il saluto della citta` di assisi

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il saluto della citta` di assisi
IL SALUTO DELLA CITTA’ DI ASSISI
Claudio Ricci, Sindaco di Assisi
Per me è un grande privilegio portare il saluto dell’amministrazione comunale della
serafica città di Assisi. Saluto il presidente, il vicepresidente della Provincia di
Perugia, i rappresentanti delle Istituzioni, e soprattutto mi auguro che le giornate
che passerete ad Assisi siano per voi molto significative, in un luogo che - è stato
citato - è ancora un cantiere.
Io voglio esservi molto grato per il vostro lavoro, per la vostra missione generosa:
per la missione generosa dei capisala, dei coordinatori infermieristici e di quanti
sono al servizio di coloro che vedono in voi, in un momento complesso della loro
vita, anche un punto di riferimento.
La vostra è certamente una funzione tecnica, scientifica, ma credo che sia
soprattutto una missione.
Siete ospiti presso il teatro "Lyrick". Qui accanto avrete l’opportunità di visitare un
altro cantiere, il nuovo pala-eventi , un’archeologia industriale "Nervi Morandi" in
itinere di completamento, che ci permetterà nei prossimi 18 mesi di completare
spazi per attività socio-culturali e incontri che raggiungeranno la estensione di circa
12.000 metri quadrati.
Mi auguro anche che queste giornate siano per voi un’opportunità per apprezzare,
con l'armonia del paesaggio, i numerosi restauri che abbiamo eseguito nell’ampio
territorio di Assisi. Avete visto alcune fotografie che vi hanno accompagnato
nell’attesa dell’avvio dei lavori.
Al riguardo, vi lascio un numero: abbiamo realizzato dal 1997 ad oggi circa 4.000
interventi di restauro (opere di riqualificazione urbana): ecco, le "pietre vive" della
città di Assisi (luogo di incontro, luogo del dialogo, luogo della reciproca
comprensione) sono state così ampiamente qualificate.
Assisi è un luogo dichiarato dall’UNESCO patrimonio di tutta l’umanità; è un luogo
da cui si erge l’arte pittorica europea: Giotto, Simone Martini, Pietro Lorenzetti,
Cavallini, Cimabue, che qui passarono dalla pittura bidimensionale bizantina a quella
tridimensionale, alle attività tridimensionali prospettiche che nascono appunto con
Giotto e con l’arte pittorica europea. E’ anche un luogo che si prepara a candidarsi a
capitale europea della cultura per l’anno 2019, con la rete delle città dell’Umbria.
Mi piace pensare che questa vostra attività sia anche un’opportunità per riflettere
su quello che taluni chiamano un "nuovo umanesimo" e la capacità, con esso, di
andare sempre più verso l’altro; la capacità, con esso, di perdere la nostra
singolarità e concepire invece un po’ di più la nostra pluralità. Mi piace pensare che
la vostra capacità di andare verso l’altro, perdendo la singolarità e vivendo la propria
e la vostra esperienza professionale, in maniera corale e collettiva, sia un segno
anche di quel "nuovo umanesimo" di cui si comincia a parlare.
Voglio concludere augurandovi buon lavoro, sottolineando che dovete avere
orgoglio per quello che fate ogni giorno.
Generosità è la parola con cui ho iniziato il mio discorso, però dovete anche essere
orgogliosi del vostro lavoro, dell’apporto fondamentale che mettete nella
edificazione della persona. E da questo punto di vista vorrei concludere con una
affermazione di Papa Francesco, che mi appare fortemente collegata alla vostra
missione, che, ripeto, è missione scientifica, è missione tecnica, ma rimane
comunque missione.
Quando Papa Francesco parla di "reciproca custodia", la sua mi sembra
un’affermazione che si possa pienamente collegare con le vostre attività.
Questa "reciproca custodia", il Pontefice la declina dicendo che "prima si è custodi di
se stessi, prima si cerca dentro di noi, prima si approfondiscono le tematiche
spirituali, etiche, scientifiche, tecniche dentro di noi, e poi, una volta pronti in
questo, ci si dedica alla seconda parte: "essere custodi degli altri in una forma
reciproca". Ed in fondo la sintesi delle giornate che affronterete è forse anche la
sintesi del vostro lavoro, della vostra missione: voi siete esempio, modello,
riferimento di questa "custodia reciproca", e io mi auguro che queste giornate siano
per voi utili ad accrescere questa missione di custodire voi stessi e gli altri.
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Società, cultura, transizione:
nuovi orizzonti
Lezione magistrale
Gianni Tognoni
Medico, filosofo, Direttore Consorzio “Mario Negri Sud
Premessa
Penso sia giusto partire come tutti hanno fatto fino adesso dal sottolineare le parole
che sono nel titolo di questo incontro: le competenze e le responsabilità. Vorrei
farlo, visto che tutto quello che so sul mondo infermieristico lo ho appreso
lavorando per ormai più di 30 anni con la Rivista dell’Infermiere prima, e poi con
AIR, facendo una citazione di qualcosa che verrà pubblicato nel prossimo numero:
un contributo che fa proprio il punto sulle competenze infermieristiche oggi
disponibili e mette in evidenza che c’è una dissociazione importante tra le
competenze potenziali attraverso le conoscenze che si acquisiscono, e i compiti che
poi vengono affidati a queste competenze. In altre parole: c'è un ponte, o un
intreccio, o almeno una possibilità di fare delle competenze una risorsa-riserva di
responsabilità?
E' importante partire da questa dissociazione perché è il punto critico da tenere
presente per sapere se l' “e” può restare una normale congiunzione che descrive in
modo neutro, o se specificamente, mette in evidenza ciò che caratterizza oggi il
nostro vivere nella sanità e nella società, che sono in transizione (verso orizzonti
nuovi?). Noi viviamo di fatto, ed è importante non prescinderne, al di la delle
dichiarazioni, in un tempo di crisi. Questo dato, infinitamente ripetuto, provoca
quasi dappertutto un senso di sottomissione alla crisi, la crisi è qualcosa che viene
proclamata da tutte le parti e viene utilizzata per giustificare non importa che cosa,
soprattutto in Italia. Il rischio è che le competenze vengano schiacciate su una
interpretazione della responsabilità, che finisce per essere una responsabilità
semplicemente gestionale, che scaccia l’altra parola del titolo, la efficacia come
qualifica dell’assistenza. La "care" diventa una variabile dipendente dalle risorse, o
dagli equilibri gestionali. E’ un problema che viviamo come Paese, che ha sostituito
la costituzione con il "fiscal compact", che dice che la costituzione deve obbedire
alle ricette economiche europee. La riduzione a elementi strettamente economici
tocca il quotidiano di tutti, ma in maniera particolare, come sempre, le professioni
che più da vicino gestiscono il quotidiano e non c’è dubbio che la professione
infermieristica nella sanità, e perciò il ruolo e le responsabilità delle coordinatrici e
dei coordinatori, finiscono per essere un luogo molto specifico di dissociazione.
Che cosa fare quando si vive in un tempo di dissociazione? Evidentemente, e
facilmente, si può continuare a denunciarlo con l'ovvio rischio di assorbire tutta
l’attenzione rispetto al termine "alto" dei nuovi orizzonti che, in qualche modo
dovrebbero essere quello che determina l’investimento della responsabilità. Non si
può essere responsabili solo verso il passato, o verso qualcosa che è già un obbligo.
E non si può cambiare se il "prodotto" deve avere come misura il bilancio, che non è
un orizzonte né vecchio né nuovo, ma semplicemente una trappola che impedisce di
sviluppare qualsiasi idea.
Ora ho pensato di dare a questa mia presentazione (che è evidentemente più una
riflessione che una lezione magistrale) l'obiettivo di "interpretare" l' “e” che sta tra
competenza e responsabilità.
La domanda è una domanda aperta, cioè una domanda di ricerca nel senso più
pieno del termine: è possibile oggi essere responsabili della cura e non soltanto dei
bilanci?. Se non si è responsabili di un progetto di nuovi orizzonti di cura,
evidentemente la possibilità di una "transizione verso" si spegne e diventiamo degli
"esecutori di " non importa che cosa.
Quadro di riferimento
Il percorso che propongo è quello di fare con voi un protocollo di ricerca. Come
sempre quando si fa un progetto, ci si guarda intorno domandandosi qual è la
bibliografia pertinente, la competenza che dobbiamo prendere come acquisita,
"normale", per sapere come partire verso nuovi orizzonti. La bibliografia può essere
ricondotta a 5 scenari, che sono esemplari della società e della cultura di oggi.
(Tabella 1). Il primo scenario è obbligatorio, non soltanto perché siamo in Italia, e
purtroppo sono continuate a morire e continuano a morire tante persone (che sono
fuori dai nostri ambiti di cura, ma sono degli "umani"). Lampedusa è l’esempio
perfetto di come si può avere una evidenza (noi tutti viviamo in tempi di evidenze!)
che diventa in effetti semplicemente la constatazione di qualcosa che non si può,non si vuole cambiare. Lampedusa pone in evidenza una dissociazione più
profonda: da una parte (nelle parole di un filosofo come Agamben) c'è la "nuda
vita": su cui non si può discutere: queste persone sono persone, al di là di tutte le
leggi, Bossi-Fini, Turco-Napolitano, di cui tutti chiacchierano: dall'altra c'è la sua
interpretazione istituzionale della vita reale e della sua dignità-diritto. Gli esempi di
come si può vivere questa dissociazione sono e possono essere molto diversi. La
donna sindaco che ha capovolto il suo ruolo istituzionale di essere custode e gestore
dell’ordine per essere qualcuna che rifiuta l’istituzione (vedi Unione Europea) che
viene a visitare per fare delle chiacchiere, consuma energie e non fa niente; Papa
Francesco che introduce un termine molto banale, ma strutturale, molto più di tanti
altri, che è l' affronto dell’"indifferenza", che è vivere in una situazione nella quale
tutte le proteste sulla dissociazione sono accolte con attenzione e dichiarazione di
interesse, ma sostanzialmente mascherare cosmeticamente l’indifferenza.
La seconda voce bibliografica importante, (per chi volesse poi approfondire questo
dibattito, che sta diventando di moda anche da noi, ma è dominante in tutta la
letteratura) riguarda la "scoperta" della importanza che la salute abbia diritto ad una
"copertura universale". L' "universal coverage" è diventato uno dei tanti acronimi
per "promettere di garantire", così da evitare di rispettare un diritto universale. La
"copertura" è un concetto strettamente assicurativo. Chi può avere risorse si
assicura rispetto a quello che gli può succedere. La copertura universale come si
viene proponendo a livello internazionale e in Italia, mira a "scaricare" il più
possibile le responsabilità reali. Esempio: molti qui hanno parlato della cronicità. La
cronicità molto spesso è qualcosa che non passa per la sanità. La cronicità si traduce
per esempio negli anziani non autonomi, con problemi di memoria, nelle RSA. C’è
bisogno di una sanità o c’è bisogno di "una immaginazione di orizzonti", per
accogliere dal punto di vista culturale e organizzativo? Il coordinatore del rapporto
sui social determinants of health, Marmot, così come il rapporto di Oxfam sono
molto espliciti: tutti quelli che parlano di copertura universale stanno parlando di
discriminare i più poveri in favore di quelli che possono meglio assicurarsi perché
possono pagarsi le assicurazioni o i contributi privati che stanno diventando
dominanti. Può sembrare che questa sia una bibliografia estranea al ruolo della
professione infermieristica, ma è importante sapere che i nostri "sguardi" e le nostre
professioni possono e devono cambiare, se problemi che vengono affrontati come
se fossero bisogni sanitari sono di fatto dei diritti violati. Dare una medicina, magari
per la demenza, che non serve a niente è una presa in giro e un peggioramento del
grado di coscienza che si ha di quelli che sono i bisogni reali. Noi abbiamo un sistema
sanitario nazionale in cui la salute è un diritto e non è un prodotto di
un’assicurazione. Se ci si rassegna ad orizzonti che scompaiono, i "nuovi" orizzonti si
traducono in maggiore discriminazione per quelli che meno hanno risorse a livello
personale, e sappiamo che tutto questo è qualcosa che tocca la realtà di moltissime
famiglie. Basta vedere i tassi di povertà assoluta che l’OCSE e poi l’ISTAT hanno
documentato per sapere che dobbiamo incominciare a vedere tra quelli che
incrociamo nelle nostre pratiche, una patologia che si chiama povertà, che non è
una nuova-diversa "malattia": è un diritto violato, molto concreto, perché si traduce
in una disautonomia rispetto la vita.
La terza referenza bibliografica è pubblicata su una rivista importante, in una rubrica
che poche/i leggono, ed è già interessante per il suo nome, Offline: per fare
riflessioni che sembrano fuori campo, ma toccano problemi critici per quanto
riguarda competenze e responsabilità. E' lo stesso editore di Lancet che va "offline",
per raccontare il Rwanda come un "miracolo". Tutte/i abbiamo conosciuto, bene o
male, anche se la maggior parte di voi sono molto giovani, quanto è successo nel
Rwanda negli anni ’90: uno dei genocidi più tremendi, favorito dalla comunità
internazionale. Non è stato un gioco "tribale". I conflitti tribali erano molto sostenuti
da conflitti che erano dei paesi occidentali che poi sono intervenuti a giochi fatti:
lasciando una società infinitamente "malata", con cifre epidemiologicamente
neppure narrabili in termini di morti, mutilati, traumatizzati. Il "miracolo del
Rwanda" è quello di una donna-ministro (che il "guardare verso orizzonti" sia una
"proprietà di genere"?) a cui è stato detto “ guarda le persone e non guardare al
bilancio”. E con un bilancio da Rwanda, che non è certo un bilancio a misura di
bisogni (e tanto meno di mercato, come i nostri), questa donna ha lanciato un
programma sanitario creativo, tutto in mano a infermiere e "promotrici di salute",
che ha investito sulle responsabilità sociali, che hanno prodotto in pochissimo
tempo (dopo un genocidio!) migliaia di persone capaci di farsi responsabili (in
assenza di, - e neppure in "transizione" verso - un "sistema sanitario") dei bisogni di
vita della popolazione. Offline breve. Vale la pena di leggerlo perché è un modo per
vedere che anche nei contesti più difficili come un genocidio è possibile avere nuovi
orizzonti. Ed è molto bello che tutto questo racconto-miracolo sia, come dalla
maggior parte dei Paesi a basse risorse, al femminile: noi che viviamo in un paese in
cui si è pensato di includere la legge sul femminicidio in un "pacchetto di sicurezza".
La quarta referenza è più "atipica", ma centrale. Il riferimento è l' iniziativa
promossa da un gruppo fuori dalle linee politiche e non per formare altri partiti con
giuristi-costituzionalisti (Carlassare, Rodotà, Zagrebelsky), sindacato (Landini), i
comuni liberati dalle mafie (Libera, Don Ciotti). Obiettivo: rigettare la dissociazione
tra Costituzione e vita reale del Paese; e tra la inviolabilità del diritto alla dignitàuguaglianza, e la arrogante promozione, in nome della finanza, e al riparo da ogni
sanzione, della intoccabilità e della infinita cumulabilità della proprietà privata.
In Piazza del Popolo c’erano 150.000 persone venute un po’ da tutte le parti con un
grande senso di festa e di futuro. E sembrava "normale" ascoltare e credere, la
Carlassare che diceva che: evidentemente è incostituzionale (cioè illegittimo, e
rende , invalide le decisioni "politiche") spendere per la guerra e tagliare per la
sanità. Per dare l’idea che il problema che si pone è molto simile a quello della sanità
di tutti i giorni: investire nelle cure acute, ma senza misurare quali sono i risultati, e
senza nemmeno "pensare" a quali sono invece i risultati dell’abbandono alla/nella
cronicità. La logica della "dissociazione" non si smente.
L’ultima citazione ha come autore il direttore per tanti anni del NICE inglese.
Lasciando la sua carica (centrale nella pianificazione sanitaria del Paese per più di 15
anni) ha pensato di fare un editoriale molto simpatico come anche stile letterario.
Dice in sintesi: si chiede ai funzionari di fare bilanci nella forma e con la finalità di
rapporti tecnici: io so che i rapporti tecnici diventano confidenziali e nessuno ne
parla. Ho pensato di fare una lettera aperta, che è proprietà-responsabilità di
tutte/i. Il NICE rappresenta l’eccellenza in Inghilterra, quello che da le linee guida,
che sono una cosa molto bella: ma solo se sono un punto di partenza: se sono un
punto d’arrivo sono morte. Il punto critico non è l'applicare in maniera molto
obbediente le linee guida, ma di aprire orizzonti alle linee guida. Se le linee guida per
l’ipertensione o per qualsiasi cosa dicono che bisogna trattare i pazienti con
ipertensione, il problema è che non c’è la capacità di seguire cronicamente i
pazienti: ed "adottare" quelli più a rischio, di marginalità, che sono anche più esposti
ai rischi-danni vascolari. Il problema non è più l’ipertensione, il problema è seguire i
pazienti. E dico l’ipertensione per parlare dello scompenso, dell’oncologia, dei malati
terminali, delle malattie mentali. Le linee guida sono la competenza da cui partire
per assumersi responsabilità.
Parole-chiave
E' tempo di passare alla Tabella 2, per sintetizzare, e fare cammino.
Una memoria forte della salute come diritto, non come assicurazione; come
attenzione a quelli che meno hanno salute, non a quelli che possono avere più
risorse e tecnologie. Per trovare nuovi orizzonti le linee guida devono essere
sperimentate, essere progetto di ricerca. In tempi di dissociazione si deve essere
coscienti che la priorità è quella di ritrovare la centralità del chiamare le cose con il
loro nome: la responsabilità si esprime nell’identificare i bisogni inevasi, che non
sono soltanto né principalmente carenze gestionali: è la "cultura della salute – come
– diritto" quella più a rischio di essere classificata come in-appropriata; in-attuale;
in-sostenibile.
Dai [più o meno tanti] "progetti di ricerca", ad una identità di ricerca di senso in
tempi di dissociazione
Per questa ricerca di senso, c'è bisogno di un tempo che è definito nel modo più
preciso nelle due parole usate da San Paolo per parlare del rapporto tra speranza e
storia: è il tempo della "paziente impazienza".
Il richiamo non è "teologico" né "religioso". La definizione della lettera di San Paolo
ai Tessalonicesi è stata punto di riferimento per tanti gruppi/popoli che, in tempi di
"crisi" e di non-speranza hanno deciso di "sperimentarsi" nella storia, facendo della
propria identità un lungo impaziente-paziente progetto di ricerca. E' possibile-
sostenibile-condivisibile una paziente ↔ impazienza come quadro di riferimento
progettuale – di competenze responsabili – da parte di coordinatrici/ori?
Proviamo allora, rapidamente, con la Tabella 3 a immaginare o a rileggere (perché
sono cose che già sapete) come tradurre le parole appena commentate nella realtà
di operatrici e operatori di sanità e di cittadinanza. Con l'ipotesi, se non la
convinzione, che non si è operatori o operatrici di cittadinanza oggi non si è
operatori di salute, perché la salute oggi è una variabile dipendente da altre
variabili.
Gli scenari proposti nella Tabella 3 non dovrebbero a questo punto aver bisogno di
commenti specifici. Vale la antica regola: "i cammini si devono fare camminando". E
l'altra ancora che ricorda che la ricerca di identità non è fatta da "professioniste/i" di
progetti di ricerca, ma da persone coscienti che per orizzonti di diritto-salute- che
interessano non solo individui, ma collettività - uno dei criteri per produrre
conoscenze fruibili in modo efficiente, efficace, appropriato, è quello di lavorare in
reti che hanno porte e finestre aperte con libertà e curiosità verso le culture
complementari a quelle sanitarie. Di tutto questo AIR ha parlato e parla, ormai da
anni, in tanti modi (e forse posso rimandare, per non annoiare-ripetermi qui, anche
all'uno o all'altro dei miei contributi). Gli "orizzonti" elencati nella Tabella 3 sono
peraltro solo esempi in un certo senso ovvi, anche se nella realtà possono apparire
provocatori, o astratti, irrealistici. Se anche soltanto una "frazione" delle persone
presenti ad Assisi (con i loro contesti di lavoro) si articolassero in reti
("specializzate", in ognuno dei loro settori, in competenza ↔ responsabilità) la
presente "impazienza" potrebbe essere positivamente sperimentata in tanti campi.
In questa direzione due ultimi rimandi sono utili per concludere. Il primo coincide
con l'ultima citazione (di una giornalista competente ↔ responsabile di ricerca di
senso) della Tabella 3: da recuperare, in un modo o nell'altro: per il linguaggio che si
esplicita e sperimenta rapporti di dialettica reale tra culture, mondi, interessi che –
in tempi di crisi – "fingono" di contrapporsi (quello della politica, dell'economia,
della sicurezza, ...) per camminare invece, con larghe intese, verso orizzonti dove la
diseguaglianza e la marginalizzazione sono obiettivi da consolidare e non "patologie"
(che diventano anche strettamente sanitarie) da prevenire ed evitare.
Sperimentare linguaggi di cittadinanza da condividere è, tra le altre, una delle sfide
(tra le più interessanti ed arricchenti) per una professione come quella
infermieristica che vorrebbe-dovrebbe essere nella società anche esperta di
"narrare la vita", al di là di essere tecnicamente strumento di gestione delle
malattie.
Il secondo rimando è un'ultima piccola serie di citazioni (Tabella 4): nessuna di esse
è scientifico-sanitaria: tutte sono tuttavia strettamente pertinenti per il "protocollo
di ricerca" che questa riflessione ha proposto come interpretazione del titolo
assegnatomi. Proviamo a farne una lettura complessiva: per essere figlie/figli, lungo
i tanti e tanto diversi giorni del tempo che si vive (Eduardo Galeano è un autore da
raccomandare per tutte/i coloro che vogliono "vedere il mondo dall'altra parte") e
che da ogni parte si diagnostica in crisi, è bene avere occhi e orecchie attente a
quanto succede nella storia, globale e quotidiana, di oggi e di ieri: Steinbeck (figlio
della "storica" crisi americana degli anni '30 lo dice molto bene); e per confermare
questo bisogno, non c'è autore più importante, nella crisi di oggi, del Fondo
Monetario Internazionale (FMI) che dalle pagine di una delle riviste più "scientifiche"
che producono le "evidenze" che spingono per una" transizione" da un mondo delle
persone ad un mondo delle cose: parlando di uno dei Paesi che più ci assomiglia (per
storia-cultura antica e per la crisi attuale), il FMI confessa che le sue ricette e le sue
linee guida (... il linguaggio ci è familiare) per la Grecia erano una medicina inutile,
inappropriata, falsificata, prodotta da conflitti di interesse di economisti-politici che
considerano le persone ed i popoli variabili dipendenti dalle banche. E la direttrice
del fondo - Lagarde, in evidente controtendenza con il "femminile" ricordato sopra –
assicurava che tutto ciò, purtroppo, era vero, e che, pur non essendo lei
"comunista", aveva prodotto come effetti collaterali, diseguaglianza e sofferenze,
anche gravi.
Guardando avanti
Con un grazie per la pazienza, e l'augurio di vivere la "transizione" come tempo ed
opportunità di sperimentare - collegialmente, come una esperienza di rigore
metodologico al servizio di una grande libertà di ricerca – identità e ruoli
professionali a misura dei tempi che si vivono.
Tabella 1
Tabella 2
Tabella 3
Tabella 4
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L’efficacia assistenziale:
Concetto, aspetti e fattori organizzativi
Palese Alvisa
Professore Associato di Scienze infermieristiche Università degli Studi di Udine
Grazie molte, è molto bello, emozionante essere qui davanti a voi. Ringrazio molto la
Presidente per avermi invitato anche quest’anno a condividere alcune riflessioni sullo
sviluppo dell’infermieristica nel suo complesso con una relazione di apertura che
dovrebbe creare le basi per le riflessioni più importanti che saranno condotte dai
colleghi che mi seguiranno e con cui vi sarà l’opportunità di riflettere sul terreno della
pratica. L’agenda che mi sono posta comprende alcuni punti che fanno riferimento alla
letteratura internazionale con progressivo riferimento alla ricca letteratura che via via
stiamo costruendo nel contesto italiano. I tre punti fondamentali riguarderanno:
a) Poiché la mattinata è concentrata sull’efficacia delle cure infermieristiche e sulla
capacità dei coordinatori di promuovere cure efficaci, ho ritenuto importante aprire
la relazione offrendo una sintesi su che cosa si intende oggi per cure ‘efficaci’ dal
punto di vista infermieristico, e che cosa invece si riteneva fossero fino a pochi anni
fa; con particolare riferimento a quali sono i ‘nuovi esiti’ che stanno emergendo di
cui progressivamente dovremmo sviluppare consapevolezza.
b) Con uno sguardo dalla vostra prospettiva di Coordinatori, più organizzativa, rifletteremo sui meccanismi organizzativi di coordinamento che possono promuovere
l’efficacia delle cure; anche in questo caso riferimento ai meccanismi che determinano le cure efficaci più noti, e quelli meno noti che stanno emergendo.
c) Infine, l’ultimo punto per aprire le esperienze pratiche che saranno molto ricche, e
che vi saranno riferite successivamente da cinque colleghi, quali sono invece i meccanismi che la letteratura sta iniziando a documentare e che sembrano molto potenti nel potenziare l’efficacia delle cure infermieristiche, oppure, a inibirle.
Quando si parla di ‘cure efficaci’ e di una ‘infermieristica efficace’, si riflette sulla
relazione esistente tra le cure erogate dagli infermieri e gli esiti sui pazienti. Si tratta di
una riflessione che dal punto di vista della ricerca nasce formalmente alla fine degli
anni novanta negli USA con il contributo di Università che hanno iniziato ad affermare
che gli infermieri, quantitativamente e qualitativamente, possono fare la differenza sui
pazienti. Questo dibattito, ha nel tempo investito anche l’Europa e l’Italia.
Oggi si assume che l’infermieristica è efficace quando ha un effetto sul paziente e
quando quell’effetto è in qualche modo misurabile: ovvero, quando è possibile
osservare un cambiamento nello stato di salute del paziente/famiglia, nella sua
percezione delle cure e/o della salute, nella sua soddisfazione. Alcuni autori
definiscono gli esiti come ‘sensibili’ alle cure infermieristiche, altri come ‘attribuibili’
alle cure infermieristiche. La sintesi più attuale afferma gli uni e gli altri, dipendono dal
contesto, dalle competenze e dal team che vi lavora, gli stessi esiti possono essere
‘sensibili’ in alcuni setting, e attribuibili in altri.
Il dibattito scientifico che si è nel tempo sviluppato è determinante per l’infermieristica
e il suo sviluppo. L’infermieristica è progressivamente uscita dall’intangibilità,
un’intangibilità che tanto pesato e pesa ancora sul ruolo del coordinatore, dalla
negoziazione delle risorse (‘perché dovrebbero esserci più infermieri?) allo sviluppo
delle competenze (‘perché li vorremmo più preparati?’) sono solo alcuni esempi.
Sino ad oggi gli esiti erano molto ben classificati. Alcuni autori indicavano solo (o
prevalentemente) esiti di sicurezza. In base alla loro prospettiva, gli infermieri
facevano e fannola differenza sull’incidenza di lesioni da decubito, delle infezione da
device piuttosto che delle cadute, della malnutrizione, della disidratazione, negli errori
di terapia, nel mancato riconoscimento del deterioramento clinico del paziente
quando ad esempio i giri di sorveglianza non sono accurati, attenti, e frequenti. Questi
erano i primi esiti comparsi in letteratura. Tuttavia, secondo alcuni autori,
rappresentano ‘poco’ il focus dell’infermieristica: senza dubbio gli infermieri sono
determinanti sulla sicurezza dei pazienti ma vi sono altri esiti più vicini, che
intercettano maggiormente il il core disciplinare. Si è fatta largo verso il 2005, un’altra
idea di esito che ha a che fare proprio con lo scopo della pratica infermieristica. Gli
infermieri possono fare la differenza sul comfort del paziente, nell’acquisizione o nella
perdita delle attività di vita quotidiane, nella capacità di sviluppare adattamento alla
malattia, ma anche nella sua capacità di autogestire device, presidi, terapie o
problemi/sintomi. A reagire contro coloro che ritenevano (e ritengono) questi esiti non
in grado di modificare la traiettoria di malattia di un paziente, è nel tempo emerso e si
è affermato il concetto di esiti secondari. Cadute, infezioni, lesioni, possono generare
effetti molto più importanti sul paziente quali l’aumento della durata della degenza, la
mortalità, ma anche effetti sulla qualità di vita, sulla riduzione dell’istituzionalizzazione
o riammissioni ospedaliere, sull’autonomia nella gestione del problema di salute.
Questo era il framework di riferimento sino al 2008 quando Griffith ha introdotto un
nuovo concetto/dimensione ovvero quello delle compassionate care che non può
essere tradotto in italiano con cure compassionevoli perché non lo rappresenta; si
tratta di una dimensione ancora più intangibile che però è in grado di fare la differenza
sui pazienti. Quando un paziente ‘sente’ che gli infermieri sono capaci di fare advocacy,
di entrare in modo dettagliato, di personalizzare le cure, di fare in modo che il ‘sistema
si adatti’ e non che ‘il paziente si adatti’; quando sono in grado di avere una
progettualità specifica per lui, di offrire qualcosa a volte immisurabile se non nella
percezione dei pazienti, questo rappresenta secondo l’autore la terza dimensione più
importante dell’infermieristica rispetto alla quale non abbiamo al momento strumenti
di misura.
Pertanto, sino ad ora abbiamo avuto una struttura abbastanza chiara: esiti di sicurezza,
esiti di efficacia, compassionate care. Attorno a quest’ultimo nucleo, anche in Italia si è
attivato il dibattito perchè costituisce una dimensione difficile da assicurare: Alifax
afferma nel 2011, che le cure compassionate non costituiscono un lusso, ma
semplicemente la strategia per aiutarli a sopravvivere rispondendo ad uno dei bisogni
più profondi dell’umanità.
Quali sono i determinanti organizzativi delle cure efficaci? Sono ad oggi disponibili
molte teorie: dal 2010 sono disponibili anche prospettive italiane che completano il
quadro e comunicano la specificità del nostro contesto. Senza dubbio la letteratura
afferma che gli esiti sono determinati principalmente da due fattori organizzativi:
laddove vi è una grande tensione, penso soprattutto al Paese in questo momento, tra
bisogno di assistenza e quantità di cure erogabili sulla base delle risorse, non c’è
dubbio che bisogna fare delle scelte. In questi contesti è molto più probabile che gli
infermieri clinici ma tutto il sistema, violi le buone pratiche e incorra in lesioni da
decubito, cadute ed altri esiti negativi. Questi esiti non appartengono al singolo
infermiere, ma trovano in una responsabilità più generale di sistema, la loro origine.
Diversamente, l’efficacia non è raggiunta solo con la quantità di risorse. Anche qualora
avessimo la quantità giusta di risorse per le cure dei pazienti, non necessariamente gli
esiti di efficacia sarebbero perseguibili. Quando gli infermieri non hanno la tensione di
ruolo, non riescono a focalizzare la loro tensione sugli esiti di efficacia. Garantiranno la
sicurezza dei pazienti, ma quando hanno un attimo non andranno ad educare, a
sviluppare l’autonomia, a promuovere il self-care. Su questa seconda dimensione che è
diventata più chiara intorno al 2005, le cure infermieristiche possono essere efficaci
non solo se è disponibile la quantità ‘giusta’ di infermieri ben preparati sulle buone
pratiche, sull’evidenzia o altro, ma soprattutto se abbiamo infermieri che hanno una
forte identità.
Abbiamo creduto con forza che ciascun infermiere clinico dovesse avere delle
competenze organizzative per individuare le priorità per gestire l’assistenza in un
gruppo di pazienti; abbiamo creduto e siamo ancora convinti che gli infermieri
debbano avere competenze cliniche crescenti, perché senza competenza clinica, non è
possibile dare una risposta ai problemi; abbiamo creduto e siamo ancora convinti, che
per essere molto efficaci nelle cure, bisogna togliere lo sguardo sempre e solo
dall’infermieristica, ma iniziare ad aprirci alla collaborazione, ad altri ruoli, non solo
ovviamente l’area medica ma anche ad altre professioni delle lauree sanitarie.
Di che cosa avremo bisogno per il futuro? E su che cosa la letteratura ci sta in qualche
modo sollecitando? Infermieri lasciati in un ambiente che poco aiuta a rimanere
focalizzati sulla clinica, sono infermieri che non riescono a essere efficaci. Abbiamo
bisogno di ambienti di pratica infermieristica che assicurano il massimo affinché gli
infermieri possano esprimersi. Quando teorizzammo questo concetto alcuni anni fa,
pensavamo ad alcuni fattori, non solo alla logistica e alle risorse, al fatto che un
coordinatore, un responsabile di dipartimento o d’altro fossero riconosciuti a livello di
sistema; non pensavamo solamente alla quantità degli infermieri e ai loro carichi di
lavoro; ma anche alla loro formazione, differenziazione e alla possibilità di essere
supervisionati; pensavamo anche al giusto equilibrio tra operatori di supporto ed
infermieri. Non da ultimo, anche la possibilità di lavorare in integrazione con altri
operatori costituiva un elemento importante.
Questi ingredienti sono importanti. Tuttavia, rischiano di non avere successo se non c’è
qualcosa in più; se non c’è quell’orizzonte culturale afferma Cumings, dove vi è una
profonda identità sull’assistenza infermieristica, gli infermieri e i loro coordinatori sono
profondamente convinti della ragione del loro esistere, e si aprono anche ad altre
discipline. Contesti in cui la leadership aiuta gli infermieri a tenere costantemente il
focus sui pazienti, ad avere tempo per i pazienti; ad avere il controllo della propria
pratica, a crescere progressivamente.
Siamo partiti da un modello molto semplice, pensavamo bastasse una quantità
adeguata di infermieri per avere esiti eccellenti sui pazienti Oggi ambienti e leadership
generativa e trasformativa in grado di orientare e sostenere gli infermieri nel saturare
tutti gli esiti, è ciò di cui abbiamo bisogno. Per tutti i pazienti. Grazie.