vicine,
questi fu tal ne la sua vita nova
virtualmente, ch’ogne abito destro
fatto averebbe in lui mirabil prova.
Ma tanto più maligno e più silvestro
si fa ’l terren col mal seme e non cólto,
quant’elli ha più di buon vigor terrestro.
Alcun tempo il sostenni col mio volto:
mostrando li occhi giovanetti a lui,
meco il menava in dritta parte vòlto.
Sì tosto come in su la soglia fui
di mia seconda etade e mutai vita,
questi si tolse a me, e diessi altrui.
Quando di carne a spirto era salita,
e bellezza e virtù cresciuta m’era,
fu’ io a lui men cara e men gradita;
e volse i passi suoi per via non vera,
imagini di ben seguendo false,
che nulla promession rendono intera.
Né l’impetrare ispirazion mi valse,
con le quali e in sogno e altrimenti
lo rivocai: sì poco a lui ne calse!
Tanto giù cadde, che tutti argomenti
a la salute sua eran già corti,
fuor che mostrarli le perdute genti.
Per questo visitai l’uscio d’i morti,
e a colui che l’ha qua sù condotto,
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li preghi miei, piangendo, furon porti.
Alto fato di Dio sarebbe rotto,
se Letè si passasse e tal vivanda
fosse gustata sanza alcuno scotto
di pentimento che lagrime spanda”.
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IL METODO DELLA SALVEZZA
Il metodo per raggiungere la salvezza Dante lo conosceva bene sin
dalla puerizia:
“ Tosto che nella vista mi percosse
l’alta virtù che già m’avea trafitto
prima ch’io fuor di puerizia fosse”
(Purg. XXX, vv. 40-42)
La vicenda a cui i versi citati alludono è fin troppo nota: all’età di
nove anni, infatti, gli appare per la prima volta l’angiola giovanissima,
la cui alta virtù procede attraverso tutti gli spiriti sensitivi e suggerisce
al suo intelletto le parole rivelatrici: “Apparuit iam beatitudo vestra” 1.
Ella si mostra dunque al poeta con le sembianze di un angelo che
“non parea figliuola d’ uom mortale, ma di deo” 1 e sin d’allora la sua
nobilissima virtù impedisce alcun tipo di coinvolgimento passionale,
ed anzi rovesciando la tragica visione cavalcantiana, non “sofferse
ch’Amore mi reggesse sanza ’l fedel consiglio de la ragione” 1.
“Compiuti li nove anni appresso l’apparimento soprascritto”, “nella
nona ora del giorno” 2, Beatrice gli rivolge il saluto, “Tanto che (mi)
parve allora vedere tutti li termini de la beatitudine” 2; qui la metafora
topica saluto/salute, associata ad altro lessico riconducibile alla stessa
area semantica (ineffabile cortesia, meravigliosa visione, mirabile cosa,
fino all’intera espressione “Ego dominus tuus”) 2 esplicita il carattere
divino della salvezza, di cui la gentilissima è ministra e messaggera:
“Conobbi ch’era la donna della salute” 2, si legge sempre nel cap. II
della Vita Nuova. Tale salvezza eterna è confermata anche dalla insistita relazione numerica presente nel capitolo suddetto – tra il 9 - multiplo di 3 - numero perfetto – e l’epifania della mirabile donna, oltre
che dalla simbologia dei colori ad essa associati. Nel primo incontro
ella “apparve vestita di nobilissimo colore, umile ed onesto sanguigno” 1; nel secondo, “vestita di colore bianchissimo” 2. Degli stessi co-
__________
1
2
Cfr. Vita Nova, Cap. I.
Cfr. Vita Nova, Cap. II.
167
lori, emblemi insieme al verde delle tre virtù teologali, s’ammanta gloriosa anche sulla radura del paradiso terrestre:
“Sovra candido vel cinta d’uliva
donna m’apparve, sotto verde manto
vestita di color di fiamma viva”.
(ib. vv. 31-33)
Nel Purgatorio è cinta d’uliva – pianta sacra a Minerva (cfr. ib. v.
68) – ad indicare il primato della sapienza divina da lei incarnato; il
λóγος, la ratio divina, è la seconda persona della Trinità, ossia Cristo;
Beatrice è dunque figura di Cristo e nella sua apparizione in cima al
Purgatorio è invocata con le espressioni scritturali “veni, sponsa, de
Libano” e “Benedictus qui venis”. Entrambe le formule nell’esegesi
biblica suonano come acclamazioni trionfali, l’una tratta dal Cantico
dei Cantici, riferita alla Chiesa, sposa di Cristo e depositaria della verità rivelata, l’altra rivolta allo stesso Cristo, accolto con esultanza dagli Ebrei al suo ingresso in Gerusalemme 3; ma nel nostro canto gli angeli alleluiando (v. 15) intonano anche un noto verso virgiliano:
“Manibus, oh, date lilia plenis!”
(ib. v. 21)
Alla citazione virgiliana (En., VI, v. 883),del tutto fedele alla tradizione manoscritta, eccetto che per l’interpolazione dell’“oh” esclamativo, la critica non riserva in verità particolare attenzione, né conferisce una specifica funzione; solo G. Giacalone riscontra nell’immagine
del giglio “da un lato la figura di Cristo e dall’altro delle anime dei
giusti e delle loro virtù” 4, simbologia questa che potrebbe riferirsi
proprio al corteo sacro che accompagna la processione allegorica: essa si compone di sette candelabri (i septem triones, ossia le sette stelle delle due Orse), cui fanno seguito ventiquattro seniori – la gente verace (v. 7) – vestiti di bianco, col capo cinto – per l’appunto – di una
corona di gigli; poi quattro animali alati in mezzo ai quali la divina basterna (v. 16) guidata dal grifone; intorno alla ruota destra venian dan-
__________
3
4
168
Cfr. Cantico dei Cantici. Matteo XXI, 9; Marco XI,10; Luca XIX, 33.
Cfr. Giacalone. Purgatorio c. XXX, n. 21.
zando 5 tre donne, vestite una di rosso, una di smeraldo 5 ed una di neve 5; intorno alla ruota sinistra quattro facean festa / in porpora vestite 5;
infine sette vecchi vestiti di bianco e coronati di fiori rossi . La lettura allegorica individua nei sette candelabri i sette doni dello Spirito
Santo, nei ventiquattro seniori i libri del Vecchio testamento, negli
animali alati i quattro Vangeli e nel Grifone – animale dalla duplice
natura di leone e di aquila – Cristo, che assomma in sé natura umana
e divina; il carro trionfale è la Chiesa guidata da Cristo e sorretta dagli ordini mendicanti (le due ruote rappresentano rispettivamente infatti l’ordine francescano e domenicano); le fanciulle danzanti intorno alle ruote simboleggiano rispettivamente, le prime le tre virtù teologali, e le seconde le quattro cardinali; a chiudere, i sette vegliardi sono gli ultimi libri del Nuovo Testamento. Al centro, in piena apoteosi, dentro una nuvola di fiori (ib., v. 28), appare Beatrice quale efficace sintesi spirituale di tutta questa sacra rappresentazione: in lei è la
rivelazione delle Scritture e la verità della Chiesa; da lei germogliano
le virtù che presiedono alla vita attiva e contemplativa, in lei convivono la natura terrena e quella celeste, come in Cristo. Ecco perché a
Beatrice si riferiscono, a nostro avviso, sia le espressioni scritturali testé citate che il verso profano dell’Eneide: il sincretismo letterario è
qui indizio rivelatore della doppia entità, storica e metastorica, di
Beatrice. A conferma di ciò si può addurre la nota interpretazione di
Charles Singleton 6 che ravvisa l’immagine di Cristo in Beatrice già
nella Vita Nuova (cfr. cap. XXIII, Donna pietosa, vv. 59-61), in cui la
dipartita della gentilissima, salutata dall’Osanna degli angeli, evoca
l’ascensione di Cristo al Cielo:
“ li angeli che tornavan suso in cielo
…gridavan tutti osanna” .
Nello scorgere la donna velata Dante coglie contemporaneamente
la luce della grazia divina e la potenza dell’antico amore: la prima la
ravvisa nel la faccia del sol che nasce
__________
5
6
Cfr. Purg. XXIX, v. 122 e segg.
Cfr. C. Singleton: Studi su Dante, pag. 243-49.
169
… “ombrata
si che per temperanza di vapori
l’occhio la sostenea lunga fiata”
(ib. vv. 25-27)
la seconda per occulta virtù che da lei mosse (cfr. v. 38), virtù che, “percuotendo” la vista, determina e rinnova l’antica conoscenza (cfr. v. 37),
per cui il poeta ricorrendo, – stavolta in traduzione – ad un altro notissimo verso virgiliano 7, prorompe: conosco i segni dell’antica fiamma
(ib. v. 48).
Conseguenza della immaginazione d’amore 8 è la medesima di un
tempo. Infatti già nel XXIV cap. della Vita Nuova aveva confessato:
“io mi sentio cominciare un tremuoto nel cuore, così come che io fosse
stato presente a questa donna” ed ora il poeta, risentendo ancora della occulta virtù, ispirata da colei che dà beatitudine, esclama:
“ E lo spirito mio, che già cotanto
tempo era stato ch’ a la sua presenza
non era di stupor, tremando, affranto,
sanza de li occhi aver più conoscenza,
per occulta virtù che da lei mosse,
d’antico amor sentì la gran potenza.”
(ib. vv. 34-39)
Quindi il poeta, emozionato tal quale un fantolino, si rivolge a
Virgilio come alla mamma (cfr. v. 44). Sollecita mamma è Virgilio,
madre superba appare invece Beatrice (cfr. v. 79), che con espressione insolitamente aspra, pur dettata da sincero affetto (si noti l’ossimoro pietade acerba al v. 81, con cui Dante-narratore mette in evidenza l’utilità pedagogica del rimprovero), si rivela finalmente a
Dante: “Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice.”. La teofania di
Beatrice avviene dunque al v. 73, cioè nel verso centrale del nostro
canto, che consta di 145 versi: Beatrice, inserita in una triplice epanalessi (ben son) al centro del canto, è così davvero il centro della Rivelazione. Dante che crede alla teoria numerologica, in questo canto
__________
7
8
170
Cfr. Eneide, IV, 23.
Cfr. Vita Nuova, Cap. XXIV.
sembra concentrare ossessivamente, come nei primi capitoli della Vita Nuova, corrispondenze numeriche. Infatti la somma dei numeri
7+3=10 equivale alla perfezione divina; gli stessi numeri corrispondono nella loro somma a 9+1, dei quali l’1 è simbolo del principio del
tutto ed il 9, multiplo di 3 – simbolo della Trinità – è emblema del
miracolo. Si legge nel XXIX cap. della Vita Nuova: “Questa è una ragione di ciò, ma più sottilmente pensando, e secondo la infallibile verità, questo numero fue ella medesima; per similitudine dico, e ciò intendo così. Lo numero 3 è la radice del 9, però che senza numero altro
alcuno, per sé medesimo fa 9, si come vedemo manifestamente che 3
via 3 fa 9. Dunque se ’l 3 è fattore per sé medesimo del 9, e così il fattore dei miracoli è 3, ciò è Padre e Figliuolo e Spirito Santo, li quali sono 3 ed 1, questa donna fue accompagnata da questo numero del 9 a
dare a intendere ch’ella era un 9, ciò è uno miracolo, la cui radice, ciò
è del miracolo, è solamente la mirabile Trinitade” 9. La sacralità del
canto aleggia anche nella ripetizione insistita del numero 10: esso è il
XXX del Purgatorio, ossia 3x10; consta di 145 versi, ossia 1+4+5, la
cui somma è uguale a 10; esso stesso è il 64° della Commedia, e
6+4=10; tale sacralità viene anche confermata dal ricorrere magicosimbolico del numero 9, e infatti 63 canti lo precedono e 36 lo seguono, e la somma di queste cifre equivale sempre a 9. Il nome di
Virgilio ricorre 3 volte consecutive (vv. 49, 50, 51) e al v. 55, tra Virgilio e Beatrice, per la prima ed unica volta, compare nella Commedia il nome di Dante, che di necessità qui si registra (v. 63): tale necessità non è davvero obiettiva, poiché non si presenta inderogabilmente e per la prima volta, piuttosto è pretestuosa e gli consente di
porre se stesso al centro della vicenda salvifica di cui la Commedia è
testimonianza insieme a Beatrice, sua guida eletta sin dalla trascorsa
vicenda umana. E non solo: nell’Inferno è Beatrice a correre in aiuto
del suo amico (cfr. Inf. II, v. 61):
“ Per questo visitai l’uscio dei morti,
e a colui che l’ha qua su condotto,
li preghi miei, piangendo, furon porti”
(ib. vv. 139-141)
__________
9
Cfr. Vita Nuova, Cap. XXIX.
171
Ella si presenta dunque a Virgilio con le parole:
“I’ son Beatrice che ti faccio andare:
vegno dal loco ove tornar disio;
amor mi mosse, che mi fa parlare.” 10
(Inf. II, vv. 70-72)
La Beatrice che sollecita Virgilio in soccorso di Dante ha le sembianze della donna-angelo:
“ Lucevan li occhi suoi più che la stella;
e cominciommi a dir soave e piana,
con angelica voce, in sua favella”
(Inf. II, vv. 55-57),
ma se nella creatura angelicata della Vita Nuova si adombra l’astrazione della concezione amorosa stilnovistica, intesa come trascendenza dell’assoluto, nella donna beata e bella della Commedia (cfr. Inf. II,
v. 53) si avverte la piena consapevolezza di sé e delle sue virtù; è fatta
da Dio, sua mercé, tale (cfr. Inf. II, v. 91) che la miseria del peccato
non la tange e pertanto non si limita a miracol mostrare, ma per volere di Amore opera la salvezza, chiarendone addirittura le finalità escatologiche. Pur se interpellata da Lucia, a cui è la stessa Madonna a
raccomandare Dante, è Beatrice che senza tema alcuna si muove fino
agli Inferi per far completare al suo fedele (cfr. Inf. II. v. 98) quell’itinerario di redenzione già intrapreso nell’età giovanile, limitato allora
ad uno stato contemplativo ed individuale, che diviene ora un processo dinamico volto non solo al raffinamento interiore, ma all’impegno attivo di chi, privilegiato dalla sua straordinaria esperienza, guadagna per sé e per tutta l’umanità l’eccellenza spirituale. Pertanto, nel
II c. dell’Inferno Lucia si rivolge a Beatrice dicendo:
“ …Beatrice, loda di Dio vera,
chè non soccorri quei che t’amò tanto,
ch’ uscì per te de la volgare schiera?”
(vv. 103-105),
__________
10
La discesa di Beatrice al limbo è modellata su quella di Cristo agli Inferi,
documentata dal Vangelo apocrifo di Nicodemo.
172
sottolineando la funzione già svolta da Beatrice sulla terra ed esplicitata nella Vita Nuova; ma nel c. XXXI del Paradiso è Dante stesso
che, nel contemplare Beatrice nell’atto di tornare a l’etterna fontana
(cfr. v. 93) si congeda da lei con una preghiera di ringraziamento:
“O donna in cui la mia speranza vige,
e che soffristi per la mia salute
in inferno lasciar le tue vestigie,
di tante cose quant’ i’ ho vedute,
dal tuo podere e da la tua bontate
riconosco la grazia e la virtute.
Tu m’hai di servo tratto a libertate
per tutte quelle vie, per tutt’ i modi
che di ciò fare avei la potestate.
La tua magnificenza in me custodi,
sì che l’anima mia, che fatt’ hai sana,
piacente a te dal corpo si disnodi.” (Par. XXXI, vv. 79-90)
La consapevolezza del metodo salvifico traspare dai versi del Paradiso appena citati; ben altro è l’atteggiamento del poeta sulla radura
dell’Eden: nonostante gran parte del cammino di purificazione sia già
stato compiuto, la sua condizione di fragilità emotiva è resa drammaticamente dalle espressioni: paura (v. 45), lagrimando (v. 54), pianger
(ripetuto ben 3 volte ai vv. 56- 57), tanta vergogna (v.78), lagrime e sospiri (v. 91) e dall’intera terzina:
“ Lo gelo che m’era intorno al cor ristretto
spirito e acqua fessi, e con angoscia
de la bocca e de li occhi uscì del petto”
(ib. vv. 97-99)
L’analisi introspettiva, in un crescendo che culmina nella terzina
citata, tende a materializzare, attraverso il ricorso a frequenti correlativi oggettivi, la contrizione dell’animo di Dante, il quale oltre tutto da
pochi attimi si trova privo del suo antico sostegno e della sua prima
guida, Virgilio, il cui determinante ufficio è sottolineato dall’insistita
metafora parentale a lui riferita: il fantolin corre a la mamma (v. 44) e
Virgilio dolcissimo patre (v. 50). Virgilio è dunque per lui padre e ma173
dre; è comprensibile che all’emozione determinata dalla comparsa di
Beatrice succeda lo smarrimento dovuto alla scomparsa di Virgilio:
“ né quantunque perdeo l’antica matre,
valse a le guance nette di rugiada,
che, lagrimando, non tornasser atre”
(ib. vv. 52-54)
Virgilio nel c. I dell’Inferno si era presentato a Dante come chi per
lungo silenzio parea fioco (cfr. Inf., I v. 63): l’espressione in senso allegorico sta ad indicare il silenzio della ragione nello stato di perdizione morale in cui versa il poeta. Il rapporto che si istituisce tra Virgilio
e Dante sancisce dunque il risveglio della ragione ed è pertanto mediato dall’intelletto: essi condividono una straordinaria altezza d’ingegno (cfr. Inf., X v. 59), si riconoscono nel comune culto delle lettere e
dello stile poetico illustre, riscontrano il fine supremo dell’opera letteraria nell’edificazione morale 11; è per questo che Dante riconosce in
Virgilio, per la loro totale comunanza d’intenti, il suo autore per antonomasia: “Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore” afferma nel I canto
dell’Inferno al v. 85, e in seguito aggiunge:
“ or va, ch’ un sol volere è d’ambedue:
tu duca, tu segnore e tu maestro”
(Inf. II, vv. 139-140)
sintetizzando in un sol verso la complessa funzione ch’egli è deputato a svolgere per lui campare. Spiega infatti Boccaccio: “Non si potrebbe in altra guisa bene andare se non fosser la guida ed ’l guidato in
un volere. Tu duca, quanto è nell’andare, tu segnore, quanto è alla preminenza e al comandare, e tu maestro, quanto è al dimostrare; perciò
che uficio del maestro è il dimostrare la dottrina e il solvere i dubbi”.
Virgilio assolve dunque l’arduo compito di additare al poeta il metodo della conoscenza razionale, che può far conseguire in rebus agli
uomini la salvezza: e infatti nell’andare è la perceptio sensibile, ossia
il procedere nella conoscenza; nel comandare è la riflessione superio-
__________
11
G. Getto: La poesia dell’intelligenza, in “Aspetti della poesia di Dante”.
Sansoni. Firenze 1965.
174
re della ragione, cioè la ragione usare 12, nel dimostrare è l’enucleazione della verità. Virgilio, in quanto allegoria della ragione, rinnova
dunque nella Commedia quel culto della scienza che era già stato il
progetto del Convivio, fondato sulla riprovazione del dubbio sistematico (la confutazione delle false opinioni) e sul metodo sillogistico
deduttivo, cui si applica un serrato esercizio dialettico. Ma nel Convivio Dante si propone quale banditore di un convito di filosofia ed
attraverso di essa intende compilare una summa enciclopedica del sapere umano per rimuovere gli impedimenti del corpo e dell’anima
che non consentono all’uomo di giungere al perfezionamento delle
virtù naturali, dunque nel Convivio è il poeta che elargisce cultura;
nella Commedia, invece, egli è il discepolo che segue docilmente gli
insegnamenti di Virgilio: ancora una volta si propone il rapporto antitetico che abbiamo già rilevato tra la Vita Nuova e la Commedia,
poiché nel Convivio si attua una prospettiva statica del sapere, propria del saggio che soddisfa prima di tutti per se stesso, come bene individuale, la voluptas cognoscendi, mentre nella Commedia si realizza quel progresso dinamico della sapienza, utilizzata non più come fine dell’approccio scientifico, ma come strumento per conquistare la
somma virtù. In quest’ottica può intendersi, a nostro avviso, il traviamento di Dante rimproveratogli da Beatrice:
“ Si tosto come in su la soglia fui
di mia seconda etade e mutai vita,
questi si tolse a me, e diessi altrui”
(ib. vv.124-126)
In apparenza il nostro canto dai vv. 115 e segg. sembra tratteggiare ancora la vicenda narrata nella Vita Nuova: Dante, pur potenzialmente ricco di buone attitudini, che avrebbero dovuto essere poste in
atto, a causa della sua condotta dissennata, resa nelle parole di Beatrice ancora più peccaminosa dal riferimento scritturale alla parabola
del seminatore 13, si distoglie ad un tratto dalla dritta parte (v. 123), a
cui la donna amata lo aveva indirizzato; e proprio quando il trasuma-
__________
12
13
Cfr. Convivio.
Cfr. Vangelo: San Matteo, XIII; San Luca, VIII.
175
nar di Beatrice avrebbe dovuto confermarlo nella determinazione della salvezza
“fu’ io a lui men cara e men gradita;
e volse i passi suoi per via non vera,
immagini di ben seguendo false,
che nulla promession rendono intera”
(ib. vv. 129-132)
A tal proposito la Vita Nuova riferisce l’episodio della “donna
gentile” (cfr. capp. XXXV-XXXVIII), la fanciulla pietosa che sembra
compatire il dolore del poeta; ma è Dante stesso che nel Convivio attribuisce alla donna gentile il significato allegorico della filosofia.
D’altronde anche la canzone dottrinale commentata nel terzo trattato
del Convivio, Amor che nella mente mi ragiona, conferma l’allegorizzazione in chiave filosofica dell’amore stilnovistico, in cui il rapporto
con l’intelletto diviene nesso irrinunciabile e determinante (i termini
Amore ed Intelletto ricorrono 6 volte ciascuno nell’arco dell’intero
componimento): non nuovi amori dunque attraggono il suo spirito,
ma l’esperienza ben più travolgente dell’ardore della conoscenza.
Tale curiositas, tale eclettismo culturale, che si configura come la
condizione essenziale su cui fondare ogni possibile sapere, emerge dalla materia enciclopedica del Convivio, che compendia le discipline del
Trivio e del Quadrivio (Grammatica, retorica e dialettica; astronomia,
geometria, aritmetica e musica), tutte propedeutiche alla Filosofia:
pertanto Filosofia per Dante non è solo la conciliazione dei sistemi
classici di Aristotele e di Platone, del primo dei quali si privilegia in
epoca medievale soprattutto la logica e la fisica e del secondo il rapporto Dio-mondo-uomo, utile a chiarire il concetto di bene e di male;
ma essa è nel Convivio la contaminazione della concezione classico-cristiana con il pensiero di Avicenna, che tende a platonizzare in chiave
mistica l’Aristotele fisico e metafisico, e con l’Aristotelismo radicale di
Averroè che, sostenendo l’indipendenza del pensiero dai vincoli della
fede, dimostra – nel senso aristotelico del termine – che tra Rivelazione e filosofia non solo vi è compatibilità, ma una connessione tale da
rendere la seconda uno strumento argomentativo decisivo per la prima e giunge a speculare su questioni metafisiche, quali il rapporto anima/corpo, immortalità/mortalità dell’anima, fede/scienza.
176
Sulla reale portata di quest’ultima influenza culturale sia nel Convivio che nella Commedia si avanzano ipotesi contrastanti: che Dante
recepisca talora asserzioni averroistiche, specie nel Convivio, è anche
possibile, ma che attraverso le speculazioni dei filosofi arabi si faccia
strada nel suo genio espansivo anche l’eco delle scritture islamiche appare argomento critico seducente, ma pur sempre discutibile 14. Si sa
di certo che Dante ricevette da Brunetto Latini una traslatio alexandrina (un riassunto arabo) dell’Etica Nicomachea di Aristotele; è possibile che tramite lo stesso canale Dante abbia potuto consultare il Liber Scalae Maomethi dell’VIII sec., tradotto nel 1264 dal castigliano
in latino e in francese da Bonaventura da Siena, notaio a Toledo, alla
corte di Alfonso X il Savio, presso cui visse anche Brunetto, amico di
Alfonso. Nella Commedia sono reperibili vari spunti tratti da questo
testo scritturale, diffuso anche in Sicilia alla corte di Federico II, centro propulsore della comunicazione islamico – cristiana (ad es. il divieto di varcare le colonne d’Ercole nel c. di Ulisse 15; gli edifici di Dite chiamati meschite/moschee; la legge del contrappasso); ora, ci
chiediamo perché non ritenere che essi siano semplicemente indizio
della usuale “interdiscorsività” culturale di cui Dante è partecipe, cosicché temi e linguaggi diversi possano confluire nel patrimonio collettivo dell’intellettuale privi di specifiche connotazioni ideologiche,
piuttosto che ipotizzare una presunta posizione ereticale del Nostro?
L’errore di Dante non ci sembra certamente ravvisabile in un peccato di eresia: se simpatie averroistiche lo coinvolsero in un certo momento della sua vita, esse si potrebbero ricondurre alla comunanza intellettuale con Guido Cavalcanti, il poeta-filosofo suo amico di gioventù; ma certo è che dalle tendenze “epicuree” di Guido Dante
prende apertamente le distanze nel c. X dell’Inferno, quando nel cor-
__________
14
Sono gli studi che da circa un ventennio conduce Maria Corti, la quale cerca di collocare qualche volume in più nella fantomatica e sconosciuta biblioteca
dantesca. Tra questi volumi lo storico Leonardo Capezzone pone come tacita
fonte della D. C., l’opera di Ibn ‘Arabi, discepolo di Averroé ed uno dei più grandi mistici dell’Islam.
15
Il divieto non esiste nel mondo greco-latino. Si tratta di un espediente escogitato dagli Arabi per impedire a Svedesi e Norvegesi di occupare le vie di traffico e di commercio musulmani.
177
so del drammatico colloquio col padre di lui, Cavalcante de’ Cavalcanti, ribadisce senza possibilità di equivoci che il suo percorso di salvezza procede dalla ragione verso la fede:
“ Colui ch’ attende là, per qui mi mena
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno”
(Inf. X, vv. 62-63).
Il vero peccato di Dante può invece presumibilmente consistere
nell’aver subordinato in un certo periodo della sua vita la Teologia alla Filosofia 16, come coloro che volevano far convivere la verità di fede con divergenti verità di scienza (doppia verità), quindi in aperto
contrasto con il sistema culturale della Scolastica secondo cui, al contrario, una sola è la possibile verità, ma la filosofia, pur essendo preparatoria alla Teologia (anticipazione e prefigurazione di essa in terra,
direbbe E. Auerbach) diverge da essa nel metodo, non può divergere
nei principi o nelle conclusioni: con la Scolastica si giunge quindi alla definizione della Teologia come scienza. Di questa colpa Dante fa
già ammenda nel c. II del Purgatorio: infatti il commosso incontro
con Casella, che intona per lui proprio “Amor che nella mente mi ragiona”, rievocando elegiacamente le esperienze autobiografiche della
giovinezza e l’amore terreno della filosofia, lo distoglie dall’itinerario
di purificazione; pertanto Catone, intervenendo severamente, richiama alle proprie responsabilità non solo il penitente Dante, ma anche
la sua ragione, Virgilio 17. Tra la composizione del Convivio e quella
della Commedia Dante approfondisce il metodo della Scolastica, che
tende non all’analisi delle cause dei fenomeni (il quid sit), ma al percorso dialettico tra fisica e metafisica, tra molteplice ed Unità, tra
scienza umana e Sapienza divina. È dunque chiaro il ruolo affidato a
Virgilio nella Commedia perché, come osserva G. Gentile 18 per Dante la stessa “Teologia non giunge all’uomo, non lo salva, se non per
mezzo della ragione”. Infatti, benché Virgilio lo abbia guidato attraverso i regni dell’Inferno e del Purgatorio, appartenenti pur sempre
__________
16
La consapevolezza del traviamento determina il repentino passaggio dalla
compilazione del trattato filosofico al trattato teologico?
17
Cfr. Purg. III, vv. 7-9.
18
G. Gentile, Studi su Dante, Firenze 1990.
178
alla sfera terrestre, poiché egli costituisce la scienza umana, di cui comunque non perde occasione di dichiarare la limitatezza, rimandando spesso la risoluzione dei dubbi o la rivelazione della verità a Beatrice, che rappresenta la scienza divina:
“E se mia ragion non ti disfama
vedrai Beatrice, ed ella pienamente
ti torrà queste e ciascun’altra brama” (Purg. XV, vv. 76-78),
tuttavia senza di lui sarebbe stato impossibile a Dante proiettarsi nelle sfere celesti. Virgilio è dunque instrumentum veritatis. Beatrice è la
Verità. Ecco perché Virgilio, conclusa la missione affidatagli da Beatrice, a Beatrice stessa consegna il testimone.
Beatrice assume il suo ruolo rimproverando aspramente Dante sin
dalle prime battute:
“ Come degnasti d’accedere al monte?
Non sapei tu che qui è l’uom felice?”
(ib. vv. 74 -75)
Che nell’espressione risuoni l’ironia o la riprovazione, cosa su cui
la critica vanamente discetta, o a quale monte intenda riferirsi Beatrice, se alla montagna del Purgatorio (lectio facilior, dunque poco plausibile) o se invece esso si contrapponga espressamente al qui del v. 75
e ne costituisca quindi un simmetrico altrove terreno (presumibilmente quel colle della vita virtuosa a ridosso della selva oscura, impossibile da ascendere senza aver prima conquistato la perfezione
umana) è questione superflua nell’economia della nostra lettura; certo è che Beatrice non esita a rinfacciargli i suoi trascorsi:
…“Si poco a lui ne calse! “
(cfr. ib. v. 135)
cosicché
“ Tanto giù cadde, che tutti argomenti
a la salute sua eran già corti,
fuor che mostrarli le perdute genti” (ib. vv.136-138).
179
Le intelligenze angeliche, più misericordiose, intonando il salmo
XXX “In te, Domine, speravi”, sembrano aver compassione di Dante
… “ par che se detto
avesser: “Donna, perché sì lo stempre?”
(ib.vv. 95-96).
Inflessibile è la risposta di Beatrice: “perché sia colpa e duol d’una
misura” (ib. v. 108), ossia affinché Dante comprenda che il perdono è
lecito solo quando la contrizione è commisurata alla colpa. Il viaggio
nel purgatorio non avrebbe potuto concludersi se Dante, umile peccatore, non avesse maturato la consapevolezza dell’errore e la disposizione al risarcimento di esso, prima di perderne coscienza a causa
dell’immersione nel Leté:
“ Alto fato di Dio sarebbe rotto,
se Leté si passasse e tal vivanda
fosse gustata sanza alcuno scotto
di pentimento che lagrime spanda”
(ib. vv. 142-145).
I tre momenti della liturgia della confessione – la confessio oris, la
contritio cordis e la satisfactio operis – corrispondenti ai tre gradini di
accesso alla porta del Purgatorio 19 si svolgono sotto la tutela di Beatrice, vero ministro del sacramento, al cui cospetto, vergognoso e
piangente, Dante ammette:
… “Le presenti cose
col falso lor piacer volser miei passi,
tosto che ’l vostro viso si nascose”
(Purg. XXXI, vv. 34-36).
L’assunzione di responsabilità da parte di Dante di essersi lasciato
gravare le penne in giuso (cfr. Purg. XXXI v. 58) diventa piena consapevolezza nel cielo del Sole, in cui il Poeta, incontrando gli spiriti sapienti disposti nelle due corone concentriche dei teologi e dei mistici,
esalta l’ideale della vera sapienza:
__________
19
180
Cfr. Purg., IX, vv. 94-108.
“ O insensata cura dei mortali,
quanto son difettivi sillogismi
quei che ti fanno in basso batter l’ali!”
(Par. XI, vv. 1-3).
Le due corone, che si muovono concordemente nel Paradiso, rinnovano la simbologia delle due ruote del carro della Chiesa, di cui
si è detto: di teologi e di mistici si composero infatti i due ordini più
importanti del Medioevo, quello dei Domenicani e dei Francescani,
ed ai loro rispettivi fondatori S. Tommaso e S. Bonaventura inneggiano nel cielo del Sole, integrando in forma chiastica la complementarità delle loro opere: perch’ ad un fine fur l’opere sue (Par. XI,
v. 42); ma S. Francesco fu tutto serafico in ardore (v. 37) mentre S.
Domenico per sapienza in terra fue/ di cherubica luce uno splendore
(vv. 38-39): dal che si evince con chiarezza che la complementarità
a cui si riferisce S. Tommaso è la stessa che rende interdipendenti
Amore ed Intelletto. Che Dante mutui dal Tomismo lo schema ascetico e dal Francescanesimo l’interpretazione morale è risaputo: resta
da verificare come egli abbia utilizzato tali metodi nella struttura della Commedia.
I gradi di perfezione ascetica procedono, dice San Tommaso 20
“secundum diversa studia, ad quae homo perducitur per caritatis argumentum”: la prima fase, quella dei principianti, consiste nel distaccarsi dal peccato (ad recedendum a peccato) e nel subordinare l’istinto alla ragione, ciò che avviene nel percorso infernale (ed
equivale all’andare: I fase del metodo); la seconda è quella dei
progredienti, che si purgano attraverso un itinerario ascetico, effettuato nella seconda cantica, grazie al quale il progredire nel
bene perviene alla perfezione delle virtù umane (ed è il comandare, la ragione usare: II fase del metodo); in ultimo è la fase dei
perfetti, i quali “cupiunt dissolvi et esse cum Christo”, per citare
San Paolo.
Da ciò appare chiaro che lo stesso Tomismo, che articola l’approdo al divino attraverso precise tappe ascetiche, non esclude
elementi neoplatonici e mistici, poiché il conoscere e l’amare so-
__________
20
Cfr. Summa Theologiae, II, 24, art. 9.
181
no strettamente compenetrati tra loro, di modo che l’uno – l’intelletto – è conditio sine qua non dell’altro – l’amore – ma il secondo è presupposto inevitabile del primo; ossia Intelletto e
Amore costituiscono quel nesso irrinunciabile di cui s’è già detto a proposito della canzone dottrinale Amor che nella mente mi
ragiona. In conseguenza di ciò la beatitudine dell’Empireo è per
Dante quel
… “ciel ch’è pura luce:
luce intellettual, piena d’amore.”
(Par. XXX, vv. 39–40).
D’altro canto anche per il mistico S. Bonaventura da Bagnoregio
i due termini sono inscindibili nel processo ascetico: “chiunque vuole ascendere a Dio è necessario che ascenda al di sopra di se stesso attraverso l’universo che è scala a Dio per una ascesi dell’anima, esercitando le naturali potenze: senso, immaginazione, ragione, intelletto,
apice della mente”.
Se dunque l’intelletto è proteso in un incessante dis-correre (cfr.
Par. XXIX, v. 21) attraverso fasi rigorosamente razionali, è però vero
che esso non si può spingere al di là del “quia est”, ossia di ciò che è
in quanto è; dinanzi al “quid sit” è impotente, perché incapace, per la
sua limitatezza, di cogliere ed esprimere il mistero della natura delle
cose e delle verità di fede ed è la stessa guida-ragione che pone come
condizione a Dante di non indagare:
“Matto è chi spera che nostra ragione
possa trascorrer la infinita via
che tiene una sustanza in tre persone.
State contenti, umana gente, al quia;
chè, se potuto aveste veder tutto,
(Purg. III, vv. 34-39).
mestier non era parturir Maria” 21
__________
21
Di questo inesausto desiderio di vedere Dio, soffrono Aristotele e Platone
nel limbo, ma tra gli spiriti magni è anche Averroè che il gran comento feo (Inf.,
IV, v. 144).
182
Il quid sit, assurdo della logica e certezza di fede, non è dimostrabile neanche dalla Teologia, e pertanto nel c. XXXI del Paradiso, volgendosi Dante verso Beatrice, che nell’ultima lezione teologica si è intrattenuta sulla sostanza dei cieli e sulle intelligenze ad essi preposte,
per interpellarla su la forma general di paradiso (v. 52), non lei si trova accanto, ma un sene
…………………… “in atto pio
quale a tenero padre si convene.”
(Par. XXXI, v. 62-63).
S. Bernardo, tenero padre (si rinnova ancora una volta il tropo parentale), inviato da Beatrice perché Dante possa terminare il suo percorso di salvezza, raccoglie a sua volta il testimone: la Teologia, che
aveva continuato ciò che la ragione aveva intrapreso, ha condotto il
pellegrino alla verità, ma la contemplazione del Divino è prerogativa
esclusiva di un atto di fede.
S. Bernardo svolge il ruolo di terza guida, il monaco cistercense, per essere stato un asceta ed un mistico, avverso alle correnti
razionalistiche e promotore del culto mariano, è l’unico che può
avvicinare Dante al mistero divino. Il suo compito non è quello di
solvere i dubbi, ma anzi di accentuare l’irrazionalità dell’atto di fede, infatti la preghiera che Bernardo rivolge alla Vergine, la sola a
conciliare l’umano e il divino, la sola ad accettare senza interrogativi l’incarnazione in Lei dell’amore di Dio 22, è tutta tramata di
antitesi:
“Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d’etterno consiglio,
tu se’ colei che l’ umana natura
nobilitasti sì, che ’l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura.” 23
(Par. XXXIII, vv. 1-6).
__________
22
Nel ventre tuo si raccese l’amore, si legge nel c. XXXIII del Paradiso al v. 7
Si completa qui la circolarità della Commedia, da Maria a Maria si muove
l’impulso di Grazia che sostiene il cammino del viandante nei mondi ultraterreni.
23
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S. Bernardo, il mistico, consegna a Dante la chiave, il “guado” “de
lo primo perché” 24.
Solo così nel canto XXXIII del Paradiso al di là delle acquisizioni razionali già prodotte, Dante può cogliere, attraverso la visione estatica in un vincolo inestricabile d’amore, il quid sit dell’universo:
“Nel suo profondo vidi che s’interna,
legato con amore in un volume,
ciò che per l’universo si squaderna:
sustanze e accidenti e lor costume
quasi conflati insieme, per tal modo
che ciò ch’i’ dico è un semplice lume.”
(Par. XXXIII, vv. 85-90)
Dunque, ciò che sarebbe assurdo per la logica umana diviene il valore culminante del processo dialettico e catartico della Commedia:
“ne la profonda e chiara sussistenza
de l’alto lume parvermi tre giri
di tre colori e d’una contenenza;
e l’un da l’altro come iri da iri
parea riflesso, e ’l terzo parea foco
che quinci e quindi igualmente si spiri”.
(Par. XXXIII, vv.115-120)
e ancora:
“Quella circulazion che sì concetta
pareva in te come lume reflesso,
da li occhi miei alquanto circunspetta,
dentro da sé, del suo colore stesso,
mi parve pinta de la nostra effige:
per che ’l mio viso in lei tutto era messo”
(Par XXXIII, v.127-132).
__________
24
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Cfr. Purg. VIII, v. 69.
La mente percossa da un fulgore (cfr. vv. 140-141), improvvisa illuminazione della Grazia, irrazionale ed ineffabile, appaga il desiderio
dell’intelletto; l’excessus mentis finale non contraddice l’esperienza
razionale, ma la supera, lasciandosi dietro il finito e l’umano, placando il disio e il velle ne
“l’amor che move il sole e l’altre stelle.”
(Par. XXXIII, v.145).
Siracusa, aprile 2000
185
186
INFERNO, c. XXVI
Ogni canto è una avventura nuova e suggerisce ai lettori e ai cultori danteschi immagini, suggestioni, percorsi analitici di volta in volta diversi: questo in particolare ci ha indotto ad indagare tra le pieghe
di un personaggio multiforme, qual è Ulisse, per cercare di carpire il
vero significato delle sue camaleontiche reincarnazioni – infatti è una
vera araba fenice – nella storia letteraria sia classica che moderna.
Il XXVI canto dell’Inferno è certamente il passaggio centrale ed
obbligato di questo lungo percorso che attraversa secoli e secoli di
produzione letteraria, da Omero a Kazantzakis, che sono i limiti del
nostro viaggio culturale, ma volendo citare Kerouac, molti Ulisse sono ancora “on the road”.
Procedendo pur con qualche comprensibile difficoltà di sintesi si
tenterà di dimostrare come l’Ulisse di tutti i tempi altri non sia che
l’immagine di quel viaggio, reale od allegorico, mistico o materialistico, ma sempre esistenziale, in cui ciascuno di noi si proietta quando
si pone o un traguardo concreto o una meta ideale.
Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande
che per mare e per terra batti l’ali,
e per lo ’nferno tuo nome si spande!
Tra li ladron trovai cinque cotali
tuoi cittadini onde mi ven vergogna,
e tu in grande orranza non ne sali.
Ma se presso al mattin del ver si sogna,
tu sentirai, di qua da picciol tempo,
di quel che Prato, non ch’altri, t’agogna.
E se già fosse, non saria per tempo.
Così foss’ei, da che pur esser dee!
ché più mi graverà, com’ più m’attempo.
Noi ci partimmo, e su per le scalee
che n’avea fatto iborni a scender pria,
rimontò ’l duca mio e trasse mee;
e proseguendo la solinga via,
tra le schegge e tra’ rocchi de lo scoglio
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lo piè sanza la man non si spedia.
Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio
quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi,
e più lo ’ngegno affreno ch’i’ non soglio,
perché non corra che virtù nol guidi;
sì che, se stella bona o miglior cosa
m’ha dato ’l ben, ch’io stessi nol m’invidi.
Quante ’l villan ch’al poggio si riposa,
nel tempo che colui che ’l mondo schiara
la faccia sua a noi tien meno ascosa,
come la mosca cede a la zanzara,
vede lucciole giù per la vallea,
forse colà dov’e’ vendemmia e ara:
di tante fiamme tutta risplendea
l’ottava bolgia, sì com’io m’accorsi
tosto che fui là ’ve ’l fondo parea.
E qual colui che si vengiò con li orsi
vide ’l carro d’Elia al dipartire,
quando i cavalli al cielo erti levorsi,
che nol potea sì con li occhi seguire,
ch’el vedesse altro che la fiamma sola,
sì come nuvoletta, in sù salire:
tal si move ciascuna per la gola
del fosso, ché nessuna mostra ’l furto,
e ogne fiamma un peccatore invola.
Io stava sovra ’l ponte a veder surto,
sì che s’io non avessi un ronchion preso,
caduto sarei giù sanz’esser urto.
E ’l duca che mi vide tanto atteso,
disse: “Dentro dai fuochi son li spirti;
catun si fascia di quel ch’elli è inceso”.
“Maestro mio”, rispuos’io, “per udirti
son io più certo; ma già m’era avviso
che così fosse, e già voleva dirti:
chi è ’n quel foco che vien si diviso
di sopra, che par surger de la pira
dov’ Eteòcle col fratel fu miso?”
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Rispuose a me: “Là dentro si martira
Ulisse e Diomede, e così insieme
a la vendetta vanno come a l’ira;
e dentro da la lor fiamma si geme
l’agguato del caval che fé la porta
onde uscì de’ Romani il gentil seme.
Piangevisi entro l’arte per che, morta,
De_damìa ancor si duol d’Achille,
e del Palladio pena vi si porta”.
“S’ei posson dentro da quelle faville
parlar”, diss’io, “maestro, assai ten priego
e ripriego, che ’l priego vaglia mille,
che non mi facci de l’attender niego
fin che la fiamma cornuta qua vegna;
vedi che del disio ver’ lei mi piego!”.
Ed elli a me: “La tua preghiera è degna
di molta loda, e io però l’accetto;
ma fa che la tua lingua si sostegna.
Lascia parlare a me, ch’i’ ho concetto
ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi,
perch’e’ fuor greci, forse del tuo detto”.
Poi che la fiamma fu venuta quivi
dove parve al mio duca tempo e loco,
in questa forma lui parlare audivi:
“O voi che siete due dentro ad un foco,
s’io meritai di voi mentre ch’io vissi,
s’io meritai di voi assai o poco
quando nel mondo li alti versi scrissi,
non vi movete; ma l’un di voi dica
dove, per lui, perduto a morir gissi”.
Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando,
pur come quella cui vento affatica;
indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori e disse: “Quando
mi diparti’ da Circe, che sottrasse
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me più d’un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enëa la nomasse,
né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ’l debito amore
lo qual dovea Penelopè far lieta,
vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto
e de li vizi umani e del valore;
ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.
L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,
e l’altre che quel mare intorno bagna.
Io e’ compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov’Ercule segnò li suoi riguardi
acciò che l’uom più oltre non si metta;
da la man destra mi lasciai Sibilia,
da l’altra già m’avea lasciata Setta.
“O frati”, dissi, “che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia
d’i nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”.
Li miei compagni fec’io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;
e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.
Tutte le stelle già de l’altro polo
vedea la notte, e ’l nostro tanto basso,
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che non surgëa fuor del marin suolo.
Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che ’ntrati eravam ne l’alto passo,
quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avëa alcuna.
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto.
Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque,
infin che ’l mar fu sovra noi richiuso”.
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ULISSE E DANTE: EROI OFF-LIMITS
Dante:
“ Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio
quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi,
e più l’ingegno affreno ch’i non soglio
perché non corra che virtù nol guidi”
(Inf. XXVI, vv. 19-22)
Virgilio:
“… per questo cieco
carcere non vai per altezza d’ingegno”
(cfr. Inf. X, vv. 58-59)
“ Vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare”
(Inf. III, vv. 95-96) *
È questo passaporto, consegnato al poeta da Virgilio, che consacra
la direzione ascensionale del viaggio di Dante; esso è concepito come
tensione verso Dio, come superamento di ogni limite umano dell’intelletto, virtù divina concessa agli uomini per Grazia, che si profonda
nella luce della verità rivelata, abbandonandosi estaticamente alla visione dell’ Amor che move il sole e le altre stelle:
“perché appressando sé al suo disire,
nostro intelletto si profonda tanto,
che dietro la memoria non può ire” (Par. I, vv. 7-9)
È il viatico ascetico che manca ad Ulisse, il cui viaggio si muove in
una dimensione orizzontale, diretto verso Occidente, là dove il sole,
francescanamente simbolo della Grazia divina, volge al tramonto, e
sempre acquistando dal lato mancino (ib. v. 116).
Pur percorrendo itinerari diversi, l’uno mistico e l’altro terreno, è
__________
* I versi danteschi che introducono la conversazione e le battute di dialogo
tra Dante e Virgilio sono un nostro gioco letterario.
192
analogo in entrambi i viaggi il senso del superamento del limite umano, che accomuna Dante ed Ulisse in una incessante ricerca di verità,
controcorrente rispetto alla loro società e alle manifestazioni culturali che le sono proprie.
Ulisse e Dante, gli eroi off-limits del mito e della storia, si confrontano idealmente nel canto XXVI attraverso la mediazione di Virgilio, che si offre quale interlocutore naturale fra la cultura classica, da
cui emerge la figura di Ulisse, e quella medioevale, di cui Dante interpreta lo spirito e la mentalità.
Tale sintesi culturale è inaspettatamente propria anche dei poemi
omerici, in cui la figura di Ulisse coagula elementi antichissimi, racconti favolosi di naviganti cretesi o egiziani addirittura pre-greci, risalenti al II millennio a.C., con i νο′στοι e la leggenda troiana. Anche
Omero riscopre in Ulisse nuove suggestioni, lo spirito ionico in ascesa che si oppone alle origini storiche del popolo ellenico, incarnate nel
poema da Achille: saggia avvedutezza dell’uno contro nobile oltranza
dell’altro, abile diplomazia contro dura intransigenza, calcolata considerazione dell’utilità contro lo slancio generoso dell’idealismo. È già
figura moderna, nell’Odissea di Omero, quest’Ulisse sincretico, patto
per il futuro (cfr. Od. XXIV v. 546), ed è da quest’ultimo che trae origine il mito dell’eroe non pago dell’approdo, l’immagine dell’eterno
avventuriero che, non frenato né da patria né da affetti, simboleggia
la ricerca incessante ed energica d’un confine lontano, d’un territorio
ulteriore, di terra sconosciuta da abitare. L’Ulisse dell’Odissea è quindi il colonizzatore dell’VIII sec., l’ecista del Mediterraneo che anima
anche la fantasia di Livio Andronico nell’Odysìa: il πολυτρε′πων, mobilissimo ed attivo dell’Odissea subentra al πολυ′τροπος, scaltro e
mutevole dell’Iliade, e penetra con fortuna nel mondo romano, allorquando esso si appresta all’espansione politica e culturale nella Magna Grecia.
L’ascendenza della poesia omerica rivendica certamente Virgilio
quando si propone nella Commedia come interlocutore di Ulisse, non
solo in quanto poeta epico, quando nel mondo li alti versi scrissi (ib. v.
82), ma anche quale corretto interprete del mito-storico, perché consacrato dalla tradizione, dell’eroe secondo i parametri dell’Iliade: nell’Eneide come nell’Iliade, infatti, Ulisse è privo di virtù morali, piuttosto lo si appella quale “seducente”, “funesto” e “inventor scele193
rum” 1 per evidenziarne i tratti del politico consumato, che complotta ai danni del pius Aeneas, l’eroe giusto destinato ad essere il capostipite della gens Giulia, come Dante sottolinea nel nostro canto onde
uscì dei Romani il gentil seme (ib. v. 60).
Certo, il giudizio inclemente di Virgilio nei confronti di Ulisse appare una voce isolata nel mondo romano del I sec. a.C. 2, poiché da
varie altre fonti sembrano emergere i tratti umani del personaggio
dell’Odissea, insaziabile indagatore di conoscenza e pioniero del
mondo. Cicerone, nel “De finibus bonorum et malorum” (V, 18, 48 e
segg.) riconosce in Ulisse il simbolo dell’ardore di sapere, innato negli uomini sin dall’ infanzia, anche inconsapevolmente: “Ed invero, il
desiderio di sapere ogni cosa, di qualunque genere sia, è proprio delle
persone curiose; ma il sentirsi attratto al desiderio di sapere dalla contemplazione dei fenomeni più importanti è da ritenersi degli uomini
sommi”. Ed individua proprio nell’episodio delle Sirene, che solevano richiamare i naviganti non per la dolcezza della voce, ma perché
dichiaravano di sapere molte cose, il mito della conoscenza e il mito
di Ulisse desideroso di sapienza. Inoltre nel “De officiis” (III, 26)
l’autore esalta l’honestum consilium che spinge l’eroe greco ad abbandonare il vivere ozioso ad Itaca e gli affetti familiari pur di perseguire la gloria attraverso quotidiane fatiche e pericoli; immagine, questa, sicuramente presente alla fantasia dantesca, e coincidente con la
sua esperienza personale, come appare dai vv. 94-99 del canto in oggetto:
“né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ’l debito amore
lo qual dovea Penelopè far lieta,
vincer potero dentro a me l’ardore
ch’ i’ ebbi a divenir del mondo esperto
e de li vizi umani e del valore”
Anche Orazio vede in Ulisse un “exemplar” (Ep. I, 2, 18) fornito-
__________
1
2
194
En. II, col che si intende conferire debito rilievo alla sua trascinante facondia.
Potrebbe essere una prova dell’intento encomiastico nei confronti di Augusto.
ci da Omero per rivelarci “quid virtus et quid sapientia possit” (cfr., v.
17), nell’atto di guardare attentamente e da ogni parte l’alto mare
aperto (ib. v. 100) 3. In questa fonte latina l’eroe viene presentato nella disposizione di colui che è attratto dal canto delle Sirene, che gli
consegnano la conoscenza, mentre si sottrae saggiamente al filtro della maga Circe, etimologicamente “uccello rapace”, che abbrutisce l’animo e rapisce le potenzialità dell’ingegno. Anche questa ci è apparsa una fonte particolarmente gradita all’immaginario dell’Alighieri,
che ricorre agli stessi termini virtute e canoscenza (ib. v. 120), prescelti da Orazio. Inoltre nel testo il poeta fa espresso riferimento al soggiorno di Ulisse nel promontorio Circeo, quale punto di partenza verso nuove mete agognate o sconosciute (ib. v. 91).
Le peripezie del nostro eroe trovano ampia risonanza nelle Metamorfosi di Ovidio 4 (ma Ulisse è presente anche nell’Heroides e nell’Ars amatoria); nelle Metamorfosi l’eroe, sempre a proposito dell’episodio di Circe, viene rappresentato come il vendicatore dei compagni, resi “tardi” 5 dall’insidiosa pozione della maga e da lui costretti a
prendere il mare. In Seneca, infine, nel “De costantia sapientis” (II,
2) Ulisse ci appare come il prototipo del saggio stoico, che affronta
dure prove, spregia il piacere e vince il timore pur di conseguire la sapientia mundi, intesa dal filosofo di età imperiale come studium virtutis, tutti caratteri sicuramente affini a quelli intellettuali dell’eroe
dantesco.
Dante recepisce in vario modo le fonti latine sul personaggio greco
e, pur senza averne consapevolezza, poiché non conosce direttamente
quelle greche, nell’interpretarne poeticamente il mito, recupera quella
visione sincretica e moderna che anche i poemi omerici ci tramandano: l’Ulisse di Dante è sia il πολυ′τροπος dell’Iliade, arrogante per la
sfrenata esuberanza del suo ingegno e della sua eloquenza e perciò irretito in una lingua di fuoco che si porta in giro per la bolgia come correlativo oggettivo della sua fraudolenza, sia il πολυτρε′πων dell’Odis-
__________
3
In Orazio: “latumque per aequor”, v. 20.
Ovidio, Metamorfosi, libri XIII e XIV.
5
Si usa lo stesso termine in Ovidio, Met. XIV, 436 / Inf., XXVI, 106
4
195
sea, che diviene ora figura del navigatore medievale, esploratore di
nuove rotte, come i fratelli Vivaldi e Tedisio Doria, che nel 1291 non
avevano fatto ritorno dal viaggio intrapreso per affrontare l’Oceano. E
per di più, ammantato di quell’alone avventuroso che gli conferisce anche l’identità del moderno cavaliere – non tanto “senza macchia”
quanto “senza paura” – l’Ulisse di Dante tradisce la suggestione operata dai romanzi bretoni, in ispecie dal libro de Alexandre e dall’Alexandreis di Gautier: circostanze precise, intrecci, temi peculiari si corrispondono fino a dare adito a riproduzioni lessicali specifiche, per cui
l’Alessandro di Gautier è detto “vesanus” o “demens” così come il viaggio di Ulisse è detto folle. Ci riporta, inoltre, all’individuazione di fonti medioevali l’espressione perduto a morir gissi (cfr. ib. v. 84), spia scoperta di quello spirito avventuroso che connota tanta tradizione romanza e che viene rielaborato poeticamente da Dante in chiave squisitamente religiosa.
Perduto e folle sono pertanto i termini centrali e complessi del canto di Ulisse, da cui riteniamo di dover prendere avvio poiché essi connotano perfettamente l’esperienza senz’altro infruttuosa, ma non necessariamente negativa, dell’ardore temerario dell’intelletto attratto dal
mistero della conoscenza. Essi, infatti, in una forma estesa di medietas
linguistica si riferiscono tanto alla “calliditas” di Ulisse, tramandata a
Dante da Virgilio, da Seneca nelle Troades e da Stazio nell’Achilleide 6,
ed è questa – a nostro avviso – l’unica vera ragione della sua dannazione eterna, quanto alla sua “caliditas”, suffragata da tutte le altre fonti
già citate e recepita anche dall’arditezza dei versi del nostro canto:
“Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”
(ib. vv. 118-120)
Questi versi trovano precisa consonanza col trattato del Convivio,
in cui Dante conferma il giudizio del suo Aristotele, secondo il quale
“tutti gli uomini naturalmente desiderano di sapere” (Conv. I, 1), separando i bruti, che vivono solo per conservare se stessi e non aspira-
__________
6
196
Stazio, Achilleide: blandus, I, 911.
no ad elevarsi (Conv. III), dagli uomini, la cui ultima felicità è la scienza: non consiste, dunque, nel ricercarla la colpa di Ulisse, quanto nella sua mancanza di umiltà nel conseguirla; l’umiltà è infatti virtù propria dei magnanimi; lo stesso Dante sovente ne paventa l’insufficienza per se stesso ed è compito del magnanimo Virgilio incoraggiarlo a
varie riprese:
… “La tua preghiera è degna
di molta loda”…
(cfr. ib. v. 70-71)
Orbene, “magnanimo” – secondo S. Tommaso nel commento all’Etica Nicomachea – è chi non si affida al giudizio personale nel definire i propri meriti e soprattutto nel predisporsi all’azione, ma si rende, fuor di ogni presunzione, effettivamente degno di essa: magnanimi
sono gli spiriti del Limbo, raccolti in un luogo appartato e luminoso,
uomini che hanno lasciato di sé onrata nominanza 7; tutti pagani e tutti noti per la loro incessante ricerca di conoscenza, come emerge anche
dal canto III del Purgatorio in cui, a proposito del rapporto fra Fede e
Ragione, Virgilio rievoca con amarezza la finitezza propria e di quanti
condividono con lui lo stato di sospensione dalla Grazia:
“e disiar vedeste sanza frutto
tai che sarebbe lor disio quetato,
ch’etternalmente è dato lor per lutto:
io dico d’Aristotile e di Plato
e di molt’ altri”; e qui chinò la fronte,
e più non disse, e rimase turbato” . (Purg. III, vv. 40-46)
La magnanimità non garantisce pertanto la conoscenza, ma ne costituisce il pre-requisito indispensabile, ed è in antitesi con la follia, poiché
la prima è virtù cardinale, anzi summa di virtù che presiedono alla vita
attiva, simboleggiate da Dante nelle quattro stelle del polo antartico
“non viste mai fuor ch’a la prima gente”
(Purg. I, v. 24);
__________
7
Cfr. Inf. c. IV, v. 76.
197
esse brillano sul volto di Catone l’Uticense, anch’egli magnanimo pagano assurto ad allegoria della libertà morale dal peccato. Non è un
caso che sia proprio Catone , infatti, ad esortare Virgilio a recingere
Dante d’un giunco schietto, simbolo dell’umiltà, appunto, prima di
prender il monte a più lieve salita (Purg. I v. 108), perché è questa che
conforma l’accettazione del proprio destino alla volontà di Dio. L’altra, invece, la follia è eccesso di magnanimità, ossia la virtù che per arroganza e temerarietà trabocca, inabissandosi così dinanzi alla visione
della “bruna montagna” della salvezza che, tanto alta da apparire insormontabile alle potenzialità, per quanto eccelse, dell’uomo finito,
s’erge nel mondo sanza gente (cfr. ib. v. 117).
È senz’altro singolare che il folle volo di Ulisse (cfr. ib. v. 125) si riproponga anche nel canto XXVII del Paradiso, in cui il Poeta, guardando verso il basso dalla costellazione dei Gemelli, individua non
più le colonne d’Ercole, ma il varco/ folle di Ulisse (cfr. Par. XXVII,
vv. 82-83), quasi a voler sottintendere che il gesto di quell’uomo audace ha squarciato in realtà l’orizzonte, creando un varco, uno sfondamento, laddove la superstizione medievale aveva posto il limite:
“dov’ Ercule segnò li suoi riguardi
acciò che l’uom più oltre non si metta”
(ib. vv. 108-109) 8
Se Ulisse compie, dunque, un viaggio temerario, al di fuori della
giusta misura, in preda ad una libidine di conoscenza, per cui l’istinto naturale di sapere innato nell’uomo – secondo Aristotele – diviene
in lui quasi peccato di incontinenza, che sottomette la ragione al talento – secondo S. Tommaso –, dal canto suo Dante teme che la sua
venuta non sia folle (cfr. Inf. II v. 35), ossia esita ad intraprendere il
suo viaggio, avvertendolo come un colpevole ardimento: incide senz’altro sul suo atteggiamento quella disposizione filosofica scolastica
che fa intendere la virtù come freno morale, inducendolo ad affidarsi
umilmente a Virgilio, simbolo della ragione, che lo rassicura:
__________
8
Cfr. G. Leopardi, Ginestra vv. 82-86
...“e appelli...solo...magnanimo colui
che se schernendo o gli altri, astuto o folle,
fin sopra gli astri il mortal grado estolle.”
198
… “tre donne benedette
curan di te ne la corte del cielo”
(Inf. II, vv. 124-125)
Il consenso viene direttamente da Dio.
Ne consegue che il dovere dell’umiltà non è soltanto un precetto
cristiano, ma, precorrendo la cultura umanistica, è per Dante dote
dell’uomo in quanto tale. Ne godono infatti allo stesso modo Enea e
Paolo, l’uno pagano e l’altro cristiano, entrambi eletti ad un viaggio
esoterico in virtù della loro magnanimità.
“Io non Enëa, io non Paulo sono;
me degno a ciò né io né altri ’l crede”
afferma Dante nel II canto dell’Inferno (v. 32-33). Enea e Paolo sono
stati destinati entrambi alla conoscenza del mistero, l’uno proiettato
nella visione della progressione storica:
“ch’e’ fu dell’alma Roma, e di suo impero
ne l’empireo ciel per padre eletto:
la quale è ’l quale a voler dir lo vero,
fu stabilita per lo loco santo
u’ siede il successor del maggior Piero”
(Inf. II, vv. 20-24)
e l’altro, lo Vas d’elezione 9, rapito in un excessus mentis fino alla beatitudine del terzo cielo:
“Andovvi poi lo Vas d’elezïone ,
per recarne conforto a quella fede
ch’è principio a la via di salvazione”
(Inf. II, vv. 28-30) 10.
Quindi l’uno è depositario della felicità terrena, l’altro di quella
ultraterrena. Dante, che si interroga: “Ma io perché venirvi? O chi ’l
__________
9
Act. Apost. IX, 15 e Par. XXI, 127: “il gran vasello”.
Anche San Paolo nell’epistola ai Corinzi (II, XII, 4) dice di essere stato rapito in Paradiso e di avervi udito “arcana verba quae non licet homini loqui”.
10
199
concede?” (Inf. II v. 31) è immagine sincretica di entrambi: renovator orbis, è prescelto per grazia divina a compiere un viaggio allegorico attraverso la storia dell’umanità fino alla redenzione, chiamato alla conoscenza della storia terrena ed alla trasfigurazione escatologica di essa attraverso i vari regni oltremondani. Dante procede
pertanto, con l’ausilio della RATIO-Virgilio, ma soprattutto con l’autorizzazione della FIDES-la grazia, verso la conoscenza del mistero;
Ulisse, invece, è sollecitato dalla umana curiositas verso il mistero
della conoscenza: per il primo intercede S. Bernardo con la preghiera alla Vergine, poiché
…“qual vuol grazia e a te non ricorre,
sua disianza vuol volar sanz’ali”
(Par. XXXIII, v. 14-15),
l’altro accende l’animo dei compagni con un’ orazion picciola (ib.
v.122) e
“e volta nostra poppa nel mattino,
dei remi facemmo ali al folle volo”
(ib. v. 124-125).
Le immagini appena citate appaiono analoghe ed ossimoriche insieme: simmetrici sono i significati semantici della parola “preghiera”
e “orazione” 11, ma antitetiche sono le finalità di tali immagini, poiché
l’una, la preghiera di S. Bernardo, è rivolta ad ottenere la visione beatificante del mistero della Trinità, mentre l’altra, l’orazion picciola di
Ulisse, sostiene la causa della conoscenza, dello sconfinamento
… “in sul lito diserto,
che mai non vide navicar sue acque
omo, che di tornar sia poscia esperto” (Purg. I, vv. 130-132).
E ancora, le ali del desiderio di Dante, sostenute dalla volontà di-
__________
11
La parola preghiera è ripetuta per ben 6 volte dal v. 29 al v. 42 nel XXXIII
c. del Par., e 4 volte dal v. 64 al v. 70 nel XXVI c. dell’Inf. ed inoltre “prieghi” e
“priego” ricorrono sia come sostantivi che come forme verbali.
200
vina, lo conducono al conseguimento della vita eterna, mentre i remi
della nave di Ulisse sono le ali che gli fanno librare quel volo della follia in conseguenza del quale, volgendo le spalle alla Grazia, simboleggiata dal mattino (v. 124), egli vedrà la prora ire in giù, com’altrui piacque (v. 141) ed il mare richiudersi su di lui e sulla sua “picciola compagna” in una sentenza inesorabile di morte. Peraltro, l’immagine dei
“remi che sono ali alle navi” è un interessante calco dell’XI libro dell’Odissea, in cui compare il vaticinio del viaggio di Ulisse ad opera di
Tiresia:
“E quando i pretendenti nel tuo palazzo avrai spento
o con l’inganno, o apertamente col bronzo affilato,
allora parti, prendendo il maneggevole remo,
perché a genti tu arrivi che non conoscono il mare
non mangiano cibi conditi con sale,
non sanno le navi dalle guance di minio
né maneggevoli remi che sono ali alle navi” (vv. 119-125) 12
Il presagio di Tiresia si è avverato: Ulisse non è rimasto cristallizzato nell’opera di Omero, ma è l’eterno viaggiatore che, approdato
dopo vari scali nell’opera di Dante, da essa ha tratto nuovo impulso;
il suo naufragio non lo consegna alla morte, ma ad una vita rinnovata
nella letteratura mondiale. Molti autori si sono confrontati con il loro
Ulisse, personaggio concreto o fantasma del loro immaginario, che
può operare scelte di vita non consentite, che viola i luoghi comuni
del sapere e dell’essere, che osa percorsi mai tentati, che supera colonne d’Ercole invisibili.
Questa tensione romantica verso l’oltranza, che sembrerebbe risolversi in una volontà di rivolta contro l’ordine divino, ha creato intorno al personaggio di Ulisse un alone sentimentale che non appartiene realmente al testo dantesco, ma quest’alone è comunque ravvisabile in tanti altri Ulisse della letteratura dell’Ottocento e del Nove-
__________
12
Odissea, Einaudi Torino 1981 - trad. Rosa Calzecchi Onesti. Straordinaria
coincidenza per un poeta che ignora il greco.
201
cento, da cui spira un’aura prometeica o intimistica, assai più consona alle conflittualità moderne.
L’Ulisse di Foscolo è nel sonetto “A Zacinto”: l’eroe positivo appare come l’alter ego del poeta; come lui è bello di fama e di sventura,
è lontano dalla patria, di cui sente intensamente la nostalgia e, nell’atto di tornare alla sua petrosa Itaca, ne bacia devotamente il suolo.
Ulisse è, dunque, il fantasma di Foscolo che approda, che rinuncia al
viaggio e risolve finalmente il dramma esistenziale dell’esilio. Quest’Ulisse, solo apparentemente classico, è al contrario la trascrizione
sentimentale delle più profonde aspirazioni del poeta, ben lontano
dal personaggio mitologico dell’Iliade, che ricompare invece nella tragedia “Aiace” e nel carme “Dei Sepolcri”, in cui i tratti della tradizione più antica, ossia quelli del πολυ′τροπος, riemergono privi di filtri psicologici ed Ulisse torna così ad essere l’eroe della ragion di stato, l’uomo dal senno astuto:
“né senno astuto, né favor di regi
all’ Itaco le spoglie ardue serbava,
ché alla poppa raminga le ritolse
l’onda incitata dagl’inferni Dei”
(vv. 222-225)
Lo streben – l’ansia di assoluto – accomuna anche due personalità così diverse, come Ulisse e Leopardi; il confronto fra i due è ovviamente indiretto, ma i punti di consonanza tra l’Infinito di Leopardi e il folle volo dell’Ulisse dantesco ci sono apparsi degni di rilievo: la siepe leopardiana è il limite del finito che ostacola la vista,
ma non l’attingimento d’un infinito spaziale e temporale, colto dalla facoltà immaginativa dell’uomo, che dolcemente naufraga in un
mare interminato ed eterno. La foce stretta (cfr. ib. v. 107) segna anche nel nostro canto il limite invalicabile del mondo conosciuto: l’infinito oceano che si spalanca al di là di essa da l’altro polo (cfr. ib.
v. 127) è metafora della condizione ultraterrena che l’eroe antico,
pur con le sue straordinarie doti intellettive, non può navigare ed il
suo tentativo di farlo non si risolve in un dolce naufragar, ma nel timore della sconfitta:
“Noi ci allegrammo e tosto tornò in pianto” (cfr. ib. v. 136).
202
Al di là, quindi, del valore religioso o materialistico di questo infinito pur sempre metafisico, entrambi muovono da una intima sollecitudine di conoscenza, ma in Leopardi all'insufficienza dei sensi subentra il mi fingo, che sancisce il successo dell’attività del pensiero,
mentre in Ulisse all’esaltazione dell’ingegno fa seguito il fallimento
dell’esperienza sensibile:
“d’i’ nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperienza”
(cfr. ib. vv. 115-116).
Ma la trascrizione romantica più suggestiva dell’Ulisse dantesco è
quella operata dal poeta inglese A. Tennyson nel 1842: l’eroe ormai
vecchio, ma risoluto a non consumare l’ultima parte della sua esistenza nell’ozio, ad arrugginire non combusto, sceglie di vivere l’estrema
avventura della conoscenza:
“A che serve essere un re ozioso
davanti ad un focolare tranquillo…”
“ Non mi so frenare dal viaggiare: voglio bere
la vita fino alla feccia…”
Come l’Ulisse dantesco anche questo titano dell’Ottocento individua il senso della sua vicenda personale come parte della vita universale che è in lui:
“Io sono una parte di tutto ciò che ho conosciuto;
eppure tutta l’esperienza è un arco attraverso il quale
luccica il mondo inesplorato, i cui confini
sbiadiscono per sempre quando mi muovo”
To follow knowledge, seguire la conoscenza, dice il poeta, è dunque l’aspirazione dell’eroe e navigar fin oltre il tramonto, com’egli
stesso confessa ai fidi marinai, ormai vecchi come lui.
Le consonanze col testo dantesco non possono passare inosservate: il termine esperienza ricorre nel nostro canto al v. 116 nello stesso
contesto e con la stessa accezione, cui fa seguito quel seguir virtute e
canoscenza del v. 120, inteso proprio come tensione massima d’uno
203
spirito condannato entro i limiti della materia, che Dante peraltro individua nella brutalità del mondo animale; analoga ancora l’allocuzione ai marinai, compagni di cento mila perigli (cfr. ib. vv. 112-113),
a cui Ulisse fa intravedere il fascino di nuove conquiste; ma il rischio
connesso alla loro scoperta è tutto nuovo nell’Ulisse di Tennyson e rivela una malinconia latente, pur nell’enunciata speranza di raggiungere le Isole Felici, plaghe edeniche ben più ridenti della bruna mole
del Purgatorio dantesco.
La tempra di questo Ulisse è quella sentimentale e umana d’un
cuore eroico, reso debole dal tempo e dal destino, ma ancora forte nella
volontà di lottare interiormente, di cercare e trovare, senza mai arrendersi, senz’altro privo di quella superbia intellettuale che costringe
l’Ulisse dantesco alla morte.13
Per l’Ulisse di Dante e di Tennyson, dunque, esistere equivale a conoscere il mondo e se stessi (Tennyson: myself, v. 16); per l’Ulisse di
Pascoli invece, l’esistenza non è un viaggiare, ma un vagare senza meta e senza comprendere il valore del proprio essere:
“E il mare azzurro che l’amò, più oltre
spinse Odisseo, per nove giorni e notti,
(vv. 1-3)
e lo spinse all’isola lontana,” 14
È l’Ulisse dell’esistenzialismo decadente, che ripercorre la rotta dei
suoi viaggi, vecchio e stanco, non per librarsi nel folle volo, ma per approdare ad Ogigia, all’ isola deserta che frondeggia / nell’ombelico dell’eterno mare (vv. 43-44): un ritorno ai luoghi ancestrali della memoria
tra le braccia della “nasconditrice”, di Calypso, che è morte e madre 15:
“Era Odisseo: lo riportava il mare
alla sua dea: lo riportava morto
alla Nasconditrice solitaria,
all’isola deserta che frondeggia
__________
13
Cfr. A. Tennyson: Ulisse (vv. 68-70), parafrasi.
Pascoli: I poemi conviviali: L’ultimo viaggio, Calypso.
15
Significativo, quasi lapsus freudiano, è il termine ‘ombelico’ che rivela l’in14
204
nell’ombelico dell’eterno mare.
Nudo tornava chi rigò di pianto
le vesti eterne che la dea gli dava;
bianco e tremante nella morte ancora,
chi l’immortale gioventù non volle. (vv. 40-48)
Calypso è l’unica depositaria della risposta all’insistente interrogativo posto da Ulisse: “Chi sono io?” ed è lei che ulula sul flutto sterile
all’eroe:
“Non esser mai! non esser mai! più nulla,
ma meno morte, che non esser più” (vv. 52-54).
La sdegnosità di Ulisse nel canto dantesco, rivelata da Virgilio e
variamente interpretata dai critici 16, trova la sua più diretta estensione nel mito del superuomo, dell’Ulisside-D’Annunzio in Maia. Il vate si identifica con Ulisse e riproduce nel proprio viaggio in Ellade la
rotta esplorativa di Odisseo nello Ionio: in essa, però, viene meno la
dimensione umana dell’Ulisse dantesco che, uomo tra gli uomini, coinvolge il proprio equipaggio nell’esperienza de li vizi umani e del valore (v. 99), appellandolo o frati (v. 112) e li miei compagni (v. 121), riconoscendo la loro fedeltà e la loro amichevole complicità, fino ad assimilarli dal v. 125 nell’identità di soggetto. L’Ulisse superuomo sdegna invece la compagnia altrui, va alla ricerca dell’anima pagana del
mondo e proclama la propria smisurata grandezza, affidandola ai versi del poeta:
“e in me solo credetti.
Uomo, io non credetti ad altra
virtù se non a quella
__________
capacità di Pascoli di spezzare il cordone ombelicale con la madre. Altrettanto
significativo e spia della personalità dell’autore la traduzione etimologica di Calipso, che deriva dal verbo greco καλυ′πτω (nascondo).
16
Ch’ei sarebbero schivi, / perch’e’ fuor greci, forse del tuo detto (cfr. ib. vv. 74-75).
205
inesorabile d’un cuore
possente. E a me solo fedele
io fui, al mio solo disegno”.
“Nessuna cosa
mi fu aliena;
nessuna mi sarà
mai, mentre comprendo.
Laudata sii, Diversità
delle creature, sirena
del mondo!…
Tutto fu ambito
e tutto fu tentato
Quel che non fu fatto
io lo sognai;
e tanto era l’ardore
che il sogno eguagliò l’atto” 17.
In una situazione originale un Ulisse giovane ed uno vecchio si
confrontano nel componimento omonimo del Canzoniere di Saba. Il
giovane Ulisse, stranamente, si è negato l’esperienza del viaggio in alto
mare:
“ Nella mia giovinezza ho navigato
lungo le coste dalmate”
(vv. 1-2)
Il vecchio, invece, osa l’avventura:
“ me al largo
sospinge ancora il non domato spirito”
(vv. 11-12)
__________
17
D’Annunzio, Maia, L’incontro di Ulisse, vv. 55-60; La Sirena del mondo, vv.
43-49; vv. 106-111. Riguardo al termine “sirena” cfr. Cicerone, De finibus bonorum et malorum (V, 18, 48 e segg.) e Orazio, Ep. I, 2, 18.
206
In questo viaggio l’eroe-poeta abbandona i porti sicuri destinati ad
altri e si slancia al largo, senza sfuggirne l’insidia, disposto ad essere
travolto dall’alta marea e dalla notte (sono parole di Saba). Il solipsismo che caratterizza tanti eroi del Novecento è enfatizzato nel componimento dai versi:
“ Oggi il mio regno
è quella terra di nessuno”
(vv. 9-10)
Ma il vero πολυτρε′πων moderno, mimetico e multiforme è l’Ulisse-Leopold Bloom di J. Joyce, approdato solo fisicamente alla meta,
ma intellettualmente alla deriva tra i suoi pensieri, tra il passato ed il
presente in lui strettamente coesistenti: è un navigante senza rotta nei
vicoli di Dublino, senza punti di riferimento perché privo di punti di
vista, intento alla molteplicità dell’esperimento e non all’unicità dell’esperienza. Questo anti-eroe moderno, che calato nella quotidianità
si mostra a volte cinico, a volte sprovveduto, è uno spaccato di un’umanità in cui si sono sovvertiti i valori ed in lui “l’insignificante è il significativo, il volgare è l’eroico, il familiare è l’esotico e viceversa” 18.
Con l’Odissea di N. Kazanthzakis (1938) l’eroe classico ritorna a
vivere in un moderno poema epico greco, che trae inizio là dove si
conclude quello omerico: il tema sinfonico è costituito dalla riflessione sul destino umano, sulla libertà, sulla morte. La riflessione sul destino umano rende inquieto il re, che ritornato ad Itaca rifiuta l’ozio
ed i legami familiari, rappresentati dalla razionalità di Telemaco, per
intraprendere la conquista del mondo. In un primo appello ai suoi
marinai egli esalta il valore del viaggio come conquista della libertà:
“ Libertà non è vino, fratelli, né dolce donna
neppur benessere nelle dispense vostre e figlio in culla”
(Od. I, 54-55)
I versi riecheggiano quelli del nostro canto, già citati, dal 94 al
97; anche l’invito incalzante e ripetuto “Ehi, compagni di viaggio,
__________
18
D. Daiches: Storia della letteratura inglese, II, Garzanti, p. 730.
207
ai remi, il capitano giunge” (I, v. 70) richiama certamente il motivo dantesco e rivela l’amore dell’autore greco per la Commedia, da
lui tradotta e assimilata alle sue esperienze di viaggi e cultura. L’eroe omerico e dantesco di Kazanthzakis compie il suo viaggio, come avviene per Dante, sul piano fisico e metafisico, accostando luoghi e tempi lontani e tracciando un percorso ideale popolato di immagini e figure storiche: Sparta e Creta, S. Francesco e Buddha. Il
nostro insaziabile navigatore si perde nella sconfinata desolazione
del mare sopra un iceberg; su questa zattera, gli è compagna la
morte, con la quale affronta l’ultimo colloquio sul senso della vita.
La risposta che l’Ulisse di Kazanthzakis ci affida è un enigmatico
sorriso.
Se l’Odissea si configura come il racconto del νο′στος di Ulisse, il
rientro e l’approdo definitivo alle proprie origini ed ai propri affetti,
dal canto XXVI dell’Inferno in poi il peregrinare dell’eroe si realizza
come esodo, l’uscita del genio dai chiusi serrami delle porte della natura, per dirla con Lucrezio 19.
È esodo anche il viaggio di Dante: come il popolo eletto sotto la
guida di Mosè nel libro dell’Esodo si muove dalla cattività egiziana
per raggiungere la terra promessa, così Dante, dietro la scorta delle
sue guide, si libera dall’intrico della selva per giungere all’Empireo,
sede di Dio. Ma, a ben vedere, eccetto quello di Foscolo, è esodo il
viaggio di tutti gli Ulisse da noi esaminati; esodi di volta in volta diversi nello spirito e nelle mete: fughe, alienazioni, introspezioni, meditazioni esistenziali. In ognuna di queste svariate forme di viaggio
Ulisse si trascina dietro il fardello di esperienze personali, di cultura,
di sogni, frustrazioni ed inquietudini del suo autore, che inevitabilmente lo travolgono come fossero le onde di quel mare in cui egli continuamente si immerge. È per questo che nessun Ulisse ne viene fuori vittorioso o s’appaga d’un traguardo raggiunto e sembra fino in
fondo conseguire quella conoscenza del mondo e di sé di cui va alla
ricerca.
La risposta a questo disagio esistenziale, metaforicamente indivi-
__________
19
208
Lucrezio: De rerum natura, I, v. 71.
duato in Ulisse da tanti intellettuali, non la daremo noi, ma l’affideremo alle parole di Seneca:
…“Ti stupisci, come di un fatto strano, di non essere riuscito a dissipare la tristezza ed il tormento del tuo cuore con un viaggio così lungo e con la varietà dei luoghi da te visitati? devi mutare l’animo, non il
cielo. Anche se attraverserai il mare immenso […] dovunque andrai, i
tuoi vizi ti seguiranno. Ad un tale che rivolgeva la stessa domanda, Socrate rispose: ‘perché ti stupisci che i viaggi non ti rechino alcun giovamento, dal momento che porti in giro te stesso? Lo stesso motivo che ti
ha cacciato lungi dalla tua casa, non cessa di tormentarti’. Che sollievo
può darti visitare nuovi paesi, conoscere nuove città o contrade? Cotesta agitazione è vana. Tu chiedi perché pur vagabondando da un luogo
ad un altro non ti senti meglio? Vagabondi in compagnia di te stesso…
agiti un malato.” 20
L’unico vero naufrago che
“uscito fuor dal pelago a la riva
si volge a l’acqua perigliosa e guata”
(Inf. I, vv. 23-24)
è Dante; solo il suo viaggio è vero appagamento e vera conoscenza:
“Per correr miglior acque alza le vele
omai la navicella del mio ingegno,
che lascia dietro a sé mar sì crudele”
(Purg. I, vv. 1-3)
Siracusa, dicembre 1998
__________
20
Seneca: Ep. Ad Lucilium, III, 28.
209
210
PURGATORIO, c. XI
L’XI canto del Purgatorio è tra tutti quello che meglio si presta all’indagine sul mondo dell’arte duecentesca che ci accingiamo a trattare; è significativo che nel presentare i superbi si parli di arte, si discuta sul cambiare delle mode estetiche e sull’effimera vanagloria: perché
chi se non l’artista ha spesso la presunzione di sentirsi creatore e l’ambizione di rimanere eterno nella memoria dei secoli?
La figura centrale del canto è infatti Oderisi da Gubbio, noto miniatore del Duecento, e purtroppo assai meno conosciuto ai giorni
nostri, a cui Dante affida significativi giudizi critici sulla miniatura, la
pittura e la poesia contemporanee, facendo di lui quasi il depositario
della sua stessa concezione estetica. Il canto suddetto, inoltre, non è
isolabile dal precedente e dal seguente, coi quali costituisce un trittico di spiccato gusto medievale; e questi ultimi in particolare, attraverso le descrizioni dei bassorilievi che il poeta vi inserisce, ci consentono di volgere lo sguardo anche alla fioritura della scultura coeva
e di individuare in essa visibili contatti con la poetica dantesca.
Questo canto, insomma, studiato dalla critica per il Padre Nostro
iniziale o per la statura poetica dei tre personaggi che vi campeggiano
o ancora per l’allusione all’esilio di Dante, è per noi l’humus naturale,
dal quale far germogliare la folta messe delle arti figurative del tempo,
filtrate attraverso la sensibilità del poeta. La nostra intenzione è dunque
quella di farvi osservare l’arte dell’ultimo ventennio del Duecento attraverso la lente della Commedia, che la recepisce, la discute, la valuta
e spesso la trascende, sintetizzandola nei suoi singolari esiti poetici.
Infine, il canto dei superbi nel Purgatorio rimanda immediatamente a
quello dell’umiltà francescana nel Paradiso: la corrispondenza tra i canti
undicesimi delle due cantiche è innegabile ed emerge anche da alcuni richiami interni, quali gli echi francescani del Padre Nostro (laudato sia ’l
tuo nome e ’l tuo valore / da ogne creatura) o la stessa citazione bonaventuriana utilizzata a proposito di Provenzan Salvani (Omni verecundia deposita, mendicavit); ma a nostro avviso in quest’ottica si prospetta legittimamente anche un confronto con l’opera di Giotto ad Assisi, non a caso
chiamato in causa da Oderisi nella sua accorata esecrazione della vanagloria artistica. Sul valore autentico dell’umiltà, rappresentato in quegli
211
anni solo da S. Francesco, si confrontano Dante e Giotto, per confermare che la renovatio rerum comincia da qui, per diffondere attraverso due
linguaggi, l’uno esplicito, l’altro simbolico, il messaggio consegnatoci dal
Vangelo: “Beati i poveri di spirito, poiché di essi è il regno dei Cieli.” E se è
vero, come affermò il poeta greco Simonide di Ceo, che la poesia è pittura parlante e la parola è immagine della cosa, non v’è dubbio che la pittura di Giotto e la poesia di Dante abbiano concorso autorevolmente a consacrare il “mito” di S. Francesco, facendo l’uno della sua pictura quasi una
scriptura e l’altro della sua scriptura quasi una pictura.
Immaginate allora di entrare con noi in una cattedrale gotica, come
la Basilica superiore di Assisi, e di lasciarvi avvolgere dalla sua atmosfera mistica, docili e recettivi alle suggestioni che tutte le arti medievali riescono a trasmettere; solo così vedrete la poesia della Commedia.
Assisi, Basilica superiore di S. Francesco.
212
“O Padre nostro, che ne’ cieli stai,
non circunscritto, ma per più amore
ch'ai primi effetti di là sù tu hai,
laudato sia ’l tuo nome e ’l tuo valore
da ogne creatura, com’ è degno
di render grazie al tuo dolce vapore.
Vegna ver’ noi la pace del tuo regno,
ché noi ad essa non potem da noi,
s'ella non vien, con tutto nostro ingegno.
Come del suo voler li angeli tuoi
fan sacrificio a te, cantando osanna,
così facciano li uomini de’ suoi.
Dà oggi a noi la cotidiana manna,
sanza la qual per questo aspro diserto
a retro va chi più di gir s’affanna.
E come noi lo mal ch’avem sofferto
perdoniamo a ciascuno, e tu perdona
benigno, e non guardar lo nostro merto.
Nostra virtù che di legger s’adona,
non spermentar con l’antico avversaro,
ma libera da lui che sì la sprona.
Quest’ ultima preghiera, segnor caro,
già non si fa per noi, ché non bisogna,
ma per color che dietro a noi restaro”.
Così a sé e noi buona ramogna
quell’ ombre orando, andavan sotto ’l pondo,
simile a quel che talvolta si sogna,
disparmente angosciate tutte a tondo
e lasse su per la prima cornice,
purgando la caligine del mondo.
Se di là sempre ben per noi si dice,
di qua che dire e far per lor si puote
da quei c’hanno al voler buona radice?
Ben si de’ loro atar lavar le note
che portar quinci, sì che, mondi e lievi,
possano uscire a le stellate ruote.
“Deh, se giustizia e pietà vi disgrievi
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tosto, sì che possiate muover l’ala,
che secondo il disio vostro vi lievi,
mostrate da qual mano inver’ la scala
si va più corto; e se c’è più d’un varco,
quel ne ’nsegnate che men erto cala;
ché questi che vien meco, per lo ’ncarco
de la carne d’Adamo onde si veste,
al montar sù, contra sua voglia, è parco”
Le lor parole, che rendero a queste
che dette avea colui cu’ io seguiva,
non fur da cui venisser manifeste;
ma fu detto: “A man destra per la riva
con noi venite, e troverete il passo
possibile a salir persona viva.
E s’io non fossi impedito dal sasso
che la cervice mia superba doma,
onde portar convienmi il viso basso,
cotesti, ch’ancor vive e non si noma,
guardere’ io, per veder s’i’ ’l conosco,
e per farlo pietoso a questa soma.
Io fui latino e nato d’un gran Tosco:
Guiglielmo Aldobrandesco fu mio padre;
non so se ’l nome suo già mai fu vosco.
L’antico sangue e l’opere leggiadre
d’i miei maggior mi fer sì arrogante,
che, non pensando a la comune madre,
ogn’ uomo ebbi in despetto tanto avante,
ch’io ne mori’, come i Sanesi sanno,
e sallo in Campagnatico ogne fante.
Io sono Omberto; e non pur a me danno
superbia fa, ché tutti miei consorti
ha ella tratti seco nel malanno.
E qui convien ch’io questo peso porti
per lei, tanto che a Dio si sodisfaccia,
poi ch’io nol fe’ tra ’ vivi, qui tra ’ morti”.
Ascoltando chinai in giù la faccia;
e un di lor, non questi che parlava,
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si torse sotto il peso che li ’mpaccia,
e videmi e conobbemi e chiamava,
tenendo li occhi con fatica fisi
a me che tutto chin con loro andava.
“Oh!”, diss’ io lui, “non se’ tu Oderisi,
l’onor d’Agobbio e l’onor di quell’ arte
ch’alluminar chiamata è in Parisi?”.
“Frate”, diss’ elli, “più ridon le carte
che pennelleggia Franco Bolognese;
l’onore è tutto or suo, e mio in parte.
Ben non sare’ io stato sì cortese
mentre ch’io vissi, per lo gran disio
de l’eccellenza ove mio core intese.
Di tal superbia qui si paga il fio;
e ancor non sarei qui, se non fosse
che, possendo peccar, mi volsi a Dio.
Oh vana gloria de l’umane posse!
com’ poco verde in su la cima dura,
se non è giunta da l'etati grosse!
Credette Cimabue ne la pittura
tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,
sì che la fama di colui è scura.
Così ha tolto l’uno a l’altro Guido
la gloria de la lingua; e forse è nato
chi l'uno e l'altro caccerà del nido.
Non è il mondan romore altro ch’un fiato
di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi,
e muta nome perché muta lato.
Che voce avrai tu più, se vecchia scindi
da te la carne, che se fossi morto
anzi che tu lasciassi il ‘pappo’ e ’l ‘dindi’,
pria che passin mill’ anni? ch’è più corto
spazio a l’etterno, ch’un muover di ciglia
al cerchio che più tardi in cielo è torto.
Colui che del cammin sì poco piglia
dinanzi a me, Toscana sonò tutta;
e ora a pena in Siena sen pispiglia,
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ond’ era sire quando fu distrutta
la rabbia fiorentina, che superba
fu a quel tempo sì com’ ora è putta.
La vostra nominanza è color d’erba,
che viene e va, e quei la discolora
per cui ella esce de la terra acerba”.
E io a lui: “Tuo vero dir m’incora
bona umiltà, e gran tumor m’appiani;
ma chi è quei di cui tu parlavi ora?”.
“Quelli è”, rispuose, “Provenzan Salvani;
ed è qui perché fu presuntüoso
a recar Siena tutta a le sue mani.
Ito è così e va, sanza riposo,
poi che morì; cotal moneta rende
a sodisfar chi è di là troppo oso”.
E io: “Se quello spirito ch’attende,
pria che si penta, l’orlo de la vita,
qua giù dimora e qua sù non ascende,
se buona orazïon lui non aita,
prima che passi tempo quanto visse,
come fu la venuta lui largita?”.
“Quando vivea più glorïoso”, disse,
“liberamente nel Campo di Siena,
ogne vergogna diposta, s’affisse;
e lì, per trar l’amico suo di pena,
ch’e’ sostenea ne la prigion di Carlo,
si condusse a tremar per ogne vena.
Più non dirò, e scuro so che parlo;
ma poco tempo andrà, che ’ tuoi vicini
faranno sì che tu potrai chiosarlo.
Quest’ opera li tolse quei confini”.
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EXEGI MONUMENTUM AERE PERENNIUS
Critica ed estetica nella Commedia
“Oh vana gloria de l’umane posse!
com’ poco verde in su la cima dura,
se non è giunta da l’etati grosse!”
(Purg. XI, vv. 90-92)
Sulla dissennatezza degli uomini, che affidano alle proprie imprese la sopravvivenza laica del nome, si sofferma con queste parole Oderisi da Gubbio, interlocutore di Dante nella cornice dei superbi. Prima di lui il poeta ha incontrato Omberto Aldobrandeschi
e sempre da lui, in sequenza narrativa, gli sarà presentata l’anima silenziosa, ma imponente, di Provenzan Salvani; i tre fotogrammi, come nel sapiente montaggio di una pellicola cinematografica, costituiscono le trame drammatiche, ora loquenti ora silenti, della superbia umana, intrecciate tra loro da una comune esigenza di mortificazione per se stessi e nel contempo da un insopprimibile anelito di testimonianza per i vivi: “Ciò che esce dall’uomo, quello contamina l’uomo! Infatti dal di dentro, dal cuore degli uomini escono i
cattivi pensieri, dissolutezze, latrocini, assassini, adulteri, cupidigie,
cattiverie, frode, impudicizia, invidia, diffamazione, orgoglio, stoltezza.
Tutte queste cose malvagie vengono dal di dentro e contaminano l’uomo” (Marco 7, 20-23) 1.
È il dramma dell’uomo che proietta nei propri affetti (Omberto
Aldobrandeschi), materializza nelle proprie opere (Oderisi da Gubbio), manifesta nelle proprie azioni (Provenzan Salvani) le sfrenate
ambizioni del suo animo, nell’insensata presunzione di distinguersi
dai propri simili per sentirsi pari solo a Dio. Nella concezione morale di Dante il peccato di superbia è il più grave ed insidioso, poiché
all’origine della creazione e della stessa storia umana: è il peccato di
Lucifero, immortalato tra i bassorilievi del canto XII:
__________
1
In ciò consisterebbe il simbolico rapporto tra il canto XI del Purgatorio e
l’XI dell’Inferno, in cui Virgilio illustra a Dante la struttura morale dell’inferno,
secondo l’enumerazione evangelica.
217
“Vedea colui che fu nobil creato
più c’altra creatura, giù dal cielo
folgoreggiando scender, da l’un lato.”
(Purg. XII, vv. 24-26);
ed è il peccato di Adamo, per sanare il quale fu indispensabile l’umiltà di Maria, come si ammonisce negli altorilievi del canto X, vv.
34-45:
“L’angel che venne in terra col decreto
de la molt’anni lacrimata pace,
ch’aperse il ciel del suo lungo divieto,
dinanzi a noi pareva sì verace
quivi intagliato in un atto soave,
che non sembrava immagine che tace.
Giurato si saria che il dicesse “Ave!”;
perché iv’era imaginata quella
ch’ad aprir l’alto amor volse la chiave;
e avea in atto impressa esta favella
“Ecce ancilla Deï”, propriamente
come figura in cera si suggella”.
Perciò Omberto fa ammenda del suo orgoglio per l’antico sangue
(cfr. ib. v. 61) 2, riconoscendo in quel peccato come l’esantema di una
malattia (cfr. danno, v. 67; malanno, v. 69), che ha infestato la sua intera famiglia, trascinandola alla rovina
“Io sono Omberto; e non pur a me danno
superbia fa, ché tutti miei consorti
ha ella tratti seco nel malanno”.
(ib. vv. 67-69)
Oderisi rievoca quasi con rammarico quell’onore (cfr. ib. v. 84), già
__________
2
Della nobile e potente famiglia degli Aldobrandeschi, duchi di Santafiora e
della Maremma senese, fu signore di Campagnatico; proseguì la politica del padre Guglielmo contro i Senesi, con l’aiuto dei Fiorentini. Sulla sua morte, avvenuta nel 1259, si diffusero due versioni: in battaglia contro i Senesi o per mano
di sicari, pagati dagli stessi, nel suo letto.
218
attribuitogli con insistenza da Dante (cfr. ib. v. 80) 3, poiché, perduto
in parte sulla terra, dove egli mai avrebbe accettato l’eccellenza di altri, è ora la causa della sua espiazione ultraterrena in nome dell’eccellenza di Dio:
“Ben non sare’ io stato sì cortese
mentre ch’io vissi, per lo gran disio
dell’eccellenza ove mio core intese.
Di tal superbia qui si paga il fio;
e ancor non sarei qui, se non fosse
che, possendo peccar, mi volsi a Dio”
(ib. vv. 85-90).
Provenzan Salvani, curvo sotto il peso materiale che lo ingombra
per la spregiudicatezza dei suoi comportamenti politici 4:
…“cotal moneta rende
a sodisfar chi è di là troppo oso”
(cfr. ib. v. 125-126),
non parla, ma dichiara proprio col volume dimesso della sua gigantesca figura quanto le vanità terrene impallidiscano di fronte alla potenza del divino:
“La vostra nominanza è color d’erba,
che viene e va, e quei la discolora
per cui ella esce de la terra acerba”. (ib. vv. 115-117)
__________
3
Di questo miniatore, di cui poco si conosce, è attestata la presenza a Bologna tra il 1268 e il 1271, dove D. può averlo incontrato, e a Roma, dove morì nel
1299. Il Vasari, che non fornisce su di lui notizie dettagliate, gli attribuisce le miniature di molti libri della biblioteca papale.
4
Provenzan Salvani, capo dei Ghibellini di Siena, che governò nel 1260,cercò di ricondurre spregiudicatamente in suo potere la città. Significativa la sua
presenza nella vittoria di Montaperti; nel concilio di Empoli propose con altri la
distruzione di Firenze; fu ucciso dai Fiorentini nella battaglia di Colle Val d’Elsa nel 1269, in seguito alla quale i guelfi ripresero il potere a Siena, rimovendo
ogni ricordo di Salvani. Si racconta che si umiliò, chiedendo l’elemosina per pagare il riscatto di un amico (Mino dei Mini, Bartolomeo Saracini), fatto prigioniero da Carlo I d’Angiò nella battaglia di Tagliacozzo nel 1268.
219
I tre interlocutori di Dante, esemplari della superbia contemporanea in tutte le sue forme, sono incastonati come formelle di un fregio
architettonico sul monumento dell’espiazione, svettante al cielo come
una cattedrale gotica, ed inseriti su uno sfondo accuratamente predisposto da un sapiente scenografo, il poeta stesso, che fa di essi la sequenza centrale di un’ampia rappresentazione plastica del loro peccato nella continuità dei tempi. Nel canto precedente infatti, egli apostrofa i peccatori di superbia ancora in vita, allorché vede avanzare i
penitenti a passi radi (cfr. Purg. X, v. 100), rannicchiati sotto massi ingombranti (cfr. vv. 116-119), in atto di battersi il petto (cfr. v. 120):
“O superbi cristiani, miseri lassi,
che, de la vista de la mente infermi,
fidanza avete ne’ retrosi passi,
non v’accorgete voi che noi siam vermi
nati a formar l’angelica farfalla,
che vola a la giustizia sanza schermi?
Di che l’animo vostro in alto galla,
poi siete quasi antomata in difetto,
sì come vermo in cui formazion falla?”
(Purg. X, vv. 121-129)
La durezza dei versi è accentuata da vocaboli fortemente realistici,
come vermi, o da altri anche foneticamente aspri (infermi, retrosi,
schermi, etc.), che insistono, mutuando il linguaggio scritturale, sulla
mancata metamorfosi spirituale di quei miseri cristiani, incapaci, per
l’infermità della loro mente, di librarsi in volo quale angelica farfalla
fino a Dio; anzi da Dio si allontanano, volgendo indietro i passi, come a retro va chi più di gir s’affanna (cfr. ib. v. 15), regredendo alla
condizione innaturale di eterni insetti. Moniti spietati di tale soccombente realtà sono le immagini riprodotte nei bassorilievi, accuratamente descritti dal poeta nel canto XII, che simbolicamente i penitenti calpestano, come lastre di tombe terragne, costretti dalla loro infelice postura a contemplarli: il fulmineo precipitare di Lucifero giù
dal cielo; poi Briareo, fitto dal telo / celestial giacere (vv. 28-29) e le
membra d’i Giganti sparte (v. 33); Nembrot, il costruttore della torre
di Babele, a pie’ del gran lavoro / quasi smarrito (vv. 34-35); e Niobe,
che osò schernire Latona per aver messo al mondo solo due figli,
220
Apollo e Diana, con occhi dolenti (v. 37), tra sette e sette suoi figlioli
spenti (v. 39); Saul, morto in su la propria spada (v. 40), dopo essere incorso nell’ira divina per la sua superbia ed essere stato sconfitto a
Gelboè dai Filistei; ed ancora Aragne, trasformata in ragno da Minerva ch’ella aveva sfidato, e Roboamo, figlio di Salomone, che pien
di spavento fugge su un carro, senza ch’altri il cacci (vv. 47-48) dopo la
sollevazione del popolo di Israele; di Erifile, madre di Alcmeone e
moglie di Anfiarao, di cui ella rivelò il nascondiglio e determinò la
morte nella guerra contro Tebe, Dante non parla, ma a lei allude con
il riferimento alla collana, lo sventurato addornamento (v. 51), che le
era giunto in eredità da Venere e che fu infausta a tutte le donne che
la indossarono; ed ancora l’uccisione di Sennacherib per mano dei figli, lo scempio del cadavere di Ciro, assetato di sangue; la decapitazione di Oloferne e la distruzione del superbo Ilion (cfr. Inf. I, v. 75).
Fra i tredici esempi di superbia punita episodi tratti dal mito si alternano con altri desunti dalla storia antica precristiana, quasi a sottolineare la inammissibilità di tale peccato dopo la Rivelazione di Cristo
che non venne per essere servito, ma per servire (Mt. 20,28) ed inoltre
essi figurano in altrettante terzine che iniziano con le lettere V (iniziale della parola vedea), O (vocativo) ed M (iniziale della parola mostrava) e ciascun lessema è ripetuto in anafora per quattro volte consecutive; i tre versi dell’ultima terzina, infine, riprendono in posizione iniziale le parole suddette, a formare visibilmente l’acrostico
UOM: con un’ardita concorrenza di simboli grafici e plastici insieme,
Dante rende più efficace il suo sarcastico giudizio verso quegli uomini che attribuiscono ingiustificato pregio alla loro infima condizione
umana:
“Or superbite, e via col viso altero,
figliuoli d’Eva, e non chinate il volto
sì che veggiate il vostro mal sentero!”
(Purg. XII, vv. 70-72).
Al contrario, gli esempi di umiltà premiata si stagliano sulla parete della montagna, in posizione visibile anche a chi procede a capo
chino, a voler rimarcare l’antitesi evangelica che chi si esalta, sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato (cfr. Mt. 23,12). Tali rilievi sembrano
costituire un trittico medievale, che compendia tutta la storia dell’u221
manità in tre complesse figurazioni; in esse è possibile ravvisare non
solo il dato reale, ma anche il significato allegorico, il riferimento agli
eventi moderni, le aspettative del futuro. Così modello assoluto di
umiltà è Maria, umile e alta più che creatura (cfr. Par. XXXIII, v. 2), la
cui suprema virtù trascende l’umano:
“Tu se’ colei che l’umana natura
nobilitasti sì, che ’l suo fattor
non disdegnò di farsi sua fattura”
(Par. XXXIII, vv. 4-6),
poiché l’Onnipotente 5 ha fatto di Lei il termine fisso del suo etterno
consiglio, scegliendola fin dall’inizio dei tempi come discrimine tra il
peccato e la redenzione 6. L’annunzio dell’angelo a Maria precede
l’immagine scolpita di Davide, l’umile salmista che, trescando alzato e
men che re (cfr. Purg. X, vv. 65-66), si umilia rendendo omaggio a l’arca santa e manifestando in tal modo la letizia della fede 7. Davide è,
dunque, il credente in Cristo venturo, che rappresenta l’attesa fiduciosa dell’evento realizzato da Maria; egli diviene, in prospettiva, figura di Cristo stesso e l’Arca santa, presso cui esulta nella iconografia
medievale, è figura della Chiesa raminga, vittima delle persecuzioni
prima, ma anche della cattività avignonese all’epoca del poeta. Infine,
l’imperatore Traiano, nella storia cristiana, col suo esemplare gesto di
carità nei confronti della vedovella che attendeva da lui giustizia per
il figlio 8, per intercessione di Papa Gregorio Magno, si rende meritevole di essere tratto dall’Inferno e di godere della grazia di Dio tra gli
spiriti giusti, dove insieme a Davide, re di Israele, rappresenta allegoricamente la giustizia umana:
“Dei cinque che mi fan cerchio per ciglio,
colui che più al becco mi s’accosta,
la vedovella consolò del figlio:
__________
5
Cfr. il Magnificat, Luca I, 46-55.
Cfr. Par. XXXIII, vv. 3-12.
7
Si può facilmente riscontrare un’eco francescana nell’immagine di Davide,
giullare di Dio.
8
Cfr. Purg. X, vv. 82-93.
6
222
ora conosce quanto caro costa
non seguir Cristo, per l’esperïenza
di questa dolce vita e de l’opposta”
(Par. XX, vv. 43-48).
Per una tortuosa Via Crucis procedono dunque le anime dei penitenti, soffermandosi di volta in volta nella contemplazione di queste
stazioni che mortificano la loro presunzione, esortandole alla contrizione; la fase culminante di questa teoria, che compendia i momenti
fondamentali del sacramento della riconciliazione, quello della contritio cordis e della satisfactio operis, è costituita dalla confessio oris:
essi confessano apertamente la loro stoltezza, intonando il Padre Nostro, la preghiera per eccellenza, pronunziata nello spirito evangelico.
La preghiera dei superbi è un atto formale di sottomissione alla volontà divina e di accettazione dei limiti umani; proclama con suggestivi echi francescani la nuova disposizione delle anime purganti a riconoscere in Dio l’unico Padre di tutti gli esseri e risuona quale caritatevole augurio per i viventi:
“Così a sé e noi buona ramogna
quell’ombre orando, andavan sotto ’l pondo,
simile a quel che talvolta si sogna,
disparmente angosciate tutte a tondo
e lasse su per la prima cornice,
purgando la caligine del mondo”. (ib. vv. 25-30)
Il Padre Nostro si risolve dunque per contrappasso in un suffragio
rovesciato: quella medesima invocazione a Dio che sulla terra anticipa e prefigura la condizione delle anime purganti, nell’oltretomba è
volta ad ottenere generosamente la salvezza per i vivi:
“Se di là sempre ben per noi si dice,
di qua che dire e far per lor si puote
da quei ch’hanno al voler buona radice?”
(ib. vv. 31-33).
È singolare che il poeta concentri proprio nella trilogia dei superbi (c. X, XI, XII) tante sollecitazioni sull’arte contemporanea: lungi
dal supporre che il poeta ritenga l’arte in sé un bene effimero, sog223
getto a “trascolorare” con il trapassar dei tempi, purché non sopraggiunto da età di decadenza (perché è piuttosto la fama, la nominanza
a trascolorare), siamo anzi obbligate a riconoscere che l’intera sequenza fornisce sotto vari aspetti un’attenta ed appassionata disamina dell’arte medioevale nelle sue diverse forme espressive, la scultura,
la miniatura, la pittura e la poesia, alle quali tutte è sotteso il criterio
estetico già formulato nel Convivio 9: “Quella cosa dice l’uomo essere
bella, le cui parti debitamente rispondono, perché dalla loro armonia resulta piacimento”. Pertanto la contemplazione dell’opera d’arte, la cui
bellezza nasce dall’armonica rispondenza delle parti, produce in primo luogo un piacere sensibile, il quale, ingenerando un soverchio desiderio di guardare, si sublima in una forma di conoscenza intellettiva 10. Ora, “siccome la bellezza del corpo resulta dalle membra, in quanto sono debitamente ordinate; così la bellezza della sapienza (…) risulta dall’ordine delle virtù morali, che fanno quella piacere sensibilmente” 11. All’interno di questa circolarità che dal piacere del BELLO, attraverso l’interpretazione razionale, approda al piacere del BENE 12, si
realizza quello stesso climax ascendente, ma simultaneo, che Dante
individua nell’interpretazione delle scritture, quando dal testo “literale” 13; attraverso l’interpretazione allegorica 14, si approda al significato morale 15.
Ciò detto, il poeta non avrebbe potuto non condividere la con-
__________
9
Cfr. Convivio I, V, 13.
Cfr. Convivio, III, 15, 4 “E in questo sguardo solamente la umana perfezione s’acquista, cioè la perfezione della ragione, dalla quale, siccome da principalissima parte, tutta la nostra essenza dipende, e tutte l’altre nostre operazioni, sentire,
nutrire, e tutte sono per questa sola, e questa è per sé e non per altri”.
11
Cfr. Convivio III, XV, 11.
12
Cfr. Convivio III, XV, 12: “…appetito diritto, che si genera nel piacere della
morale dottrina, il quale appetito ne diparte eziandio dalli vizi naturali, nonché dagli altri”.
13
Cfr. Convivio II, 1 ,3 “…e questo è quello che non si stende più oltre che la
lettera de le parole fittizie, sì come sono le favole de li poeti”.
14
Cfr. Convivio, II, 1, 4 : “…e questo è quello che si nasconde sotto ‘l manto di
belle favole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna…”.
15
Cfr. Convivio II, 1, 5: “…e questo è quello che li lettori deono intentamente
andare appostando per le scritture, ad utilitade di loro e di loro discenti…”.
10
224
cezione artistica medievale, sostenuta anche da Gregorio Magno,
della pictura quasi scriptura, ossia della valenza educativa dell’arte figurativa che per gli illetterati assolve la medesima funzione formativa che la letteratura svolge presso i dotti. In tal senso vengono concepite le sculture della prima cornice: le immagini riprodotte in
marmo candido, che mette maggiormente in luce la perspicuità degli esempi, favoriscono nei penitenti la conoscenza del peccato e li
inducono all’edificazione morale. E non basta, perché in esse si concreta anche lo quarto senso che “si chiama anagogico, cioè sovrasenso; e questo è quando spiritualmente si spone una scrittura, la quale
ancora sia vera, eziandio nel senso letterale, per le cose significate significa de le superne cose de l’etternal gloria.” 16: ed infatti gli episodi che vi sono raffigurati rimandano ad un evidente significato mistico, cioè a quella prospettiva ultraterrena ed atemporale che, ravvisabile già negli eventi del passato, si realizza compiutamente nella
condizione presente delle anime purganti e si proietta quale tensione catartica per tutte le genti a venire
“…per color che dietro a noi restaro” (cfr. ib. v. 24).
Il gusto classico, a cui esse si ispirano, rievoca quello delle metope
degli antichi templi, concettualmente connesse al culto religioso a cui
il monumento era consacrato. Nei rilievi del Purgatorio si rivela dunque perfettamente l’ideale scultoreo dell’autore, che è sintesi di realismo gotico, che equivale alla rappresentazione testuale, di simbolismo
romanico, che corrisponde all’interpretazione allegorica, e di misura
classica, quel godimento sensibile dell’armonia che determina la purificazione morale. Essi sono infatti dotati di una straordinaria corporeità e comunicatività, tali da trasmettere percezioni ottiche (cfr.
Purg. XII: vedea… etc.), uditive (cfr. Purg. X vv. 39-40; 43-44), tattili (v. 45) ed olfattive (vv. 61-63), talora anche sinestetiche, non solo ai
fruitori diretti, ossia gli stessi penitenti, ma anche ad un più vasto
pubblico, sia implicito che reale, di lettori, ai quali pare di vedere,
udire, cogliere attraverso la parola del poeta la plasticità delle imma-
__________
16
Cfr. Convivio II, 1, 6.
225
gini ed insieme il loro significato morale 17. Siamo solo apparentemente al cospetto di un livello primario di comunicazione artistica; se è
vero che la scultura concorre più attivamente delle altre forme espressive alla contemplazione dei contenuti morali, perché il vero conosciuto attraverso il realismo dei corpi artificiali prefigura il bene desiderato (S. Tommaso) 18, è indubbio, però, che nel Purgatorio tale comunicazione passi ai riceventi grazie alla mediazione poetica di Dante, il quale si fa sensibile interprete di un’opera di cui Dio stesso è l’emittente:
“Colui che mai non vide cosa nova
produsse esto visibile parlare,
novello a noi perché qui non si trova”
(Purg. X, vv. 94-96)
e con un’iperbole efficace e veritiera proclama la perfezione dell’opera creatrice di Dio al di sopra di qualunque imitazione umana: non solo Policleto, colui che determinò il canone della scultura classica, ma
la natura stessa si riconoscerebbero vinti dalla sapiente creazione di
Dio, poiché se l’arte classica è imitazione della natura (µι′µησις aristotelica) e la natura è emanazione concreta dell’idea divina (Platone),
nel Purgatorio è lo stesso Demiurgo-Dio che è sommo artefice sia della natura che dell’arte:
“Là su non eran mossi i piè nostri anco,
quand’io conobbi quella ripa intorno
che dritto di salita aveva manco,
__________
17
Cfr. F. De Sanctis, Lezioni e saggi su Dante, pp. 338-40: “trascinato dall’istinto poetico, il poeta ha sforzato la natura del marmo e datogli movimento e successione…ha trasformato il marmo in parola; ha immaginato un marmo poetico
che si muove e cangia: scultura umanamente assurda, epperò il poeta la chiama miracolosa opera di Dio, e la divinità della scultura non è altro se non la scultura innalzata a poesia e fatta parola”.
18
Ecco perché nell’inferno, a nostro giudizio, non compaiono opere d’arte
d’alcun genere; la deformità dell’anima dei dannati è insensibile al richiamo estetico e pedagogico dell’arte, la quale in nulla potrebbe modificare la loro condizione di disumana brutalità.
226
esser di marmo candido e addorno
d’ intagli sì, che non pur Policleto,
ma la natura lì avrebbe scorno”
(Purg. X, vv. 28-33).
Ed infatti nel contemplare l’imagini di tante umilitadi (Purg. X,
v. 98), gli occhi del poeta si dilettano di mirare (v. 103) la straordinarietà dell’arte divina, pregna di novitadi (v. 104) sia nella forma
che nel significato. Questo insistere di Dante sui termini cosa nova,
novello, novitadi ed il suo stesso sincretismo artistico sono chiaro sintomo del suo modernismo culturale, che nel modello scultoreo è anticipato dalle recenti soluzioni formali adottate da Nicola e Giovanni Pisano e da Arnolfo di
Cambio, artisti assai noti
sin dalla metà del ’200
nell’Italia centro-settentrionale, ai quali si deve
in gran parte se la scultura si era affermata come
arte-guida dell’epoca: la
ricezione luminosa accentua nelle loro opere la
plasticità delle figure, deGiovanni Pisano: Strage degli innocenti (parterminandone
la dinamiciticolare del pulpito della chiesa di S. Andrea a
tà spaziale e la complessiPitoia).
Arnolfo di Cambio: Monumento Annibaldi, S. Giovanni in Laterano, Roma
(1276-77) Processione di Chierici.
227
tà drammatica 19.
Forse anche dietro la suggestione
dei loro pregevoli
manufatti,
Dante immagina
gli spiriti dei superbi come vere
e proprie cariatidi, assimilate all’impianto scultoreo di questa cattedrale del pentiNicola e Giovanni Pisano: fontana di piazza a Perugia mento (la montagna del Purgato(1275-78),
rio), di cui, secondo il sistema architettonico romanico e gotico, essi sostengono la
possente struttura: la spinta ascensionale si ottiene, dunque, dall’equilibrio dei due sistemi di forze, l’una legata alla terra, verso cui
umilmente converge lo sguardo dei penitenti-telamoni, l’altra che,
tesa verso il cielo, è sostenuta dalla loro intima tensione all’ascesi:
“Come per sostentar solaio o tetto,
per mensola talvolta una figura
si vede giugner le ginocchia al petto,
la qual fa del non ver vera rancura
nascer in chi la vede; così fatti
vid’io color, quando puosi ben cura”.
(Purg. X, vv. 130-135)
Se la scultura, inserita in strutture architettoniche, costituisce in
__________
19
Cfr. G.C. Argan: Storia dell’arte italiana, Sansoni vol. I, pag. 343: “La luce
di Giovanni (Pisano) è divina e penetrante come quella del Paradiso di Dante, nemica di tutto ciò che è inerte ed opaco, distrugge della figura tutto ciò che non è vita spirituale, moto, tensione…La scelta formale di Giovanni è ben chiara: dal ‘sistema’ di Nicola isola ed accentua la componente gotica e moderna, così come Arnolfo isola ed accentua la componente classica o antica”.
228
epoca medievale il livello più immediato di comunicazione sia estetica che morale, le arti di cui Dante discetta con Oderisi nel nostro canto rappresentano senz’altro una forma più elevata ed elitaria di messaggio artistico.
Oderisi è un miniatore assai conosciuto ai suoi tempi, nonostante la sua arte fosse considerata minore, non certo per lo scarso
pregio, quanto piuttosto per la sua limitata diffusione, ascrivibile
sia alla rarità dei testi istoriati, sia al ristretto ambito sociale di
fruizione. I miniatori, spesso monaci dediti all’illustrazione di
manoscritti, destinavano la loro attività all’apprezzamento di chierici, adusi all’utilizzazione di libri preziosi, come Exsultet, lezionari, salteri e Bibbie istoriate; ad intellettuali, in grado di comprendere la ricercatezza dei disegni; o, infine, a facoltosi aristocratici o mercanti, a cui era possibile acquistare oggetti rari ed
esclusivi, esibiti come status symbol. Gli stessi materiali utilizzati,
come l’oro, l’argento, il minio, contribuivano al valore commerciale di questa “pittura colta”, riproducente in scala ridotta temi
Nicolò Di Giacomo: ms. 603 c. CLIX.
Museo civico medievale, Bologna.
Nicolò Di Giacomo: ms. 603 c. CXXV.
Museo civico medievale, Bologna.
229
iconografici e narrativi analoghi a quelli musivi, di gusto squisitamente bizantino.
Oderisi rappresenta presumibilmente questa tendenza orientaleggiante, ancora persistente all’età di Dante, ed utilizza una gamma
cromatica calda e intensa, che spazia dal carminio all’azzurro oltremare, all’oro e al bianco, con l’intento di realizzare, come sostengono
le recenti attribuzioni di alcuni studiosi 20, figure ispirate ad elementi
non solo simbolici, ma anche reali, attinenti alle Scritture. Non v’è
dubbio, dal colloquio che intercorre tra i due, che il nostro riconosca
all’amico degli anni bolognesi il ruolo indiscusso di caposcuola, poiché lo apostrofa come:
“l’onor d’Agobbio e l’onor di quell’arte
ch’alluminar chiamata è in Parisi ”
(ib. vv. 80-81);
e nello stesso tempo allude all’effetto luminoso delle sue miniature,
sottolineando l’etimologia del francese alluminar da aluminium (alume o allume), cioè la sostanza metallica che dà lucentezza ai colori. Si
discute piuttosto sulla tecnica utilizzata da Oderisi, che egli stesso in
seguito rapporterà a quella di Franco Bolognese:
“Frate”, diss’elli, “più ridon le carte
che pennelleggia Franco Bolognese;
l’onore è tutto or suo, e mio in parte”.
(ib. vv. 82-84)
Ciò farebbe pensare ad un tocco più ampio “pennelleggiato”
da Franco Bolognese rispetto alla più calligrafica definizione del
tratto utilizzata da Oderisi: si configurerebbe perciò una modernizzazione anche nell’arte della miniatura, per cui le carte di Bolognese risultano più vivaci e per la tecnica e per l’introduzione
di nuove tinte, come il verde, il giallo, l’ocra, il celeste, lo smeraldo 21. Il “rider de le carte”, a cui Dante si riferisce a proposito
di Franco Bolognese trova peraltro un riscontro significativo ed
__________
20
21
230
Castelfranco, Longhi, Bottari e Venturi.
Cfr. Giovanni Fallani, Il canto della vanagloria, in L’Alighieri, I, 1961.
un chiarimento teorico nel Convivio 22: “E che è ridere, se non una
corruscazione della dilettazione dell’anima, che è un lume apparente
di fuori secondo che sta dentro?”. La novità dell’arte consisterebbe allora nell’esternazione del diletto dell’anima, che si manifesta
come lume, una luce corrusca, effusa con dovizia, lontana dalle
stilizzazioni bizantine e sarebbe dunque paragonabile alla modernità dello Stilnovo rispetto alle poetiche precedenti, come il
poeta stesso puntualizza nel canto XXIV della stessa cantica, in
occasione del colloquio con Bonagiunta Orbicciani, il quale così
lo interpella:
“Ma dì s’i’ veggio qui colui che fore
trasse le nove rime, cominciando
“Donne ch’avete intelletto d’amore”.
E io a lui: “I’ mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch’e’ ditta dentro vo significando”. (Purg. XXIV, vv. 49-54)
Il “sorriso”, di cui parla Dante nel Convivio, non è altro che
l’espressione artistica, intesa quale rappresentazione immediata e
sublime dell’ispirazione interiore, in un’operazione complessa in
cui l’artista è l’interprete, il notarius, che trascrive in segni visibili la trascendenza del dettato d’Amore. E non è solo Bonagiunta ad esser consapevole del distacco tra il proprio stile e questo novo, com’egli stesso ammette nei versi successivi del canto
succitato:
“O frate, issa vegg’io”, diss’elli, “il nodo
che ’l Notaro e Guittone e me ritenne
di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo!” (Purg. XXIV, vv. 55-57),
ma anche con lo stesso Guinizzelli Dante riafferma nel canto XXVI
del Purgatorio la modernità della poesia stilnovistica, attraverso un
toccante dialogo che per molti versi sembra rievocare quello con
__________
22
Cfr. Convivio III, VIII, 11.
231
Oderisi. Guinizzelli, infatti, riconosciuto espressamente da Dante
come
… “il padre
mio e de li altri miei miglior che mai
rime d’amor usar dolci e leggiadre;” (cfr. Purg. XXVI, vv. 97-99) 23
ossia come iniziatore della nuova maniera poetica, quasi con pudore
si schernisce, additando in Arnaldo Daniello il più rappresentativo
poeta di lingua romanza e definendolo miglior fabbro del parlar materno (cfr. Purg. XXVI, v. 117). Così, chi contrappone ad Arnaut Danielh il lemosino Giraut de Bornelh commette lo stesso errore di chi
continua a proclamare la supremazia di Guittone:
“Così fer molti antichi di Guittone,
di grido in grido pur lui dando pregio,
fin che l’ha vinto il ver con più persone.” (Purg. XXVI, vv. 124-126).
Da tali considerazioni emerge un possibile parallelismo tra le diverse
personalità: Oderisi sta a Guittone, come Franco Bolognese sta a Guinizzelli, per cui l’indubbio merito di aver dato vita ad uno stile non ne
garantisce per Dante la perpetuità, ma anzi il superamento delle scelte
culturali dei predecessori operato dai due bolognesi conferma in lui l’intimo convincimento della necessità del progressismo in arte, nella certezza che l’affinamento degli strumenti concettuali ed espressivi rispecchi il raffinamento dei valori umani.
Anche la pittura, nelle parole di Oderisi, segna il medesimo mutamento:
“Credette Cimabue ne la pittura
tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,
sì che la fama di colui è scura.”
(ib. vv. 94-96)
__________
23
All’atto di umiltà di Oderisi e di Guinizzelli fa riscontro quello di Dante
stesso, che in questo passo di critica militante riconosce la superiorità d’ingegno
degli amici Guido Cavalcanti e Cino da Pistoia.
232
Le due tendenze neoellenistiche, la metropolitana o aulica, dal
sentimento più contenuto, e la provinciale, più concitata e irregolare,
dal vigore evocativo più intenso e drammatico, convivono nella pittura di Cimabue, attivo a Firenze fino al 1280 e presumibilmente ad Assisi tra il 1280 e il 1290 24; è nella fabbrica di Assisi, infatti, che vengono più direttamente a contatto il maestro Cimabue ed il suo allievo
Giotto e che meglio si differenziano le loro rispettive tecniche pittoriche. Cimabue, epigono del gusto bizantino “scabroso, goffo e ordinario” (Vasari), inizialmente eredita nel suo tratto inquieto i caratteri
fortemente icastici della pittura di Coppo di Marcovaldo, di cui apprezza nel Battistero di Firenze la decorazione musiva, a cui anch’egli
in seguito parteciperà.
Nel famoso Giudizio Universale di Coppo, l’Inferno, che anche
Dante sembra riprodurre nei gironi di Malebolge, accentua in senso
Coppo di Marco Valdo: Inferno - part. del Giudizio Universale, mosaico Battistero di Firenze (c. 1260-70).
__________
24
Unici dati certi della biografia di Cenni di Pepo, detto Cimabue, sono la
presenza a Roma nel 1272 e la morte nel 1302, presumibilmente a Pisa.
233
macabro e grottesco l’espressionismo irruente della maniera greca,
traducendo in forme ripetitive ed ossessive, con colori intensi e contrastanti, la drammaticità popolare tipica delle laude religiose umbre
e toscane e delle sacre rappresentazioni.
La stessa tensione passionale di Coppo è infatti nella poesia di Jacopone da Todi, la cui carica emotiva “esmesurata” si risolve in toni
ruvidi e apocalittici e financo nel ricorso ad accenti polemici violenti
e dissacranti:
“Omo, mittete a pensare
onne te ven lo gloriare.
Omo, pensa de che simo
e de che fommo e a che gimo
ed en che retornarimo;
ora mittete a cuitare…”
(J. da Todi, Omo, mittete a pensare, vv. 1-6)
Cimabue:
Crocifisso
di S. Croce
a Firenze
(1280 c.)
234
Se l’opera di Coppo è paragonabile alla poesia di Jacopone (1230/361306), la pittura di Cimabue è raffrontabile alla produzione letteraria
coeva di Guido Cavalcanti (1250-1300): entrambi risentono di spinte irrazionalistiche che l’uno traduce in un sapiente effetto di chiaroscuri, in
cui, come nel Crocifisso di Santa Croce a Firenze, gli spazi e le profondità si intuiscono per il gioco delle ombre ed il panneggio immateriale è
modellato sul corpo come un involucro luminoso; l’altro invece le trascrive in un impianto letterario-filosofico che risente del materialismo
averroistico, sconfessato però dall’aspirazione inconsapevole ad un ineffabile contatto con l’Assoluto: il chiaroscuro di Cimabue sembra avere
la stessa valenza del misticismo eretico di Cavalcanti, nel quale al laicismo della ragione si oppone la tensione metafisica dello spirito:
“Non fu sì alta già la mente nostra
e non si pose in noi tanta salute,
che propiamente n’aviàn canoscenza.”
(G. Cavalcanti, Chi è questa che vèn…, vv. 12-14)
Il confronto tra i due appare ancor più visibile nella Crocifissione
del transetto sinistro della Basilica superiore di Assisi: in essa Cristo,
maestoso nelle sue proporzioni gigantesche, campeggia sullo sfondo di
un cielo affollato di angeli dolenti, nel piano superiore, e, nel piano inferiore, di figure esasperate, il cui strazio è reso più eloquente sui volti dal viraggio dei colori 25. L’immagine schiacciata, priva di profondità, conferisce maggior risalto alla figura centrale che, collegando cielo
e terra, partecipi di uno stesso dolore, concentra su di sé la focalizzazione dei rimiranti ed appare come svuotata dello spirito vitale, impressosi piuttosto negli spiritelli svolazzanti, quasi fossero le facoltà
sensitive che abbandonano il corpo trafitto di Cristo in croce. Torna alla memoria l’esperienza tutta umana, ma egualmente tormentata, di alcuni testi di Cavalcanti, in cui il topos letterario di Amore e Morte è
raffigurato con analoga soluzione descrittiva: l’io poetico in primo piano patisce una sofferenza mortale determinata dalla trafittura d’amo-
__________
25
Per il viraggio dei colori l’affresco appare come un negativo fotografico: le
tinte chiare sono diventate scure e viceversa.
235
Cimabue: Crocifissione, Assisi, Basilica Sup. (1288 c.).
re e i deboletti spiriti, disertandone la mente ed il corpo, lo abbandonano in una condizione letale d’indicibile sgomento:
“È ven tagliando di sì gran valore,
che’ deboletti spiriti van via:
riman figura sol en segnoria
e voce alquanta, che parla dolore”.
(G. Cavalcanti, Voi che per li occhi…, vv. 5-8)
Ma se Cimabue è in pittura il Cavalcanti della poesia duecentesca,
per quel suo tentativo di astrazione metastorica della realtà, Giotto,
suo allievo e rivale, è colui che, radicando la sua opera nella realtà della storia, riproduce in arte il pluristilismo dantesco.
“Così ha tolto l’uno a l’altro Guido
la gloria de la lingua; e forse è nato
chi l’uno e l’altro caccerà del nido”.
236
(ib. vv. 97-99)
Il confronto tra Cimabue e Giotto, G. Guinizzelli e G. Cavalcanti
ci viene proposto senza possibilità di equivoci da D. stesso; meno perspicuo è il rapporto indiretto tra Giotto e Dante, tanto che i versi sopracitati sono stati variamente interpretati: chi l’uno e l’altro caccerà
del nido è sicuramente Dante, ma chi siano l’uno e l’altro è ancora oggetto di dibattito critico. Sia che l’uno e l’altro siano i due Guidi, come comunemente s’intende, sia che si tratti di Giotto e Guido Cavalcanti, i due attuali eroi dell’agone artistico, Dante, riconoscendosi
vincente su entrambi, si autoproclamerebbe il più grande artista vivente. Il che solo apparentemente contrasterebbe con la professione
di umiltà alla quale è chiamato dall’esperienza penitenziale compiuta,
poiché in nessun modo egli stesso potrebbe sottrarsi all’inevitabile
progredire e decadere delle mode e dei gusti estetici, cui è soggetta
tutta l’arte:
“Non è il mondan romore altro ch’un fiato
di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi,
e muta nome perché muta lato.
Che voce avrai tu più, se vecchia scindi
da te la carne, che se fossi morto
anzi che tu lasciassi il “pappo” e ’l “dindi”,
pria che passin mill’anni? ch’è più corto
spazio a l’etterno, ch’un muover di ciglia
al cerchio che più tardi in cielo è torto”.
(ib. vv. 100-108)
Nella formulazione dantesca della vanità umana intervengono echi
dell’Ecclesiaste, del Somnium Scipionis ciceroniano e del De consolatione philosophiae di Severino Boezio, che saggiamente inducono il
poeta a riconoscere quanto siano insensate le cure dei mortali e quanto imperfetti siano i sillogismi che li conducono rovinosamente verso
i beni mondani:
“O insensata cura de’ mortali,
quanto son difettivi silogismi
quei che ti fanno in basso batter l’ali!”.
(Par. XI, vv. 1-3)
È significativo il fatto che con tali parole s’introduca nel Paradiso
237
la celebrazione dell’umiltà francescana. È palese nell’interpretazione
di Dante il legame tra questi due canti undicesimi, che si completano
a vicenda, costituendo un originale ossimoro: la superbia umana stigmatizzata da Oderisi trova il suo celestiale riscatto nell’umiltà per antonomasia di S. Francesco d’Assisi e non sembra casuale che in quegli stessi anni si misurino sullo stesso soggetto, nello specifico delle loro arti, proprio Giotto e Dante.
Giotto (1267-1337) opera nella fabbrica di Assisi tra il 1290 ed il
1300, dapprima al seguito di Cimabue, ma ben presto autonomo nella realizzazione del grandioso fregio pittorico della Basilica superiore,
destinato dall’ordine alla predicazione visiva delle opere del Santo 26.
Infatti, dopo la ricomposizione delle dispute interne all’ordine francescano tra Conventuali, favorevoli alla ricca illustrazione delle vicende biografiche del Santo fondatore, e Spirituali, ostili all’introduzione
dello sfarzo mondano e del valore laico dell’arte 27, Giotto introduce
una monumentale rappresentazione ciclica, che sviluppa in 28 riquadri i momenti salienti della vita di S. Francesco.
Le fonti utilizzate dal pittore sono quelle vulgate: dalle biografie di
Tommaso da Celano e di S. Bonaventura, ai Fioretti e alle leggende
popolari, sorte ovunque a consacrare la fama del poverello di Assisi.
Ogni fotogramma contiene un’ambientazione spaziale realistica, in
cui assumono nuovo spessore i volumi dell’architettura urbana e del
paesaggio circostante, le proporzioni anatomiche dei corpi, la gestualità e l’espressività dei volti, nonché la prospettiva, grazie alla quale
ogni personaggio interagisce con lo spazio e con le altre figure con un
naturalismo d’immediata percezione.
Tutto ciò pertiene anche alla plasticità linguistica e stilistica della
Commedia dantesca: gli sfondi oltremondani si diversificano in un
gioco di ombre e di luci nell’Inferno e nel Paradiso, per acquistare
__________
26
Anche architettonicamente la Basilica superiore viene concepita come luogo deputato alla predicazione ai fedeli, a differenza della Basilica inferiore, sorta
come cripta-santuario, luogo di preghiera degli stessi monaci.
27
A seguito di queste dispute per molti anni si era ricorso alla conciliante alternativa della composizione su tavole, adatte alla rimozione e all’utilizzazione
delle stesse durante le processioni.
238
…“che per tal donna; giovinetto, in guerra
del padre corse, a cui, come a la morte,
la porta del piacer nessun diserra:
e dinanzi a la sua spirital corte
et corampatre le si fece unito,
poscia di dì in dì l’amò più forte”.
Giotto: storie di S. Francesco, Assisi,
Basilica Sup. Tav. V. La rinuncia ai beni.
…“di seconda corona redimita
fu per Onorio da l’Eterno Spiro
la santa voglia d’esto archimandrita”.
Tav. XVII. La predica davanti a Onorio III.
…“ma regalmente sua dura intenzione
ad Innocenzio aperse, e da lui ebbe
primo sigillo a sua religione”.
Tav. VII. La conferma della regola.
“E poi che, per la sete del martiro,
ne la presenza del Soldan superba
predicò Cristo e li aaltri che ’l seguiro…”.
Tav. XI. La prova del fuoco.
239
contorni naturali solo nel mondo purgatoriale, con scorci paesaggistici e cromatici che rimandano alla realtà terrena; le anime assumono
consistenza volumetrica proporzionale alla loro statura umana e spirituale, ponendosi in relazione simbiotica, ma anche simbolica, con lo
spazio circostante; la prospettiva, intesa come focalizzazione poetica,
è cangiante ed allude alla condizione individuale degli esseri che popolano il mondo terreno ed ultramondano, fino ad assumere un indubbio valore universale nell’intento didascalico dell’intero poema.
Eppure, nel presentare il personaggio di Francesco e le sue vicende biografiche, Giotto e Dante giungono ad esiti parzialmente divaricati e su talune figurazioni è addirittura possibile confrontare le diverse chiavi interpretative utilizzate dai due: Francesco rinuncia ai beni (TAV. V/ vv. 58-63); la conferma della regola (TAV. VII / vv. 91-93);
la predica davanti ad Onorio III (TAV. XVII/ vv. 97-99); la prova del
fuoco (TAV. XI/ vv. 100-102); le stimmate (TAV. XIX/ vv. 106-108);
la morte di Francesco (TAV. XX/ vv. 109-117).
Giotto lascia “leggere” a chi non è in grado di farlo la storia di
Francesco, non sempre aggiungendo l’interpretazione simbolica alla
referenzialità delle fonti: la bellezza impareggiabile delle sue decorazioni parietali sta proprio in quella precisione descrittiva ed in quella
ricchezza cromatica, che contribuiscono a fare di questa pictura quasi una scriptura, come se le immagini diventassero parole. Dante, invece, interpreta sempre la storia di Francesco, zoommando sul protagonista e sul suo amore mistico per madonna Povertà: la biografia del
Santo diventa un’allusiva storia d’amore, che traveste coi modi della
moderna letteratura romanza la straordinaria avventura di questo cavaliere d’eccezione.
Nella pittura giottesca Francesco mantiene una dimensione umana, che scompare del tutto nel canto dantesco, in cui il pusillo assume
proporzioni regali, se non addirittura, come sostiene Auerbach, sovrumane. E ciò perché l’ineffabilità del Paradiso non consente più al
poeta di utilizzare i segni della comunicazione quotidiana: l’apoteosi
di Francesco non può più coincidere con una usuale agiografia terrena, poiché si riveste di sovrasensi mistici che trasfigurano tutti i momenti della sua vita terrena in senso anagogico. Pertanto, Francesco
rinuncia ai beni per sposare Madonna Povertà; quando si sottopone
all’approvazione papale, viene incoronato dallo Spirito Santo; riceve
240
…“nel crudo sasso intra Tevero e Arno
da Cristo prese l’ultimo sigillo
che le sue membra due anni portarno”.
Tav. XIX. Le stimmate.
del paesaggio umbro, tra la gente
comune che li affolla, persino i
bambini, Dante ne esalta l’ardore
serafico (cfr. v. 37), facendo di lui
un quasi sol oriens, il cui stesso
luogo di nascita, Ascesi (cfr. v. 53),
prefigura il Paradiso.
Esiti distinti, giustificati da intenti diversi proprio perché destinati ad una fruizione diversa, sensibilmente differenziati nel tempo, certamente non in gara con lo
stesso modello 28.
Invece di allegorie francescane
parlerà la pittura della basilica inferiore di Assisi, proprio perché
le stimmate come l’ultimo sigillo
della sua identità con Cristo; al
momento della morte, ascende al
cielo, il suo regno, come Cristo
stesso. La mirabil vita del fraticello di Assisi, illustrata da Giotto
per accrescere la devozione popolare, è ora cantata dal sapiente
S. Tommaso nella gloria del cielo
(cfr. Par. XI, vv. 95-96) al cospetto di Dio stesso.
Se Giotto guarda dunque alle
somme virtù umane del santo, la
cui esistenza terrena si colloca nei
luoghi ben definiti e riconoscibili
“quando a colui ch’a tanto ben sortillo
piaque di trarlo susi a la mercede
ch’el meritò nel suo farsi pusillo,
a’ frati suoi, si com’agiuste rede,
raccomandò che l’amassero a fede;
e del suo grembo l’anima preclara
mover si volle, tornando al suo regno,
e al suo corpo non volle altra bara”.
Tav. XX. La morte di S. Francesco.
__________
28
È certo che D. attinge principalmente ad un opuscoletto latino della mistica francescana, il Sacrum commercium beati Francisci cum domina Paupertate,
non contemplato tra le fonti giottesche.
241
concepita come luogo di raccoglimento e di meditazione. Delle quattro allegorie affrescate sulle vele della volta a crociera 29, due in particolare sollecitano la nostra curiosità: l’allegoria della Povertà, raffigurante lo sposalizio di S. Francesco con Madonna Povertà, attribuibile
ad un discepolo della scuola giottesca, detto Parente di Giotto, e databile intorno al 1316-18 30, costituisce quell’elemento spiccatamente
mistico, non inseribile nel disegno comunicativo della basilica superiore, ma certamente appropriato alla condivisione della regola da
parte dei confratelli; che i committenti francescani conoscessero già
l’undicesimo canto del Paradiso? Anche se ciò non è dimostrabile, è
certo, però, che Dante figura insieme a S. Francesco e S. Chiara nella
seconda allegoria, quella della Castità: si vuole forse in tal modo consacrare ufficialmente colui che ha espresso in una poesia casta e celestiale il messaggio francescano, facendo della sua scriptura una mirabile pictura?
Se Dante, e non solo nel canto dei superbi, fa ripetutamente professione di umiltà artistica, riconoscendo anche alla propria poesia la
stessa caducità che caratterizza tutte le altre espressioni di vanagloria
terrena, è però vero che in altri celebri passi del poema egli rivela
apertamente la sua alta aspirazione alla gloria: tornano in mente l’invocazione ad Apollo nel canto I del Paradiso 31 o l’incipit del canto
XXV della stessa cantica in cui rivendica l’incoronazione poetica nel
suo bel S. Giovanni 32. “C’è, come pensano alcuni, un conflitto in
Dante tra desiderio di gloria e di eccellenza e consapevolezza della loro vanità?” 33. Per rispondere a tal quesito non basta distinguere tra
gloria e nominanza, l’una durevole e meritoria, l’altra effimera e transeunte; tra l’opera e il grido, solida costruzione la prima, fugace fiato di
vento il secondo. Ciò varrebbe infatti per tutti gli artisti, ma per Dan-
__________
29
Esse sono l’allegoria della Povertà, della Castità, dell’obbedienza e il trionfo del Santo.
30
L’opera, originariamente commissionata al Maestro, fu successivamente da
lui stesso affidata ai suoi migliori allievi.
31
Cfr. Par. I, vv. 22-27.
32
Cfr. Par. XXV, vv. 7-9.
33
Cfr. U. Bosco - G. Reggio, Purgatorio, Le Monnier, p. 188.
242
Scuola di Giotto, Assisi, Basilica Sup., vele della volta a crociera.
Allegoria della povertà.
Scuola di Giotto, Assisi, Basilica Sup., vele della volta a crociera.
Allegoria della castità.
243
te c’è di più: c’è che l’arte di cui egli riconosce il possibile tramonto è
quella che segue la moda, che, in gara col tempo e con la modernità,
ad essi dovrà inevitabilmente cedere, e ciò forse potrà accadere alla
sua stessa poesia stilnovistica, ma non al Poema.
L’interpretazione anagogica è il valore aggiunto della Commedia,
che non è soltanto un affresco di eventi reali o di immagini fittizie, limitati nel tempo e nello spazio, ma attinge all’eterno, dov’è silenzio e
tenebre / la gloria che passò, e dove la fama acquistata in opere meritorie risplende perennemente dinanzi a Dio, che ne è il vero dictator:
la poesia pluristilistica e mitopoietica di Dante è dunque sintesi di tutte le arti, ne condivide i criteri estetici, ma ne sublima con l’anagogia
la forma e il significato e si rivela come cosa nova agli occhi di chi, attratto dalla sua bellezza esteriore, ne penetri la perfetta essenza riposta, traendone sicura vertute e canoscenza (cfr. Inf. XXVI, v. 120): la
legittimazione dell’arte poetica del Nostro sta proprio nella proclamata sacertà del Poema al quale ha posto mano e cielo e terra (Par.
XXV, v. 2).
Exegi monumentum aere perennius, esultava Orazio; sostenuto da
ben altra fede nella creatività dell’uomo, anche Dante ha eretto con la
Commedia un monumento che né l’incessante procedere degli anni
né la fuga dei tempi potrebbe mai demolire.
È per questo che ci piace concludere coi celeberrimi versi manzoniani, per l’occasione riferiti al poeta 34:
Fu vera gloria? Ai posteri
l’ardua sentenza: nui
chiniam la fronte al Massimo
Fattor, che volle in lui
del creator suo spirito
più vasta orma stampar.
Siracusa, 9 aprile 2003
__________
34
244
Cfr. A. Manzoni, Il cinque maggio, vv. 31-36.
PARADISO, c. I
Nell’analessi iniziale della terza cantica, Dante, novello Davide,
eleva il suo canto vittorioso a proclamare l’agognato compimento del
suo itinerario spirituale (cfr. Salmo 19, 1-4)
“I cieli narrano la gloria di Dio
il firmamento proclama l’opera delle sue mani…
non è racconto, non è linguaggio;
non è voce che possa essere intesa”.
Ma all’emozione profonda suscitata dall’unicità dell’esperienza
estatica, subentra il turbamento determinato dalla coscienza del limite dell’umana natura, per cui l’intelletto, facoltà divina elargita
all’uomo, che pure ha colto l’infinita potenza di Dio, si smarrisce
davanti ad essa e retrocede fino all’afasia. In strettissima sequenza
sorge spontanea l’invocazione ad Apollo-Dio, con cui il poeta, rinunciando definitivamente alla propria altezza di ingegno, si offre
invece quale vas electionis, disposto a fornire la trascrizione umana d’una ispirazione sovrumana, inevitabilmente inficiata dal limite terreno della memoria 1. Si pone, quindi, sin dalle prime battute quella dissagguaglianza che Dante lamenterà anche nel colloquio
col trisavolo Cacciaguida tra la voglia di manifestare il proprio stato di grazia e l’argomento, ossia lo strumento espressivo concesso
ai mortali:
“Ma voglia ed argomento ne’ mortali,
per la cagion ch’a voi è manifesta,
diversamente son pennuti in ali”.
(Par. XV, vv. 79-81)
Consapevolezza che, ribadita in vario modo, lo costringerà infine
ad ammettere:
__________
1
Cfr. ib., vv 7-9.
245
“Oh, quanto è corto il dire e come fioco
al mio concetto! E questo, a quel ch’i’ vidi,
è tanto, che non basta a dicer “poco”. (Par. XXXIII, vv. 121-123)
* * *
La gloria di colui che tutto move
per l’universo penetra, e risplende
in una parte più e meno altrove.
Nel ciel che più de la sua luce prende
fu’ io, e vidi cose che ridire
né sa né può chi di là sù discende;
perché appressando sé al suo disire,
nostro intelletto si profonda tanto,
che dietro la memoria non può ire.
Veramente quant’ io del regno santo
ne la mia mente potei far tesoro,
sarà ora materia del mio canto.
O buono Appollo, a l'ultimo lavoro
fammi del tuo valor sì fatto vaso,
come dimandi a dar l’amato alloro.
Infino a qui l’un giogo di Parnaso
assai mi fu; ma or con amendue
m’è uopo intrar ne l’aringo rimaso.
Entra nel petto mio, e spira tue
sì come quando Marsïa traesti
de la vagina de le membra sue.
O divina virtù, se mi ti presti
tanto che l’ombra del beato regno
segnata nel mio capo io manifesti,
vedra’mi al piè del tuo diletto legno
venire, e coronarmi de le foglie
che la materia e tu mi farai degno.
Sì rade volte, padre, se ne coglie
per trïunfare o cesare o poeta,
colpa e vergogna de l’umane voglie,
che parturir letizia in su la lieta
delfica deïtà dovria la fronda
246
3
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9
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peneia, quando alcun di sé asseta.
Poca favilla gran fiamma seconda:
forse di retro a me con miglior voci
si pregherà perché Cirra risponda.
Surge ai mortali per diverse foci
la lucerna del mondo; ma da quella
che quattro cerchi giugne con tre croci,
con miglior corso e con migliore stella
esce congiunta, e la mondana cera
più a suo modo tempera e suggella.
Fatto avea di là mane e di qua sera
tal foce, e quasi tutto era là bianco
quello emisperio, e l’altra parte nera,
quando Beatrice in sul sinistro fianco
vidi rivolta e riguardar nel sole:
aguglia sì non li s’affisse unquanco.
E sì come secondo raggio suole
uscir del primo e risalire in suso,
pur come pelegrin che tornar vuole,
così de l'atto suo, per li occhi infuso
ne l'imagine mia, il mio si fece,
e fissi li occhi al sole oltre nostr’ uso.
Molto è licito là, che qui non lece
a le nostre virtù, mercé del loco
fatto per proprio de l’umana spece.
Io nol soffersi molto, né sì poco,
ch’io nol vedessi sfavillar dintorno,
com’ ferro che bogliente esce del foco;
e di sùbito parve giorno a giorno
essere aggiunto, come quei che puote
avesse il ciel d'un altro sole addorno.
Beatrice tutta ne l'etterne rote
fissa con li occhi stava; e io in lei
le luci fissi, di là sù rimote.
Nel suo aspetto tal dentro mi fei,
qual si fé Glauco nel gustar de l’erba
che ’l fé consorto in mar de li altri dèi.
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Trasumanar significar per verba
non si poria; però l’essemplo basti
a cui esperïenza grazia serba.
S’i’ era sol di me quel che creasti
novellamente, amor che ’l ciel governi,
tu ’l sai, che col tuo lume mi levasti.
Quando la rota che tu sempiterni
desiderato, a sé mi fece atteso
con l’armonia che temperi e discerni,
parvemi tanto allor del cielo acceso
de la fiamma del sol, che pioggia o fiume
lago non fece alcun tanto disteso.
La novità del suono e ’l grande lume
di lor cagion m'accesero un disio
mai non sentito di cotanto acume.
Ond’ ella, che vedea me sì com’ io,
a quïetarmi l'animo commosso,
pria ch’io a dimandar, la bocca aprio
e cominciò: “Tu stesso ti fai grosso
col falso imaginar, sì che non vedi
ciò che vedresti se l'avessi scosso.
Tu non se’ in terra, sì come tu credi;
ma folgore, fuggendo il proprio sito,
non corse come tu ch’ad esso riedi”.
S’io fui del primo dubbio disvestito
per le sorrise parolette brevi,
dentro ad un nuovo più fu’ inretito
e dissi: “Già contento requïevi
di grande ammirazion; ma ora ammiro
com’ io trascenda questi corpi levi”.
Ond’ ella, appresso d’un pïo sospiro,
li occhi drizzò ver’ me con quel sembiante
che madre fa sovra figlio deliro,
e cominciò: “Le cose tutte quante
hanno ordine tra loro, e questo è forma
che l'universo a Dio fa simigliante.
Qui veggion l’alte creature l’orma
248
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de l'etterno valore, il qual è fine
al quale è fatta la toccata norma.
Ne l'ordine ch’io dico sono accline
tutte nature, per diverse sorti,
più al principio loro e men vicine;
onde si muovono a diversi porti
per lo gran mar de l’essere, e ciascuna
con istinto a lei dato che la porti.
Questi ne porta il foco inver’ la luna;
questi ne' cor mortali è permotore;
questi la terra in sé stringe e aduna;
né pur le creature che son fore
d'intelligenza quest’ arco saetta,
ma quelle c’hanno intelletto e amore.
La provedenza, che cotanto assetta,
del suo lume fa ’l ciel sempre quïeto
nel qual si volge quel c'ha maggior fretta;
e ora lì, come a sito decreto,
cen porta la virtù di quella corda
che ciò che scocca drizza in segno lieto.
Vero è che, come forma non s’accorda
molte fïate a l’intenzion de l’arte,
perch’ a risponder la materia è sorda,
così da questo corso si diparte
talor la creatura, c’ha podere
di piegar, così pinta, in altra parte;
e sì come veder si può cadere
foco di nube, sì l’impeto primo
l’atterra torto da falso piacere.
Non dei più ammirar, se bene stimo,
lo tuo salir, se non come d'un rivo
se d’alto monte scende giuso ad imo.
Maraviglia sarebbe in te se, privo
d’impedimento, giù ti fossi assiso,
com’ a terra quïete in foco vivo”.
Quinci rivolse inver’ lo cielo il viso.
108
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114
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120
123
126
129
132
135
138
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249
IL SEGNO DELL’INEFFABILE
Tra Dante e il ’900
Dante sente distintamente la povertà della parola umana di fronte
all’oltranza della trasumanazione: le sue esperienze pregresse di poeta
e filosofo, legate strettamente alla realtà terrena e alla dimensione storica, non sono più sufficienti a disegnare scenari metafisici e metastorici: di qui l’esigenza di affidarsi non più solo alle Muse, entità allegoriche indicanti i più alti valori della scienza e della tecnica umane,
ma ad Apollo, figura della Grazia e della stessa manifestazione poetica atta a celebrarla:
“Infino a qui l’un giogo di Parnaso
assai mi fu; ma or con ambedue
m’è uopo intrar ne l’aringo rimaso”.
(Par. I, vv. 16-18)
Inoltre l’assenza di un patrimonio letterario ed iconografico che
rappresenti il Paradiso nell’immaterialità della contemplazione beatificante del Divino, muove il Poeta alla ricerca di nuovi significanti linguistici, che scardinino l’accentuata plasticità espressiva fin qui utilizzata. Il poeta “né sa né può ridire” (ib., vv. 5-6) 2 ciò che ha visto: non
può fare altro che subordinare il mezzo umano alla trascendenza della parola divina che penetra in lui rendendolo Profeta, per la prima
volta – etimologicamente – colui che parla per bocca di Dio. Si sdoppia, così, nel Paradiso la dimensione profetica della poesia dantesca:
Dante non è più solo il poeta-viandante, attore di un percorso salvifico individuale e collettivo, e pertanto depositario di verità arcane destinate a rigenerare l’umanità, ma diviene anche il poeta- veggente,
colui che discorrendo 3 di verità in verità – analogicamente – ci consegna l’arcano. Il ruolo del poeta-veggente rimane, dopo Dante, sospeso per secoli nella letteratura e ritorna con rinnovata funzione iniziatica solo nel ’900: se comunque nel Medio Evo il poeta “alta creatu-
__________
2
3
250
Ep. XIII a Cangrande, 29.
Indica l’atto della creazione di Dio in Par. XXIX, v. 21.
ra” scandaglia il macrocosmo dell’universo, cercando in esso l’orma
dell’etterno valore (ib., vv. 106-107), decifrandone così il finalismo
escatologico, il “veggente” decadente, prometeico e dissacrante ladro
di fuoco, si tuffa nel microcosmo dell’io per cogliere il punto di contatto profondo tra soggetto ed oggetto, instaurando un rapporto di
sensi fra fenomeno e noumeno: “Egli cerca se stesso…Ineffabile tortura, nella quale egli ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza sovrumana, nella quale egli diventa il grande infermo, il grande criminale, il
grande maledetto…e il sommo sapiente. Egli giunge infatti all’ignoto…e quand’anche, smarrito, finisse col perdere l’intelligenza delle proprie visioni, le avrà pur viste: …All’incarico dell’umanità, degli animali, addirittura, dovrà far sentire, palpare, ascoltare le sue invenzioni; se
ciò che riporta di laggiù ha forma, egli dà forma; se è informe, egli dà
l’informe: trovare una lingua… questa lingua sarà dell’anima per l’anima, riassumerà tutto: profumi, suoni, colori; …il poeta definirebbe la
quantità d’ignoto che nel suo tempo si desta nell’anima universale” 4.
Diversa risulta essere, dunque, la missione del poeta moderno, che
dall’abisso dell’ignoto, attraverso la poesia, fa riemergere le ambiguità illuminanti del magma difforme della esistenza, ma analogo è comunque il compito di dar voce all’ineffabile.
Dante profeta, allora, per far ciò, modula la parola profana con la
parola sacra, attingendo con sapiente accortezza al patrimonio scritturale ed a quello mistico-medievale, dal linguaggio della Scolastica e
dalla tradizione classica, approdando così a nuove e sincretiche forme
espressive, che arricchiscono ulteriormente il suo plurilinguismo.
Già nel Vecchio Testamento la PAROLA si pone come archetipo della creazione e nel Nuovo come archetipo della rivelazione.
La PAROLA nelle Scritture è insieme evento ontologico ed epifanico. Nei due incipit del libro del Genesi e del Vangelo di Giovanni, infatti, la creazione e la rivelazione sono affidate alla PAROLA, sono eventi sonori: “Iddio disse: “Sia la luce” e la luce fu”;
“In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era
Dio”. Dio dunque non si manifesta agli uomini nella oggettualità
__________
4
Cfr. A. Rimbaud, Lettera al Veggente, 1871.
251
dell’immagine, ma nella voce; è il λóγος, senza cui nulla esiste di
ciò che esiste 5.
Dante è senz’altro consapevole del primato della parola rispetto
all’immagine sancito dall’autorità scritturale: “Il Signore parlò a voi di
mezzo al fuoco; voi udiste il suono delle parole, ma non vedeste nessuna immagine, non udiste che una voce” 6; è per questo che il Paradiso
di Dante perde la materialità della tradizione precedente e si rarefà
nell’inconsistenza della luce e del suono. Ma come descrivere l’intensità della luce o l’armonia celestiale delle sfere rotanti? Se il λóγος, la
′
parola creatrice, irradiandosi nell’universo produce l’α’ ναλογος,
cioè
7
il rapporto tra creatore e creato , anche la parola del poeta risuonerà
come emanazione del divino e produrrà un canto (cfr. ib. v. 12) che,
rifrangendosi, per analogia riattingerà l’assoluto. Questo movimento
circolare della creazione sonora è patrimonio scritturale di tutte le religioni: ricorre nella Thora e nella Bibbia, nel Corano e nei libri del
Veda; Dante se ne appropria e su di esso fonda nel Paradiso il segno
dell’ineffabile, l’unica possibile forma espressiva in cui la Parola, mimesi dell’atto creativo di Dio, sia capace di veicolare l’altro e l’oltre, si
ponga come sola rete di collegamento tra finito ed infinito, tra tempo
ed eterno. Ineffabile è l’infinità dell’Empireo, il fulgore della sua luce, la melodia dei cieli e l’eternità della beatitudine, ma la poesia, se′
gno di riconoscimento dell’essenza, diventa συµβολον,
perfetta corrispondenza tra le cose create da Dio e la loro percezione umana;
simbolica è dunque la parola che unisce suono umano e valore divino
e di essa Dante va alla ricerca, sottraendosi proprio con la poesia dell’ineffabile alla temerarietà del folle volo, cioè alla tentazione diabolica di utilizzare segni esclusivamente umani, insufficienti a significare
quella vista nuova (Par. XXXIII, v. 136).
Analogia e simbolo sono inequivocabili strutture espressive di
ascendenza scritturale dunque, ma anche la circolarità ontologica ed
epifanica, per cui Dio creatore, irradiandosi nelle varie parti dell’universo, riconduce a sé ogni cosa, evidente sia nell’incipit che nel-
__________
5
Cfr. Genesi, 1,3; Giovanni 1,1; 1,3.
Cfr. Deuteron. 4,12.
7
Cfr. ib. vv. 103-105.
6
252
l’explicit del nostro canto e – in gradatio – nell’intera cantica, è presente, come già detto, nella tradizione biblica. È Dante stesso che
nell’epistola XIII a Cangrande della Scala ci fornisce a tal proposito le fonti illuminanti 8: “Dice infatti lo Spirito Santo per mezzo di Geremia: “Io riempio il cielo e la terra”; e nel Salmo: “Dove mi sottrarrò dallo spirito tuo? E dove fuggirò dalla tua presenza? Se salirò in
Cielo Tu ci sei; se scenderò nell’inferno, ci sei. Se prenderò le mie penne…”. E la Sapienza dice che “lo spirito del Signore riempì il mondo”.
E l’Ecclesiaste nel quarantaduesimo: “Della gloria di Dio è piena la
sua opera”. Il che attestano anche gli scritti dei pagani; onde Lucano
nel nono libro: “Giove è dovunque guardi, dovunque vai.” 9. Ma è anche vero che riferendosi allo stesso libro della Sapienza (cfr. 13,5),
Dante trae il modello della complessità dell’ordine universale e lo riflette nel sistema dell’ineffabile: ad un movimento deduttivo (“lo spirito del Signore riempì il mondo”) dall’universale al particolare, corrisponde, sempre nella Sapienza un movimento induttivo (“…dalla
grandezza e bellezza delle creature, ragionando, si arriva a conoscere il
loro autore”), dal particolare all’universale. È quanto realizza Dante
profeta e poeta: Apollo spira nel petto suo (cfr. ib. v. 19) e vi entra,
informando di sé deduttivamente la poesia con la sua divina virtù
(la parola nelle parole: e Dante si fa profeta); quando, poi, Dante
poeta ascende col suo “cantico della salita” 10 fino all’Empireo, la Gerusalemme celeste, induttivamente svela l’essenza del λóγος, cogliendone sinesteticamente la luce e il sorriso (dalle parole alla parola). Nella poesia dantesca, in cui ancora il simbolo mantiene una
radice razionale ed è propriamente un segno, rimanda cioè ad un’essenza definita, simbolismo ed allegorismo di fatto coincidono e concorrono ad interpretare quelle mille sfaccettature del reale che convergono nell’universalismo compatto della cultura medievale. Nel
simbolismo moderno, invece, simbolo ed allegoria si differenziano,
perché il primo coglie fulmineamente per via intuitiva ed alogica l’u-
__________
8
Cfr. Ep. XIII, pr. 22, in Tutte le opere a cura di L. Blasucci, Firenze, Sansoni 1966.
9
Lucano, Pharsalia, IX, 580.
10
Sembrerebbe quasi di riscontrare il modello dei “salmi delle ascensioni”,
intonati dai pellegrini che andavano a Sion, la Gerusalemme terrena.
253
niversale impressionisticamente frantumato nel particolare; pertanto
la realtà si presenta a Charles Baudelaire in “Corrispondenze” come
una “foresta di simboli”, in cui
“… i profumi e i colori
e i suoni si rispondono come echi
lunghi che di lontano si confondono
in unità profonda e tenebrosa
vasta come la notte ed il chiarore”. 11
L’allegoria consiste invece nella separazione tra particolare ed
universale: il poeta perviene attraverso un’indagine razionale e
consequenziale (dis-correndo) ad un assoluto che non è palesemente intuibile e la cui cognizione, quando c’è, è l’esito faticoso
di un procedere per gradus, di cui comunque si sottendono spesso i nessi di raccordo. La poesia italiana del ’900 va sempre più
verso un allegorismo complesso ed ambivalente, come si nota ad
es. nella poesia di Camillo Sbarbaro: “Io che come un sonnambulo cammino” 12.
L’apparizione improvvisa di una donna che cammina “lenta come
una regina” sveglia il poeta dal sonnambulismo di un’esistenza alienata; ne deriva il tentativo di adattare il passo per spezzare l’isolamento e per stabilire un rapporto attivo con la realtà sensuale:
“Tu mi cammini innanzi lenta come
una regina.
Regolo il mio passo
- io subito destato dal mio sonno sul tuo ch’è come una sapiente musica”
(vv. 4-8)
La donna viene dunque a rappresentare una possibilità di armonia
tra realtà e soggetto, ne risveglia gli istinti vitali e ne determina la svolta esistenziale:
__________
11
12
254
C. Baudelaire, Corrispondenze, vv. 5-9.
C. Sbarbaro, “Io che come sonnambulo cammino” in Pianissimo, 1914.
“Una luce si fa nel dormiveglia
della mia vita.
Tutto è sospeso come in un’attesa.
Non penso più. Sono contento e muto:
batte il mio cuore al ritmo del tuo passo”
(vv. 16-20)
Nel trasalire di Sbarbaro e nell’apparizione della donna c’è la
stessa allegoria dell’esperienza dantesca e la medesima funzione salvifica di Beatrice; nel “sonno” del poeta è la “selva oscura”, nella luce che lo desta dal torpore è la grazia di una rivelazione inattesa;
nella sintonia tra il battito del cuore e il passo della donna è l’avvenuta simbiosi tra il particolare e l’universale, da cui nascono l’appagamento e il silenzio.
La compenetrazione tra il poeta e il valore infinito nel Paradiso, prima di risolversi nella folgorazione conclusiva del trentatreesimo canto, in cui davvero ogni facoltà umana si annulla nell’armonia suprema di Dio “la mia mente fu percossa / da un fulgore in che sua voglia venne” (cfr. Par. XXXIII, vv. 140-141), si
attua tramite il ricorso a particolari procedimenti espressivi, grazie ai quali Dante persegue il suo tentativo “ineffabile” di coniugare sensi ed intelletto, realtà e visione, terra e cielo. Partecipa all’assolvimento di questo arduo compito l’apporto consistente della tradizione mistica del Medio Evo, a cui il poeta attinge a vari
livelli: ora ne rievoca il linguaggio e le metalessi usuali, che tendono ad un realismo accentuato per meglio evidenziare nella concretezza delle immagini il valore spirituale in esse simboleggiato;
ora ne utilizza i sovrasensi interpretativi in chiave precipuamente
cristologica, fondendoli originalmente con l’icasticità del mito
classico. Nel nostro canto sono presenti in vario modo tutti questi stilemi dell’esposizione mistica: l’espressione l’intelletto si profonda (v. 8), ad es., anticipa il campo metaforico del mar dell’essere, che rappresenta l’ordine provvidenziale e l’infinità incommensurabile del cosmo:
“onde si muovono, a diversi porti
per lo gran mar dell’essere”…
(cfr. ib. vv. 112-113).
255
Così ancora, per spiegare l’inevitabilità della gravitazione spirituale del pellegrino, Beatrice ricorre al topos metaforico dell’istintofreccia (v. 19), l’impeto primo (v. 134) che proietta l’uomo verso il
bene:
“e ora lì, come a sito decreto,
cen porta la virtù di quella corda
che ciò che scocca drizza in segno lieto”.
(ib. 124-126). 13
Di ascendenza mistica possono ritenersi le domesticae comparationes che, molto frequenti nell’intera cantica, vi costituiscono un irrinunciabile orizzonte umano, pur nella verticalità della tensione visionaria, perché contribuiscono ad inglobare anche il lettore nella
circolarità comunicativa del sacrato poema ed assolvono in tal modo
alla sua essenziale funzione didattica. Così – in strettissima sequenza – ai vv. 48-51 si fa riferimento al fenomeno fisico della riflessione della luce, che si arricchisce dell’immagine del falcone pellegrino,
nota agli esperti di arte venatoria; a cui ancora si può accostare quella dell’aquila, l’unico uccello che, capace di tollerare la luce del sole, riesce a librarsi fino ad esso: tutti paragoni facilmente comprensibili per un lettore che abbia normali conoscenze naturalistiche; e
ancora
“parvemi tanto allor del cielo acceso
de la fiamma del sol, che pioggia o fiume
lago non fece alcun tanto disteso”
(ib. vv. 79-80)
“Non dei più ammirar, se bene stimo,
lo tuo salir, se non come di un rivo
se d’alto monte scende giuso ad imo”
(ib. vv. 136-138),
e
__________
13
Attinenti ad esso sono tutti i verbi di movimento presenti nel canto, indicanti entrambe le direzioni basso-alto, alto-basso, tra i quali è notevole l’antitesi
tra il salire e lo scendere nella penultima terzina (vv. 136-138).
256
che ci riportano ad efficaci scorci paesaggistici, mentre, infine come
ferro che bogliente esce del foco (ib. v. 60) e come a terra quiete in foco
vivo (ib. v. 142) riproducono scene di vita quotidiana, la cui espressività risulta particolarmente evidente nell’immagine di Beatrice, madre
ansiosa verso il figlio in delirio:
“Ond’ella, appresso d’un pio sospiro,
li occhi drizzò ver me con quel sembiante
che madre fa sovra figlio deliro”
(ib. vv. 100-102)
Il realismo descrittivo si accentua, inoltre, col ricorso ad espressioni sentenziose, come in “Poca favilla gran fiamma seconda” (v. 24).
Ma è sicuramente di impronta mistica e cristologica la complessità dell’impianto anagogico dell’intera cantica: per quanto la tensione
alla salvezza sia sottesa all’ideazione di tutto il poema, essa è meno
evidente nell’Inferno, si configura come spinta morale nel Purgatorio
e solo nel Paradiso assume il valore effettivo di sursum ductio; solo
nella terza cantica infatti è possibile al lettore accorto scindere la sovrapposizione dell’anagogia dall’analogia in uno stesso elemento, individuando la valenza dei primi tre sensi, letterale, allegorico e morale, dal quarto, l’anagogico.
Nel nostro canto tale duplice lettura è sovrapponibile a tutti i riferimenti tratti dal mito: così Apollo è buono (v. 13) e padre (v. 28), ma
l’anagogia ce lo restituisce come figura di Cristo; il diletto legno dell’alloro (v. 25) non è più soltanto metafora dell’amata Dafne, ma anagogicamente si rivela lignum crucis, le cui fronde segnano il trionfo,
oltre che di Cristo stesso, anche di chi, attraverso la vita attiva o contemplativa (Cesare o poeta, v. 29), consegue la perfezione spirituale.
Nel caso di Marsia 14, il satiro che sfidò col suono del suo flauto agreste la cetra di Apollo, si individua l’arroganza dell’artefice che, fidando solo sulle sue forze umane, osa gareggiare in ingegno con Dio: la
lettura anagogica del mito pagano ci riporta all’ispirazione diabolica
di quella poesia che scinde il suono umano dal divino e presume che
il primo possa prevalere sul secondo.
__________
14
Ovidio, Metamorfosi, VI, 382-400.
257
Sempre dalle Metamorfosi di Ovidio Dante trae il mito di Glauco,
il pescatore della Beozia che, cibandosi di alcune alghe prodigiose,
viene tramutato in dio marino 15: l’interpretazione anagogica qui è diretta e fornita dallo stesso testo poetico:
“Trasumanar significar per verba
non si poria; però l’essemplo basti
a cui esperïenza grazia serba”.
(ib. vv. 70-72)
Nella poesia dantesca, dunque, l’ineffabile non rinuncia al comunicabile, ma trova con esso un mirabile equilibrio proprio grazie a
questi sapienti accorgimenti interpretativi e stilistici; nella poesia del
’900, invece, “la parola è molto più impegnata con l’ineffabile che con
il comunicabile” (E. Gioanola), come appare anche dalla nota affermazione montaliana “Non chiederci la parola”, in cui la poesia è proposta come conoscenza al negativo.
Nella poesia di E. Montale più che la parola, infatti, è l’oggetto che
diventa evocativo della negatività dell’esistenza, riproponendo in termini moderni, sulla scorta del dantismo di T. S. Eliot, l’espressionismo delle immagini e l’allegorismo morale della poesia dantesca. La
sua produzione poetica, infatti, dis–correndo dall’essenzialità e dal
realismo degli “Ossi” all’accentuato allegorismo delle “Occasioni”,
giunge in “Bufera ed altro” a visionarie descrizioni di situazioni storiche apocalittiche, la cui soluzione può essere affidata soltanto all’avvento di una presenza soterica, Clizia, che anagogicamente annuncia
ed ottiene il riscatto dell’umanità. È obbligato il riferimento al componimento “Primavera hitleriana”: i rimandi danteschi sono espliciti
nell’epigrafe e nel testo, in cui compaiono due versi di un sonetto attribuito a Dante da G. Contini: “Né quella ch’a veder lo sol si gira”
(epigrafe) e “…che il non mutato amor, mutata serbi” (cfr. v. 34). Si
tratta in entrambi i casi di Clizia, la ninfa trasformata in girasole, che
continua ad amare Apollo, dio del Sole, rivolgendosi verso la sua luce. Nella funzione allegorica di Clizia si assommano anche nella poesia montaliana reminiscenze classiche, innestate in un impianto neo-
__________
15
258
Ovidio, Metamorfosi, XIII, 898-968.
stilnovistico, che non esclude echi biblici e suggestioni cristologiche:
Clizia conserva, pur avendo mutato forma, l’immutato amore ed il
suo destino è di guardare verso l’alto fino a che il suo amore non si
congiunga con il Divino per sconfiggere i mostri della storia e propiziare un’alba di salvezza per tutti:
… “Guarda ancora
in alto, Clizia, è la tua sorte, tu
che il non mutato amor, mutata serbi,
fino a che il cieco sole che in te porti
si abbacini nell’Altro e si distrugga
in Lui, per tutti”. …
(cfr. vv. 32-37)
Alla circolarità stilistica dell’ineffabile partecipa in larga misura
quello che Dante nell’epistola a Cangrande indica come modus
transumptivus, ossia quella fitta trama di connessioni analogiche che
comprende tutto il repertorio dei traslati (campi semantici e metaforici, sinestesie, ossimori, antitesi etc.). Nel nostro canto le transumptiones più rilevanti sono quelle attinenti al tema della “luce” e della
“visione”, topoi letterari già ampiamente consacrati dalla tradizione
stilnovistica, ma qui caricati d’una significazione religiosa prevalente.
Vastissimo è il campo semantico relativo alla luce, che determina quasi una disseminazione lessicale in tutto il canto (fiamma, favilla, lucerna, raggio, foco, lume, sfavillare), ciascuno di questi termini assomma
in sé componenti evocative fortemente variate: i singoli significanti si
piegano alle esigenze descrittive in modo sempre nuovo, ora ricorrendo alla variante sinonimica complessa (mane, giorno, bianco), ora
accostando la suggestione sinestetica (Nel ciel che più de la sua luce
prende, v. 4 o l’espressione m’accesero un disio, v. 83), ora inserendo la
dittologia ossimorica (mane/sera, bianco/nero, luce/ombra), ora infine
approdando alla vera e propria polisemia nei termini letizia, v. 31 e
acume, v. 84, che rendono iperbolicamente il concetto di intensità. Al
v. 66 le luci sono utilizzate metaforicamente ad indicare gli occhi, ma
il primato assoluto spetta al termine sole che ricorre nel canto quattro
volte in senso proprio ai vv. 47-54-63-80 ed una volta in perifrasi la lucerna del mondo, v. 88: tale insistenza è giustificata dal sovrasenso mistico connesso all’immagine del pianeta come significazione di Dio
259
stesso, per cui anche il buon Apollo è allegoricamente il Dio del sole
ed anagogicamente Cristo 16; così in evidente climax ascendente, Cristo trionfante tra i beati nel c. XXIII si manifesta proprio come un sole che illumina le stelle:
“vid’ i’ sopra migliaia di lucerne
un sol che tutte quante l’accendea,
come fa ’l nostro le viste superne;
e per la viva luce trasparea
la lucente sustanza tanto chiara
nel viso mio, che non la sostenea”.
(Par. XXIII, vv. 28-33) 17
Quest’ultima citazione introduce naturalmente il tema della visione, dato essenziale dell’ineffabilità, dal momento che proprio la
straordinarietà della visio determinerà alla fine l’afasia del poeta.
L’abbondanza dei verbi estetici nel nostro canto è palese: il verbo
vedere ricorre ben otto volte (vv. 5-25-47-59-89-90-106-133) alternato con intensivi (affisse - fisse - fissa) e frequentativi (riguardare - rivolse) o introdotto in perifrasi (per li occhi infuso, v. 50; a sé mi fece atteso, v. 77); le varianti attenuative parve (v. 61) e parsemi (v. 79)
sono ancora limitate in questo canto, in cui il poeta gode di un notevole potenziamento delle facoltà sensoriali, grazie al raggiunto grado di perfezione umana simboleggiato dalla radura dell’Eden in cui
si trova: è il poeta stesso, infatti, a confessarci di aver potuto, grazie
alla presenza di Beatrice, fissare li occhi al sole oltre nostr’uso (cfr.
ib. v. 54) e ci spiega:
“Molto è licito là, che qui non lece
a le nostre virtù, mercè del loco
fatto per proprio de l’umana spece”.
(ib. vv. 55-57)
__________
16
Non è un caso che un analogo riferimento al Valore divino ricorra anche
nell’esordio del c. X, vv. 1-6 in cui Dante e Beatrice si apprestano a salire nel cielo del sole.
17
I canti X e XXIII del Paradiso rappresentano, secondo Bernardo di Chiaravalle, il passaggio ai gradi successivi della disposizione del paradiso: vestigium
Dei - imago Dei - claritas Dei.
260
Per lo stesso motivo il verbo soffersi non ha un’accezione negativa,
piuttosto si configura come una vox media: io non soffersi molto, né
sì poco (v. 58); è intuitivo che la frequenza delle forme attenuative,
nella doppia accezione di sembrare ed apparire, aumenterà in misura
proporzionale alla difficoltà della visione 18. Infine, interessante intersezione tra due campi semantici della luce e della visione è il verbo risplende, v. 2, che analogicamente ci rimanda al tema dottrinario della
rivelazione divina.
L’esuberanza di segni legati alla luce e alla vista informa, dunque,
l’ineffabilità del Paradiso, poiché l’essenza stessa della beatitudine si
manifesta come ardore di carità, metaforicamente rappresentato dalla luce, e come pura contemplazione; ciò non toglie che nel nostro
canto vi siano anche termini legati al senso dell’udito, che contribuiscono a rendere quella simbiosi di luce e di suono di derivazione scritturale: armonia, v. 78 e suono, v. 82 compaiono in senso proprio, mentre le espressioni sorrise parolette brevi, v. 95 e la materia è sorda, v.
129 ricorrono all’accezione sinestetica a cui, nella seconda, si aggiunge anche il significato metaforico afferente al concetto di libero arbitrio e quello analogico con l’atto della creazione artistica:
… “come forma non s’accorda
molte fiate a l’intenzion de l’arte,
perch’a risponder la materia è sorda”.
(cfr. ib. vv. 127-129)
Ed altra intersezione tra il campo semantico della visione e quello
del suono può intendersi il verbo manifesti, v. 24, anch’esso allusivo
al valore epifanico della poesia del Paradiso.
La poesia del ’900 fa del modus transumptivus, di cui parla Dante, l’elemento costitutivo della sua poetica e, pur avvalendosi delle stesse figure
di suono e di immagine, si avvia sempre più verso il dissolvimento delle
strutture lirico-narrative, di modo che, quand’anche esse permangono
apparentemente classiche, s’insinua una tensione eretica con la tradizione, tesa ad evocare palpiti segreti e legami ignoti ed irrazionali col cosmo.
__________
18
In Par. XXXIII, ad es., il verbo parere ricorre ben sette volte, ai vv. 69-113116-119-128-131.
261
Scrive Giovanni Pascoli ne “Il fanciullino” 19 che il poeta “scopre
nelle cose le somiglianze e le relazioni più ingegnose (…). A costituire
il poeta vale infinitamente più il suo sentimento e la sua visione che il
modo col quale agli altri trasmette l’uno e l’altra (…). Il poeta è colui
che esprime la parola che tutti avevano sulle labbra e che nessuno
avrebbe detta (…). La poesia consiste nella visione di un particolare
inavvertito, fuori e dentro di noi”.
Il poeta sente il mistero ineffabile della natura e lo svela grazie alla poesia: egli è colui che “trova nelle cose il loro sorriso e la loro lacrima”, che “impicciolisce per poter vedere, ingrandisce per poter ammirare”, con una visione deformante che dall’impressionismo percettivo giunge allo stravolgimento del reale, rigorosamente inconoscibile. Ecco perché tramite i simboli, le analogie, le metafore e soprattutto le sinestesie nella poesia del ’900 i contorni del reale si sfumano, gli
spazi si intersecano, i piani temporali si sovrappongono, i colori e i
suoni si confondono, e tutto ciò all’arbitrio del poeta, che avverte indistintamente e spesso coagula in un’unica immagine suggestioni contrastanti.
Cosi in Novembre, per es., l’ambiguità del paesaggio agreste inganna i sensi: lo spazio esteriore, segnato dalle nere trame della natura, si proietta nello spazio interiore del poeta, ossessionato dalla morte: le percezioni visive ed olfattive lo illudono, per cui l’estate si dilegua nella fragilità e nel silenzio dell’autunno:
Gemmea l’aria, il sole cosi chiaro
che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,
e del prunalbo l’odorino amaro
senti nel cuore…
Ma secco è il pruno, e le stecchite piante
di nere trame segnano il sereno,
e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante
sembra il terreno.
__________
19
1897.
262
G. Pascoli: “Il fanciullino, da Miei pensieri di varia umanità, Marzocco FI
Silenzio intorno: solo, alle ventate,
odi lontano da giardini ed orti,
di foglie un cader fragile. È l’estate,
fredda, dei morti.
Tutto ciò non avviene certo nella poesia dantesca, in cui ogni avvertimento, razionale o sensibile, è sempre connesso ad uno sforzo intellettivo, ad una precisa volontà di comprendere lo scibile nella sua
totalità, ad una decifrazione del reale che ricalca quella del geometra
(cfr. XXXIII, v. 133), per il fatto che prelude a quella reductio ad
unum tipicamente medievale che, in specie nel Paradiso, coincide con
la visione di Dio, abisso infinito di conoscenza: a lasciar intendere ciò
il poeta ricorre, nell’ultimo canto, alla consueta metafora del volume
che si squaderna alla difettiva cognizione terrena dell’uomo, pur essendo perfettamente coeso, conflato, nella sua forma universal (cfr.
XXXIII, v. 91)
“Nel suo profondo vidi che s’interna
legato con amore in un volume
ciò che per l’universo si squaderna”.
(Par. XXXIII, vv. 85-87)
La perpetua sete del deiforme regno 20 si palesa dunque nella ricchezza di termini estetici, ma tale desiderio è sistematicamente umiliato dall’eccezionalità della materia, che l’umana memoria non riesce
a trattenere. Precisa opportunamente Cesare Federico Goffis: “A voler leggere con attenzione il Paradiso, vi traspare un mondo sentito
come ombra del reale, affiorante nell’esperienza mistica fondata su
alcune certezze razionali e su una straordinaria fede fatta di cose sperate, in sostituzione di una memoria che non può esistere per assenza
di esperienza storica” 21. Anche in questo caso è Dante stesso a fornirci le indicazioni necessarie a decifrare i modelli della sua condizione ascetica: cita “l’apostolo che parla ai Corinzi, quando dice: “So un
uomo, non so se col corpo o senza corpo, lo sa Iddio, rapito fino al ter-
__________
20
21
Cfr. Par. II, vv. 19-20.
Goffis, Il linguaggio mistico del Paradiso.
263
zo cielo, e vide gli arcani di Dio, che non è lecito all’uomo di riferire” 22,
e vi si identifica addirittura nel nostro canto:
“S’i’ era sol di me quel che creasti
novellamente, amor che ’l ciel governi,
tu ’l sai, che col tuo lume mi levasti”. (ib. vv. 73-75)
E continua ancora nello stesso passo dell’epistola a Cangrande: “Ecco, dopo che l’intelletto aveva sorpassato la ragione umana con l’ascensione, non ricordava che cosa fosse avvenuto fuori di sé. E questo ci è stato comunicato da Matteo, laddove i tre discepoli caddero bocconi, non riferendo poi nulla come immemori”. Il riferimento è, ovviamente, al
vangelo della trasfigurazione di Gesù, eccezionale prodigio di cui furono testimoni Pietro, Giovanni e Giacomo, i quali videro Gesù trasfigurarsi “davanti a loro: il suo volto risplendette come il sole e le sue
vesti divennero candide come la luce”, dice l’evangelista. “Ed è scritto in
Ezechiele “Vidi e caddi bocconi”, insiste il poeta, aggiungendo con il suo
tono polemico contro i malevoli: “E quando non basti ciò ai cavillatori
leggano Riccardo da San Vittore nel libro Sulla contemplazione, leggano
Bernardo nel libro Sulla considerazione, leggano Agostino nel libro Sulla Quantità dell’anima, e non cavilleranno”. A Dante come a San Paolo, come agli Apostoli è stato concesso il privilegio di un’esperienza iniziatica, grazie alla quale egli non solo testimone, è anche protagonista
di un processo di elevazione e di trasfigurazione allo stesso tempo; alla sublimità della meta corrisponde pertanto l’innalzamento del registro linguistico che, quasi in forma osmotica, passa attraverso l’uso del
latino o di latinismi inconsueti e ricercati, atti a solennizzare, con la lingua propria del culto, il rito dell’iniziazione religiosa, e procede alla coniazione di neologismi, necessari ad esprimere le inusitate suggestioni
di questa progressiva trasfusione dell’umano nel divino.
Il nostro canto è contesto di latinismi, dai più consueti e quasi latenti (surge, foci, mane, acume, commosso, ammirazione, ammirare, miro, maraviglia, quieto e quiete, ed altri) ai più scoperti (ire, licito non lece, unquanco, aspetto, atteso, accline, riedi, ad imo, assiso, viso); ricorre
__________
22
264
Epistola XIII, 28.
al calco di termini (veramente, assai mi fu, m’è uopo, de l’atto suo, mi
fei, com’io, permotore) e di costrutti sintattici latini 23; inserisce, infine,
per due volte espressioni in lingua latina (per verba, v. 70, e requievi, v.
97) espediente a cui ricorrerà in varie occasioni per rendere più appropriatamente il valore misterico e liturgico del suo viaggio.
Meno numerosi, ma senz’altro pregnanti di significato, i neologismi
presenti nel testo, “trasumanar” (v. 70) è la parola-chiave del canto e Dante le conferisce un rilievo particolare, ponendola in posizione enfatica nella terzina centrale, a collegamento sincretico tra il mito classico di Glauco
e il riferimento paolino alla lettera ai Corinzi, di cui si è già detto, proprio
perché il poeta stesso condivide l’elevatio ad coelum di entrambi. I termini disvetito (v. 94) ed inretito (v. 96), in forte opposizione ossimorica, scandiscono il procedimento filosofico del dubbio sistematico; il verbo sempiterni (v. 76) è coniato come intensivo latino, a sottolineare il moto costante ed atemporale delle sfere celesti, racchiuse nell’immobile Empireo.
Ma al culmine della progressione linguistica del Paradiso, dai latinismi al latino, al mai detto, sta un ultimo possibile livello il non detto, l’afasia, il silenzio.
La verticalità della parola poetica che tende a trascendere se stessa
dal piano letterale all’anagogico, fino all’annullamento di ogni possibile significato nell’afasia è comune a Dante e a tanti poeti del ‘900. È U.
Saba a parlare di un verticalismo di Ungaretti, alludendo al suo incessante interrogativo religioso, che porta a compimento nelle ultime raccolte, da Sentimento del tempo attraverso il Dolore fino alla Terra promessa, quella stessa attitudine a proiettarsi nell’immenso e ad ascoltare
il silenzio, presente sin da Allegria: la poesia di Ungaretti nasce dalla sua
condizione di esule e dalla contemplazione dello spazio silente del deserto, emblema di un contatto misterioso ed ancestrale con l’Universo,
di cui egli stesso si riconosce docile fibra 24. Nella poesia Mattina:
M’illumino
d’Immenso
__________
23
Notevoli, in ispecie, i participi congiunti: desiderato (v.77), così pinta (v.
132) e torto (v. 135).
24
Cfr. I fiumi, vv. 30-31.
265
la fulgurazione poetica dell’immensità del Cosmo si traduce in un’immagine di Luce, i versi-parola pongono in stretta relazione il finito e
l’infinito; in Commiato la collocazione della parola, che materializza il
silenzio, è valorizzata dal rapporto con lo spazio bianco, l’abisso da
cui essa emerge, che ne fa risaltare l’unicità e l’essenzialità:
Gentile
Ettore Serra
poesia
è il mondo l’umanità
la propria vita
fioriti dalla parola
la limpida meraviglia
di un delirante fermento.
Quando trovo
in questo mio silenzio
una parola
scavata è nella mia vita
come un abisso.
Ed ancora ne Il porto sepolto Ungaretti attinge alla profondità degli abissi per tornare alla luce con i suoi canti e poi disperderli: dunque il poeta, dopo il rito battesimale di purificazione e iniziazione,
partecipa alla rivelazione del Divino e, riproducendo il gesto della Sibilla del XXXIII canto del Paradiso, disperde i suoi oracoli, rinunciando così alla possibilità di comunicare con la poesia verità insondabili:
Vi arriva il poeta
e poi torna alla luce con i suoi canti
e li disperde.
Di questa poesia
mi resta
quel nulla
d’inesauribile segreto.
266
Anche nella poesia di Ungaretti, allora, il silenzio, visualizzato dall’uso sapiente dello spazio bianco, corrisponde, come nella poesia
dantesca, all’afasia, di chi, raggiunta l’estasi, riconosce l’impossibilità
di esprimerla.
Dante fa poesia anche nell’atto di non poterne fare e consapevole
che lo spannung del Paradiso non avrebbe potuto essere trasmesso
con gli usuali strumenti narrativi, si affida anche ad accorgimenti non
percettibili alla vista e all’udito, ma ugualmente significativi di un altro ed evocativi di un oltre: la sua poesia è fatta anche di silenzi, anzi
è proprio dal gioco del detto e del non detto, dei segni e delle pause
che essa trae gran parte della sua suggestività. Eloquenti manifestazioni del silenzio sono le pause forti, segnate dalle cesure spesso anticipate, in conseguenza di un accentuato inarcamento del verso precedente in enjanbement, che servono a mettere in rilievo suoni, parole,
immagini, isolandoli per una frazione di secondo nel testo 25; sono le
interpunzioni in genere che, pur in assenza di suono, divengono veri
e propri segni espressivi, perché contribuiscono a creare l’effetto della suspance nella narrazione, fatta ora di balbettii, ora di sospensioni
di fiato (i punti esclamativi), ora di ritmi incalzanti, ora di rallentamenti meditativi; sono le interiezioni, che con una minima emissione
di voce, svelano le ansie del poeta, servono ad invocare l’aiuto e ad
esprimere lo stupore.
Dice bene, a spiegare il fenomeno dell’afasia nel Paradiso, A. Jacomuzzi: “Il cammino annunciato nel c. I della Commedia verificherà al termine l’insufficienza della mediazione sensibile e quindi la pagina bianca nel libro della memoria, il silenzio” 26.
Linguaggio iniziatico è dunque quello del Paradiso, per lettori che
non sono in piccioletta barca 27; esso si arricchisce, inoltre, di innesti
squisitamente filosofici, o più ampiamente strutturali, per dirla con
Croce, che però – in chiave figurale – partecipano al sistema dell’inef-
__________
25
Molti termini in enjanbement sono solo di tre sillabe, per cui la cesura è molto anticipata: fu’ io, v. 5; venire, v. 26; peneia, v. 33; tal foce, v. 44; tu ’l sai, v. 75.
26
A. Jacomuzzi: L’imago al cerchio: invenzione e visione nella Divina Commedia.
27
Cfr. Par. II, v. 1.
267
fabile, poiché il linguaggio della filosofia e della teologia sulla terra anticipa e prefigura quello delle verità celesti. È per questo che, in conclusione, ci sembra opportuno allargare le nostre considerazioni ai due
canti estremi della terza cantica, perché nel primo, quando il poeta è
ancora sulla terra, si pongono quelle premesse indispensabili che troveranno la loro piena formulazione nell’ultimo, quando Dante sarà al
cospetto di Dio nell’Empireo: così la prima terzina del nostro canto ricostruisce una circolarità narrativa, a cui abbiamo già accennato:
“La gloria di Colui che tutto move
per l’universo penetra, e risplende
in una parte più e meno altrove”.
(ib. vv. 1-3)
In penetra e risplende è ravvisabile il linguaggio della scolastica, tributario di suggestioni aristoteliche (Dio come primo motore immobile) e neoplatoniche (Dio come emanazione dell’universo), come Dante stesso spiega nell’Epistola XIII al par. 64: “penetra in quanto all’essenza e risplende in
quanto all’esistenza”. Ma già questa prima asserzione anticipa circolarmente quegli ultimi 40 versi del canto, occupati dalla dotta dissertazione
dottrinaria sulla provvidenzialità della gravitazione metafisica del poeta, il
cui concetto-chiave è la perfezione dell’ordine universale – la forma – ossia il principio essenziale, che rende l’universo simile a Dio. Anche nel
XXXIII canto ritorna la medesima terminologia filosofica relativa alla forma universal, con la differenza che allora Dante ha ascoltato la dimostrazione teologica di Beatrice, ora, invece, vede con i suoi occhi direttamente
in Dio sustanze ed accidenti e lor costume (cfr. v. 88), pervenendo – come
una freccia giunta finalmente al bersaglio – alla fine di ogni suo desiderio:
“Ed io ch’ al fine di tutt’ i disii
appropinquava, sì com’io dovea,
l’ardor del desiderio in me finii”.
(Par. XXXIII, vv. 46-48)
E ancora la positio loci, successiva all’invocatio nel canto I, è costellata
di complicate coordinate astronomiche, in cui l’intersecazione dei quattro
cerchi immaginari si carica di significazioni simboliche e morali, alludendo alle virtù cardinali e teologali, che cooperano per la redenzione dell’uomo. In seguito il poeta, ascendendo attraverso i cieli concentrici del si268
stema astronomico tolemaico, giunge finalmente nell’Empireo: ebbene,
anche nel c. XXXIII s’insiste sull’immagine del cerchio, che diventa in termini matematici emblema della perfezione di Dio 28; tre giri simboleggiano la trinità, di tre colori e di una contenenza; la quadratura del cerchio esprime lo sforzo dell’intelletto di razionalizzare il dogma; ma, soprattutto la
forma della circolarità sigilla l’ultima terzina del poema nella similitudine
d’una ruota che gira uniformemente in ogni punto, ad indicare l’attimo
supremo in cui il disio e il velle si conformano all’amore divino:
“ma già volgeva il mio disio e ’l velle
sì come rota ch’igualmente è mossa,
l’Amor che move il sole e l’altre stelle”. (Par. XXXIII, vv. 143-145)
Solo nel momento estatico disio e velle si compenetrano, cioè voglia
ed argomento in Dante, ancora mortale, si corrispondono prodigiosamente, impedendogli, però, di librarsi con le sue penne, espressione della fantasia del poeta, nel mistero del dogma divino. Se ciò fosse accaduto, se Dante profeta, eco delle parole di Dio, avesse osato descrivere l’imago al cerchio e come vi s’indova, la sua poesia sarebbe diventata diabolica, avrebbe sfidato il limite consacrato dall’autorità scritturale che ci
consegna di Dio solo la voce, inibendocene sempre l’immagine. Il divino
crea l’umano, ma l’umano non può creare il divino: al poeta manca l’atto primordiale della creazione e la sua parola sarà epifanica, non può essere ontologica. Dunque l’ineffabile nella poesia dantesca non è solo un
espediente stilistico e linguistico, ma risponde senza ambiguità alcuna ad
una scelta di ortodossia religiosa che allinea il Poema alla sacralità delle
Scritture, per diretta ammissione del Poeta stesso: il suo è davvero
…. “’l poema sacro
al quale ha posto mano e cielo e terra”.
(Par. XXV, vv. 1-2)
Siracusa, maggio 2001
__________
28
In termini numerologici, poi, il c. XXXIII è anche il n. 100: l’unico canto
a tre cifre, la prima delle quali è l’unità da cui spirano i due zeri, e corrisponde
al 10x10, cioè alla Perfezione divina.
269
270
PURGATORIO, c. I
Sulla spiaggia della remota isoletta del purgatorio Dante s’imbatte
in un
... “veglio solo,
degno di tanta reverenza in vista,
che più non dee a padre alcun figliuolo.” (Purg. I, vv. 31-33)
Si tratta di un personaggio storico, dall’aspetto solenne e ieratico,
poeticamente rivisitato, come spesso avviene, rispetto alle fonti classiche cui il poeta attinge 1: Catone l’Uticense, che vi risiede quale custode del secondo regno (ib. v. 4), allegoria della libertà morale dal
peccato; quattro luci sante ne illuminano il volto come se risplendesse
della Grazia divina, poiché egli ha davvero goduto d’un privilegio
straordinario quando Cristo, scendendo nel Limbo dopo la sua resurrezione, lo ha liberato insieme ad Adamo per destinarlo a così alta
mansione spirituale e per salvarlo 2.
Le sue perplessità nell’accogliere Dante vivo e Virgilio dannato sono comunque fugaci: Virgilio stesso lo informa di quanto si sta compiendo per volontà di Dio ed egli, benigno e severo ad un tempo, indica loro la strada e le necessarie procedure da seguire per intraprendere il laborioso cammino di purificazione.
Ma perché Dante ha fantasiosamente collocato in questo ruolo
proprio Catone l’Uticense, pagano, eppur fornito d’una religio implicita che gli proviene dall’esercizio assiduo delle virtù naturali; suicida,
ma per fede stoica e rigore etico; nemico di Cesare, ma per strenua difesa della propria libertà individuale? Non è il caso di addentrarci nella vasta mole di critica dantesca destinata a dirimere la questione; a
noi basti qui rilevare come Catone, figura svelata e compiuta del condottiero che in Utica rinunciò alla vita 3, costituisca un ennesimo ed
__________
1
Cfr. Lucano, Bellum civile, II, 372-91.
Cfr. ib. v. 75.
3
E. Auerbach, Studi su Dante, Milano 1963 pagg. 217-223.
2
271
eccelso modello per il poeta: essi condividono quella magnanimità
che è sofferto e consapevole ripudio della follia (e infatti Catone ed
Ulisse si fronteggiano, contrapponendosi quasi agli estremi dello stesso canto!); li accomuna il culto della libertà personale, efficacemente
esplicitato da Virgilio nei celeberrimi versi:
“libertà va cercando, ch’è sì cara,
come sa chi per lei vita rifiuta.”
(ib. vv. 71-72);
ma la comunanza profonda tra i due consiste soprattutto nell’essere
stati entrambi prescelti ad assolvere una missione di salvezza, compiutasi in un duplice processo, dapprima discendente ed in seguito
ascendente. Alla luce di ciò anche la captatio benevolentiae apparentemente pretestuosa, con cui Virgilio richiama alla memoria di Catone la moglie Marzia 4, si arricchisce d’un ulteriore valore morale se
confrontiamo la sequenza del poema col passo del Convivio 5, in cui
Dante attribuisce a questa figura femminile il significato simbolico
dell’anima che, degradata nel corpo, ritorna infine al Creatore: “per
che significa la nobile Anima...tornare a Dio. E quale uomo terreno più
degno fu di significare Iddio, che Catone? Certo nullo.” Si ripropone
ancora allegoricamente questo doppio movimento verticale, verso il
basso e verso l’alto, che caratterizza l’intera Commedia nello spazio,
nel tempo e nella stessa concezione morale.
Ed è in questa chiave di lettura che abbiamo interpretato il rapporto tra l’orizzonte e l’infinito: la terra che, ritrattasi per ribrezzo in
un emisfero, si slancia verso il Cielo nell’altro; il tempo che, variamente scandito nella storia e nel racconto, si risolve comunque nell’eterno; l’umano che, corrotto dal peccato, si proietta pur sempre nel
divino. A questi tre requisiti risponde pienamente il mondo purgatoriale: attraverso il suo paesaggio, le sue implicazioni metaforiche, le
sue estensioni concettuali nell’intero Poema abbiamo provato a tracciare quegli assi ideali che disegnano nell’universo dantesco le coordinate spirituali per giungere a Dio.
__________
4
5
272
Cfr. ib. vv. 78-84.
Cfr. Convivio IV, 28.
Per correr miglior acque alza le vele
omai la navicella del mio ingegno,
che lascia dietro a sé mar sì crudele;
e canterò di quel secondo regno
dove l’umano spirito si purga
e di salire al ciel diventa degno.
Ma qui la morta poesì resurga,
o sante Muse, poi che vostro sono;
e qui Calïopè alquanto surga,
seguitando il mio canto con quel suono
di cui le Piche misere sentiro
lo colpo tal, che disperar perdono.
Dolce color d’orïental zaffiro,
che s’accoglieva nel sereno aspetto
del mezzo, puro infino al primo giro,
a li occhi miei ricominciò diletto,
tosto ch’io usci’ fuor de l’aura morta
che m’avea contristati li occhi e ’l petto.
Lo bel pianeto che d’amar conforta
faceva tutto rider l’orïente,
velando i Pesci ch’erano in sua scorta.
I’ mi volsi a man destra, e puosi mente
a l’altro polo, e vidi quattro stelle
non viste mai fuor ch’a la prima gente.
Goder pareva ’l ciel di lor fiammelle:
oh settentrïonal vedovo sito,
poi che privato se’ di mirar quelle!
Com’ io da loro sguardo fui partito,
un poco me volgendo a l ’altro polo,
là onde ’l Carro già era sparito,
vidi presso di me un veglio solo,
degno di tanta reverenza in vista,
che più non dee a padre alcun figliuolo.
Lunga la barba e di pel bianco mista
portava, a’ suoi capelli simigliante,
de’ quai cadeva al petto doppia lista.
Li raggi de le quattro luci sante
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fregiavan sì la sua faccia di lume,
ch’i’ ’l vedea come ’l sol fosse davante.
"Chi siete voi che contro al cieco fiume
fuggita avete la pregione etterna?”,
diss’ el, movendo quelle oneste piume.
"Chi v’ha guidati, o che vi fu lucerna,
uscendo fuor de la profonda notte
che sempre nera fa la valle inferna?
Son le leggi d'abisso così rotte?
o è mutato in ciel novo consiglio,
che, dannati, venite a le mie grotte?”.
Lo duca mio allor mi diè di piglio,
e con parole e con mani e con cenni
reverenti mi fé le gambe e ’l ciglio.
Poscia rispuose lui: “Da me non venni:
donna scese del ciel, per li cui prieghi
de la mia compagnia costui sovvenni.
Ma da ch'è tuo voler che più si spieghi
di nostra condizion com’ ell’ è vera,
esser non puote il mio che a te si nieghi.
Questi non vide mai l’ultima sera;
ma per la sua follia le fu sì presso,
che molto poco tempo a volger era.
Sì com’ io dissi, fui mandato ad esso
per lui campare; e non lì era altra via
che questa per la quale i’ mi son messo.
Mostrata ho lui tutta la gente ria;
e ora intendo mostrar quelli spirti
che purgan sé sotto la tua balìa.
Com’ io l’ho tratto, saria lungo a dirti;
de l'alto scende virtù che m’aiuta
conducerlo a vederti e a udirti.
Or ti piaccia gradir la sua venuta:
libertà va cercando, ch’è sì cara,
come sa chi per lei vita rifiuta.
Tu ’l sai, ché non ti fu per lei amara
in Utica la morte, ove lasciasti
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la vesta ch’al gran dì sarà sì chiara.
Non son li editti etterni per noi guasti,
ché questi vive e Minòs me non lega;
ma son del cerchio ove son li occhi casti
di Marzia tua, che ’n vista ancor ti priega,
o santo petto, che per tua la tegni:
per lo suo amore adunque a noi ti piega.
Lasciane andar per li tuoi sette regni;
grazie riporterò di te a lei,
se d’esser mentovato là giù degni”.
"Marzïa piacque tanto a li occhi miei
mentre ch’i’ fu’ di là”, diss’ elli allora,
“che quante grazie volse da me, fei.
Or che di là dal mal fiume dimora,
più muover non mi può, per quella legge
che fatta fu quando me n’usci’ fora.
Ma se donna del ciel ti move e regge,
come tu di’, non c’è mestier lusinghe:
bastisi ben che per lei mi richegge.
Va dunque, e fa che tu costui ricinghe
d’un giunco schietto e che li lavi ’l viso,
sì ch'ogne sucidume quindi stinghe;
ché non si converria, l'occhio sorpriso
d'alcuna nebbia, andar dinanzi al primo
ministro, ch’è di quei di paradiso.
Questa isoletta intorno ad imo ad imo,
là giù colà dove la batte l’onda,
porta di giunchi sovra ’l molle limo:
null’ altra pianta che facesse fronda
o indurasse, vi puote aver vita,
però ch’a le percosse non seconda.
Poscia non sia di qua vostra reddita;
lo sol vi mosterrà, che surge omai,
prendere il monte a più lieve salita”.
Così sparì; e io sù mi levai
sanza parlare, e tutto mi ritrassi
al duca mio, e li occhi a lui drizzai.
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El cominciò: “Figliuol, segui i miei passi:
volgianci in dietro, ché di qua dichina
questa pianura a’ suoi termini bassi”.
L’alba vinceva l’ora mattutina
che fuggia innanzi, sì che di lontano
conobbi il tremolar de la marina.
Noi andavam per lo solingo piano
com’ om che torna a la perduta strada,
che ’nfino ad essa li pare ire in vano.
Quando noi fummo là ’ve la rugiada
pugna col sole, per essere in parte
dove, ad orezza, poco si dirada,
ambo le mani in su l’erbetta sparte
soavemente ’l mio maestro pose:
ond’ io, che fui accorto di sua arte,
porsi ver’ lui le guance lagrimose;
ivi mi fece tutto discoverto
quel color che l’inferno mi nascose.
Venimmo poi in sul lito diserto,
che mai non vide navicar sue acque
omo, che di tornar sia poscia esperto.
Quivi mi cinse sì com’ altrui piacque:
oh maraviglia! ché qual elli scelse
l’umile pianta, cotal si rinacque
subitamente là onde l’avelse.
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...PURO INFINO AL PRIMO GIRO
“Dolce color d’orïental zaffiro,
che s’accoglieva nel sereno aspetto
del mezzo, puro infino al primo giro,
a li occhi miei ricominciò diletto,
tosto ch’io usci’ fuor de l’aura morta
che m’avea contristati li occhi e ’l petto.”
(Purg. I, vv. 13-18)
Il sollievo di Dante pellegrino, uscito finalmente a riveder le stelle 6, si effonde in un piacevole stato d’attesa che si concreta in questa
nuova atmosfera di luce tersa ed accogliente, resa ancor più confortante dalla consapevolezza di aver definitivamente abbandonato l’aura morta, la terribile esperienza infernale. Per la prima volta si profila
alla sua vista l’orizzonte geografico, quasi confuso tra il mare e il cielo, sintesi di umano e di divino, che il poeta avverte subito inconsapevolmente come transito salvifico.
Già nell’Inferno Dante si era paragonato ad un naufrago che, sfuggito al mare in tempesta, si rincuora dello scampato pericolo, volgendo ancora indietro lo sguardo affannato ad un orizzonte inquieto, popolato di ombre e di mostri:
“E come quei che con lena affannata,
uscito fuor del pelago a la riva,
si volge a l’acqua perigliosa e guata,
così l’animo mio, ch’ancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
che non lasciò già mai persona viva.”
(Inf. I, vv. 22-27);
ma ora si accinge ad approdare nel regno della purificazione, un’alta
montagna emergente da acque nitide e tranquille 7, illuminata da una
luce ridente che induce all’amore e al bene. La stessa immagine in
__________
6
7
Cfr. Inf. XXXIV, v. 139.
Cfr. Par. III, v. 11.
277
un’altra luce folgorò Ulisse nel suo colpevole viaggio nell’altro emisfero, quando quella montagna, bruna / per la distanza 8, tutt’altro che
approdo ospitale, si rivelò per lui inesorabile mausoleo di morte, la
tomba della velleitaria conoscenza che spinge l’uomo a sfidare con
armi inefficaci l’altezza divina. Ecco perché ad Ulisse non è concesso
di raccontare ad alcuno il suo folle volo 9, se non a chi, come Dante,
testimone e vettore, si appresta a solcare quella medesima distesa marina 10 con la navicella del suo alto ingegno, sfuggito alla follia 11 e predisposto all’umiltà. E se il primo narra:
“Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto.
Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
e la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque,
infin che ’l mar fu sovra noi richiuso.” (Inf. XXVI, vv. 136-142)
Dante, invece,“come altrui piacque” (cfr. ib. v. 133) si cinge nel nostro canto d’un giunco schietto, simbolo dell’umiltà necessaria all’espiazione dei peccati, a differenza di Ulisse che dalla medesima volontà divina viene inabissato per sempre.
Alla precoce allegria fa seguito nell’eroe omerico l’amaro pianto;
all’iniziale sconforto, invece, subentra il diletto dell’animo in Dante:
nel primo parlano i sensi, nel secondo si manifesta lo spirito.
L’evidente relazione, sottolineata dal lessico e dalla metafora, rivela la misura di Dante uomo, corda tesa tra due punti fermi della storia precristiana, Ulisse, che ha conosciuto la disfatta, e Catone, verità
eterna di quanto con il suo gesto ha prefigurato nella storia umana.
L’immagine paesaggistica del mare e la metafora del viaggio per
__________
8
Cfr. Inf. XXVI, vv. 133-34.
Cfr. Inf. XXVI, vv. 131-32.
10
Cfr. ib. vv. 130-32.
11
Cfr. ib. vv. 58-60.
9
278
nave sono emblematiche nel poema dantesco, come risulta sin dalla
prima terzina del nostro canto (vv. 1-3):
“Per correr miglior acque alza le vele
omai la navicella del mio ingegno,
che lascia dietro a sé mar sì crudele”.
Il mare nell’Inferno è oggettivazione della vita terrena: nelle sequenze già riportate dalla prima cantica la sua forza naturale ed impetuosa evoca la materialità dell’esistenza trascorsa nel rincorrere piaceri mutevoli e beni effimeri; nell’emisfero antartico, invece, esso diviene sostanza vitale e lustrale per ogni creatura che aspiri al difficile
raggiungimento del Bene supremo. Esso segna quella distanza incolmabile dalla terra che fa del mondo purgatoriale l’area di confine naturale tra finito e infinito 12; così, nel canto II del Purgatorio il vasello
snelletto e leggero condotto dall’Angelo nocchiero solca quel mare australe senza affondare la chiglia, trasportando quasi a volo radente
sulla superficie dell’acqua le anime prive di peso dalla lontana foce
del Tevere 13, a rimarcare l’abissale distanza dalla terra e l’incipienza
della meta celeste:
“Vedi che sdegna li argomenti umani,
sì che remo non vuol, né altro velo
che l’ali sue, tra liti sì lontani.”
(Purg. II, vv. 31-33);
ed anche nel canto VIII ritorna la locuzione lontane acque (v. 57) in
occasione del toccante incontro con Nino Visconti che, caduto in
equivoco, suppone l’amico defunto e lo interpella:
... “Quant’è che tu venisti
a piè del monte per le lontane acque?”,
da cui appare chiaro che la lontananza logistica tra le due terre, quel-
__________
12
13
Cfr. ib. vv. 100-01; II, vv. 13-15.
Cfr. Purg. II, vv. 13-42.
279
la mondana e quella oltremondana, evidenziata proprio dalla presenza delle acque, determina il distacco morale non già dagli affetti sinceri, ma solo dalle vane passioni.
Nel Paradiso, infine, il mare è espressione dell’universo infinito ,
fisico e metafisico insieme, realtà molteplice derivante dall’Uno, che
la informa sia nell’essenza che nell’esistenza 14:
“Ne l’ordine ch’io dico sono accline
tutte nature, per diverse sorti
più al principio loro e men vicine;
onde si muovono a diversi porti
per lo gran mar de l’essere, e ciascuna
con istinto a lei dato che la porti.” (Par. I, vv. 109-14)
È il mare del mitico pescatore Glauco 15 che, mangiando un’alga
miracolosa, da essa, quasi fosse cibo ecumenico, viene deificato:
“Nel suo aspetto tal dentro mi fei,
qual si fé Glauco nel gustar de l’erba
che ’l fé consorto in mar de li altri dei.”
(Par. I, vv. 67-69);
è il mare dei mistici medievali, di Ugo da S. Vittore, figura immediata dell’Infinito e dell’oltranza divina, specchio dell’Empireo.
Diverso è di conseguenza lo stato d’animo nell’affrontare il mar
dell’essere: chi lo solca fidando soltanto sulle proprie forze, nutrito
dell’ardore del suo viaggio temerario, lo vede come una sfida alla materia insensibile, eterno capitano Achab all’inseguimento della balena
e all’affermazione esasperata di se stesso 16; chi, invece, come l’esule,
lo attraversa con la speranza di raggiungere una meta agognata, riversa su di esso malinconiche aspettative, sorte dall’intimo dualismo tra
l’errare e il procedere, tra il rimpianto di occasioni perdute e l’ansia
di terre promesse:
__________
14
Cfr. Par. I, vv. 1-3.
Cfr. Ovidio, Metamorfosi XIII, 904 etc.
16
Cfr. Inf. XXVI, v. 100: ma misi me per l’alto mare aperto.
15
280
“Noi eravam lunghesso mare ancora,
come gente che pensa a suo cammino,
che va col cuore e col corpo dimora.”
(Purg. II, vv. 10-12)
E ancora, nel celeberrimo esordio del canto VIII della stessa cantica, il Poeta, rievocando emozioni terrene di lontananza e di esilio, le
sintetizza nel navigante che sul far della sera avverte il lancinante rimpianto della patria e la nostalgia degli affetti più cari:
“Era già l’ora che volge il disio
ai navicanti e ’ntenerisce il core
lo dì c’han detto ai dolci amici addio;”
(Purg. VIII, vv. 1-3).
Chi, infine, come il pescatore, si nutre della sostanza marina, sia
nel mito pagano che nella tradizione cristiana, vive l’esperienza
straordinaria della pesca miracolosa, della moltiplicazione dei beni e
del trasumanare, l’inspiegabile sensazione di aver superato i limiti
umani:
“Trasumanar significar per verba
non si poria; però l’essemplo basti
a cui esperienza grazia serba.”
(Par. I, vv. 70-72)
Ecco perché Dante, novello Glauco, nel II canto del Paradiso si
sente in dovere di mettere in guardia i lettori sprovveduti dal proseguire il viaggio al suo seguito:
“O voi che siete in piccioletta barca,
desiderosi d’ascoltar, seguiti
dietro al mio legno che cantando varca,
tornate a riveder li vostri liti:
non vi mettete in pelago, ché forse,
perdendo me, rimarreste smarriti.
L’acqua ch’io prendo già mai non si corse;”
(Par. II, vv. 1-7).
È ancora forte il monito dell’esperienza ulissiaca : ingegni ben più
raffinati, sostenuti dalla titanica tensione verso l’infinito e tuttavia non
281
sorretti da ali adeguate alla sublimità del volo, sono già miseramente
naufragati sulla linea dell’orizzonte umano; è dunque più prudente
che in pochi, ma saldamente conformati ai valori dello spirito, si avventurino per la stessa rotta tracciata dal poeta:
“Voialtri pochi che drizzaste il collo
per tempo al pan de li angeli, del quale
vivesi qui ma non sen vien satollo,
metter potete ben per l’alto sale
vostro naviglio, servando mio solco
dinanzi a l’acqua che ritorna equale.”
(Par. II, vv. 10-15).
Dopo il buio d’inferno e di notte privata / d’ogne pianeto 17 in
questo paesaggio purgatoriale d’un realismo spirituale, come dice
E. Bigi 18, torna a splendere la quotidianità del cielo mattutino: la
stella di Venere, scortata dai Pesci, annuncia il sorgere del sole in
congiunzione con l’Ariete, la costellazione più benefica per la mondana cera 19. Le congiunzioni astrali descritte dal Poeta all’inizio di
questo nuovo percorso palingenetico manifestano un clima spirituale di serena predisposizione alla salvezza che si compirà solo nel
Paradiso:
“L’alba vinceva l’ora mattutina
che fuggia innanzi, sì che di lontano
conobbi il tremolar de la marina.” (ib. vv. 115-117)
__________
17
Cfr. Purg. XVI, vv. 1-2.
E. Bigi, Canto I del Purgatorio, in G. Getto 1966, pgg. 661-682.
19
Cfr. Inf. I, vv. 37-38; Par. I, vv. 37-42: Surge ai mortali per diverse foci / la
lucerna del mondo; ma da quella / che quattro cerchi giugne con tre croci, / con miglior corso e con migliore stella / esce congiunta, e la mondana cera / più a suo modo tempera e suggella.
La positività di questa congiunzione astrale è sottolineata nel I canto di ogni
cantica. Sotto la costellazione dell’ariete, secondo la cultura medievale, Dio crea
il mondo, nasce Adamo, si incarna e muore Cristo. Molteplici significati esoterici ed escatologici le si affidano.
18
282
La medesima ora del tempo e la dolce stagione 20 che già avevano
fatto illudere Dante peccatore ai piedi del colle di poterlo ascendere,
superando l’ostacolo della prima fiera, si ripropongono ora come foriere d’una nuova certezza, verso cui gli stessi corpi celesti orientano
il viator. Egli, infatti, illuminato da lo bel pianeto che d’amar conforta
(ib. v. 19), avverte il riverbero dell’amore-carità e si volge verso destra
a contemplare in alto quattro stelle / non viste mai fuor ch’a la prima
gente (cfr. ib. vv. 23-24), il cui immediato conforto lo induce a prorompere:
“Goder pareva ’l ciel di lor fiammelle:
oh settentrïonal vedovo sito,
poi che privato se’ di mirar quelle!”
(ib. vv. 25-27).
Esse gl’infondono, infatti, l’ansia della purgazione, accendendo in
lui l’ardore delle virtù cardinali, necessarie alla rigenerazione morale;
come un navigante nell’emisfero boreale governa la propria rotta leggendo la mappa astronomica del cielo e, seguendo l’ago magnetico
della bussola, si lascia guidare dall’Orsa Maggiore, così Dante, contemplando quei nuovi astri che sorgono proprio quando nell’altro
emisfero tramonta il Carro, ha l’impressione di aver finalmente ritrovato la diritta via:
“Noi andavam per lo solingo piano
com’om che torna a la perduta strada,
che ‘nfino ad essa li pare ire in vano.”
(ib. vv. 118-20)
L’andare in vano è nocivo nel Purgatorio, dove ogni sosta involontaria può causare un ritardo nel compimento del processo penitenziale e risolversi quindi in una colpevole negligenza:
“ché perder tempo a chi più sa più spiace” (Purg. III, v. 78) 21.
__________
20
Cfr. Inf. I, v .43.
Cfr. ancora Purg. V, vv. 10-11; XII, vv. 77-78 / 84-87; XV, vv. 120-3 / 136;
XVIII, v. 103; XXIII, vv. 4-7; XXIV, vv. 1-2; XXVII, vv. 61-63.
21
283
La dinamicità del Purgatorio si evidenzia anche nei rapidi trapassi temporali: Dante e Virgilio, ben consapevoli dell’urgere della salvezza, incedono veloci, proiettati verso il futuro per un tragitto particolarmente lungo e tortuoso, disseminato di balze scoscese ed ardui dirupi 22, che potrebbero rallentarne il passo. Il viaggio, intrapreso all’alba della domenica di Resurrezione, si conclude, infatti, dopo tre giorni, al mezzogiorno del mercoledì successivo, in un crescendo di luci e di ombre, in un’alternanza di giorni e di notti, di esperienze ascetiche e di sogni profetici; poiché
anche le notti, in cui non si può fisicamente procedere per la presenza delle tenebre, rischiarate comunque dalle tre facelle che simboleggiano le virtù teologali 23, lungi dall’essere statiche ed oppressive, costituiscono momenti fondamentali di conoscenza ed
avanzamento: così Lucia, mentre Dante dorme, lo trasporta al di
là dello scoscendimento del Purgatorio, consentendogli di raggiungere l’Angelo portiere; la femmina balba lo ammonisce sui falsi piaceri terreni; Lia e Rachele, infine, gli rammentano il valore
morale della vita attiva e contemplativa per il conseguimento della Grazia.
Al contrario, la buia voragine infernale sanza tempo tinta 24 s’inoltra verso il centro della terra sino alla terrificante presenza dell’angelo ribelle: la discesa è resa ancor più accidentata dalle difficoltà visive determinate dal fioco lume 25 e dalla persistenza delle
ombre del peccato; non v’è temporalità oggettiva in questo regno
creato da Dio prima che fosse il mondo 26, in cui l’inesorabilità della dannazione cristallizza gli stessi personaggi in un immobilismo
statuario; semmai il tempo della coscienza emerge come memoria
e rimpianto della vita perduta 27, quasi ad esorcizzare la mancanza
di futuro e l’assenza di un cambiamento. Anche il percorso di Dante sembrerebbe improntato alla stessa atemporalità, se non fosse
__________
22
Cfr. Purg. III, vv. 46-51; IX, vv. 49-51...
Cfr. Purg. VIII, vv. 88-93.
24
Cfr. Inf. III, v. 29.
25
Cfr. Inf. III, v. 75.
26
Inf. III, vv. 7-8.
27
Cfr. Inf. V, vv. 121-123.
23
284
per Virgilio, che più volte lo richiama alla realtà del viaggio, ammonendolo sullo scorrere del tempo, di cui egli sembra inconsapevole:
“Ma seguimi oramai che ’l gir mi piace;
ché i Pesci guizzan su per l’orizzonta,
e ’l Carro tutto sovra ’l Coro giace”...
(Inf. XI, vv. 112-14).
Nel c. XX:
“Ma vienne omai, ché già tiene ’l confine
d’ambedue gli emisperi e tocca l’onda
sotto Sobilia Caino e le spine;
e già iernotte fu la luna tonda;”
(vv. 124-127)
e nel XXIX:
“E già la luna è sotto i nostri piedi:
lo tempo è poco omai che n’è concesso,
e altro è da veder che tu non vedi”. (vv. 10-12),
dove la velocità del tempo è anche scandita dal moto della luna, che
nel regno infernale è l’astro guida in opposizione alla luce solare. Nell’ultimo canto la sollecitazione di Virgilio, esplicitamente riferita alla
lunghezza e alla difficoltà della via, ci fornisce un dato cronologico
preciso:
Ma la notte risorge, e oramai
è da partir, che tutto avem veduto”
(Inf. XXXIV, vv. 68-69)
si conclude il tragitto discendente ed inizia quello ascendente:
“Levati sù”, disse ’l maestro, “in piede:
la via è lunga e ’l cammino è malvagio,
e già il sole a mezza terza riede.” (Inf. XXXIV, vv. 94-96):
Virgilio dunque afferma che nel momento in cui essi si apprestano
285
a percorrere la natural burella 28 il sole si trova già in posizione mediana tra la prima e la terza ora, ossia sono le 7.30 del mattino del sabato santo, ma non secondo il meridiano di Gerusalemme, per il quale sarebbero le 19.30 dello stesso giorno. Dopo la notte passata con
tanta pieta 29 tra il giovedì e l’alba del venerdì santo, l’itinerario infernale si snoda dunque nell’arco di un solo giorno, dal venerdì al sabato, che però vede raddoppiare le sue ore a causa del passaggio dei due
pellegrini da un emisfero all’altro: e infatti Lucifero è sospeso dalla
cintola in su nell’emisfero boreale, ma lungo i suoi arti inferiori protesi verso l’alto i due viaggiatori guadagnano la risalita a Dio nell’emisfero australe, fuoriuscendo all’aria aperta proprio mentre sorge la
stella di Lucifero; pertanto il viaggio nelle viscere della terra si protrae
per 20 ore circa, enfatizzando con questa lunga percorrenza , analoga
a quella della selva, la stagnazione morale del peccato.
In paradossale coincidenza con il percorso infernale si delinea
quello paradisiaco: la fulminea gravitazione spirituale in un tripudio
di luce si compie nel corso di un solo giorno, tra mercoledì e giovedì,
da zenit a zenit 30, nell’eternità del presente:
“e di subito parve giorno a giorno
essere aggiunto, come quei che puote
avesse il ciel d’un altro sole addorno.”
(Par. I, vv. 61-63),
... “Noi siamo usciti fore
del maggior corpo al ciel ch’è pura luce:
luce intellettual, piena d’amore;
amor di vero ben, pien di letizia;
letizia che trascende ogne dolzore.”
(Par. XXX, vv. 38-42)
La persistenza della luce nel paradiso, come nell’inferno del buio,
sottrae i due regni alla dimensione del Tempo e li consegna all’Eter-
__________
28
Cfr. Inf. XXXIV, v. 98.
Cfr. Inf. I, v. 21.
30
Dante è fedele al Vangelo di Luca che indica nelle 12 il momento in cui spira Cristo e non nelle 15, come gli altri Evangelisti.
29
286
no, mentre il purgatorio vive appieno una condizione temporale strettamente connessa all’escatologia dell’anima: esso, infatti, è l’unico regno destinato all’estinzione al momento del Giudizio Universale,
quando in eterno Iddio separerà il Bene dal Male. C’è di più: nel canto XXVII del Paradiso la stessa Beatrice raffigura simbolicamente il
tempo come un albero che, tenendo le sue radici nell’eternità del Primo Mobile, il cielo che non ha altro dove / che la mente divina 31, si dirama poi, invisibile e fecondo, verso il basso, proliferando variamente sulla terra:
“e come il tempo tegna in cotal testo
le sue radici e ne li altri le fronde,
omai a te può esser manifesto.”
(Par. XXVII, vv. 118-120)
Anche nel purgatorio, nella cornice dei golosi, compaiono due
strani alberi, esemplari forse di quell’albero della vita o della Scienza
del bene e del male 32 che, secondo la tradizione biblica, sarebbe stato collocato nel giardino dell’Eden 33; entrambi hanno le radici sulla
terra e sono ricchi di frutti, ma nel primo viene dato rilievo alla chioma, che invece di rastremarsi verso l’alto, si assottiglia in basso, per
impedirne la spoliazione:
“un alber che trovammo in mezza strada,
con pomi a odorar soavi e buoni;
e come abete in alto si digrada
di ramo in ramo, così quello in giuso,
cred’io, perché persona sù non vada.” (Purg. XXII, vv. 131-135)
intorno al secondo 34, si dà visibilità alle anime, che vanamente ai frutti tendono le mani. I due alberi derivano dal lignum genesiaco che si
innalza nel paradiso terrestre:
__________
31
Cfr. Par. XXVII, vv. 109-110.
Cfr. Purg. XXXIII, vv. 58-72. Beatrice chiarisce la natura di questo albero:
grandezza e forma figurano l’inaccessibile profondità della giustizia divina.
33
Cfr. Genesi 2,9.
34
Cfr. Purg. XXIV, vv. 103-105.
32
287
“Io senti’ mormorare a tutti ‘Adamo’;
poi cerchiaro una pianta dispogliata
di foglie e d’altra fronda in ciascun ramo.
La coma sua, che tanto si dilata
più quanto più è sù,”…
(cfr. Purg. XXXII, vv. 38-42)
d’intorno i penitenti deplorano la colpa de l’anima prima 35 e lodano il Redentore. L’albero che ha radice nel Primo mobile, quello del tempo cosmico, e quello della vita, eccelsa…e sí travolta
ne la cima 36 si presentano dunque come simbologie complementari, poiché dal primo germina il secondo, ma anche antitetiche,
perché
“Qualunque ruba quella o quella schianta,
con bestemmia di fatto offende a Dio,
che solo a l’uso suo la creò santa.”
(Purg. XXXIII, vv. 58-60):
non è dato, dunque, alla umana gente 37 di conoscere la natura
del Bene e del Male, che risiede ab aeterno soltanto nella mente di Dio. Proprio in vista di ciò è interesse degli spiriti avanzare con celerità, sostenuti anche dai suffragi dei vivi, ed espletare
i riti penitenziali che li redimeranno, rendendoli degni di adire
alla Verità 38.
Fino a quando Catone non esorta Dante penitente al primo rito lustrale 39, sembra quasi che questa massiccia mole del Purgatorio, alle
spalle dei due pellegrini, non abbia presenza scenica, perché per Dante, ancora offuscato dalla caligine infernale, ne sarebbe prematura la
visione; ma il sorgere del sole ed il rito di abluzione e di umiltà, a cui
il Poeta viene sottoposto, la proiettano in primo piano, come strada
obbligata, tramite la quale conseguire la perfezione:
__________
35
Cfr. Purg. XXXIII, v. 62.
Cfr. Purg. XXXIII, vv. 65-66.
37
Cfr. Purg. III, vv. 34-45.
38
Cfr. ib. v. 6.
39
Cfr. ib. vv. 121-129.
36
288
“Poscia non sia di qua vostra reddita;
lo sol vi mosterrà, che surge omai,
prendere il monte a più lieve salita.”
(ib. vv. 106-108)
La montagna si staglia altissima sull’orizzonte marino sino a
14.000 metri, totalmente isolata nell’emisfero delle acque e intatta al
suo culmine da perturbazioni atmosferiche 40. È la seconda volta che
Dante, uscito da una condizione di pena, si trova a fronteggiare un
percorso ascetico, caratterizzato dagli stessi elementi: fuori della selva
il colle illuminato dai raggi del pianeta 41, fuor del fiume infernale la
montagna che ’nverso ’l ciel più alto si dislaga 42. Nel primo caso l’intervento della ragione, accorsa in suo aiuto, lo distoglie dal proseguire quell’ascesa impossibile con risorse umane deficitarie; nel secondo
caso, invece, lo stesso Catone lo esorta, dato il suo ravvedimento, ad
accelerare il passo, insieme alle altre anime appena sbarcate, verso la
liberazione dal peccato:
... “Che è ciò, spiriti lenti?
qual negligenza, quale stare è questo?
Correte al monte a spogliarvi lo scoglio
ch’esser non lascia a voi Dio manifesto.” (cfr. Purg. II, vv. 120-123)
Che il colle della salvezza sia o meno identificabile con la montagna del Purgatorio non si può escludere né affermare con certezza; se
pure si voglia prescindere dalla rispettiva collocazione geografica, il
loro valore allegorico può considerarsi analogo: entrambi segnano infatti un cammino verticale, illuminato dalla Grazia, ad indicare una
terza dimensione, ascetica e contemplativa, che si erge oltre il piano
terreno ed il mondo umano 43.
__________
40
Cfr. Purg. XXI,vv.43-57.
Cfr. Inf. I, v. 17.
42
Purg. III, v. 15.
43
Cfr. V. Sermonti, Inferno, Rizzoli 2003, pg. 21: “Forse questo colle qui non
è che un miraggio antipodale, la sagoma illusoria d’una promessa”; o forse lo si
potrebbe intendere come il colle della prova di Abramo, contrapposto al monte
Tabor, luogo della trasfigurazione di Gesù, l’uno segno figurale dell’altro?
41
289
La montagna, cronotopo della redenzione, si caratterizza, lungo la
costa e sulla vetta, per una vegetazione corrispondente al martirio penitenziale. Il giunco schietto, umile pianta (cfr. ib. v. 135) inadatta a
far fronda ed indurare, alla base del monte, si piega a favorire l’atto
dell’espiazione, all’opposto di un alto e superbo fusto, vanamente rigoglioso, che resisterebbe all’onda spirituale dell’acqua purificatrice 44; ed inoltre esso si rigenera istantaneamente, ad indicare il rinnovamento morale a cui miracolosamente predispone. Al culmine dell’ascesa, invece, la divina foresta spessa e viva 45, incontaminato luogo
nel polo opposto a Gerusalemme, lontano dalla terra e dal Male, vicino alle stelle e al Bene:
“Quelli ch’anticamente poetaro
l’età dell’oro e suo stato felice,
forse in Parnaso esto loco sognaro.”
(Purg. XXVIII, vv. 139-141)
Qui, dove si adempie il ciclo della rigenerazione, un’aura dolce,
sanza mutamento, eterna primavera, foglie tremolanti, uccelli canterini, picciole onde, vermigli e gialli fioretti, rivelano che:
“Lo sommo Ben, che solo esso a sé piace,
fé l’uom buono e a bene, e questo loco
diede per arr’a lui d’etterna pace.” (Purg. XXVIII, vv. 91-93)
Il mondo naturale di questo luogo mediano, ove fu innocente l’umana radice 46, regolato da meccanismi cosmici, la rotazione dei cieli,
e da volontà sovrannaturale, realizza la capacità visionaria ed onirica
del suo autore, che ha voluto collocare questa selva antica 47 agli antipodi di quella terrena, avamposto di paradiso.
Ed infatti non solo simbolicamente, la selva del peccato si presenta al nostro istintivo immaginario popolata da alberi deformi e nodosi, da ombre bieche ed inquietanti, da strani suoni e bisbigli, non se-
__________
44
Cfr. ib. v. 100-105.
Purg. XXVIII, v. 2.
46
Purg. XXVIII, v. 142.
47
Cfr. Purg. XXVIII, v. 23.
45
290
gnata da neun sentiero 48, così simile al bosco dei suicidi da farci comprendere, anche fuor di metafora, il suicidio dell’umanità che sceglie
di dannarsi. In Dante il ricordo di esta selva selvaggia e aspra e forte
rinnova la paura e conferma la certezza che poco è più morte, a tal punto da collocarla all’inizio del suo processo spirituale, quale icona della bestialità ed irrazionalità dell’istinto. In contrasto chiaroscurale,
... “ in questo luogo eletto
a l’umana natura per suo nido,”
(cfr. Purg. XXVIII, vv. 77-78)
sono tutti i topoi del locus amoenus, ombroso, ventilato, un vero e proprio giardino irrigato 49 da acque perenni, la cui fonte inesauribile è alimentata dal voler di Dio 50. Quale ambiente vegetale è più ordinato di un
giardino e più dissimile dal disordine di una selva? La stessa ricchezza
della sua vegetazione è il necessario presupposto della fecondità terrena, poiché ogni pianta di questa campagna santa 51, percossa dall’aria prodotta dalla rotazione provvidenziale dei cieli, la impregna delle proprie
virtù generative, che a loro volta si profondano nel regno umano:
“e l’altra terra, secondo ch’è degna
per sé e per suo ciel, concepe e figlia
di diverse virtù diverse legna.”
(Purg. XXVIII, vv. 112-114)
Solo un albero è qui che non è in terra e frutto ha in sé che di là
non si schianta 52: è l’albero della vita e della conoscenza del bene e del
male, a causa del quale l’uomo ha perduto la felicità:
“Per sua difalta qui dimorò poco;
per sua difalta in pianto e in affanno
cambiò onesto riso e dolce gioco.” (Purg. XXVIII, vv. 94-96)
__________
48
Cfr. Inf. XIII, v. 3.
La parola “paradiso” di origine persiana, con analogo significato in ebraico e greco, indica un giardino irrigato.
50
Cfr. Purg. XXVIII, v. 125.
51
Cfr. Purg. XXVIII, v. 118.
52
Purg. XXVIII, v. 120.
49
291
Se dunque l’Eden di Dante è ancora il regno della natura incorrotta, assegnato da Dio all’uomo perfetto, àdham, al di là delle nubi, fuori dall’atmosfera terrestre e volto a lambire il Cielo, il
suo paradiso è piuttosto un deiforme regno 53. Il nostro poeta colloca quest’estensione immateriale fuori dalle categorie spaziotemporali e celebra con essa l’instaurarsi di un “cielo e terra nuovi”, nel gaudio della Gerusalemme celeste, da cui trae origine il
genesiaco albero della vita 54; esso sembra risuonare dell’eco evangelica della frase rivolta da Gesù sulla croce al buon ladrone: “In
verità ti dico: oggi sarai con me in paradiso” 55, come una promessa di vita eterna che debella l’angoscia della morte. Pura Luce si oppone al Buio tetro. Qui indurisce Lucifero, lì germoglia
il Nazareno.
Nel mondo gli esseri dotati di intelletto possono riconoscere l’epifania del divino, di cui il creato porta inequivocabili orme 56, e infatti
Beatrice afferma che:
... “Le cose tutte quante
hanno ordine tra loro, e questo è forma
che l’universo a Dio fa simigliante.”
(Par. I, vv. 103-105),
per cui, come proclama S. Paolo 57, “noi ora vediamo...come per mezzo
di uno specchio, in immagine; allora invece vedremo faccia a faccia; ora
conosco solo in modo imperfetto, ma allora io conoscerò perfettamente
nello stesso modo con cui sono conosciuto”. Pertanto solo nel giardino
cosmico, tra un tripudio di luci e di canti, al magnanimo sarà rivelata
l’incarnazione, sarà percepibile il volto di Cristo, sarà consentita la visione intuitiva ed estatica di Dio:
__________
53
Cfr. Par. II, v. 20; cfr. Convivio II, III, 8. “Questo è lo soprano edificio del
mondo, nel quale tutto lo mondo s’inchiude, e di fuori dal quale nulla è: ed esso
non è in luogo, ma formato fu solo nella prima Mente”.
54
Giovanni, Apocalisse, 2,7: “Chi ha orecchi ascolti ciò che lo spirito dice alle
chiese: al vittorioso farò mangiare dall’albero della vita che è nel paradiso di Dio”.
55
Luca, 23-43.
56
Cfr. Par. I,vv. 106-108.
57
S. Paolo, Ep. ai Corinti (I,13,12).
292
“Ne la profonda e chiara sussistenza
de l’alto lume parvermi tre giri
di tre colori e d’una contenenza,
e l’un da l’altro come iri da iri
parea reflesso, e ’l terzo parea foco
che quinci e quindi igualmente si spiri.” (Par. XXXIII, vv. 115-120)
Nell’immagine astrattamente geometrica dei tre cerchi si supera
così ogni vegetomorfismo e si imparadisa il nostro poeta.
Se dunque l’abisso infernale è perpendicolare alla superficie terrestre o marina, è segno che le distese di terre e di acque costituiscono
la demarcazione morale tra il negativo e il positivo, l’orizzonte geometrico su cui si riflette la trascendenza del raggio divino e attraverso
cui discorre l’intelletto umano. Come il raggio riflesso suole uscire dal
raggio d’incidenza e proiettarsi verso l’alto 58, così dalla trascendenza
divina si determina quella via ascendente che induce la creatura a tornare al Creatore: il raggio d’incidenza è dunque la Provvidenza, quello riflesso è il creato che tende a Dio 59, di cui l’uomo è l’esito più
completo, partecipe di intelletto ed amore 60.
Nell’ordine universale, molteplice ed armonico, l’uomo riscontra
l’evidenza dello spirito creatore, le fronde onde s’infronda tutto l’orto
/ de l’ortolano etterno 61, ne interpreta i segni e attraverso di essi risale alla contemplazione del Divino: è il processo culturale che, inaugurato da S. Agostino 62, informa tutta la visione del mondo medievale,
fino a culminare nella mistica francescana. La montagna è così il correlativo oggettivo di questo itinerario della mente verso Dio 63, è la
perpendicolare che dall’orizzonte umano traccia l’ordinata spaziale
verso l’infinito; pertanto l’uomo per istinto naturale, specchiandosi
__________
58
Cfr. Par. I, vv. 49-50.
Cfr. Par. I, vv. 106-108.
60
Cfr. Par. I, vv. 118-20.
61
Cfr. Par. XXVI, vv. 64-65.
62
S. Agostino: De dialectica (387 d.C.), De magistro (389 d.C.) e De doctrina
christiana (396-97 d.C.).
63
Cfr. S. Bonaventura da Bagnoregio, Itinerarium mentis in Deum (a.D. 1259).
59
293
nell’immagine che lo rappresenta, si orienta, una volta privo d’impedimento, verso il ricongiungimento con Chi lo ha generato:
“Maraviglia sarebbe in te se, privo
d’impedimento, giù ti fossi assiso,
com’a terra quiete in foco vivo.”
(Par. I, vv. 139-141)
L’uomo è la corda tesa tra il ferino e il Divino, partecipe di entrambe le forme, cuore pulsante, corporeo e spirituale, del creato; ed
Adamo, capostipite della specie umana, è l’antonomasia della creazione 64, responsabile della dannazione di tutti gli uomini fino al sacrificio di Cristo:
“Per non soffrire a la virtù che vole
freno a suo prode, quell’uom che non nacque,
dannando sé, dannò tutta sua prole;
onde l’umana specie inferma giacque
giù per secoli molti in grande errore,
fin ch’al Verbo di Dio discender piacque
u’ la natura, che dal suo fattore
s’era allungata, unì a sé in persona
con l’atto sol del suo etterno amore.”
(Par. VII, vv. 25-33)
In Adamo, creato dal fango, Dio soffia il suo spirito creatore, il Bene, per dar forma all’informe, che è principio del Male, l’aversio a
Deo; dopo Adamo, Cristo generato, non creato da Dio e quindi della
__________
64
Cfr. G. Pico della Mirandola, Oratio de hominis dignitate (1485-86): “...La
natura degli altri esseri, stabilita una volta per sempre, è costretta entro leggi da me
fissate in precedenza. Tu invece, da nessun angusto limite costretto, determinerai
da te la tua natura, secondo la tua libera volontà, nel cui potere ti ho posto. Ti ho
messo al centro del mondo perché di lì più agevolmente tu possa vedere, guardandoti intorno, tutto quello che nel mondo esiste. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché tu, come se di te fossi il libero e sovrano creatore, ti plasmi da te secondo la forma che preferisci. Tu potrai degenerare abbassandoti sino agli esseri inferiori che sono i bruti, oppure, seguendo l’impulso del tuo
animo, rigenerarti elevandoti agli spiriti maggiori che sono divini”.
294
sua stessa forma, vestirà l’informe per riscattare l’umanità corrotta dal
peccato originale:
“Or drizza il viso a quel ch’or si ragiona:
questa natura al suo fattore unita,
qual fu creata, fu sincera e buona;
ma per sé stessa pur fu ella sbandita
di paradiso, però che si torse
da via di verità e da sua vita.”
(Par. VII, vv. 34-39)
È proprio Adamo a svelare a Dante in paradiso quale sia stato l’atto di allontanamento da Dio da lui commesso e trasmesso all’intera
generazione umana:
“Or, figliuol mio, non il gustar del legno
fu per sé la cagion di tanto essilio,
ma solamente il trapassar del segno.” (Par. XXVI, vv. 115-117)
Il peccato di Adamo è anche quello di Ulisse; è quello delle nove
Pieridi, che si ostinarono a sfidare le Muse nel canto e quando la prima di esse, a nome di tutte le altre, esaltando la ribellione dei Giganti, extenuat magnorum facta deorum, come narra Ovidio 65, Calliope di
rimando le intonò il mito di Cerere e Proserpina, decretandone la
sconfitta:
“e qui Calliopè alquanto surga,
seguitando il mio canto con quel suono
di cui le Piche misere sentiro
lo colpo tal, che disperar perdono.” (ib. vv. 9-12);
sull’esaltazione del prometeico ingegno umano prevale la saggia accettazione della volontà del Sommo Giove 66, nobilitata dalla coscienza dei duri travagli affrontati e del premio futuro. È la tracotanza del
__________
65
66
Cfr. Ovidio, Metamorfosi V, v. 320.
Cfr. Purg. VI, v. 118.
295
satiro Marsia, che presume di poter superare lo stesso Apollo nel suono del flauto 67:
“Entra nel petto mio, e spira tue
sì come quando Marsia traesti
de la vagina de le membra sue.”
(Par. I, vv. 19-21);
è questo il peccato per eccellenza, cui tutti gli esseri sono inclini in virtù del loro libero arbitrio ed al quale Dante intende sfuggire, costantemente ammonito a seguire senza intemperanze il cammino che lo riporterà a Dio.
Dunque Ulisse e Catone stanno agli antipodi sull’asse verticale e
Dante, per gradus, ha lasciato lo stretto ambito della superba curiositas del primo elevandosi alla umile magnanimità dell’altro.
È invece chiaramente speculare il rapporto tra Adamo e Cristo: l’uno il
frutto maturo del creato 68, l’altro il Creatore generato; l’uno l’orizzonte,
l’altro l’Infinito; l’uno l’anno 0 del tempo umano, l’altro l’anno 0 della storia cosmica. E Dante discorre dall’uno all’altro, ripercorrendo l’esperienza dell’uno per giungere all’altro: Adamo, infatti, artefice della colpa primigenia, a causa di essa degrada al ferino, ma fatto oggetto del perdono di
Cristo, che dopo la sua resurrezione discende agli Inferi per liberarlo, riconquista la beatitudine; ed anche Dante, sottratto dall’intercessione della Madonna alla selva del peccato e calatosi giù sin nell’intimo della terra,
si guadagna faticosamente la risalita a Dio. Il duplice itinerario, discendente ed ascendente, che li accomuna rende ancor più suggestivo il loro incontro nel cielo delle stelle fisse; Dante è così divoto 69 che quasi non trova
parole per la sua supplica e lo stesso Adamo deve interpretarne la voglia:
“Tu vuogli udir quant’è che Dio mi puose
ne l’eccelso giardino, ove costei
a così lunga scala ti dispuose,
e quanto fu diletto a li occhi miei,” (Par XXVI, vv. 109-112).
__________
67
Cfr. Ovidio, Metamorfosi VI, vv. 382 etc.
Cfr. Par. XXVI, vv. 91-92.
69
Cfr. Par. XXVI, v. 94.
68
296
Le risposte a queste prime due domande, che solo apparentemente sembrerebbero soddisfare la mera curiosità d’un cronista, assumono, se interpretate esotericamente, un’importanza assai rilevante, perché Adamo svela a Dante l’arco temporale della sua vita, dalla dimora nell’Eden, della durata di 7 ore circa:
“Nel monte che si leva più da l’onda
fu’ io, con vita pura e disonesta,
da la prim’ora a quella che seconda,
come ’l sol muta quadra, l’ora sesta.”
(Par. XXVI, vv. 139-142),
fino alla morte; dall’attesa nel Limbo alla promozione divina:
“Quindi onde mosse tua donna Virgilio,
quattromila trecento e due volumi
di sol desiderai questo concilio;
e vidi lui tornare a tutt’i lumi
de la sua strada novecento trenta
fiate, mentre ch’io in terra fu’mi.”
(Par. XXVI, vv. 118-123) 70
Ora è necessario fare due calcoli: è già curioso constatare che anche
Dante, giunto sulla sommità della montagna, vi sosti per circa 7 ore, tra
riti lustrali e processioni allegoriche, dall’alba al mezzodì; ma non basta, poiché se sommiamo ai 930 anni di vita terrena di Adamo i 4302
trascorsi nel Limbo fino al fatidico anno 33 d.C., e di conseguenza sottraiamo questi ultimi 33 anni alla data in cui si svolge il viaggio di Dante, il 1300 71, ci risulta senza possibilità di errore che Dante colloca l’anno 0 del tempo umano all’incirca 6.499 anni e 7 ore prima; e se poi colleghiamo a questi dati cronologici lo stesso incipit della Commedia:
“Nel mezzo del cammin di nostra vita”
__________
70
Cfr. Purg. XXXIII, vv. 61-63: “Per morder quella, in pena e in desio \ cinquemila anni e più l’anima prima \ bramò colui che ‘l morso in sé punio”.
71
Cfr. Inf. XXI, vv. 112-114: “Ier, più oltre cinqu’ore che quest’otta, \ mille
dugento con sessanta sei \ anni compiè che qui la via fu rotta”.
297
come un’indicazione temporale non più soggettiva, ma collettiva, che
riguarda cioè l’intera umanità, allora è lecito desumere che Dante individui nel 1300 d.C. l’anno centrale del tempo umano, aggiungendo
al quale, dopo le 7 ore da lui trascorse nel paradiso terrestre, altri
6.499 anni, è possibile ottenere come risultato il tempo cosmico di circa 13.000 anni.
Ecco perché Dante si colloca proprio a metà, è la vera corda tesa
nel tempo della storia tra Ulisse e Catone, nell’eterno tra Adamo e
Cristo; è quello “spirito guida” che ci accompagna sin nell’Empireo a
contemplare l’effige di Adamo nella seconda persona della Trinità:
“Quella circulazion che sì concetta
pareva in te come lume reflesso,
da li occhi miei alquanto circunspetta,
dentro da sé, del suo colore stesso,
mi parve pinta della nostra effige:
per che ’l mio viso in lei tutto era messo.”
(Par. XXXIII, vv. 127-132),
e nello stesso momento in cui egli si sforza di capire come possa l’orizzonte esser compreso nell’infinito, come si convenne / l’imago al
cerchio, e come vi s’indova 72, ce li consegna per sempre, e non più come un dogma di fede, ma come una realtà.
Siracusa, gennaio 2005
__________
72
298
Cfr. Par. XXXIII, vv. 137-138.
INDICE
Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
pag.
7
Paradiso, c. XVII. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Legno sanza vela e sanza governo . . . . . . . . . . . . . . . . .
”
”
9
14
Inferno, c. XIX . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Una spelonca di ladri. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
”
”
35
40
Purgatorio, c. VI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Il planh di Dante. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
”
”
53
60
Purgatorio, c. XVI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Il vate della rinnovata barbarie . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
”
”
79
84
Paradiso, c. XXV. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Le virtù teologali tra realtà e sogno . . . . . . . . . . . . . . . .
”
”
99
104
Inferno, c. V . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Galeotto fu ’l libro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
”
”
125
130
Paradiso, c. III . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Le velate svelate . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
”
”
137
142
Purgatorio, c. XXX . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Il metodo della salvezza. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
”
”
161
167
Inferno, c. XXVI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Ulisse e Dante: eroi off-limits . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
”
”
187
192
Purgatorio, c. XI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Exegi monumentum aere perennius. . . . . . . . . . . . . . . .
”
”
211
217
Paradiso, c. I . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Il segno dell’ineffabile . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
”
”
245
250
Purgatorio, c. I. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
…Puro infino il primo giro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
”
”
271
277
299
300
NELLA STESSA COLLANA
Giorgio Bàrberi Squarotti, Ottocento ribelle, (pp. 344, € 15, 2005)
Bruno Fabi, Il tutto e il nulla: saggio di una filosofia dell’irrazionale,
(pp. 328, € 13, 2006)
Alessandro Masi, L’italiano delle parole: appunti per una politica linguistica (pp. 176, € 12, 2007)
Walter Mauro, Vita di Giuseppe Ungaretti, (pp. 184, € 13, 2006)
Marcello Verdenelli, Foscolo: una modernità al plurale, (pp. 424, € 18,
2007)
Aldo Onorati, Virginio Cesarini, Galileo, i Licei e la Roma di Urbano
VIII (pp. 160, € 13, 2007)
Bruno Fabi, Delirium: diario d’inganno, (pp. 128, € 10, 2008)
301
302
A ricordo del nostro ascoltatore assoluto,
lettore ideale, Mons. Sebastiano Gozzo,
parroco di S. Martino
303
Finito di stampare
presso la Tipolitografia Santa Lucia
00047 Marino (RM)
Via Cairoli, 28 - Tel. 06.938.51.53
nel mese di aprile 2008
304