MACBETH VOODOO
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MACBETH VOODOO
MACBETH VOODOO Alcune considerazioni sul Macbeth di Orson Welles A mia memoria, tra le opere di Shakespeare, Macbeth (1948) è quella che ha lasciato meno tracce nel cinema. Un Kurosawa di quelli buoni (Il trono di sangue, 1957), un Polanski superfluo (Macbeth, 1971) e qualche film minore. Ampliando lo sguardo ai derivati, si potrebbero poi ricondurre sotto l’insegna del dramma shakespeariano anche la fantasia fumettistica e pre-fassbinderiana de La caduta degli dei (1969) di Visconti e il finale di Mystic River, quando la lady Macbeth del caso sussurra all’orecchio turbato del marito-giustiziere Sean Penn parole in cui si rimescolano più ampie considerazioni. Il dialogo tra i due congiurati è posto in appendice al film che, a dire il vero, non se ne giova più di tanto, illuminato a posteriori da cotanto fervorino. Ma vale la pena di rileggerlo per esteso: Jimmy Markum: Annabeth Markum: Jimmy Markum: Annabeth Markum: Jimmy Markum: Annabeth Markum: Jimmy Markum: Annabeth Markum: Ho ucciso Dave, l’ho ucciso e l’ho buttato nel Mystic. Ma ho ucciso l’uomo sbagliato, ormai l’ho fatto e non posso tornare indietro. Sssh, Jimmy, sssh. Voglio sentire il tuo cuore. Ieri notte, quando ho messo a letto le bambine e gli ho detto quanto è grande il tuo cuore, gli ho detto quanto bene volevi anche a Emmy perché tu l’hai creata e qualche volta il tuo amore per lei era così immenso che il tuo cuore sembrava che dovesse esplodere... Ti prego basta. ...per il troppo amore; gli ho detto che il loro papà ama così anche loro, che lui ha quattro cuori, tutti e quattro così pieni e carichi di un tale amore da farci sentire al sicuro; e che il loro papà farà tutto quello che deve fare per quelli che ama e questo non è mai sbagliato. Questo non può essere sbagliato, qualsiasi cosa sia costretto a fare; e loro si sono addormentate in pace. Hai detto ieri notte: tu sapevi. Celeste ha chiamato, cercava te. Temeva che potesse succedere qualcosa... Mi ha detto di Dave. M’ha detto quello che ha detto a te. Che moglie è quella che va a dire certe cose del marito e perché è venuta da te? Perché non mi hai chiamato? Perché è come ho detto alle bambine: il loro papà è un re e un re sa cosa deve fare e lo fa, anche se è difficile e il loro papà farà tutto quello che deve fare per quelli che ama. È solo questo che importa. Perché sono tutti deboli Jimmy, tutti meno noi. Non lo saremo mai noi e tu puoi regnare su questa città. E dopo Jimmy portiamo le bambine alla parata, Kathy ne sarebbe contenta. L’equazione storica è di prammatica: il delitto compiuto, chiaramente un errore, in questo preciso momento (e leggi in tra le righe l’Iraq e l’Afghanistan, se non peggio) non paga pegno, il farlo varrebbe la perdita del potere che, nel film, si mantiene in equilibrio tra i due antagonisti che si guardano in cagnesco, consapevoli l’un l’altro di vicendevoli manchevolezze e complicità. Sepolta la verità sotto una spessa coltre di ipocrisia, la marcetta finale della banda cittadina la calpesta ironicamente. In Mystic River Eastwood avverte il vulnus della menzogna politica, ma non osa trarne le conseguenze, anzi da ultimo ritratta inorridito. Anche se solo in extremis, l’ordine regna. Ma non è questo il punto. Mi premeva citare qui il rimando alla presenza femminile nel Macbeth, come innesco della tragedia del regicida castigato. Unica fedele trascrizione cinematografica del dramma shakespeariano resta il Macbeth di Orson Welles1. Nel suo Macbeth (per più versi il suo film meno amato e rammentato) il regista newyorkese propone una interpretazione machiavellica della storia testé conclusa, un’allegoria dubbiosa della recente guerra. Il film era uscito nelle sale preceduto dall’eco di un clamoroso allestimento testo shakespeariano in panni Vodoo nella New York degli anni trenta, recitato unicamente da attori afro-americani (‘neri come la pece’), in un’atmosfera, a giudicare almeno dalle fotografie di scena2, canzonatoria e simil-operettistica. Di quell’operazione teatrale l’aggrondato Macbeth wellesiano non reca però traccia: ritroviamo invece l’istrionismo guittesco dell’attore-regista, catatonico e fiso all’aldilà come vuole il cliché teatrale più corrivo dell’assassino che presagisce una vendetta spiritica. Girato tra quattro quinte di cartapesta, Macbeth voleva essere negli intenti del regista un film a misura di produttore, buono magari a contraddire la leggenda maligna del Welles dissipatore. Finirà per risultare il film più compresso di una carriera, quella di Welles, prossima ad una svolta da esule, tra le sponde dell’Europa che non sempre lo accoglierà con riguardo. Facili da intuirsi sono nel film i rimandi alla statuaria stralunata di Ejzenstein (nel dittico dei Boiari) e alla tavolozza screziata e violenta dei Nibelunghi (1924) di Fritz Lang, nitidissimi entrambi nell’acclimatazione barbarica del film. Così come si conferma riferimento collaudato il carattere del protagonista, un arrivista-avventuriero della risma dei Kane e dei Michael O’Hara, di cui il regicida scozzese parteggia l’analoga doppia predisposizione: la famelicità e la fragilità intrinseca, la potenza e l’impotenza saldamente abbinate. È un teorema caro al ‘900: il carisma individuale è impotente in democrazia, anche Macbeth, come Kane prima di lui, ne saggia la portata. Capita così che, sobillato dalle streghe che gli predicono il futuro, il regicida capitoli sotto i colpi della foresta che cammina, elemento da sempre acquattato nel castello, connaturato ad esso dove la pietra squadrata del fortilizio è avvolta da rampicanti e arborescenze; e dove gli antri indomestici stillano cascatelle e ruscelli, quasi il castello fosse un avamposto conteso, a mezzo tra una selvatichezza barbarica latente e la civiltà non ancora traguardata. Anche il gioco del bianco e nero rafforza il rituale oppositivo: tra il bene e il male, tra il nero soffocante della dominazione e la luce della liberazione che dilaga al seguito dei liberatori con le croci in mano. È la parte più esposta del film, quella delegata a dar fiato agli accadimenti. Che anche Welles pagasse dazio alla storia, all’entusiasmo di una vittoria dilagante? Tanto poco lo paga, che il finale vira nell’ironia e la liberazione sembrerà un linciaggio, una piazza Loreto da Highlands, quasi a dissipare, della storia, il solo fine celebrativo ed entusiastico; mai quello consuntivo. Si vede la luce irrompere da dietro i liberatori nel finale: non inonda il maniero, non dirada la tenebra e il coperchio, sul finire, si chiude sulla pignatta druidica, dove cuoce una nuova zuppa; mefistofelica ma non metafisica. I tiranni alla Macbeth non nascono come i funghi dalle spore, che il vento plana a suo capriccio in un campo a caso. No, la tirannia è un frutto laborioso e scientifico, auscultata da Machiavelli e allevata pazientemente nell’aia di un occidente declinante, quasi il regista, in linea con Henry Adams o con il transfuga Pound (che di Welles condividerà l’esilio italiano), intraveda a distanza gli esiti del secolo della democrazia. Un trattato un poco ampolloso ma efficace, meglio comunque del formalismo d’accademia che l’Hamlet (1948) di Laurence Olivier porterà all’attenzione di una mostra di Venezia maldisposta col Macbeth, già stanca l’Italia del suo nuovo trastullo mondano3. Non è poi da trascurare l’aspetto ancestrale della tragedia, l’esitare ai margini della storia del regicidio-edipico di Macbeth, che al passo finale è indotto dalla futura regina in pectore: Macbeth & moglie come Adamo ed Eva, la parte della serpe è riservata alle streghe. L’origine del filo che separa il bene dal male è ambigua? non lo è? o non è rintracciabile? Come che sia, il termine etico immediato e storico dell’assassinio si confonde con il residuo primitivo dell’atto, risolvendo l’ubbia che graverà sul cinema di Kubrick in una partita infinita e insolubile (il simbolo fatale, l’osso della scimmia, che trasmutandosi all’inizio di 2001 serve d’esempio alla storia della civiltà, si confonde nel gioco della storia, che non è mai la stessa). L’ultima incarnazione, la più attuale, dell’allegoria parrebbe dunque per Welles un affievolirsi nietzscheano del superman a favore dell’artiglio della strega-moglie-tentatrice - altro aggetto kubrickiano: verso un più teorematico e vistoso affondo di fine carriera, Eyes Wide Shut. Ciò spiega il tratto caduco e ricorrente di Macbeth, il perché di 1 Anche quello di Verdi, prima del cinematografo, è portentosamente vicino all’originale, specie nella versione fiorentina del 1847. Compararlo, fra musicologi, col Macbeth di Bloch (1910). 2 Un’ampia documentazione sullo spettacolo è consultabile all’indirizzo internet http://memory.loc.gov/ammem/fedtp/ftmb1.html. 3 Nel suo Orson Welles in Italia, Milano, Il Castoro, 2006, Alberto Anile ricostruisce, con abbondante dovizia di testimonianze documentarie, la parabola italiana di un Orson Welles (famoso allora da noi più per essere il marito di Rita Hayworth che il regista di Quarto potere) che conoscerà la fatuità dei salotti romani. una mascolinità tremebonda e sovrastata dal sesso: la selva che incalza, il brulicame e lo sciacquio del manierovulva gigante e la lady di ferro (che sul marito avrebbe da raccontarne delle belle); tutti abboccamenti da appendice freudiana, scolpiti in vista e forse rósi da un’ironia trucida che affida all’uomo la parte del comprimario. S’avanza in Welles una traccia allegorica che si sfilaccia con l’avanzare degli anni, affogando la tragedia sempre più nel grottesco, sino a ridursi ad un grumo di tetraggine. Il Macbeth antecedente al Processo; o, se preferite, successore de La signora di Shangai: prima il reduce disilluso dalla guerra di Spagna, da dritto quale si crede, cade nel raggiro della bionda; poi il regicida fallito e senza gloria capitola nella trama delle streghe; infine il piccolo burocrate perseguitato dal codazzo delle sgualdrine e giustiziato dalla bomba: lo scoppio e un filo di fumo accompagnati dall’eco di una risata. Fosse l’atomica? Rosabella brucia ancora.