Il gioco dell`oca del sistema spagnolo A Parigi un
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Il gioco dell`oca del sistema spagnolo A Parigi un
Dialoghi Unità srl Consiglio di Amministrazione DIRET TORE RESPONSA BILE PRESIDENTE Erasmo D’Angelis Marco Mannozzi V ICEDIRET TORE A M MINISTR ATORE DELEGATO REDAT TORE CA PO SEDE LEGA LE E REDA ZIONE Via Barberini 11 - 00187 - Roma Tel. 06-87930901 Fax 06-87930998 [email protected] CONSIGLIERI Marco Bucciantini Massimo Pessina Filippo Roberto Gittardi Piergiorgio Weiss A Parigi un accordo a due facce Sergio Castellari I migranti di Riace ISTITUTO NAZIONALE DI GEOFISICA E VULCANOLOGIA I l 12 dicembre, nell’ambito della XXI Sessione della Conferenza delle Parti (Cop21) della Convenzione Quadro dell’ONU sul clima, i 196 Paesi presenti alla Conferenza hanno approvato il documento finale, denominato “Accordo di Parigi”. Questo accordo è stato il risultato di diversi anni di negoziazione, già iniziati alla Cop17 di Durban nel dicembre 2011. È mia opinione, tuttavia, che l’accordo presenti però due diverse facce, che cercherò di spiegare brevemente. La prima faccia è molto positiva Dopo vari anni di negoziazioni si è raggiunto un accordo universale, che coinvolge tutti i Paesi, quelli sviluppati e quelli in via di sviluppo. È, dunque, un accordo di importanza storica, perché supera lo schema del Protocollo di Kyoto, che prevedeva obiettivi di riduzione delle emissioni di gas solo per i Paesi sviluppati. Ad oggi i Paesi che hanno presentato i loro contributi volontari di riduzione delle emissioni di gas serra sono 189 e sono responsabili del 95% delle emissioni globali. È importante sottolineare che questi contributi volontari dovranno diventare più ambiziosi: i Paesi sono chiamati a migliorarli ogni 5 anni. Nell’accordo di Parigi è stato introdotto un obiettivo globale molto ambizioso (articolo 2): ridurre le emissioni globali di gas serra per “mantenere l’incremento della temperatura media globale ben sotto i 2°C rispetto ai livelli preindustriali e sforzarsi per limitare questo incremento a 1,5°C, riconoscendo che ciò ridurrebbe significativamente i rischi e gli impatti del cambiamento climatico”. Dall’inizio del XIX secolo, l’umanità ha iniziato ad usare combustibili fossili come il carbone, poi il petrolio e il gas. L’uso di questi combustibili fossili ha provocato un significativo aumento delle emissioni di gas serra in atmosfera, che, insieme alla deforestazione, hanno aumentato la concentrazione atmosferica di questi gas serra. Queste alte concentrazioni atmosferiche sono considerate dalla comunità scientifica le maggiori responsabili del riscaldamento globale in atto negli ultimi 50 anni. Nell’articolo 4 dell’accordo vengono delineate le modalità con cui raggiungere l’obiettivo globale del contenimento della crescita della temperatura: i Paesi devono garantire un massimo di emissioni di gas serra quanto prima, sebbene i Paesi in via di sviluppo possano disporre più tempo, però, infine, tutti i Paesi devono attuare “rapide riduzioni in accordo con le migliori conoscenze scientifiche disponibili”. È importante tenere conto della conoscenza scientifica, perché significa fare affidamento ai rapporti del Comitato Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici (Ipcc), che è il principale riferimento scientifico. È importante anche porre l’accento sulla “rapidità” di queste azioni di riduzioni delle emissioni di gas climalteranti: la temperatura media globale è già cresciuta di circa 1°C rispetto ai livelli preindustriali, quindi lo spazio di manovra per contenere la crescita entro 2°C risulta ridotto. L’obiettivo dei 2°C è emerso dagli studi della comunità scientifica mediante l’uso di modelli climatici per stimare gli impatti dei cambiamenti climatici tenendo conto di diversi tipi di riscaldamento globale: superare questa soglia dei 2°C potrà causare enormi costi di adattamento degli impatti in molti settori; inoltre, alcuni saranno inevitabili e impossibili da gestire in maniera efficace, perché avranno superato le soglie di “capacità adattiva” dei sistemi naturali ed umani; altri impatti, infine, potranno essere irreversibili o mantenersi per secoli, come, ad esempio, la fusione dei ghiacciai della Groenlandia con tremendi effetti sull’innalzamento del livello medio dei mari. Nel suddetto accordo la mitigazione dei cambiamenti climatici e l’adattamento agli impatti dei cambiamenti climatici vengono parimenti considerati ed affrontati. Infatti, anche se verranno ridotte le emissioni di gas climalteranti e la deforesta- Il commento A secco. L’ispezione al lago Poopo, in Bolivia, che è ormai quasi completamente asciutto. Foto: Epa Gli impegni presi, se attuati, comunque faranno aumentare la temperatura globale zione (attuando misure e politiche di mitigazione), dovranno essere affrontati in varie aree del nostro pianeta gli inevitabili impatti dei cambiamenti climatici: alcuni sono già in corso e altri sono potenzialmente prospettabili in un futuro prossimo. È necessario, dunque, pianificare ed attuare misure e politiche per ridurre il rischio di questi impatti; in altri termini, occorre prepararsi all’adattamento. Nell’accordo di Parigi si introducono obblighi di reporting delle emissioni di gas serra, delle misure e politiche di mitigazione per tutti i Paesi; tali rapporti nazionali saranno sottoposti a revisione mediante procedure comuni per tutti i Paesi per verificare il vero stato di attuazione degli impegni assunti. Mi preme, inoltre, ricordare che l’accordo di Parigi è il primo accordo multilaterale climatico che, nel suo preambolo, richiama espressamente e riconosce l’importanza di alcuni diritti civili quali l’equità intergenerazionale, la giustizia climatica ed il diritto alla salute: un piccolo passo avanti, sebbene ci si limiti ad un richiamo nell’introduzione, senza alcun riferimento alle modalità da seguire per la loro attuazione. L’operatività dell’accordo è subordinata alla sottoscrizione dello stesso da parte di almeno 55 Paesi, che sono responsabili del 55% del totale delle emissioni globali di gas climalteranti. Infine, il raggiunto consenso, conseguito a Parigi, sul testo dell’accordo ha mandato e continuerà a mandare un importante e forte segnale al settore pubblico (e dunque ai decisori politici) ed al settore privato (ovvero a chi investe in energia, trasporti, produzione alimentare, turismo ecc.): la transizione verso un’economia globale a zero emissioni di carbonio ha oramai ricevuto lo “start” formale dell’ONU e non potrà in alcun modo essere bloccata, a rischio di una pessima figura davanti gli elettori e i consumatori. La seconda faccia è meno positiva. Gli impegni attuali presi dai 189 Paesi, che hanno presentato contributi volontari, se attuati, porteranno molto probabilmente a un aumento della temperatura media globale di circa 3°C rispetto al livello preindustriale (almeno così precisa la comunità scientifica climatica), quindi ben al di sopra dell’obiettivo globale dell’accordo. Inoltre, l’obiettivo globale è espresso in maniera generica e non in funzione di reali riduzioni di emissioni globali di gas climalteranti, come segnalato nell’ultimo rapporto del Comitato Ipcc pubblicato nel 2014: al fine di raggiungere l’obiettivo dei 2°C è necessario attuare almeno una riduzione entro il 2050 delle emissioni globali del 40-70% rispetto al 2010 e poi arrivare a zero emissioni alla fine di questo secolo. Il testo dell’accordo (articolo 4) spiega, invece, che per raggiungere l’obiettivo è necessario ridurre le emissioni globali prima possibile, senza specificare di quanto, al fine di garantire un bilancio tra emissioni di carbonio e rimozioni di carbonio. Non sono specificate, però, le modalità necessarie ad assicurare le rimozioni di carbonio, dando, quindi, per presupposto sia l’afforestazione, sia le tecnologie di geoingegneria (tecnologie ancora non operative e ricche di incognite). Infine, i punti più critici di questo accordo sono la natura “legalmente vincolante” ed il suo sistema di “compliance” (la conformità alle regole prestabilite). La parte “legalmente vincolante” dell’accordo è rappresentata dalla procedura trasparente che i Paesi dovranno adottare nel presentare e nel compilare i rapporti sui loro contributi volontari. L’articolo 15 dell’accordo introduce il concetto di un sistema di “compliance”, che però deve essere non sanzionatorio e deve tenere conto delle specificità dei diversi Paesi nell’attuazione dei loro impegni. Inoltre, questo sistema sarà oggetto di successiva elaborazione nei prossimi anni da parte di un comitato specifico con inizio dalla prima sessione dell’accordo, quindi nel 2020. Credo, dunque, sia molto ottimistico qualificare tale accordo come un accordo legalmente vincolante con un sistema di “compliance” ancora tutto da definire, che sarà oggetto di ulteriori negoziazioni, sicuramente non facili, nei prossimi anni. Conclusioni Dall’accordo potrebbero però scaturire una serie di “followup” particolarmente interessanti. L’Ue potrebbe aumentare il proprio obiettivo di riduzione delle emissioni di gas serra (40% rispetto al livello del 1990), ora presente nel pacchetto clima/energia 2030. La Cina potrebbe seguire l’esempio e rendere più sostenibile il nuovo Piano Quinquennale 20162020 prima dell’approvazione nel marzo 2016; persino gli Usa potrebbero garantire un maggiore impegno dopo l’accordo di Parigi, nonostante la recente apertura, dopo circa 40 anni, da parte del Congresso alle esportazioni di petrolio nazionale. In conclusione, questo è l’accordo che i Paesi hanno potuto e voluto concludere a Parigi: un risultato storico, ma che ci si augura possa essere migliorato in molte sue parti nei prossimi anni prima della sua entrata in vigore nel 2020. Il gioco dell’oca del sistema spagnolo Salvatore Vassallo Elisabetta Gualmini ra già chiaro che l’ondata d’inquietudine e malcontento che si aggira per l’Europa si sarebbe fatta sentire con forza anche in Spagna. Ed anche che lì, con maggiore probabilità, gli effetti sulla stabilità dei governi sarebbero stati difficili da riassorbire. Nonostante che in Spagna l’onda non abbia preso le forme di movimenti xenofobi, viscerali, ossessivamente nazionalisti, ideologicamente estremi. O forse proprio per questo. Al successo di Podemos e Ciudadanos contribuisce non solo la presenza di leader giovani e carismatici, uno hippy e uno yuppi, ma anche il tratto rassicurante. La sfida ai partiti tradizionali è venuta da forze non abbastanza radicali da poter essere messe nell’angolo degli antisistema, non abbastanza moderate da poter facilmente venire a patti coi protagonisti del bipartitismo “quasi perfetto” che, dopo la breve fase della transizione (197781), retta da instabili aggregazioni al centro, e la lunga fase del predominio socialista con i governi Gonzalez, è sembrato potesse stabilmente convivere con un sistema proporzionale. Le tre ordinate alternanze tra Aznar (1993), Zapatero (2004), Rajoy (2011) sembravano dimostrarlo. Ora, invece, siamo alla perfetta paralisi. Il sistema Stampa:MonzaStampasrlVia M. Buonarroti, 153 20900 - MONZA Stec-SocietàTipograficoEditriceCapitolinasrl Via Giacomo Peroni, 280 - 00131 - ROMA Simone Torrini Guido Stefanelli Vladimiro Frulletti E DIRET TORE OPER ATI VO elettorale spagnolo penalizza i partiti con un elettorato nazionale che prendono meno del 10% dei voti e trasferisce i relativi seggi ai partiti maggiori e a quelli regionalisti (che hanno voti concentrati in poche circoscrizioni). Non premia e non garantisce la maggioranza al partito che arriva primo, né spinge a formare coalizioni. Con solo due partiti, chi arrivava primo poteva facilmente costituire il governo con la norma costituzionale che consente al Premier di entrare in carica anche solo con la maggioranza relativa dei deputati favorevoli contro quelli esplicitamente contrari. E grazie alla quasi totale indifferenza, tra Psoe e Pp, dei regionalisti. A prima vista, il bipartitismo avrebbe potuto essere sostituito da un assetto bipolare: PpCiudadanos a destra, Psoe-Podemos a sinistra. Coi partiti tradizionali a rappresentare l’elettorato più anziano, gli arrembanti anti-establishment i più giovani. Ma c’è più di una complicazione. Primo, il perfetto pareggio. Tutti e due i «poli» hanno ottenuto esattamente la stessa quota di voti (42,6%) e un numero di seggi quasi identico (163 a 159, tra 45 e 46%), al punto che se questo fosse lo schema di gioco, a decidere chi va al governo non sarebbero gli elettori ma i 6 deputati del Partito nazionalista basco o i 9 della sinistra indipendentista catalana. Secondo, e soprattutto, l’incompatibilità delle strategie politico-elettorali dei partiti astrattamente più vicini. Etis2000spa - Zona Industriale - VIII Strada - 95121 - CATANIA CentroStampaUnioneSarda Via Omodeo - 09034 - Elmas - CAGLIARI Ciudadanos, dopo aver fatto del ricambio delle classe dirigente la sua bandiera, non può andare oltre una astensione tecnica che consenta l’entrata in carica di un monocolore Pp. Il Psoe naturalmente oggi non può arrivare nemmeno a questo, se non vuole perdere altri voti. Potrebbe andare in sella solo mettendosi definitivamente al rimorchio di una maggioranza a trazione Podemos con dentro anche i nazionalisti catalani. Purtroppo (o per fortuna), nel Psoe gli anticorpi verso questa ipotesi sono robusti. Se non bastassero, ci sarebbe la maggioranza del Senato saldamente in mano al Pp a rendere impossibile qualsiasi compromesso basato sulla promessa di una modifica costituzionale. Per quanto possa apparire meno ovvio, un’esile possibilità di uscire dallo stallo ci sarebbe stata se i numeri parlamentari fossero stati favorevoli a un accordo tra Psoe e Ciudadanos, come è successo in Andalusia. Ma il Psoe ha perso troppo verso Podemos e Ciudadanos ha preso troppo poco al Pp. Quindi a oggi lo scenario più prevedibile è il gioco dell’oca. A gennaio Rajoy viene bocciato dall’opposizione congiunta di Psoe e Podemos. Di seguito fallisce o si arena l’avventurosa coalizione evocata da Iglesias. E si torna quindi a Rajoy, che nel frattempo è rimasto in carica, pronto a gestire il ritorno alle urne. E di nuovo al via, sperando che il prossimo giro della ruota sia più fortunato. Distribuzione: Press DI - Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (Milano) Pubblicità: Sole 24 ore System, Via Monterosa, 91 - 20149 Milano Tel. 02.30221. Numero iscrizione REA: RM1425022 Gianni Pittella I n Calabria c’è un Comune che meriterebbe la medaglia d’oro della solidarietà. «Riace l’altra Europa», non c’è dubbio. Quella spesso fuori dai riflettori, che accoglie, che integra i migranti. Quella che non si volta dall’altra parte rispetto a chi chiede aiuto ma fa della mobilità un fattore di crescita dei popoli del mondo. Nel piccolo comune dell’area jonica reggina, popolato da circa 1800 residenti, gli abitanti di origine straniera sono centinaia. 400, forse anche di più. Sono stato a visitarlo per la seconda volta in pochi anni per dire grazie ad un sindaco e ad un popolo meravigliosi che hanno scommesso sulla accoglienza, non solo come dovere e simbolo di umanità e civiltà, ma anche come volano di crescita sociale ed economica. Ragazzi, ragazze, madri, bambini provenienti da oltre venti Paesi dell’Africa e del Medioriente che, dal 2004, trovano a Riace un luogo sicuro e accogliente dove vivere, lavorare e costruire la speranza. Uomini e donne, dunque, che per una parte del mondo sono “scarti umani” di un sistema che non ammette valori. L’esperienza iniziò nel 2004: alcune centinaia di profughi si arenarono con un veliero sulle spiagge della costa jonica. “A quel punto – mi ha spiegato il sindaco Mimmo Lucano abbiamo messo in atto un’idea controversa. Ovvero riaprire le case degli emigrati lontani da questa terra. Le abbiamo aperte e le abbiamo date a quelle persone in difficoltà. Perché noi vogliamo un’Europa libera dal pregiudizio e dai muri”. Il progetto di accoglienza, a Riace, sta garantendo la sopravvivenza di un borgo destinato all’abbandono. Nel giro di dieci anni, a fronte di un calo demografico diffuso nel reggino calabrese, nel piccolo centro dell’alta locride la popolazione è cresciuta di oltre cento unità. “35 euro al giorno per i migranti – ha sottolineato Lucano – servono per il sostegno alla persona, per la gestione dei servizi e, come fatto qui, per la crescita di tutta la comunità: 70 posti di lavoro sono stati creati negli anni a Riace. Io queste cose vorrei mostrarle a Salvini, che parla tanto ma sa poco poco”. Riace è famoso per la raccolta differenziata porta a porta, fatta con l’ausilio di 18 Asini. E Riace è, soprattutto, modello di rinascita: con l’arrivo degli immigrati sono stati riaperte attività artigianali, un caseificio, un laboratorio per la tessitura, e uno per la produzione di cioccolata. Ma anche un frantoio. È stata stampata una moneta locale solidale. Tutto quello che chiedono oggi i ragazzi di Riace è un campo da calcio dove poter giocare e divertirsi. Lo vuole anche il sindaco Lucano, che vorrebbe venisse finanziata anche la legge Riace n.18 del 2009 dalla Regione Calabria. “Questo modello si basa su un’economia solidale, sui valori di sostegno reciproco della civiltà contadina, e con poco abbiamo fatto tanto”, é stato spiegato ancora. Da anni c’è un via vai di ricercatori, e fotoreporter stranieri, che continuano a spingersi fino alla punta dello stivale, attratti da questa storia. A livello internazionale gli sono stati tributati onori di ogni genere. Dal terzo posto come miglior sindaco del mondo, ottenuto nel 2010 con la motivazione di essere un “Gandhi dei nostri tempi”, alla dichiarazione del regista Wim Wenders (che ha girato il film documentario su Riace), secondo cui “la vera utopia non è il crollo del muro di Berlino, ma quello che è stato fatto a Riace”. Riace non è il solo esempio di comunità italiana che ha accolto, assistito,integrato, valorizzato. Perciò alcune incursioni brussellesi ignoranti dello sforzo ammirevole ed eccellente svolto dall’Italia in questi anni non ci sono piaciute e meritano di essere rispedite al mittente. Il Governo italiano, il suo premier Matteo Renzi e i cittadini italiani, la stragrande maggioranza, non hanno smarrito i valori di solidarietà e di generosità che sono il cemento della civiltà. Il nostro impegno europeo è strenuamente rivolto a difendere questi valori dall’impatto di nazionalismo ed egoismo, dalla propaganda della destra xenofoba e razzista che vorrebbe condurci nell’abisso dell’odio e nel labirinto della paura. La propaganda non si vince con la timidezza e la codardia, ma con la verità e i fatti. I fatti dimostrano, con buona pace di Salvini e Le Pen, di Farage e di Orban, che la costruzione di una società multietnica e multireligiosa non solo è possibile, ma assolutamente utile. Basta non perdere se stessi. Iscrizione al numero 243 del Registro Nazionale della Stampa del Tribunale di Roma. Iscrizione come giornale murale nel registro del tribunale di Roma n. 4555. Certificato ADS numero 7862 del 09/02/2015 La tiratura del 21.12.2015 è stata di 58.604 l’Unità Martedì, 22 Dicembre 2015 15