Il ruolo politico dei consumi nel processo globale

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Il ruolo politico dei consumi nel processo globale
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Roberta Sassatelli
Il ruolo politico dei consumi
nel processo globale
Le scelte di consumo hanno un valore politico, innanzi tutto come mezzi di
inclusione ed esclusione sociale. I gusti sono tutt’altro che indiscutibili. Il «de
gustibus non est disputandum», che sembra configurare il consumo come uno
spazio dove il soggetto può e deve esprimersi liberamente, è più un augurio e una
rivendicazione normativa di quanto non sia una realtà sociale.
pubblico/privato ha indubbiamente occupato un posto rilevante: il consumo
è stato allineato ai gusti individuali, alla famiglia, agli scambi commerciali e
sospinto nella sfera privata; in quanto privato è stato opposto alle sfere pubbliche e propriamente politiche dello Stato, della cittadinanza e dei diritti. È
però sempre più evidente che sia i modi in cui il consumo viene rappresentato
sia le pratiche in cui esso si articola sono parte di un campo politico, e questo
sia in senso lato (un campo in cui si realizzano relazioni di potere), sia in senso
stretto (un campo regolato dalle istituzioni politiche).
Come hanno mostrato tra gli altri Pierre Bourdieu e Mary Douglas, si discute dei gusti, si danno giudizi sui gusti e, soprattutto, si scartano, si scelgono
o si premiano le persone in base ai gusti, propri e altrui. A questa dimensione
politica intriseca, legata cioè alle funzioni distintive delle pratiche di consumo
stesse, se ne aggiungono altre più strutturali, che hanno a che fare in primo
louogo con la «normalità» o meno di certe pratiche di consumo, con la «legittimità» di certe merci, e infine con la «giustizia» delle alternative di consumo
che ci vengono offerte1.
In altri termini, come ogni altra pratica sociale, anche il consumo deve
poter essere considerato non solo vantaggioso o opportuno, ma anche corretto o giusto. Per molto tempo le valenze etiche e politiche del consumo sono
però state asservite all’espressione di altre identità sociali: le rivolte del pane
che infiammano le prime grandi metropoli moderne sono portate avanti dal
popolo e non da un insieme di «consumatori», le proteste contro i monopoli
del gas e dell’acqua nell’Inghilterra vittoriana sono condotte da piccoli imprenditori che agiscono in nome delle proprie identità produttive; le cooperative di consumo che si sviluppano in Italia e in Germania sul finire dell’Ottocento vedono nel contenimento dei prezzi di consumo un obiettivo, ma si
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osservatorio
Tra le molte dicotomie che sono state applicate ai processi di consumo quella
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basano sulla classe o la professione e non sul consumo per indicare un’appartenenza dalle valenze politiche; le femministe che nel secondo dopoguerra
rifiutano il reggiseno non si pensano come «consumatrici» che boicottano un
merce. A partire quanto meno dai primi anni Novanta invece si sta assistendo
ad un fenomeno nuovo: è la nostra identità di consumatori che può diventare
propriamente politica, consumando in un certo modo, o rifiutandoci di consumare, possiamo esprimerci come consumatori «etici» e «critici», e così facendo contribuire in qualche modo ad un più ampio, spesso globale, processo politico.
Ci troviamo insomma di fronte ad un fenomeno, articolato e complesso,
che viene spesso identificato con il termine di consumo «alternativo», «consapevole», «etico» o «critico»: nei Paesi sviluppati i boicottaggi di consumo, le
banche del tempo, la finanza etica, il commercio equo e solidale, i gruppi di
acquisto per favorire l’agricoltura sostenibile, ecc. si affiancano ad una generale rinnovata preferenza per i prodotti locali e tradizionali che sembrano preservare forme minacciate di produzione, e ad una forte crescita del biologico
che risponde a forme di agricoltura eco-compatibili. In questi fenomeni la
dimensione politica delle pratiche di consumo – quella che, per intenderci, ha
a che fare direttamente con la re-distribuzione delle risorse, le nozioni di giustizia ed equità, la definizione e salvaguardia di beni comuni come l’ambiente
e la sua diversità – è centrale.
Disuguaglianze di consumo e sostenibilità
Alcune importanti tendenze mondiali hanno contribuito a questo risveglio
politico. Se il livello di consumi di cui oggi godono centinaia di milioni di
«ricchi» per lo più situati in Europa, negli Stati Uniti, in Canada, Australia e
Giappone si dovessero estendere ai nove miliardi di persone che, secondo le
proiezioni formulate nel 2002 dalle Nazioni Unite, popoleranno la terra nel
2050, l’impatto sul clima, le foreste, le riserve idriche, la biodiversità e la salute
umana sarebbe insostenibile. Certo è insensato mettere all’indice la crescita
dei consumi in quanto tale. Si diffonde però la consapevolezza che gli indicatori di benessere della popolazione vanno sempre soppesati con la sostenibilità
ambientale e sociale: così, per esempio, l’espansione dell’istruzione, per quanto universalmente salutata con favore, ha portato con sé anche una crescita
globale del consumo di carta – che è raddoppiato dagli anni Settanta ad oggi –
e a cui ha fatto fronte un assai più ridotto incremento dell’uso della carta
riciclata.
Ciò che appare sempre più evidente ai nostri occhi, anche grazie alla crescente diffusione di consumi culturali e mediatici, è soprattutto il persistere di
una forte disuguaglianza proprio in termini di consumo. Nel caso della carta,
agli 800 chili pro capite degli statunitensi si contrappongono i 18 chili pro capite consumati nei Paesi in via di sviluppo (a loro volta internamente differenziati, e con l’Africa sub-sahariana come fanalino di coda con meno di un chilo
di carta pro capite l’anno)2.
Più prosaiche ma non meno lampanti di questi dati sono le stime fornite
dalla Fao nel 2003, secondo cui nel mondo vi sono ancora ben 800 milioni di
persone denutrite. A livello globale, del resto, le disuguaglianze di consumo
sono vastissime: l’11,6% della popolazione mondiale che vive negli Stati Uniti, in Canada e in Europa occidentale consuma il 60,2% del totale speso per
consumi privati dell’intero globo, mentre il 33,3% della popolazione mondiale che vive in Africa sub-sahariana e Asia meridionale ne consuma il 3,2%3.
Anche la composizione dei consumi e il peso relativo delle spese per beni
primari come quelli alimentari variano moltissimo nelle diverse aree del globo: in media un nucleo famigliare in Tanzania spende il 67% del proprio reddito per i consumi alimentari (per un valore assoluto pari a 375 dollari); in
Italia si spende circa il 19,5 % del reddito medio in consumi alimentari e negli
Stati Uniti solo il 13%4. Nei Paesi sviluppati, in effetti, gran parte dei consumi
delle famiglie si orientano su spese che risulterebbero voluttuarie, superflue e
persino impensabili per le famiglie del Sud del mondo. Secondo i dati delle
Nazioni Unite, fra gli anni Settanta e Novanta, la disuguaglianza economica a
livello mondiale è peraltro aumentata più che in ogni altra epoca documentata, e non mancano dati allarmanti sul numero di persone nelle nazioni del Sud
che sono di fatto ridotte in condizioni di schiavitù, spesso per produrre merci
che acquisteranno i consumatori del Nord5.
La crescita dei consumi nelle economie sviluppate è indubbiamente un
fenomeno complesso che affonda le proprie radici nello sviluppo dell’economia capitalistica e viene sostenuto da moltissimi fattori diversi – dalla progressiva riduzione dei costi di trasporto alla diffusione del credito al consumo,
dall’aumento dell’efficienza produttiva alla diffusione di una cultura individualista e materialista. I suoi effetti però non sono sempre desiderati o
desiderabili. Gli Stati Uniti, per esempio, producono una quantità enorme di
«rifiuti» o «sottoprodotti» per i quali si spende senza controvalore: dall’inquinamento dell’aria, e dell’acqua, al tempo perso nel traffico, all’obesità, alla
criminalità.
Secondo alcuni calcoli effettuati a metà degli anni Novanta, questi «sottoprodotti» non previsti né messi in conto ammontavano a circa il 22% del Pil6.
Molte però sono oggi le voci che si levano per sostenere che un simile livello di
consumi non sia sostenibile né dal punto di vista ambientale-ecologico né dal
punto di vista sociale. Già all’Earth Summit di Rio de Janeiro del 1992 l’attenzione internazionale si appuntò sul rapporto tra produzione e consumo e sulla
sostenibilità. Il Worldwatch Institute, forse il più importante istituto di ricerca indipendente sui temi ambientali, lavora già da anni sulla sostenibilità dei
consumi e ha dedicato gran parte del suo ultimo rapporto (State of the World
2004) proprio a questa questione. Ai consumi viene attribuito un ruolo nuovo,
che andrebbe costruito tenendo presente alcune dimensioni fondamentali a
partire dalla nozione che non sempre ad accresciuti livelli di consumo corrisponde un aumento della qualità della vita e neppure della felicità soggettiva:
il perseguimento di «un modello di consumi equilibrato e in grado di conciliarsi con l’ambiente naturale», la promozione di una «scelta genuina» e il
soddisfacimento dei «bisogni fondamentali di tutti».
Il Worldwatch Institute si fa portavoce di un vasto (ed eterogeneo) movimento di opinione che si è espresso, quanto meno a partire dagli anni Settanta,
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anche attraverso alcuni importanti studi economici e storici, dal famoso The
Joyless Economy di Tibor Scitovsky al recente An All-Consuming Century di
Gary Gross7. L’idea di fondo è che accumulazione di beni e felicità o benessere
non sempre coincidano e che si possano riformulare le priorità collettive nel
nome del benessere delle persone e non in quello dell’accumulazione di beni.
In quest’ottica anche una parte della scienza economica pensa oggi ai consumi
non tanto come motore della crescita economica, quanto come strumento per
migliorare realmente la «qualità della vita»8.
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Globalizzazione e localismi
Le disuguaglianze di consumo su scala mondiale sono sostenute da un processo di globalizzazione, segnato innanzi tutto da imponenti, dispendiosi e sempre più intensi flussi internazionali di merci che riguardano non solo i consumi voluttuari – come è avvenuto da tempo immemorabile nella storia dell’umanità – ma anche e soprattutto i prodotti di prima necessità. Negli Stati
Uniti, per esempio, un prodotto alimentare in media viaggiava agli inizi del
2000 dai 2.500 ai 4.000 chilometri, il 25% in più rispetto al 1980; in Gran
Bretagna nello stesso lasso di tempo si registra una crescita del 50%; in Italia,
pur mancando stime precise, la penetrazione della grande distribuzione ha
fatto indubbiamente lievitare esponenzialmente un analogo dato percentuale9. Più in generale, il volume del commercio mondiale è aumentato quasi del
50% negli anni Novanta, con una forte impennata soprattutto degli investimenti esteri diretti e dell’esportazione di servizi finanziari e di consulenza10.
Non sempre un simile incremento del commercio internazionale ha avuto
l’effetto di ridurre i prezzi al consumo come profetizzavano gli apologeti del
libero scambio. È questo il caso del caffè, dove il crollo dei prezzi della materia prima, dovuto alla concentrazione industriale e alla forte concorrenza esercitata da nuovi Paesi produttori asiatici, non si è affatto tradotto in una diminuzione del costo al consumo e ha invece ha lasciato sul lastrico moltissime
famiglie africane11. D’altro canto quella critica sociale che ha salutato sconsolatamente il diffondersi globale non solo di alcune marche, ma anche delle
catene di negozi in franchising, dei parchi a tema, dei grandi centri commerciali che raccolgono e mettono in mostra le marche globali come l’arrivo dei
«non-luoghi»12, pecca di un catastrofismo apocalittico che sembra unicamente capace di sfociare nella fuga in consumi elitari senza considerare le
potenzialità eversive, o quanto meno innovative, di altre forme di consumo.
Del resto, secondo George Ritzer, l’autore del fortunato e provocatorio slogan
sulla McDonaldizzazione del mondo, tutti i prodotti locali di successo «soffriranno probabilmente il fato del Kentucky Fried Chicken del Colonnello Sanders
e di molti altri prodotti, che all’inizio erano fortemente originali e particolari,
ma che col tempo sono divenuti solo una debole sembianza MacDonaldizzata
di ciò che erano in origine»13. Tra le altre cose, proprio la diffusione di fast-food
a base di carne tritata a basso costo ha sollecitato, un pò ovunque, anche una
domanda opposta: una ricerca di salute, autenticità, tradizione e gusto che si è
espressa in un vasto movimento di recupero delle produzioni locali e artigianali e che ha assunto talvolta connotati ecologici e solidali stimolando nuove
forme di alleanza tra consumatori e (piccoli) produttori contro la standardizzazione e la globalizzazione.
Se negli Stati Uniti si è diffuso un certo salutismo alternativo ed ecologista
che privilegia la filiera corta e i metodi produttivi tradizionali, in Europa questa tendenza è forse ancora più evidente: in Francia per esempio, anche grazie
alle iniziative per salvare il pane artigianale, oltre l’80% del pane consumato
proviene ancora da piccoli fornai di quartiere; in Inghilterra, d’altro canto, la
campagna a favore della birra tradizionale prodotta direttamente dai Pubs, la
Real Ale, ha dato vita ad una vera e propria rinascita della produzione locale14.
Proprio nel nostro Paese, del resto, si è sviluppato un movimento specificamente dedicato alla tutela del tipico e del locale, Slow Food. Giocando su non
facili equilibri, Slow Food è ormai un attore internazionale per la promozione
del locale sulla scena della cultura globale. Inaugurato a metà degli anni Ottanta da un gruppo di cuochi ed esperti di cucina in seguito alle proteste generate proprio dall’apertura del primo McDonald’s a romano in Piazza di Spagna, questo movimento intendeva inizialmente promuovere le osterie e le trattorie della tradizione italiana che apparivano minacciate dal prepotente ingresso della ristorazione standardizzata di stampo statunitense15. Certo, ancora oggi, una buona fetta delle iniziative di Slow Food – dal Salone del Gusto
alle molte guide gastronomiche – tocca i consumatori di classe media che amano la buona tavola; ma questo movimento ha anche ambizioni diverse. In nome
di quella che Carlo Petrini, il suo principale ispiratore, ha chiamato la «vocazione ecogastronomica» del movimento, Slow Food ha esteso la sua azione dai
consumatori ai produttori, sovvertendo in parte quella separazione tra produzione e consumo che caratterizza la modernità e cercando di promuovere la
diversità culinaria come parte intrinseca della diversità ambientale e culturale.
La globalizzazione dei mercati e la diffusione di alcune merci su scala
mondiale ha dunque stimolato numerosi focolai di resistenza che hanno spesso assunto dimensioni globali ma che premono per il controllo locale delle
risorse culturali. Lo stesso McDonald’s non è solo una suggestiva e potente
icona, ma anche un bersaglio critico. È evidente che il solo fatto di essere
un’impresa globale ma dislocata sul territorio, con oltre 30.000 negozi sparsi
per tutto il mondo, ha reso McDonald’s un obiettivo accessibile per movimenti di opinione e resistenza internazionali. Così è dal 1985 che il gruppo
ambientalista di Greenpeace con base a Londra ha lanciato la giornata internazionale di boicottaggio contro McDonald’s, che si tiene da allora ogni autunno in sempre più Paesi16. Le proteste contro McDonald’s sono state generalmente non violente ma nondimeno forti dal punto di vista simbolico: in
Francia, per esempio, i McDonald’s sono stati riempiti di mele, occupati da
agricoltori con polli, anatre e oche, ricoperti di letame, ecc. Alcune di queste
azioni sono state guidate dall’agricoltore e sindacalista José Bové, che ha raggiunto fama mondiale distruggendo un barile del suo prezioso e tradizionalissimo Roquefort davanti ad un McDonald’s a Seattle durante le proteste antiglobalizzazione in occasione degli incontri del Wto. Le azioni di Bové si inseriscono in quella tradizione francese che ha teso a fornire una base patriottica
e nazionalista per lo sviluppo delle politiche agrarie e della gastronomia incen-
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trate sulla salvaguardia del territorio già dall’Ottocento, e tuttavia trascendono tale logica, per promuovere il locale e l’agricoltura sostenibile su scala internazionale. Nella logica di protesta di Bové produzione e consumo non sono
separati: entrambi sono concepiti come questioni politiche poiché la controparte di lavoratori sfruttati sono consumatori che faticano sempre di più a
trovare prodotti genuini.
Movimenti di resistenza per la salvaguardia della varietà del territorio e
delle tradizioni produttive locali e su piccola scala sono comparsi anche nei
Paesi in via di sviluppo. Il movimento forse più noto è Navdanya («nove semi»),
fondato in India nel 1987 dalla scienziata ed attivista Vandana Shiva per sostenere le economie locali dei villaggi e per anticipare e contrastare la diffusione
dell’ingegneria genetica, tutelando dai brevetti le varietà locali di grano e riso,
dichiarandoli proprietà comune. Navdanya ha dato vita a numerose banche
dei semi in diversi Stati indiani e ha incoraggiato la diffusione dell’agricoltura
biologica per svincolare gli agricoltori dalla dipendenza da costosi additivi
chimici portati dalle industrie globali. Il movimento ha avuto un notevole successo e, secondo stime interne, è riuscito a salvare oltre 1.500 varietà di riso e
coinvolge oggi oltre 10.000 agricoltori17.
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Consumi alternativi e critici
In un clima culturale che – a tappe forzate, dal Wto di Seattle all’11 settembre,
dal Social Forum di Firenze all’11 marzo – tende a guardare con sospetto alla
globalizzazione, le grandi multinazionali finiscono sempre più spesso nel mirino di consumatori che sembrano orientarsi non solo verso ciò che ha il sapore
del locale o le dimensioni della piccola scala, ma anche verso ciò che rispetta
l’ambiente, tiene conto dei diritti dei lavoratori, delle differenze tra Nord e
Sud del mondo. Lo stesso Worldwatch Institute per esempio mette insieme i
prodotti locali, il biologico e il commercio equo e solidale indicandoli come
forme di «consumo consapevole» che stimolano «democrazia». Si tratterebbe
di altrettanti modi di consumare alternativi che permetterebbero di riavvicinare
i consumatori ai prodotti e ai produttori, oltre che alla natura, alla comunità e
alla propria umanità e alla propria salute.
Anche se si tratta ancora di fenomeni di limitata portata in termini
quantitativi, molte di queste forme di consumo hanno registrato negli ultimi
anni una rapidissima crescita. Le botteghe del commercio equo e solidale –
grazie al quale piccoli produttori del Sud del mondo formano cooperative il
cui lavoro è in larga misura pre-finanziato e pagato un prezzo minimo garantito – ci parlano di un giro di affari più che decuplicato in dieci anni; l’European
Fair Trade Association, che riunisce le principali centrali di importazione eque
e solidali europee, stima che circa lo 0,6% del reddito pro capite venga oggi
speso in prodotti equi, ma che tale percentuale abbia un ritmo di crescita di
circa il 20% l’anno, e che nelle oltre 65.000 botteghe eque in Europa lavorino
3.500 stipendiati e oltre 100.000 volontari proponendo una gamma di ben
7.000 prodotti diversi18. Per quanto riguarda i prodotti da agricoltura biologica – dal cotone, al caffè ai cereali – le vendite globali nel 2002 sono state
stimate intorno ai 23-25 miliardi di dollari, con un incremento del 10% circa
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rispetto all’anno precedente . L’Italia, che con le sue oltre 56.000 aziende bio,
si trova ad avere oltre l’8% del terreno coltivato a biologico, è il primo produttore europeo e uno dei maggiori produttori mondiali (dopo Australia e Argentina), con una crescita annua del terreno a biologico di oltre il 20% ed un
consumo di prodotti biologici che viene stimato intorno all’1% del reddito
speso. Proprio in numerose città italiane si moltiplicano del resto le fiere e gli
incontri per la promozione di stili di consumo sostenibili, da «Critical Wine»
a «Tuttunaltracosa», da «Eco & Equo» a «Terra Futura», nella quale, tra l’altro, si sono riuniti gli aderenti e simpatizzanti dei Gruppi di acquisto solidali
(Gas) italiani, a sua volta una realtà molto fluida ma in forte crescita, che vede
la formazione di piccole cooperative di acquisto che si riforniscono il più possibile direttamente dai produttori, spesso con una forte attenzione alla produzione locale20.
Al di là del loro peso relativo, questi diversi fenomeni sembrano indicare
l’emergere sempre più nitido – accanto alle sue tradizionali valenze strumentali, edonistiche, individualistiche – di una visione «responsabile» del consumo. Pur rappresentando una piccolissima parte dei nostri consumi, queste
merci possono fungere da ponti per avvicinarci ad una «diversa» visione del
mondo e di noi stessi. Gli aspetti etici e politici del consumo hanno in effetti
acquistato un notevole peso simbolico. I gruppi che organizzano campagne di
boicottaggio sostengono che spesso basta una lieve flessione delle vendite per
indurre anche grandi multinazionali a modificare le proprie strategie o a darsi
codici di buona condotta per recuperare un’immagine positiva presso gli acquirenti finali – come è successo a Nike, aspramente criticata per l’utilizzo
indiscriminato del lavoro minorile, o a Nestlé, sotto accusa per le politiche di
vendita del latte in polvere per neonati in Africa dove le condizioni igieniche
ne sconsigliano l’uso. In questo quadro non sorprende che lo stesso McDonald’s
abbia tentato quella che i più critici hanno considerato un’operazione di
greenwashing della propria immagine spendendo oltre 3 miliardi di dollari in
vassoi, imballaggi, carta e tavoli con contenuto riciclato e dotando i propri
ristoranti di illuminazione ad alta efficienza energetica. Più in generale, molte
aziende consolidate che operano in settori tradizionali sembrano oggi sempre
più preoccupate di mostrare ai consumatori una «faccia responsabile»: si moltiplicano le iniziative di marketing «solidale» o «sociale» che vede non solo la
sponsorizzazione di fondazioni benefiche o di iniziative a favore di fasce marginali, ma anche l’istituzione di vere e proprie partnership tra aziende e associazioni no-profit per una causa di utilità sociale. E ancora, anche grazie all’impegno attivo della Commissione europea, si va diffondendo tra le aziende
l’adozione di codici di auto-regolamentazione «etica» che permetta loro di
«garantire» ai consumatori non solo prodotti sicuri o efficaci, ma anche attenzione agli aspetti sociali ed ambientali del processo produttivo.
In linea generale, le questioni poste sul tavolo dalla presa di coscienza dei
boicottaggi contro McDonald’s, dal recupero delle tradizioni locali, dall’agricoltura sostenibile, dal commercio equo e solidale, e così via vanno chiaramente ben oltre gli obiettivi di difesa dei consumatori promossi dalle tradizionali organizzazioni «consumeriste». Queste organizzazioni hanno raggiunto
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una certa popolarità – più negli Stati Uniti che in Europa e più nei Paesi del
Nord Europa che in quelli mediterranei – facendosi carico di migliorare il
consumer deal, le condizioni del consumatore rispetto alle aziende produttrici.
Le associazioni di difesa del consumatore continuano a giocare un ruolo importante nel tutelare quest’ultimo nel quadro delle regole del gioco definite
dal mercato concorrenziale, occupandosi di frodi, trasparenza, prezzi, ecc. –
basti pensare al modo in cui sono intervenute nelle recenti polemiche in Italia
sui prezzi o sul computo dei livelli di inflazione o all’organizzazione di gruppi
di acquisto di latte in polvere per i neonati che è notoriamente sovraprezzato
nel nostro Paese. Questioni come l’inquinamento, il divario tra Paesi ricchi e
Paesi poveri, l’erosione delle tradizioni o lo sfruttamento dei lavoratori necessitano di una prospettiva che tocca diritti non facilmente riconciliabili con
l’individualistico «diritto di scegliere» tra un vasto assortimento di prodotti,
uno dei pilastri dell’istituzionalizzazione in molti organismi internazionali di
un pacchetto standard dei «diritti del consumatore»21.
Nella loro anima più pura le nuove forme di consumo «alternativo» si
spingono ben oltre il rafforzamento delle possibilità di scelta secondo l’ottica
del best-buy per mettere a fuoco questioni più squisitamente politiche: dalla
redistribuzione delle risorse alla solidarietà, dalla sostenibilità all’appartenenza ad un territorio. Il loro punto di partenza sembra essere l’idea che la scelta
di consumo non sia necessariamente buona, che essa non sia certamente una
questione privata o individuale, e che la sovranità del consumatore possa esprimersi compiutamente non attraverso la mano invisibile dell’adagio smithiano,
ma solo se i consumatori si fanno carico degli effetti sociali, culturali, ambientali delle proprie scelte. Si tratta di una prospettiva che, a fronte dei processi di
sradicamento portati dalla globalizzazione, pone l’accento innanzi tutto sulla
possibilità di accorciare le distanze tra produttori e consumatori, tra prodotti
e territorio, tra consumi privati e felicità pubblica. Così le stesse certificazioni
– forme peraltro universalistiche e burocratizzate di garanzia rese necessarie
dall’ingresso nella larga distribuzione di prodotti tradizionali, biologici ed equi
– introducono protocolli di produzione che intervengono non solo sulle caratteristiche del prodotto finale ma anche sui metodi di produzione, tenendo
presente quelle che sono state considerate questioni esogene ai calcoli economici, ovvero la tutela del territorio agricolo (nel biologico per esempio è richiesta la rotazione delle colture), del territorio e delle preparazioni o metodi
di produzione tradizionali (Dop, ecc.) e della manodopera (Fair Trade).
Consumo responsabile: una rivoluzione silenziosa?
Al di là di questo humus comune, le diverse forme di consumo alternativo
sono realtà estremamente variegate e complesse, non sempre distinguibili e
ciò non di meno sempre in potenziale conflitto le une con le altre, oltre che
gremite di contraddizioni ciascuna al proprio interno. La scelta del biologico
ad ogni costo, per esempio, può paradossalmente chiedere di sacrificare la
preferenza per i prodotti locali che riducono l’emissione di gas nell’atmosfera,
problema che si pone anche per le merci solidali che pur sono in quanto tali
molto spesso anche eco-compatibili poiché prodotte con tecniche tradiziona-
li. I prodotti tipici dal canto loro non sono necessariamente né eco-compatibili né solidali. Più analiticamente, per citare solo alcune questioni spesso dibattute, le reti distributive alternative che sembrano accorciare le distanze tra
produttori e consumatori – dalle fiere dei produttori agricoli ai gruppi di acquisto ai mercatini dell’usato – hanno grosse limitazioni logistiche e possono
essere una risorsa per consumatori che hanno visto ridursi il proprio potere
d’acquisto piuttosto che per consumatori politicamente attivi; la scelta biologica può essere esclusivamente salutista; l’acquisto di artigianato solidale può
rispondere ad una moda o a desideri prettamente distintivi.
Certo, nel considerare la portata di questi fenomeni occorre distinguere
tra i significati che i (diversi) consumatori danno alle proprie pratiche, le funzioni che tali pratiche hanno per questi stessi consumatori, e le funzioni
sistemiche che l’insieme di simili pratiche sembra avere sulla struttura economica e culturale: è indubbio che, come suggerito, i singoli consumatori possono attribuire a forme di consumo consapevole valenze molto lontane da quelle
«etiche» del consumo critico, ma è altrettanto vero che i loro acquisti verdi o
equi finiscono per incentivare un settore dell’economia che tenta di essere e si
propone come alternativo. In prima approssimazione possiamo considerare
che, qualunque siano i motivi di fondo dei singoli consumatori – o anche degli
attivisti che, come spesso avviene nel caso dei nuovi movimenti sociali, possono venir attratti innanzi tutto della possibilità di riconoscimento identitario
offerta dall’attività collettiva – queste realtà hanno reso possibile e legittime
nuove nozioni di qualità e nuove giustificazioni per i rifiuti e le scelte di consumo. Se queste nuove nozioni di qualità, se queste nuove forme di legittimazione
e sanzione del consumo segnino poi davvero una «rivoluzione» in termini di
struttura economica e sociale è ancora questione aperta. Esistono infatti anche
notevoli difficoltà strutturali che vanno al cuore di molti progetti alternativi e
si esprimono essenzialmente proprio nella difficoltà di accorciare le distanze
tra produttori e consumatori laddove si voglia raggiungere un pubblico più
ampio possibile in un mondo globalizzato.
Se consideriamo un po’ più da vicino il commercio equo e solidale – il
fenomeno forse più radicale tra quelli che compongono la nebulosa del consumo consapevole perché chiede uno sforzo individuale senza una controparte
esprimibile nei termini di un interesse evidentemente auto-riferito come la
salute o il gusto – ci accorgeremo facilmente di una serie di potenziali tensioni.
Innanzi tutto la difficoltà di tenere insieme giustizia umanitaria e tradizioni
locali: alle comunità del Sud si chiede di operare secondo procedure democratiche nelle loro organizzazioni, secondo una partnership a forte valenza etica
in cui però la definizione dei principi «filosofici» tende ad essere nelle mani
del Nord. Per uscire da una nicchia di impatto limitato il commercio equo
dovrebbe poi allargare progressivamente il proprio raggio da derrate coloniali
e artigianato a prodotti di massa ad alto valore simbolico. Ma, come è avvenuto nel caso del pallone da calcio «giusto» promosso da Transfair sul finire
degli anni Novanta, questo spesso implica la presenza di intermediari che non
rispettano pienamente i canoni del commercio solidale. Ritmi di crescita molto rapidi – salutati con favore dai produttori del Sud del mondo che non rie-
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scono a vendere tutto il loro prodotto a prezzi equi – comportano infine un
accento sull’efficienza e sulla promozione che può far diventare feticci quegli
stessi prodotti che erano nati per combattere il feticismo di marxiana memoria, diluendo il potenziale innovativo di questa esperienza. Ecco perché non è
possibile liquidare troppo in fretta non solo le motivazioni e le aspirazioni
espresse dai consumatori, ma anche e soprattutto il ruolo che viene attribuito
loro dalle numerose associazioni che si impegnano sul terreno del consumo
critico. È soprattutto nelle molteplici guide e negli opuscoli informativi ormai
disponibili anche nel nostro Paese sul consumo critico, etico e alternativo che
ai consumatori viene ascritto un ruolo prettamente politico. Si tenta così di
costruire e di promuovere una nuova identità di consumo. Ai consumatori si
attribuisce il potere di modificare la direzione dell’economia e la responsabilità di farlo, perché si riconosce che senza un loro impegno costante i produttori
verdi, il commercio equo e solidale, le reti distributive alternative, ecc. rischiano di perdere il loro afflato politico e di adagiarsi nella semplice gestione economica.
Sono in molti a sottolineare che con la globalizzazione il fulcro del processo internazionale sembra essersi spostato dalla politica all’economia, dallo Stato
alle multinazionali e alle istituzioni sopranazionali. Ma questa è una visione
limitata e storicamente miope della «politica». I consumi possono diventare, e
sono di fatto già diventati, una freccia politica nell’arco di vari movimenti di
base eco-gastronomici, umanitari, missionari, ambientalisti, New Global e così
via per coinvolgere attivamente, su questioni di immediata rilevanza pratica, la
popolazione e, soprattutto, per fare pressione in modo più diretto sulle aziende in relazione ad aspetti difficilmente sindacabili nell’ottica dei tradizionali
rapporti tra Stati e imprese.
È indubbio che alcuni fortunati boicottaggi di consumo hanno dimostrato
che con i nostri consumi possiamo intervenire in questioni che sembrano fuori
dalla portata delle istituzioni e dei processi democratico-liberali nazionali. Così,
alcuni teorici sociali, come Ulrick Beck, sembrano ipotizzare che se la prima
modernità è stata una democrazia «orientata ai produttori», la seconda modernità sarà una democrazia «orientata ai consumatori»: si tratterebbe di una
democrazia allo stesso tempo «cosmopolita e concreta», cioè «articolata in
una pluralità di tematiche che sveglia e organizza il gigante assopito del “cittadino-consumatore sovrano” facendone un contropotere rispetto al potere dei
gruppi industriali transnazionali»22.
La capacità di un numero crescente di consumatori di farsi davvero interpreti di una voce politica e critica, di una prospettiva non solo auto-riferita che
guardi al futuro più che al presente, va probabilmente soppesata con i cicli
economici stessi: viene infatti da chiedersi quanto viabile sia il consumo critico quando si profilano situazioni di recessione o di stagnazione economica.
Più in generale, Beck stesso sembra nutrire dubbi sulla perfetta equivalenza
tra atto d’acquisto e scheda elettorale, uno slogan spesso utilizzato da chi organizza boicottaggi di consumo. In realtà il boicottaggio di consumo assomiglia di più ad un referendum abrogativo, e l’esperienza italiana insegna che
un’inflazione di referenda può produrre scarsi risultati in termini di partecipa-
979
zione. È chiaro che, per la stessa natura pervasiva e ordinaria delle pratiche di
consumo, la voce dei consumatori ha bisogno di essere orientata, coordinata e
amplificata da forme di rappresentanza che ne traducano il peso economico in
chiave propriamente politica – con tutte le inerzie e le distorsioni che la rappresentanza implica in quanto forma di governamentalità. I movimenti e le
associazioni che usano il consumo come arma politica svolgono ciò non di
meno un ruolo irrinunciabile anche di fronte ad una diffusione delle produzioni biologiche o dei principi di responsabilità sociale tra le imprese: alle
aziende che operano nel settore alternativo spetta insomma il compito di tentare di integrare l’obiettivo del profitto con solidarietà, ecologismo e qualità
della vita; ai movimenti di consumo critico spetta invece il compito propriamente politico di verificare che tale integrazione avvenga a partire da una visione di giustizia. È questo che occorre per tradurre forme silenziose di rifiuto
o scelta di acquisto in una consapevole e spesso fortemente sonora forma di
partecipazione politica.
1
Per una panoramica delle questioni riassumibili sotto l’etichetta della politica dei consumi rimando
a R. Sassatelli, Consumo, cultura e società, Bologna, Il Mulino, 2004.
2
WorldWatch Institute, State of the World 2004. Consumi, trad. it. Milano, Ed. Ambiente, 2004.
3
Cfr. WorldWatch Institute, cit.
4
World Bank, World Development Indicators, Washington, 2000; dati per l’Italia aggiornati al
rapporto Istat sui consumi 2003.
5
Undp, Rapporto 2003 sullo sviluppo umano, trad. it. Torino, Rosenberg & Sellier, 2003. Kevin Bales
stima che vi siano oggi circa 27 milioni di schiavi; cfr. K. Bales, I nuovi schiavi. La merce umana
nell’economia globale, trad. it. Milano, Feltrinelli, 2000.
6
Cfr. P. Hawken, A. Lovins e L. Hunter Lovins, Natural Capitalism: Creating the Next Industrial
Revolution, Boston, Little, Brown & Co., 1999.
7
T. Scitovsky, The Joyless Economy. An Inquiry into Human Satisfaction and Consumer Dissatisfaction,
New York, Oxford University Press, 1976; G. Cross, An all Consuming Century. Why Commercialism
Won in Modern America, New York, Columbia University Press, 2000.
8
La definizione di «qualità della vita» o di benessere è essa stessa una questione dibattuta; cfr. L. Bruni
e S. Zamagni, Economia civile, Bologna, Il Mulino, 2004.
9
M. Hora e J. Tick, From Farm to Table, Washington, Capital Area Food Bank, 2001 e A. Jones, Eating
Oil: Food Supply in a Changing Climate, London, Sustain, 2001.
10
Imf, World Economic Outlook, Washington, 2003 e Imf, World Development Indicators, Washington,
2003.
11
Oxfam ha condotto una pressante campagna sul mercato del caffè, raccogliendo anche numerose utili
informazioni; cfr. Oxfam, Gusto Amaro. La povertà nella tua tazza di caffè, trad. it. Piacenza, Berti, 2003.
12
M. Augé, Non-luoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, trad. it. Milano, Eléuthera,
1993.
13
G. Ritzer, La religione dei consumi, trad. it. Bologna, Il Mulino, 2000, p. 68.
14
Cfr. soprattutto W. Belasco, Appetite for Change, Ithaca, N.Y., Cornell University Press, 1993.
15
L’organizzazione è oggi diffusa in 83 nazioni e la sua rivista Slow viene prodotta in cinque lingue e
presenta articoli sulle tradizioni alimentari dell’intero globo; cfr. www.slowfood.com.
16
Il crescente successo di questa iniziativa si deve anche alla risonanza avuta dal processo per
diffamazione che McDonald’s ha intentato contro due attivisti di Greenpeace che avevano distribuito
un volantino di protesta: il processo è stato una catastrofe di immagine per McDonald’s che, nonostante
un imponente dispiegamento di legali, non è riuscito a vincere su alcun capo d’accusa, cfr. J. Vidal,
Mclibel: Burger Culture on Trial, New York, The New York Press, 1997 e www.mcspotlight.org.
17
Cfr. www.navdanya.org.
18
Efta, Annuario del Commercio Equo. La sfida del Fair Trade in Europa, 2002.
19
M. Youssefi, e H. Willer, The World of Organic Agriculture 2003, Statistics and Future Prospects,
Ifoam, 2003 e www.ifoam.org.
20
Sui Gas italiani cfr. A. Saroldi, Gruppi di Acquisto solidali, Guida al consumo locale, Bologna, Emi,
2002 e www.retegas.org. Più in generale il panorama associativo nel settore del consumo consapevole
italiano è ampio e complesso. Oltre alla testata elettronica «Consumi Etici» (www.consumietici.it) e alla
il dibattito sulla globalizzazione
note
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il dibattito sulla globalizzazione
rivista mensile «Altraeconomia», alcune guide, tra cui si segnala quella del Centro Nuovo Modello di
Sviluppo (Cnms, Guida al consumo critico, Bologna, Emi, 20034) possono offrire un’utile panoramica.
21
Le organizzazioni di difesa del consumatore hanno profili diversi: agiscono, ad esempio, mediante
azioni legali come quelle intraprese dal noto avvocato statunitense Ralph Nader, oppure promuovono
lo sviluppo di nuove legislazioni, innestandosi con funzioni consultive in enti amministrativi, oppure
pubblicano riviste che forniscono test comparativi di prodotto come «Altroconsumo» in Italia o il
fortunatissimo «Which?» in Gran Bretagna; cfr. R. Sassatelli, La politicizzazione del consumo e
l’evoluzione dei movimenti dei consumatori, in P. Capuzzo (a cura di), Consumi, Genere e Generazioni,
Roma, Carocci, 2003.
22
U. Beck, La società cosmopolita, trad. it. Bologna, Il Mulino, 2003, pp. 95-96; cfr. anche N. Heertz,
La conquista silenziosa, trad. it. Roma, Carocci, 2001.