L`attività della Corte di giustizia

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L`attività della Corte di giustizia
Evoluzione e attività
Corte di giustizia
A  —  Evoluzione e attività della Corte di giustizia nel 2007
di Vassilios Skouris, presidente della Corte
Questa parte della Relazione annuale illustra in modo sintetico le attività svolte dalla Corte
di giustizia delle Comunità europee nel corso del 2007. Essa offre, in primo luogo, una
panoramica dell’evoluzione dell’istituzione nel corso di quest’anno, ponendo in rilievo le
innovazioni sul piano istituzionale che hanno riguardato la Corte di giustizia e gli sviluppi
relativi alla sua organizzazione interna e ai suoi metodi di lavoro (sezione 1). In secondo
luogo, essa include un’analisi statistica riguardante l’evoluzione del carico di lavoro
dell’istituzione nonché della durata media dei procedimenti (sezione 2). In terzo luogo,
come ogni anno, essa presenta i principali sviluppi giurisprudenziali ripartiti per materia
(sezione 3).
1.  L’evoluzione istituzionale della Corte di giustizia nel 2007 è stata principalmente
contraddistinta dalla conclusione del processo legislativo diretto alla creazione di un
procedimento pregiudiziale d’urgenza, che consente di trattare rapidamente e
adeguatamente le questioni pregiudiziali attinenti allo spazio di libertà, sicurezza e
giustizia.
In particolare, con decisione 20 dicembre 2007 il Consiglio ha adottato le modifiche allo
Statuto e al regolamento di procedura della Corte intese ad instaurare un procedimento
pregiudiziale d’urgenza. Si tratta di un nuovo tipo di procedimento pregiudiziale destinato
alla trattazione delle cause riguardanti, attualmente, il titolo IV del trattato CE (Visti, asilo,
immigrazione e altre politiche connesse con la libera circolazione delle persone) e il titolo
VI del trattato sull’Unione europea (Disposizioni sulla cooperazione di polizia e giudiziaria
in materia penale). Avendo rilevato che i procedimenti esistenti, ivi compreso il
procedimento accelerato di cui all’art. 104 bis del regolamento di procedura, non erano
idonei a garantire a tale categoria di cause una trattazione sufficientemente rapida, la
Corte ha proposto l’attuazione di tale nuovo procedimento al fine di poter trattare le cause
in parola in termini particolarmente brevi e senza ritardare la trattazione delle altre cause
pendenti dinanzi alla Corte.
Le modifiche allo Statuto e al regolamento di procedura entreranno in vigore nel corso del
primo trimestre dell’anno 2008. Le principali caratteristiche del procedimento pregiudiziale
d’urgenza emergono dal raffronto di quest’ultimo con i procedimenti pregiudiziali ordinari
e accelerati. In primo luogo, la fase scritta del procedimento è limitata alle parti della causa
principale, allo Stato membro cui appartiene il giudice del rinvio, alla Commissione europea
e alle altre istituzioni qualora la causa riguardi un atto da esse emanato. Le parti, nonché
tutti gli interessati di cui all’art. 23 dello Statuto, potranno partecipare alla fase orale del
procedimento e in tal sede prendere posizione sulle osservazioni scritte presentate. In
secondo luogo, le cause trattate con un procedimento pregiudiziale d’urgenza saranno
attribuite, sin dal loro arrivo alla Corte, ad una sezione di cinque giudici specificamente
prevista a tal fine. Infine, il procedimento in tali cause si svolgerà essenzialmente in forma
elettronica, in quanto le nuove disposizioni del regolamento di procedura prevedono la
possibilità del deposito e della notifica degli atti processuali tramite telefax o posta
elettronica.
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2.  Le statistiche giudiziarie della Corte per l’anno 2007 rivelano un netto miglioramento
rispetto all’anno precedente. Al riguardo, occorre segnalare in particolare la riduzione, per
il quarto anno consecutivo, della durata dei procedimenti dinanzi alla Corte e l’aumento,
pari al 10 % circa, del numero di cause definite rispetto all’anno 2006.
In particolare, la Corte ha definito 551 cause nel 2007, contro le 503 nel 2006 (cifra netta,
che tiene conto delle riunioni di cause). Fra tali cause, 379 sono state oggetto di sentenza
e 172 hanno dato origine ad un’ordinanza. Si può rilevare che il numero di sentenze e di
ordinanze pronunciate è sensibilmente più elevato rispetto a quello del 2006 (351 sentenze
e 151 ordinanze).
Alla Corte sono state sottoposte 580 nuove cause, il che rappresenta la cifra più elevata
nella storia della Corte (1) e un aumento pari all’8 % rispetto alle cause promosse nel 2006,
nonché pari al 22,3 % rispetto alle cause promosse nel 2005. Il numero di cause pendenti
alla fine dell’anno 2007 non è tuttavia aumentato in modo significativo (741 cause, cifra
lorda) rispetto alle pendenze di fine 2006 (731 cause, cifra lorda).
Dalle statistiche giudiziarie relative all’anno 2007 emerge altresì la costante diminuzione
della durata dei procedimenti a partire dal 2004. Per quanto riguarda i rinvii pregiudiziali,
tale durata è stata pari a 19,3 mesi, mentre si attestava a 19,8 mesi nel 2006 e a 20,4 mesi
nel 2005. Infatti, come nel 2006, un’analisi comparativa rivela che, dal 1995, la durata media
della trattazione delle cause pregiudiziali ha raggiunto il suo livello minimo nel 2007. Per
quanto riguarda i ricorsi diretti e le impugnazioni, la durata media della trattazione è stata
rispettivamente di 18,2 e di 17,8 mesi (20 mesi e 17,8 mesi nel 2006).
Nel corso dell’anno passato, la Corte ha fatto un uso variabile dei diversi strumenti messi a
sua disposizione per accelerare la trattazione di talune cause (decisione con priorità,
procedimento accelerato, procedimento semplificato e possibilità di statuire senza le
conclusioni dell’avvocato generale). La Corte ha ricevuto otto richieste di procedimento
accelerato, tuttavia non ricorrevano i presupposti straordinari (di urgenza) prescritti dal
regolamento di procedura. Conformemente a una prassi stabilita nel 2004, le domande di
procedimento accelerato sono ammesse o respinte con ordinanza motivata del presidente
della Corte. È stato, peraltro, accordato un trattamento prioritario a 5 cause.
La Corte ha continuato, inoltre, a fare uso del procedimento semplificato, previsto dall’art. 104,
n. 3, del regolamento di procedura per risolvere determinate questioni pregiudiziali. Sulla base
di tale disposizione, infatti, sono state definite con ordinanza complessivamente 18 cause.
Infine, la Corte si è avvalsa con frequenza assai maggiore della possibilità offertale
dall’art. 20 dello Statuto di giudicare senza conclusioni dell’avvocato generale allorché la
causa non sollevi nuove questioni di diritto. Ricordiamo così che il 43 % circa delle sentenze
emanate nel 2007 non è stato preceduto da conclusioni (nel 2006 era il 33 %).
Per quanto riguarda la distribuzione delle cause tra i diversi collegi giudicanti della Corte,
si segnala che la Grande Sezione ha definito circa l’11 % delle cause, le sezioni a cinque
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Fatta eccezione per le 1 324 cause introdotte nel 1979. Tuttavia, tale cifra eccezionalmente elevata si spiega
con la presentazione di un ampio numero di ricorsi d’annullamento aventi lo stesso oggetto.
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giudici il 55 % circa, mentre le sezioni a tre giudici hanno definito approssimativamente il
33 % delle cause concluse nel 2007. Si constata che il numero delle cause trattate dalla
Grande Sezione è più o meno identico a quello dell’anno precedente, quello delle cause
trattate dalle sezioni a cinque giudici (63 % nel 2006) è in leggera diminuzione e il numero
delle cause trattate dalle sezioni a tre giudici è in aumento (24 % nel 2006). La distribuzione
delle cause tra i diversi collegi giudicanti risulta infatti quasi identica a quella del 2005.
Per altre informazioni riguardanti i dati statistici dell’anno giudiziario 2007, si rinvia il lettore
al punto C di questo capitolo.
3.  La presente sezione illustra i principali sviluppi giurisprudenziali classificati per materia
nel modo seguente:
questioni costituzionali o istituzionali; cittadinanza dell’Unione; libera circolazione delle
merci; libera circolazione delle persone, dei servizi e dei capitali; visti, asilo e immigrazione;
regole di concorrenza; fiscalità; ravvicinamento delle legislazioni e legislazioni uniformi;
marchi; politica economica e monetaria; politica sociale; ambiente; cooperazione giudiziaria
in materia civile; cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale e lotta al terrorismo,
restando inteso che molto spesso una sentenza rientrante in una determinata materia, in
considerazione della problematica principale da essa affrontata, tocca anche questioni di
grande interesse attinenti ad un’altra materia.
Questioni costituzionali o istituzionali
Tenuto conto dell’ampiezza delle materie riconducibili alla problematica costituzionale o
istituzionale, non ci si stupirà del fatto che vengano segnalate sentenze riguardanti
questioni assai diverse tra loro.
Benché ampiamente analizzata nella giurisprudenza anteriore, la problematica della
determinazione del fondamento normativo appropriato ai fini dell’adozione della legislazione
comunitaria è sempre presente nel contenzioso che si svolge dinanzi alla Corte.
Così, nella causa che ha dato origine alla sentenza 23 ottobre 2007 (causa C‑440/05,
Commissione/Consiglio) la Commissione, considerando che la decisione quadro del
Consiglio intesa a rafforzare la cornice penale per la repressione dell’inquinamento
provocato dalle navi (2), adottata nel quadro della cooperazione di polizia e giudiziaria in
materia penale, fosse basata su un fondamento normativo inadeguato, ha promosso, col
sostegno del Parlamento europeo, un ricorso d’annullamento affermando che lo scopo e
il contenuto della decisione quadro rientrano nelle competenze della Comunità europea,
nell’ambito della politica comune dei trasporti.
La Corte, dopo aver ricordato che, nell’ipotesi in cui il trattato CE e il trattato sull’Unione
europea risultino entrambi applicabili, quest’ultimo prevede la prevalenza del primo, e che
(2)
Decisione quadro del Consiglio 12 luglio 2005, 2005/667/GAI, intesa a rafforzare la cornice penale per la
repressione dell’inquinamento provocato dalle navi (GU L 255, pag. 164). Essa completa la direttiva del
Parlamento europeo e del Consiglio 7 settembre 2005, 2005/35/CE, relativa all’inquinamento provocato
dalle navi e all’introduzione di sanzioni per violazioni (GU L 255, pag. 11).
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spetta alla Corte stessa vigilare affinché gli atti che il Consiglio considera rientranti nell’ambito
delle disposizioni sulla cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale non sconfinino
nelle competenze della Comunità, ha constatato che l’obiettivo della decisione quadro è il
miglioramento della sicurezza marittima e, nel contempo, il rafforzamento della tutela
dell’ambiente marino contro l’inquinamento provocato dalle navi.
Pertanto, le disposizioni di tale decisione quadro che impongono agli Stati membri l’obbligo
di sanzionare penalmente determinati comportamenti avrebbero potuto essere validamente
adottate sul fondamento del trattato CE. La Corte ha rilevato che, se è vero che, in linea di
principio, la legislazione penale e le norme di procedura penale esulano dalle competenze
della Comunità, resta nondimeno il fatto che, allorché l’applicazione di sanzioni penali
effettive, proporzionate e dissuasive da parte delle competenti autorità nazionali costituisca
una misura indispensabile di lotta contro danni ambientali gravi, il legislatore comunitario
può imporre agli Stati membri di introdurre tali sanzioni per garantire la piena efficacia delle
norme che esso emana in materia di tutela dell’ambiente.
Invece, le disposizioni di questa stessa decisione quadro riguardanti il tipo e il livello delle
sanzioni penali applicabili non rientrano nella competenza della Comunità. Tuttavia,
poiché queste ultime disposizioni sono inscindibili da quelle relative ai reati cui si
riferiscono, la Corte ha concluso che la decisione quadro del Consiglio ha sconfinato nelle
competenze della Comunità in materia di navigazione marittima, in violazione del trattato
sull’Unione europea che attribuisce la priorità a tali competenze. La decisione quadro è
stata quindi annullata nel suo insieme, a motivo della sua indivisibilità.
Quanto all’estensione della competenza della Corte in materia di questioni pregiudiziali
intese ad ottenere un’interpretazione o un giudizio di validità, numerose cause meritano
di essere segnalate.
Nella causa Merck Genéricos-Produtos Farmacêuticos (sentenza 11 settembre 2007, causa
C‑431/05), la Corte, investita dalla corte suprema di giustizia portoghese della questione
se essa sia competente ad interpretare l’art. 33 dell’accordo sugli aspetti dei diritti di
proprietà intellettuale attinenti al commercio (accordo ADPIC) (3), ha risposto in senso
affermativo rilevando che, poiché detto accordo è stato concluso dalla Comunità e dai
suoi Stati membri in virtù di una competenza ripartita, essa è competente a definire gli
obblighi così assunti dalla Comunità e ad interpretare a tal fine le disposizioni dell’accordo
in oggetto. La questione della ripartizione delle competenze tra la Comunità e i suoi Stati
membri esige una soluzione uniforme a livello comunitario, che solo la Corte è in condizione
di fornire. Per quanto riguarda, in particolare, il caso di specie, la Corte ha stabilito che
esiste un sicuro interesse comunitario a che essa venga considerata competente ad
interpretare l’art. 33 di detto accordo ADPIC, che stabilisce la durata minima della tutela
dei brevetti, al fine di stabilire se il diritto comunitario osti a che venga riconosciuta
un’efficacia diretta a tale disposizione.
(3)
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Accordo sugli aspetti dei diritti di proprietà intellettuale attinenti al commercio, costituente l’allegato 1 C
dell’accordo che istituisce l’Organizzazione mondiale del commercio (OMC), firmato a Marrakech il 15 aprile
1994 e approvato con la decisione del Consiglio 22 dicembre 1994, 94/800/CE, relativa alla conclusione a
nome della Comunità europea, per le materie di sua competenza, degli accordi dei negoziati multilaterali
dell’Uruguay Round (1986-1994) (GU L 336, pag. 1).
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Nel solco della giurisprudenza Dzodzi (4) o Leur-Bloem (5), e, recentemente, Poseidon
Chartering (6), la Corte ha stabilito ancora una volta, nella causa Autorità garante della
concorrenza e del mercato (sentenza 11 dicembre 2007, causa C‑280/06), che, nel caso
specifico in cui essa sia adita con domande pregiudiziali in cui le regole comunitarie di cui
si chiede l’interpretazione siano applicabili solo mediante un rinvio operato dal diritto
interno o, in altri termini, quando una normativa nazionale si conforma, per le soluzioni
che essa apporta a situazioni puramente interne, a quelle adottate nel diritto comunitario,
esiste un interesse comunitario certo a che, per evitare future divergenze d’interpretazione,
le disposizioni o le nozioni riprese dal diritto comunitario ricevano un’interpretazione
uniforme, a prescindere dalle condizioni in cui sono applicate, e ciò mediante sentenze
rese dalla Corte su domanda di pronuncia pregiudiziale. Essa ha di conseguenza fornito
l’interpretazione richiesta dal giudice nazionale.
Si rilevi che la Corte ha altresì giudicato, nella causa Ikea Wholesale (sentenza 27 settembre
2007, causa C‑351/04), che, tenuto conto della loro natura e della loro economia, gli
accordi dell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC) non figurano, in linea di
principio, tra le normative alle luce delle quali la Corte controlla la legittimità degli atti
delle istituzioni comunitarie. Solo nel caso in cui la Comunità abbia inteso dare esecuzione
ad un obbligo particolare assunto nell’ambito dell’OMC, ovvero nel caso in cui l’atto
comunitario rinvii espressamente a precise disposizioni degli accordi OMC, spetta alla
Corte controllare la legittimità dell’atto comunitario controverso alla luce delle norme
dell’OMC.
In un registro assai diverso, la sentenza 28 giugno 2007 (causa C‑331/05 P, Internationaler
Hilfsfonds/Commissione) ha fornito alla Corte l’occasione di stabilire che le spese afferenti
ai procedimenti dinanzi al Mediatore europeo, non rimborsabili a titolo di spese ripetibili (7),
non possono neppure essere poste a carico dell’istituzione interessata a titolo di
responsabilità extracontrattuale della Comunità, posto che manca il nesso causale tra il
danno e l’atto illecito in questione, in quanto le spese stesse sono state affrontate per
libera scelta degli interessati.
Anche il diritto d’accesso del pubblico ai documenti delle istituzioni è stato frequentemente
oggetto del contenzioso. Così, nella sentenza 1o febbraio 2007, causa C-266/05 P, Sison/
Consiglio (Racc. pag. I‑1233), la Corte ha avuto modo di pronunciarsi in merito a vari
dinieghi, anche parziali, opposti a un ricorrente che aveva chiesto di poter consultare
i documenti che avevano indotto il Consiglio a inserirlo e a mantenerlo nell’elenco
delle persone assoggettate al congelamento dei capitali e di attività finanziarie istituito
mediante il regolamento n. 2580/2001 (8), nonché la comunicazione del nome degli Stati
che avevano fornito taluni documenti a tal riguardo.
(4)
Sentenza 18 ottobre 1990, cause riunite C‑297/88 e C-197/89, Racc. pag. I‑3763.
(5)
Sentenza 17 luglio 1997, causa C‑28/95, Racc. pag. I‑4161.
(6)
Sentenza 16 marzo 2006, causa C‑3/04, Racc. pag. I‑2505.
(7)
V. articolo 91, lett. b), del regolamento di procedura del Tribunale.
(8)
Regolamento (CE) del Consiglio 27 dicembre 2001, n. 2580, relativo a misure restrittive specifiche, contro
determinate persone e entità, destinate a combattere il terrorismo (GU L 344, pag. 70).
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Trattandosi di un settore che richiede, da parte del legislatore comunitario, scelte di natura
politica, economica e sociale, nelle quali esso è chiamato ad effettuare valutazioni complesse,
la Corte ha ricordato che essa può esercitare solo un controllo di legittimità limitato.
Ciò posto, essa ha stabilito che il regolamento n. 1049/2001 (9) si propone di fornire un diritto
di accesso del pubblico in generale ai documenti delle istituzioni e non di stabilire norme
dirette a tutelare l’interesse specifico alla consultazione di uno di questi documenti che un
determinato soggetto possa avere e che inoltre, relativamente alle eccezioni al diritto di
consultazione giustificate da taluni interessi pubblici e privati, l’interesse individuale di un
ricorrente a ricevere la comunicazione di documenti non può essere preso in considerazione
dall’istituzione chiamata a pronunciarsi sulla questione se la divulgazione al pubblico dei
detti documenti possa arrecare pregiudizio agli interessi che il legislatore comunitario ha
voluto tutelare e, in tal caso, a negare la consultazione richiesta.
La Corte ha proseguito facendo notare che, anche a voler supporre che il ricorrente abbia
il diritto di essere informato in modo dettagliato della natura e dei motivi dell’accusa mossa
a suo carico in quanto inserito nell’elenco controverso, e che tale diritto comporti la
consultazione di documenti in possesso del Consiglio, un siffatto diritto non può trovare
applicazione specifica invocando le procedure di pubblica consultazione dei documenti
delle istituzioni.
Nel caso di documenti dal contenuto estremamente delicato, la Corte ha stabilito che
l’autorità da cui essi promanano può esigere la segretezza relativamente all’esistenza
stessa di un documento di particolare delicatezza e che essa ha anche la facoltà di opporsi
alla divulgazione della propria identità, qualora sia resa nota l’esistenza di detto documento,
conclusione che non può essere ritenuta sproporzionata per il fatto che al richiedente cui
sia stato opposto un siffatto diniego di consultazione ne può derivare un accrescimento
della difficoltà, se non addirittura l’impossibilità pratica, d’identificare lo Stato da cui
promana il documento in questione.
Per quanto riguarda l’accesso del cittadino non ai documenti, bensì alle norme giuridiche,
la Corte, nella causa Skoma Lux (sentenza 11 dicembre 2007, causa C‑161/06), ha avuto
modo di pronunciarsi in merito alla portata dell’art. 58 dell’Atto relativo alle condizioni di
adesione all’Unione (10) del 2004. Investita da un giudice ceco della questione se detto
articolo consenta di far valere, nei confronti dei singoli in uno Stato membro, le disposizioni
(9)
Regolamento (CE) del Parlamento europeo e del Consiglio 30 maggio 2001, n. 1049, relativo all’accesso del
pubblico ai documenti del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione (GU L 145, pag. 43).
(10)
Atto relativo alle condizioni di adesione all’Unione europea della Repubblica ceca, della Repubblica di
Estonia, della Repubblica di Cipro, della Repubblica di Lettonia, della Repubblica di Lituania, della Repubblica
di Ungheria, della Repubblica di Malta, della Repubblica di Polonia, della Repubblica di Slovenia e della
Repubblica slovacca e agli adattamenti dei trattati sui quali si fonda l’Unione europea (GU 2003, L 236,
pag. 33).
L’art. 58 di tale Atto così dispone:
«I testi degli atti delle istituzioni, e della Banca centrale europea, adottati anteriormente all’adesione e
redatti dal Consiglio, dalla Commissione o dalla Banca centrale europea in lingua ceca, estone, lettone,
lituana, maltese, polacca, slovacca, slovena e ungherese fanno fede, dalla data di adesione, alle stesse
condizioni dei testi redatti nelle undici lingue attuali. Essi sono pubblicati nella Gazzetta ufficiale dell’Unione
europea qualora i testi nelle lingue attuali siano stati oggetto di una tale pubblicazione».
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di un regolamento comunitario che non è stato pubblicato nella Gazzetta ufficiale
dell’Unione europea nella lingua di tale Stato membro, allorquando quest’ultima è una
lingua ufficiale dell’Unione, la Corte ha stabilito che tale assenza di pubblicazione rende
inopponibili ai singoli in detto Stato gli obblighi contenuti in una normativa comunitaria,
e ciò anche nel caso in cui tali persone avrebbero potuto prendere conoscenza di detta
normativa con altri mezzi. In tal modo, la Corte ha proceduto ad un’interpretazione del
diritto comunitario e non ad una valutazione relativa alla validità di quest’ultimo.
Nel settore dei rapporti tra il diritto comunitario e il diritto nazionale degli Stati membri, la
Corte ha fornito talune precisazioni in ordine al primato e all’effetto diretto del diritto
comunitario.
Nella causa Lucchini (sentenza 18 luglio 2007, causa C‑119/05), la Corte, facendo
applicazione dei principi enunciati nella giurisprudenza Simmenthal (11), ha giudicato che
il diritto comunitario osta all’applicazione di una disposizione di diritto italiano volta a
sancire il principio dell’autorità di cosa giudicata, nei limiti in cui l’applicazione di tale
disposizione impedisce il recupero di un aiuto di Stato erogato in contrasto con il diritto
comunitario e la cui incompatibilità con il mercato comune è stata dichiarata con decisione
della Commissione divenuta definitiva.
Nella causa Carp (sentenza 7 giugno 2007, causa C‑80/06), la Corte ha dovuto affrontare la
questione dell’effetto diretto orizzontale delle decisioni. Essa ha constatato che la decisione
1999/93, relativa alla procedura per l’attestazione di conformità dei prodotti da costruzione
a norma dell’articolo 20, paragrafo 2, della direttiva 89/106 (12), costituisce un atto di portata
generale che precisa i tipi di procedure di attestazione di conformità applicabili e conferisce
mandato al Comitato europeo di normalizzazione/Comitato europeo di normalizzazione
elettrotecnica (CEN/Cenelec) di specificarne il contenuto nelle norme armonizzate pertinenti,
che saranno poi destinate ad essere trasposte dagli organismi di normalizzazione di ciascuno
Stato membro, ma è unicamente vincolante per gli Stati membri che ne sono i soli destinatari.
Di conseguenza, un singolo non può farla valere, nell’ambito di una controversia per
responsabilità contrattuale che lo vede opposto ad un altro singolo.
Due sentenze hanno precisato quale debba essere l’atteggiamento dei giudici nazionali di
fronte ad accordi internazionali stipulati dalla Comunità.
Nella causa Tum e Dari (sentenza 20 settembre 2007, causa C‑16/05), la Corte è stata chiamata
a pronunciarsi sulla portata della clausola di «standstill» enunciata dall’art. 41, n. 1, del
protocollo addizionale all’Accordo di associazione CEE-Turchia (13), secondo la quale è vietato
alle parti contraenti introdurre nuove restrizioni alla libertà di stabilimento a partire dalla
data di entrata in vigore di detto protocollo. Nella fattispecie, si trattava di due cittadini turchi
che desideravano stabilirsi nel Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord.
(11)
Sentenza 9 marzo 1978, causa 106/77, Simmenthal, Racc. pag. 629.
(12)
Decisione della Commissione 25 gennaio 1999, 1999/93/CE, relativa alla procedura per l’attestazione di
conformità dei prodotti da costruzione a norma dell’articolo 20, paragrafo 2, della direttiva 89/106/CEE del
Consiglio, riguardo a porte, finestre, imposte, persiane, portoni e relativi accessori (GU L 29, pag. 51).
(13)
Protocollo addizionale firmato a Bruxelles il 23 novembre 1970 e concluso, approvato e ratificato a nome
della Comunità con regolamento (CEE) del Consiglio 19 dicembre 1972, n. 2760 (GU L 293, pag. 1).
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Per la Corte, tale disposizione, non equivoca, ha effetto diretto e opera non come norma
sostanziale che rende inapplicabile il diritto sostanziale relativo all’ingresso sul territorio di
uno Stato membro al quale si sostituirebbe, ma come una norma di natura quasi
procedurale, che stabilisce, ratione temporis, quali sono le disposizioni della normativa di
uno Stato membro in materia di immigrazione alla luce delle quali occorre valutare la
situazione di un cittadino turco che intende avvalersi della libertà di stabilimento. Pertanto,
ne deduce la Corte, la detta clausola non rimette in discussione la competenza in linea di
principio degli Stati membri a determinare la loro politica nazionale in materia di
immigrazione. A tal proposito, la sola circostanza che, a partire dalla sua entrata in vigore,
tale clausola imponga ai detti Stati un obbligo di astensione avente l’effetto di limitare, in
una certa misura, il loro margine di manovra in materia non consente di considerare che
tale situazione pregiudicherebbe la sostanza stessa della competenza sovrana di questi
ultimi nell’ambito della politica dell’immigrazione.
La Corte ha proseguito interpretando la disposizione in questione nel senso che, a partire
dall’entrata in vigore del protocollo addizionale all’Accordo di associazione CEE-Turchia nei
confronti dello Stato membro interessato, esso vieta l’introduzione di tutte le nuove
restrizioni all’esercizio della libertà di stabilimento, incluse quelle riguardanti le condizioni
sostanziali e/o procedurali in materia di prima ammissione nel territorio del detto Stato dei
cittadini turchi che intendono esercitarvi un’attività professionale come lavoratori
indipendenti.
Nella citata causa Merck Genéricos-Produtos Farmacêuticos, la Corte è stata investita dalla
corte suprema di giustizia portoghese della questione se i giudici nazionali debbano
applicare l’art. 33 dell’accordo sugli aspetti dei diritti di proprietà intellettuale attinenti al
commercio (accordo ADPIC), che stabilisce la durata minima di protezione dei brevetti,
d’ufficio o su istanza di una parte, nei procedimenti dinanzi ad essi pendenti.
La Corte, dopo aver ricordato la propria competenza ad interpretare le disposizioni
dell’accordo citato, ha stabilito che, in tale contesto, occorre distinguere i settori nei quali la
Comunità non ha ancora legiferato da quelli nei quali lo ha già fatto. Relativamente ai primi,
che pertanto rientrano ancora nella competenza degli Stati membri, la Corte ha dichiarato
che la tutela dei diritti di proprietà intellettuale e le misure adottate a tal fine dalle autorità
giudiziarie non ricadono nell’ambito del diritto comunitario, cosicché quest’ultimo non
impone né esclude che l’ordinamento giuridico di uno Stato membro riconosca ai singoli il
diritto di invocare direttamente una norma contenuta nell’accordo ADPIC o prescriva al
giudice l’obbligo di applicare d’ufficio tale norma. Relativamente ai secondi, la Corte ha
affermato invece che si applica il diritto comunitario, il che implica l’obbligo, nella misura del
possibile, di operare un’interpretazione conforme all’accordo ADPIC, senza tuttavia potersi
riconoscere un’efficacia diretta alla disposizione in questione dell’accordo.
Nella fattispecie, la Corte ha constatato che la Comunità non aveva ancora esercitato le
proprie competenze nel settore dei brevetti, in cui rientra l’art. 33 dell’accordo ADPIC, o
quantomeno che, sul piano interno, tale esercizio di competenze non aveva assunto a
tutt’oggi rilievo sufficiente per potersi affermare che, allo stato attuale, detta materia rientri
nell’ambito del diritto comunitario. La Corte ne ha concluso che il diritto comunitario, allo
stato attuale, non osta a che detto articolo 33 venga direttamente applicato da un giudice
nazionale alle condizioni previste dal diritto nazionale.
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Degne di nota sono, infine, tre sentenze riguardanti la tutela giurisdizionale effettiva dei
diritti conferiti dal diritto comunitario, di cui devono beneficiare i singoli.
Nella causa Unibet (sentenza13 marzo 2007, causa C‑432/05, Racc. pag. I‑2271), la Corte,
dopo aver ricordato che si tratta in tal caso di un principio generale di diritto comunitario,
rileva, classicamente, che in mancanza di una disciplina comunitaria in materia spetta a
ciascuno Stato membro, in conformità al proprio obbligo di cooperazione, designare i
giudici competenti e stabilire le modalità procedurali dei ricorsi intesi a garantire la tutela
dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto comunitario. Tale autonomia procedurale,
soggetta ai principi di equivalenza e di effettività, potrebbe essere messa in discussione
solo se dall’economia dell’ordinamento giuridico nazionale in questione risultasse che non
esiste alcun rimedio giurisdizionale che permetta, anche in via incidentale, di garantire il
rispetto dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto comunitario.
Ciò posto, la Corte ha stabilito che il principio di tutela giurisdizionale effettiva dei diritti
conferiti ai singoli dal diritto comunitario non richiede l’esistenza di un ricorso di diritto
interno autonomo volto, in via principale, ad esaminare la conformità di disposizioni
nazionali con il diritto comunitario, qualora altri rimedi giurisdizionali effettivi, non meno
favorevoli di quelli che disciplinano azioni nazionali simili, consentano di valutare in via
incidentale una tale conformità, cosa che spetta al giudice nazionale verificare. In con­
creto, se il singolo è costretto ad esporsi a procedimenti amministrativi o penali e alle
sanzioni che ne possono derivare, come unico rimedio giurisdizionale per contestare la
conformità delle disposizioni nazionali controverse con il diritto comunitario, la sua tutela
giurisdizionale non è effettivamente garantita.
Infine, la Corte ha dedotto dal principio di tutela giurisdizionale effettiva l’obbligo degli
Stati membri di prevedere la possibilità di concedere al singolo provvedimenti provvisori
fino a quando il giudice competente si sia pronunciato sulla conformità delle disposizioni
nazionali in esame con il diritto comunitario, quando la concessione di tali provvedimenti
è necessaria per garantire la piena efficacia della successiva pronuncia giurisdizionale,
restando inteso che tale possibilità non entra in gioco qualora l’istanza del singolo sia
irricevibile in base al diritto di tale Stato membro interessato e purché il diritto comunitario
non rimetta in questione detta irricevibilità. In assenza di una disciplina comunitaria in
materia, l’eventuale concessione di provvedimenti provvisori è disciplinata dai criteri del
diritto nazionale, fatta salva l’osservanza dei citati principi di equivalenza e di effettività.
Nella causa Test Claimants in the Thin Cap Group Litigation (sentenza 13 marzo 2007, causa
C‑524/04, Racc. pag. I‑2107), la Corte ha ricordato in particolare che, qualora uno Stato
membro abbia riscosso tributi in violazione delle disposizioni del diritto comunitario, i
singoli hanno diritto al rimborso dell’imposta indebitamente riscossa e degli importi
pagati in rapporto diretto con tale imposta.
Per quanto riguarda altri danni subiti da una persona a causa di una violazione del diritto
comunitario imputabile a uno Stato membro, quest’ultimo è tenuto a risarcire i danni così
causati alle condizioni enunciate dalla giurisprudenza della Corte, e ciò nell’ambito della
normativa interna sulla responsabilità, fermo restando che tale autonomia è soggetta ai
principi di equivalenza e di effettività.
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In concreto, qualora risultasse che la normativa di uno Stato membro costituisce un
ostacolo alla libertà di stabilimento, vietato dall’art. 43 CE, il giudice del rinvio, al fine di
individuare i danni risarcibili, può verificare se il soggetto leso abbia dato prova di una
ragionevole diligenza per evitare tale danno o limitarne l’entità e, in particolare, se abbia
tempestivamente esperito tutti i rimedi giuridici a sua disposizione. Tuttavia, l’applicazione
delle disposizioni relative alla libertà di stabilimento sarebbe resa impossibile o
eccessivamente difficile se le domande di ripetizione o di risarcimento fondate sulla
violazione di dette disposizioni dovessero essere respinte o ridotte per la sola ragione che
le società interessate non avevano chiesto all’amministrazione tributaria di poter versare
interessi su prestiti concessi da una società collegata non residente senza che tali interessi
fossero qualificati come utili distribuiti, quando, nelle circostanze della fattispecie, la legge
nazionale, in combinato disposto, eventualmente, con le disposizioni rilevanti delle
convenzioni contro la doppia imposizione, prevedeva una tale qualificazione.
Ciò posto, la Corte ha anche ricordato che, per determinare se il diritto comunitario sia
stato violato in maniera sufficientemente qualificata, si devono considerare tutti gli
elementi che caratterizzano la situazione sottoposta al giudice nazionale. In un settore
quale quello della tassazione diretta, quest’ultimo deve prendere in considerazione il fatto
che le conseguenze derivanti dalle libertà di circolazione garantite dal trattato si sono
manifestate solo via via, in particolare, attraverso i principi elaborati dalla giurisprudenza
della Corte.
Nelle cause riunite Van der Weerd e a. (sentenza 7 giugno 2007, cause riunite da C‑222/05 a
C‑225/05), alla Corte è stato chiesto in particolare di stabilire se, nell’ambito di un
procedimento giurisdizionale relativo alla legittimità di un atto amministrativo, il diritto
comunitario imponga al giudice nazionale di procedere d’ufficio a un controllo alla luce di
criteri che esulano dall’oggetto della controversia, ma che risultano dalla direttiva 85/511,
che stabilisce misure comunitarie di lotta contro l’afta epizootica (14).
La Corte ha risposto negativamente, considerando che né il principio di equivalenza né il
principio di effettività, sanciti dalla sua giurisprudenza, impongono al giudice nazionale di
sollevare d’ufficio un motivo attinente alla violazione del diritto comunitario.
Per quanto riguarda il primo di detti principi, la Corte ha dichiarato, più precisamente, che
le disposizioni della direttiva in esame non stabiliscono né i requisiti al ricorrere dei quali
possono essere introdotti procedimenti in materia di lotta contro l’afta epizootica, né quali
siano le autorità competenti, in tale contesto, a determinare la portata dei diritti e degli
obblighi degli amministrati, cosicché esse non possono essere considerate equivalenti alle
norme nazionali di ordine pubblico, che sono alla base stessa dei procedimenti nazionali,
dal momento che stabiliscono i requisiti al ricorrere dei quali i procedimenti stessi possono
essere introdotti nonché quali siano le autorità competenti, in tale contesto, a determinare
la portata dei diritti e degli obblighi degli amministrati. Riguardo al secondo principio, la
Corte ha affermato che dal momento che i ricorrenti nella causa principale hanno la
possibilità effettiva di sollevare motivi attinenti al diritto comunitario dinanzi al giudice
(14)
Direttiva del Consiglio 18 novembre 1985, 85/511/CEE, che stabilisce misure comunitarie di lotta contro
l’afta epizootica (GU L 315, pag. 11), come modificata dalla direttiva del Consiglio 26 giugno 1990, 90/423/
CEE (GU L 224, pag. 13).
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nazionale, il principio di effettività non osta ad una disposizione di diritto interno che vieti
ai giudici nazionali di sollevare d’ufficio un motivo basato sulla violazione del diritto
comunitario, nel caso in cui l’esame di tale motivo li obbligherebbe a rinunciare al principio
dispositivo alla cui osservanza sono tenuti, esorbitando dai limiti della lite quale è stata
circoscritta dalle parti e basandosi su fatti e circostanze diversi da quelli che la parte che ha
interesse all’applicazione delle disposizioni comunitarie ha posto a fondamento della
propria domanda, e ciò indipendentemente dall’importanza di dette disposizioni per
l’ordinamento giuridico comunitario.
Cittadinanza dell’Unione
In varie cause la Corte ha esaminato le disposizioni nazionali idonee a limitare indebitamente
la libera circolazione dei cittadini dell’Unione.
In materia di aiuti alla formazione e agli studi, nelle cause riunite Morgan e Bucher (sentenza
23 ottobre 2007, cause riunite C‑11/06 e C‑12/06), la Corte ha preso le mosse dal rilievo
secondo cui i cittadini di uno Stato membro che studiano in un altro Stato membro godono
della cittadinanza dell’Unione ai termini dell’art. 17, n. 1, CE e possono dunque avvalersi,
eventualmente anche nei confronti del loro Stato membro d’origine, dei diritti afferenti a
tale status.
Essa ha poi stabilito che se, in linea di principio, al fine di evitare che gli aiuti alla formazione
agli studenti che intendono seguire studi in altri Stati membri divengano un onere
irragionevole, uno Stato membro è legittimato a concedere i detti aiuti solo agli studenti
che abbiano dimostrato un certo grado di integrazione sociale, esso deve nondimeno far
sì che le modalità di concessione di tali aiuti non creino una limitazione ingiustificata alla
libera circolazione dei cittadini e che esse siano coerenti e proporzionate agli obiettivi
intesi a garantire la conclusione di un ciclo di studi in tempi brevi o a facilitare la scelta
ponderata di una formazione.
Essa ne ha concluso che gli artt. 17 CE e 18 CE ostano a disposizioni che subordinano la
concessione degli aiuti alla formazione per uno studente che prosegue i propri studi in uno
Stato membro diverso da quello di cui è cittadino alla condizione che tali studi costituiscano
la prosecuzione degli studi seguiti per almeno un anno nello Stato membro di origine, in
quanto sono idonee a dissuadere i cittadini dell’Unione dall’avvalersi della loro libertà di
circolare e soggiornare nel territorio degli Stati membri, prevista dall’art. 18 CE
In materia di legislazione fiscale, nelle cause Schwarz e Gootjes-Schwarz, nonché
Commissione/Germania (sentenze 11 settembre 2007, cause C‑76/05 e C‑318/05), la Corte
ha esaminato le disposizioni della legge tedesca relative all’imposta sul reddito che
consentono ai contribuenti di beneficiare di un abbattimento fiscale per le rette scolastiche
dei loro figli versate a talune scuole private, a condizione che queste ultime siano stabilite
sul territorio nazionale.
La Corte ha dichiarato che il diritto comunitario osta a che l’abbattimento fiscale sia
generalmente negato per le rette scolastiche versate a scuole situate in altri Stati membri.
Nel suo ragionamento, essa ha distinto due tipi di finanziamento delle scuole. Solamente
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le scuole finanziate essenzialmente da fondi privati possono validamente invocare la libera
prestazione dei servizi. Per quanto riguarda le scuole stabilite in uno Stato membro diverso
dalla Germania, che non siano essenzialmente finanziate da fondi privati, la libera
prestazione dei servizi non trova applicazione, tuttavia non si può, per questa ragione,
negare la detrazione fiscale. I diritti conferiti ai cittadini dell’Unione ostano ad un’esclusione
siffatta: un bambino anche in tenera età può avvalersi dei diritti di libera circolazione e di
soggiorno e le disposizioni in esame hanno l’effetto di svantaggiare in maniera ingiustificata
i bambini che frequentano una scuola stabilita in un altro Stato membro rispetto a quelli
che non hanno fatto ricorso alla loro libertà di circolazione.
Libera circolazione delle merci
Nell’ambito della libera circolazione delle merci, la Corte ha avuto modo di pronunciarsi in
ordine alla compatibilità di varie normative nazionali con le disposizioni del trattato.
Si citerà in primo luogo la sentenza Rosengren e a. (sentenza 5 giugno 2007, causa
C‑170/04), che trae origine da una domanda di pronuncia pregiudiziale relativa alla
compatibilità con il trattato CE di una legislazione svedese che vieta ai privati di importare
bevande alcoliche, la cui vendita al dettaglio è sottoposta, in Svezia, a un regime di
monopolio instaurato dalla stessa legge. La Corte ha giudicato tale misura di divieto
incompatibile con il diritto comunitario, dopo aver stabilito che essa deve essere valutata
alla luce dell’art. 28 CE e non alla luce dell’art. 31 CE, relativo ai monopoli nazionali che
presentano un carattere commerciale, in quanto non rappresenta una norma relativa
all’esistenza o al funzionamento di tale monopolio, avente oggetto la vendita al dettaglio,
con esclusione dell’importazione. Per far ciò, la Corte ha stabilito che la misura svedese
costituisce una restrizione quantitativa alle importazioni ai sensi dell’art. 28 CE, tenuto
conto, per un verso, della facoltà del titolare del monopolio di opporsi a una richiesta di
fornitura e quindi, se del caso, d’importazione delle bevande in questione e, per altro
verso, degli inconvenienti che una siffatta misura arreca ai consumatori. La Corte ha poi
stabilito che tale misura non può essere giustificata, in forza dell’art. 30 CE, da motivi di
tutela della salute e della vita delle persone. La normativa svedese è, infatti, inadatta a
conseguire l’obiettivo di limitare in via generale il consumo di alcol, dato il carattere
marginale dei suoi effetti in tal senso, ed è sproporzionata rispetto all’obiettivo di
proteggere i più giovani contro le conseguenze nocive del detto consumo, dal momento
che il divieto d’importazione si applica senza distinzione in base all’età dell’individuo
che desidera procurarsi le bevande in questione.
In secondo luogo, nella sentenza Commissione/Germania (sentenza 15 novembre 2007,
causa C‑319/05), la Corte, in occasione di un ricorso per inadempimento, ha affrontato ancora
una volta il tema della qualificazione di una sostanza come medicinale o come alimento. La
Repubblica federale di Germania aveva classificato come medicinale un preparato d’aglio in
capsule legalmente commercializzato quale integratore alimentare in altri Stati membri e
aveva pertanto assoggettato la commercializzazione dello stesso ad un’autorizzazione
preliminare all’immissione in commercio. In conformità alla sua costante giurisprudenza, la
Corte ha stabilito che, in tal modo, la Repubblica federale di Germania è venuta meno agli
obblighi ad essa incombenti in forza degli artt. 28 CE e 30 CE. Dopo aver stabilito che il
prodotto non corrisponde alla definizione di medicinale per presentazione, né a quella di
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medicinale per funzione, ai sensi della disciplina comunitaria rilevante (15), la Corte ha
dichiarato che la misura tedesca crea un ostacolo agli scambi intracomunitari. Peraltro, la
misura in questione non può essere giustificata da esigenze di tutela della salute pubblica, in
conformità all’art. 30 CE, posto che una disposizione di questo tipo dev’essere basata su una
valutazione approfondita del presunto rischio sanitario e che l’obiettivo di tutela della salute
avrebbe potuto essere conseguito mediante una misura meno restrittiva della libera
circolazione delle merci, quale un’etichettatura appropriata che avvertisse i consumatori dei
potenziali rischi connessi al consumo di tale prodotto.
Occorre infine citare la sentenza Commissione/Paesi Bassi (sentenza 20 settembre 2007,
causa C‑297/05), che contribuisce a precisare la giurisprudenza della Corte relativa alle
norme nazionali applicabili all’importazione di veicoli immatricolati in un altro Stato
membro. Interrogata in ordine alla compatibilità con il diritto comunitario della normativa
olandese che sottopone tali veicoli a un controllo per l’identificazione e ad un controllo
tecnico prima di poter essere immatricolati nei Paesi Bassi, la Corte ha innanzitutto
stabilito che il controllo imposto, teso all’identificazione dei veicoli, non costituisce un
ostacolo alla libera circolazione delle merci. Infatti, esso non è tale da avere un qualsivoglia
effetto deterrente sull’importazione di un veicolo nei Paesi Bassi o da rendere detta
importazione meno interessante, tenuto conto delle sue modalità e del fatto che
costituisce una mera formalità amministrativa che non introduce alcun controllo
aggiuntivo, ma che è inerente al trattamento stesso della domanda d’immatricolazione
nonché all’iter della relativa procedura. Pronunciandosi poi sulla compatibilità del
controllo dello stato fisico dei veicoli in occasione della loro immatricolazione nei Paesi
Bassi con gli artt. 28 CE e 30 CE, la Corte ha considerato tale misura restrittiva, quando
è applicata ai veicoli con più di tre anni di età già immatricolati in altri Stati membri,
non proporzionata rispetto agli obiettivi legittimi di sicurezza stradale e di tutela
dell’ambiente. La Corte ha in tal senso sottolineato l’esistenza di misure meno restrittive,
quali il riconoscimento dell’attestato, rilasciato in un altro Stato membro, comprovante
che un veicolo immatricolato nel suo territorio è stato sottoposto con esito positivo ad
un controllo tecnico, unitamente alla cooperazione dell’amministrazione doganale
olandese con le sue omologhe degli altri Stati membri relativamente ai dati eventualmente
mancanti.
Libera circolazione delle persone, dei servizi e dei capitali
La giurisprudenza in questo ambito è stata particolarmente copiosa, il che rende complessa
la sua presentazione ordinata, tanto più che le cause promosse dinanzi alla Corte riguardano
spesso il contemporaneo esercizio di varie libertà. Si è così scelto di suddividerla in base a
quattro tematiche, tre delle quali corrispondono ad un approccio settoriale, vale a dire la
libera circolazione dei lavoratori, il diritto di stabilimento e la libera prestazione di servizi,
la libera circolazione dei capitali, mentre la quarta corrisponde ad un approccio trasversale,
vale a dire le limitazioni imposte da tali libertà all’esercizio della competenza fiscale degli
Stati membri.
(15)
Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 6 novembre 2001, 2001/83/CE, recante un codice
comunitario relativo ai medicinali per uso umano (GU L 311, pag. 67).
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In materia di libera circolazione delle persone fisiche, vale a dire dei lavoratori, la Corte si è
pronunciata, tra l’altro, in merito al diritto di soggiorno dei membri della famiglia, cittadini
di paesi terzi, di cittadini comunitari, segnatamente di lavoratori migranti comunitari, e in
merito ai vantaggi sociali di cui detti membri possono beneficiare. Si deve rilevare come
essa abbia inoltre precisato, nella causa Hartmann (sentenza 18 luglio 2007, causa
C‑212/05), la nozione di «lavoratore migrante». Così, lo status di «lavoratore migrante» ai
sensi del regolamento n. 1612/68 (16) può essere riconosciuto ad un cittadino di uno Stato
membro che, pur mantenendo il proprio impiego in tale Stato, abbia trasferito la propria
residenza in un altro Stato membro ed eserciti da allora la propria attività lavorativa in
qualità di lavoratore frontaliero.
Quanto al diritto di soggiorno dei membri della famiglia, cittadini di un paese terzo, di un
cittadino comunitario che si è avvalso della propria libertà di circolazione, risultano
particolarmente interessanti le cause Jia (sentenza 9 gennaio 2007, causa C‑1/05) e Eind
(sentenza 11 dicembre 2007, causa C‑291/05).
Nella causa Jia, la controversia di cui era investito il giudice del rinvio riguardava il caso
della suocera di nazionalità cinese di una cittadina tedesca, venuta a ricongiungersi al
proprio figlio in Svezia, dove la nuora esercitava un’attività autonoma. Alla scadenza del
suo visto turistico, essa si era vista rifiutare la concessione di un permesso di soggiorno in
quanto non aveva adeguatamente dimostrato l’esistenza di una dipendenza economica
nei confronti del proprio figlio e della moglie di questo. Il giudice del rinvio ha chiesto in
sostanza, facendo riferimento alla sentenza Akrich (sentenza 23 settembre 2003, causa
C‑109/01, Racc. pag. I‑9607), se la condizione del soggiorno legale sancita in tale sentenza
valesse anche per situazione della fattispecie. La Corte ha risolto tale questione nel senso
che il diritto comunitario, tenuto conto della citata sentenza Akrich, non impone agli Stati
membri di subordinare la concessione di un permesso di soggiorno ad un cittadino di uno
Stato terzo, familiare di un cittadino comunitario che si è avvalso della sua libertà di
circolazione, alla condizione che tale familiare abbia in precedenza soggiornato legal­
mente in un altro Stato membro. Tuttavia, tale familiare deve essere a carico del
cittadino comunitario o del coniuge di questo, nel senso che necessita del sostegno
materiale di questi ultimi per sopperire ai suoi bisogni essenziali nel suo Stato d’origine
o di provenienza al momento in cui chiede di ricongiungersi a loro.
Nella citata causa Eind, la Corte ha dichiarato che il diritto al ricongiungimento familiare in
forza dell’art. 10 del regolamento n. 1612/68 non conferisce ai familiari dei lavoratori
migranti alcun diritto originario alla libera circolazione; tale norma va invece a vantaggio
del lavoratore migrante della cui famiglia fa parte il cittadino di uno Stato terzo. Pertanto,
in caso di ritorno di un lavoratore comunitario nello Stato membro di cui possiede la
cittadinanza, il diritto comunitario non impone alle autorità di questo Stato di riconoscere
al cittadino di uno Stato terzo, familiare di detto lavoratore, un diritto di ingresso e di
soggiorno per il solo fatto che, nello Stato membro ospitante in cui quest’ultimo ha
esercitato un’attività subordinata, tale cittadino possedeva un permesso di soggiorno in
corso di validità rilasciato in base all’articolo citato. Tuttavia, all’atto del rientro di tale
lavoratore nello Stato membro di cui è cittadino, dopo aver svolto un’attività subordinata
(16)
Regolamento (CEE) del Consiglio 15 ottobre 1968, n. 1612, relativo alla libera circolazione dei lavoratori
all’interno della Comunità (GU L 257, pag. 2).
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in un altro Stato membro, un cittadino di uno Stato terzo, familiare di tale lavoratore,
dispone, in forza dell’art. 10, n. 1, lett. a), del regolamento n. 1612/68, come modificato, di
un diritto di soggiorno nello Stato membro di cui il lavoratore ha la cittadinanza, anche se
quest’ultimo non vi svolge un’attività economica reale ed effettiva. Il fatto che un cittadino
di uno Stato terzo familiare di un lavoratore comunitario, prima di soggiornare nello Stato
membro in cui quest’ultimo ha svolto un’attività subordinata, non disponesse di un diritto
di soggiorno basato sul diritto nazionale nello Stato membro di cui detto lavoratore ha la
cittadinanza è ininfluente ai fini della valutazione del diritto di tale cittadino di soggiornare
in quest’ultimo Stato.
I lavoratori comunitari e i loro familiari che si stabiliscono in uno Stato membro possono
godere degli stessi vantaggi sociali dei lavoratori nazionali. In tal senso, nella citata causa
Hartmann la Corte ha dichiarato che l’art. 7, n. 2, del regolamento n. 1612/68 osta a che il
coniuge di un lavoratore migrante che esercita un’attività lavorativa in uno Stato membro,
disoccupato e residente in un altro Stato membro, sia escluso dal beneficio di un vantaggio
sociale che ha le caratteristiche dell’assegno per l’educazione tedesco, in quanto non ha
né la residenza né la dimora abituale nel primo Stato. Infatti, una simile condizione di
residenza dev’essere giudicata indirettamente discriminatoria in quanto, per sua stessa
natura, tende ad incidere più sui lavoratori migranti o sui loro coniugi, che risiedono più
di frequente in un altro Stato membro, che su quelli nazionali e, di conseguenza, rischia
di essere sfavorevole in modo particolare ai primi. Invece, nella causa Geven (sentenza
18 luglio 2007, causa C‑213/05), la Corte ha precisato che lo stesso articolo non osta
all’esclusione, da parte della normativa nazionale di uno Stato membro, di un cittadino di
un altro Stato membro, che risiede in quest’ultimo ed esercita nel primo Stato membro
un’attività lavorativa minore (meno di 15 ore di lavoro settimanali), dal beneficio di un
vantaggio sociale, quale l’assegno per l’educazione, in quanto egli non ha né la residenza
né la dimora abituale nel primo Stato membro. Del pari, la Corte ha anche precisato
nella causa Hendrix (sentenza 11 settembre 2007, causa C‑287/05), che gli artt. 39 CE
e 7 del regolamento n. 1612/68, non ostano ad una normativa nazionale di attuazione
degli artt. 4, n. 2 bis, e 10 bis del regolamento n. 1408/71 (17), come modificato, che prevede
che una prestazione speciale a carattere non contributivo può essere concessa solo alle
persone residenti nel territorio nazionale. Tuttavia, l’applicazione di tale normativa non
deve comportare una lesione dei diritti che una persona detiene in base alla libera
circolazione dei lavoratori che vada oltre quanto necessario ai fini della realizzazione del
legittimo obiettivo previsto dalla normativa nazionale.
Più specificamente, in materia di previdenza sociale, la Corte è stata chiamata a pronunciarsi
sulla compatibilità di talune disposizioni del citato regolamento n. 1408/71 con la libera
circolazione delle persone e, segnatamente, con l’art. 42 CE. Così, nelle cause riunite
Habelt, Möser e Watcher (sentenza 18 dicembre 2007, cause riunite C‑396/05, C‑419/05
e C‑450/05), con riferimento al versamento di una pensione di vecchiaia a taluni sfollati di
nazionalità o di origine tedesca, la Corte ha dichiarato incompatibile con la libera
circolazione delle persone l’autorizzazione data alla Repubblica federale di Germania di
subordinare il computo di periodi contributivi maturati fuori dal territorio di detta
(17)
Regolamento (CEE) del Consiglio 14 giugno 1971, n. 1408, relativo all’applicazione dei regimi di sicurezza
sociale ai lavoratori subordinati e ai loro familiari che si spostano all’interno della Comunità (GU L 149,
pag. 2).
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Repubblica al requisito che il beneficiario risieda in Germania. Infatti, consentire allo Stato
membro competente di invocare ragioni di integrazione nella vita sociale di tale Stato
membro al fine di imporre una clausola di residenza si porrebbe direttamente in contrasto
con l’obiettivo fondamentale dell’Unione, consistente nel favorire la circolazione delle
persone al suo interno e la loro integrazione nella società di altri Stati membri. Di
conseguenza, il diniego delle autorità nazionali di prendere in considerazione, ai fini del
calcolo delle pensioni di vecchiaia, i contributi versati all’estero da un lavoratore, rende
manifestamente più difficile, se non addirittura impossibile, l’esercizio, da parte degli
interessati, del loro diritto alla libera circolazione all’interno dell’Unione e costituisce,
pertanto, un ostacolo a tale libertà.
In materia di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi, la Corte, per un verso,
ha precisato l’ambito di applicazione delle disposizioni del trattato a fronte di situazioni
che implicano un elemento extracomunitario e, per altro verso, ha rilevato l’esistenza di
varie restrizioni.
Nella citata sentenza Test Claimants in the Thin Cap Group Litigation, avente ad oggetto la
legislazione di uno Stato membro relativa alla deduzione, da parte di una società residente
a fini fiscali, degli interessi versati su prestiti concessi da una società controllante o da una
società controllata da quest’ultima, la Corte ha deciso che le relazioni tra una società
residente in uno Stato membro e una società residente in un altro Stato membro o in un
paese terzo che, a sua volta, non controlli la prima società, laddove entrambe siano
controllate, direttamente o indirettamente, da una comune società collegata stabilita in
un paese terzo, non ricadono nell’ambito di applicazione dell’art. 43 CE. La Corte ha
ugualmente dichiarato, nella causa Holböck (sentenza 24 maggio 2007, causa C‑157/05),
che le disposizioni del capo del trattato CE relativo alla libertà di stabilimento non si
applicano ad una situazione in cui un azionista percepisca dividendi da una società stabilita
in un paese terzo. Infatti, detto capo non prevede alcuna disposizione che estenda la sfera
di applicazione delle proprie disposizioni alle situazioni relative allo stabilimento in un
paese terzo di un cittadino di uno Stato membro o di una società costituita secondo la
legislazione di uno Stato membro.
Per quanto riguarda le restrizioni, deve citarsi innanzitutto la causa Placanica (sentenza
6 marzo 2007, causa C‑338/04, Racc. pag. I‑1891), relativa all’organizzazione di giochi
d’azzardo. La controversia di cui era investito il giudice del rinvio riguardava una normativa
nazionale relativa all’organizzazione di giochi di tal genere e alla raccolta di scommesse,
adottata per contrastare le attività riguardanti giochi e scommesse clandestini. In forza di
tale normativa, l’organizzazione di attività di gioco o di scommessa richiedeva, sotto pena
di sanzioni penali, la previa attribuzione di una concessione e di un’autorizzazione di
polizia. Inoltre, ai fini dell’attribuzione delle concessioni, le autorità nazionali competenti
escludevano dalle gare taluni operatori costituiti in forma di società le cui azioni erano
quotate nei mercati regolamentati. La Corte ha tuttavia stabilito, in conformità a quanto
deciso nella sentenza Gambelli e a. (sentenza 6 novembre 2003, causa C‑243/01, Racc.
pag. I‑13031), che rappresenta una restrizione alla libertà di stabilimento, nonché alla
libera prestazione di servizi, una normativa nazionale che vieta, sanzionando penalmente,
l’esercizio di attività di raccolta, di accettazione, di registrazione e di trasmissione di
proposte di scommesse, in particolare sugli eventi sportivi, in assenza di concessione o di
autorizzazione di polizia rilasciate dallo Stato membro interessato, ma che tale restrizione
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può essere giustificata se, limitando il numero di soggetti che operano nel settore dei
giochi d’azzardo, essa risponde realmente all’obiettivo mirante a prevenire l’esercizio delle
attività in tale settore per fini criminali o fraudolenti, il che deve essere deve essere verificato
dai giudici nazionali. Essa ha altresì stabilito che una normativa nazionale che esclude dal
settore dei giochi d’azzardo gli operatori costituiti sotto forma di società di capitali le cui
azioni sono quotate nei mercati regolamentati costituisce, del pari, un ostacolo alla libertà
di stabilimento e alla libera prestazione dei servizi, precisando che una tale esclusione va
oltre quanto necessario a raggiungere l’obiettivo di evitare che soggetti operanti nel
settore dei giochi d’azzardo siano implicati in attività criminali o fraudolente. Infine,
secondo la Corte, costituisce una restrizione a tali libertà anche una normativa nazionale
che impone una sanzione penale a soggetti che hanno esercitato un’attività organizzata di
raccolta di scommesse in assenza di concessione o di autorizzazione di polizia, richieste
dalla normativa nazionale, allorché questi soggetti non hanno potuto ottenere le dette
concessioni o autorizzazioni a causa del rifiuto di concederle di tale Stato membro, in
violazione del diritto comunitario. Se infatti, in linea di principio, la legislazione penale è
riservata alla competenza degli Stati membri, il diritto comunitario pone tuttavia limiti a
tale competenza, non potendo una tale legislazione limitare le libertà fondamentali
garantite dal diritto comunitario.
Si segnalano inoltre, per quanto riguarda le spese scolastiche o ospedaliere versate ad uno
stabilimento situato in un altro Stato membro, le sentenze Schwarz e Gootjes-Schwarz e
Commissione/Germania, citate, nonché Stamatelaki (sentenza 19 aprile 2007, causa
C‑444/05). In dette cause Schwarz e Gootjes-Schwarz, nonché Commissione/Germania, le
controversie riguardavano l’abbattimento fiscale concesso ai contribuenti tedeschi per le
rette scolastiche versate per la frequenza, da parte dei loro figli, di una scuola privata
rispondente a taluni requisiti in Germania. Orbene, tale abbattimento non trovava
applicazione per le rette scolastiche versate a scuole situate in altri Stati membri. Prima di
pronunciarsi sulla compatibilità di tale disciplina con l’art. 49 CE, la Corte ha innanzitutto
esteso la nozione di servizi alle scuole essenzialmente finanziate da fondi privati. Poiché lo
scopo perseguito da tali istituti consiste nell’offrire una prestazione in cambio di un
corrispettivo, essi possono validamente invocare la libera prestazione dei servizi. Non è
tuttavia necessario che il loro finanziamento sia garantito dagli allievi o dai genitori, posto
che l’art. 50 CE non prescrive che il servizio sia pagato da coloro che ne fruiscono. Al
contrario, le scuole che non sono essenzialmente finanziate da fondi privati, segna­
tamente le scuole pubbliche, sono escluse dalla nozione di servizi, posto che
istituendo e mantenendo un sistema di istruzione pubblica, finanziato in generale dal
bilancio pubblico e non dagli alunni o dai loro genitori, lo Stato assolve semplicemente i
propri compiti in campo sociale, culturale ed educativo nei confronti dei propri cittadini. In
secondo luogo, la Corte ha constatato che, per un verso, quando le scuole essenzialmente
finanziate da fondi privati stabilite all’esterno della Germania intendono offrire una
formazione ai figli di soggetti residenti in Germania, l’esclusione delle loro rette scolastiche
dal beneficio dell’abbattimento fiscale ostacola la loro libera prestazione dei servizi, e che,
per altro verso, anche se la libera prestazione dei servizi non trova applicazione nel caso di
scuole che non sono essenzialmente finanziate da fondi privati, l’abbattimento fiscale non
può tuttavia essere negato con riferimento alle rette scolastiche di dette scuole. Come si è
già rilevato, la libertà di circolazione dei cittadini dell’Unione osta ad una siffatta esclusione.
Di conseguenza, essa ha stabilito che il diritto comunitario osta alla generale esclusione
dell’abbattimento fiscale per le rette scolastiche versate a scuole situate in altri Stati
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membri. Infine, una tale disciplina rappresenta altresì un ostacolo alla libertà di
stabilimento dei lavoratori dipendenti o autonomi che hanno trasferito il loro domicilio o
che lavorano nello Stato membro di cui trattasi e i cui figli continuano a frequentare una
scuola privata situata in un altro Stato membro. Infatti, questi lavoratori non usufruiscono
dell’abbattimento fiscale, mentre ne usufruirebbero se i loro figli frequentassero una
scuola situata in Germania
Nella citata causa Stamatelaki, la Corte ha dichiarato che rappresenta un ostacolo alla
libera prestazione di servizi una normativa nazionale la quale escluda qualsiasi rimborso,
da parte di un ente previdenziale nazionale, delle spese sostenute in occasione del ricovero
di un suo assicurato presso cliniche private situate in altri Stati membri, fatta eccezione per
quelle relative alle cure prestate ai bambini di età inferiore ai 14 anni. Un rischio di grave
pregiudizio per l’equilibrio economico del sistema previdenziale non può giustificare una
misura del genere, il cui carattere assoluto, fatta eccezione per i bambini di età inferiore ai
14 anni, non è adeguato allo scopo perseguito, dal momento che potrebbero essere
adottate misure meno restrittive e più rispettose della libertà di prestazione dei servizi,
quali un regime di autorizzazioni preventive che rispetti gli obblighi imposti dal diritto
comunitario e, eventualmente, la definizione di limiti massimi rimborsabili.
Meritano, infine, una particolare attenzione le cause Laval un Partneri (sentenza
18 dicembre 2007, causa C‑341/05) nonché The International Transport Workers’ Federation
e The Finnish Seamen’s Union (sentenza 11 dicembre 2007, causa C‑438/05), relative ad
un’azione sindacale collettiva promossa da organizzazioni sindacali nei confronti di un
prestatore di servizi stabilito o che intendeva stabilirsi in un altro Stato membro. Mentre
nella causa The International Transport Workers’ Federation e The Finnish Seamen’s Union una
società finlandese di trasporto marittimo intendeva stabilirsi in Estonia per registrarvi una
delle sue navi, per essere maggiormente competitiva, nella causa Laval una società di
costruzioni lettone intendeva esercitare il suo diritto alla libera prestazione dei servizi in
Svezia, segnatamente mediante distacco dei lavoratori lettoni in una delle sue controllate
svedesi. Orbene, nelle due cause, le società in questione hanno dovuto trattare con le
organizzazioni sindacali in merito alla propria adesione e all’osservanza dei contratti
collettivi applicabili ai rispettivi settori. Nella prima causa, l’organizzazione sindacale,
affiliata ad un gruppo di sindacati inglese, pretendeva l’applicazione del contratto collettivo
finlandese al personale della futura nave battente bandiera estone. Nella seconda causa,
essa chiedeva alla società lettone, quale garanzia relativa all’importo salariale, di aderire al
contratto collettivo svedese e di applicarlo ai propri lavoratori distaccati. Poiché in entrambi
i casi i negoziati non sono andati a buon fine, le organizzazioni sindacali hanno fatto ricorso
al loro diritto all’azione collettiva, segnatamente al diritto allo sciopero, per costringere le
società in questione ad aderire e ad applicare i contratti collettivi. Di conseguenza, i giudici
del rinvio chiedevano in sostanza alla Corte se le azioni collettive costituiscono restrizioni
ai sensi degli artt 43 e 49 CE. La Corte ha stabilito che, se il diritto di intraprendere un’azione
collettiva deve essere riconosciuto quale diritto fondamentale facente parte integrante
dei principi generali del diritto comunitario di cui la Corte garantisce il rispetto, rimane
però il fatto che il suo esercizio può essere sottoposto a talune restrizioni. Inoltre, secondo
una giurisprudenza costante, l’esercizio dei diritti fondamentali non esula dall’ambito
applicativo delle disposizioni del trattato, e deve essere conciliato con le esigenze relative
ai diritti tutelati dal trattato stesso, oltre che conforme al principio di proporzionalità.
Pertanto, azioni collettive di tal genere, intraprese da un sindacato o da un raggruppamento
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di sindacati nei confronti di un’impresa al fine di indurre quest’ultima a sottoscrivere un
contratto il cui contenuto sia tale da dissuaderla dall’avvalersi della libertà di stabilimento
o della libera prestazione dei servizi, costituiscono restrizioni a tali libertà. La Corte ha
tuttavia precisato che tali restrizioni possono essere, in linea di principio, giustificate da
una ragione imperativa di interesse generale come la tutela dei lavoratori dello Stato
d’accoglienza contro un’eventuale prassi di dumping sociale, purché sia accertato che le
stesse sono idonee a garantire la realizzazione del legittimo obiettivo perseguito e non
vanno al di là di ciò che è necessario per conseguirlo.
D’altra parte, nella sentenza Laval un Partneri, citata, la Corte ha dichiarato che una disciplina
nazionale che non tenga conto, indipendentemente dal loro contenuto, dei contratti
collettivi ai quali le imprese che distaccano lavoratori nello Stato membro d’accoglienza
sono già vincolate nello Stato membro in cui sono stabilite, crea una discriminazione nei
confronti di tali imprese, applicando loro il medesimo trattamento riservato alle imprese
nazionali che non hanno concluso alcun contratto collettivo.
In materia di libera circolazione dei capitali, tre sentenze meritano particolare attenzione.
Si segnala innanzitutto la causa Commissione/Germania (sentenza 23 ottobre 2007, causa
C‑112/05), relativa alla cosiddetta «legge Volkswagen». La Corte ha stabilito che,
mantenendo in vigore le disposizioni di tale legge, le quali, in deroga al diritto comune,
pongono un limite massimo ai diritti di voto di qualsiasi azionista della Volkswagen pari al
20 % del capitale sociale, esigono una maggioranza superiore all’80 % del capitale sociale
ai fini dell’adozione di talune decisioni dell’assemblea generale e attribuiscono allo Stato
e ad un ente territoriale il diritto di designare ciascuno due rappresentanti nell’ambito del
consiglio di sorveglianza della società, la Repubblica federale di Germania è venuta meno
agli obblighi che le incombono in forza dell’art. 56, n. 1, CE. Infatti, la fissazione di una
soglia di maggioranza superiore all’80 % del capitale sociale conferisce a qualsiasi azionista
che detenga il 20 % del capitale sociale la possibilità di disporre di una minoranza di blocco
e consente agli operatori pubblici di garantirsi, mediante un investimento inferiore rispetto
a quanto sarebbe richiesto dal diritto comune, la possibilità di opporsi a rilevanti decisioni.
Inoltre, ponendo un tetto massimo pari al 20 % ai diritti di voto, detta legislazione
contribuisce a fornire agli operatori pubblici la possibilità di esercitare un’influenza
sostanziale. Tali disposizioni limitano quindi la possibilità per gli altri azionisti di partecipare
alla società, di creare o mantenere legami economici durevoli e diretti con quest’ultima e
di partecipare effettivamente alla sua gestione o al suo controllo. Riducendo l’interesse
all’acquisto di una partecipazione nel capitale della società, le misure in questione sono
idonee a dissuadere taluni investitori diretti di altri Stati membri e rappresentano quindi
una restrizione alla libera circolazione dei capitali. Lo stesso vale per il diritto di designare
due rappresentanti nel consiglio di sorveglianza, previsto in favore solamente degli
operatori pubblici. Fornendo a questi ultimi la possibilità di partecipare all’attività del
consiglio di sorveglianza con maggiore rilievo, tale misura consente loro infatti di esercitare
un’influenza che va al di là dei loro investimenti e di ciò che sarebbe loro normalmente
concesso dalla loro qualità di azionisti.
In secondo luogo, occorre richiamare l’attenzione sulla causa Festersen (sentenza
25 gennaio 2007, causa C‑370/05, Racc. pag. I‑1129), nella quale la Corte ha stabilito che
l’art. 56 CE osta a che una normativa nazionale assoggetti l’acquisto di un fondo agricolo
alla condizione che l’acquirente fissi la sua residenza stabile su tale fondo per una durata
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di otto anni, indipendentemente dalle specifiche circostanze relative alle caratteristiche
del terreno agricolo in questione. Secondo la Corte, si può ammettere che una normativa
nazionale che comporta un tale obbligo di residenza sia volta ad evitare l’acquisto dei
terreni agricoli per motivi prettamente speculativi, e che tenda a facilitare l’appropriazione
di questi terreni in via prioritaria da parte delle persone che desiderano coltivarli. Una tale
legislazione risponde così ad un obiettivo di interesse generale in uno Stato membro in cui
i terreni agricoli costituiscono una risorsa naturale limitata. Tuttavia, la Corte ha considerato
che l’obbligo di residenza costituisce una misura che eccede quanto necessario al
raggiungimento di tale obiettivo. Infatti, per un verso, essa risulta particolarmente
limitativa in quanto restringe non soltanto la libertà dei movimenti dei capitali, ma anche
il diritto dell’acquirente di scegliere liberamente la propria residenza, garantito dalla
convenzione europea dei diritti dell’uomo e tutelato nell’ordinamento giuridico comunitario,
e quindi lede un diritto fondamentale. Per altro verso, nulla consente di ritenere che per
perseguire l’obiettivo individuato non si possano adottare misure diverse, meno restrittive
rispetto a tale obbligo. Un obbligo siffatto, a fortiori associato ad una condizione secondo
la quale la residenza va mantenuta per diversi anni, eccede dunque quanto può considerarsi
necessario per il raggiungimento dell’obiettivo di interesse generale considerato.
Infine, nella citata sentenza Holböck, la Corte ha applicato l’art. 57, n. 1, CE che prevede una
deroga al divieto delle restrizioni dei movimenti di capitali tra gli Stati membri e i paesi
terzi per le restrizioni esistenti al 31 dicembre 1993 e relative a movimenti di capitali che
implicano investimenti diretti. La Corte ha innanzitutto ricordato che la nozione di
«investimenti diretti» riguarda gli investimenti di qualsiasi tipo effettuati da persone
fisiche o giuridiche aventi lo scopo di stabilire o mantenere legami durevoli e diretti fra il
finanziatore e l’impresa cui tali fondi sono destinati per l’esercizio di un’attività economica.
Con riferimento a partecipazioni in imprese, l’obiettivo di creare o mantenere legami
economici durevoli presuppone che le azioni detenute dall’azionista conferiscano a
quest’ultimo la possibilità di partecipare effettivamente alla gestione di tale società o al
suo controllo. La Corte ha in seguito precisato che l’art. 57, n. 1, CE si applica anche ai
provvedimenti nazionali che limitano i pagamenti di dividendi derivanti dagli investimenti.
Di conseguenza, la Corte ha giudicato che una restrizione ai movimenti di capitali, quale
un trattamento fiscale meno favorevole dei dividendi di origine estera, rientra nell’ambito
di applicazione dell’art. 57, n. 1, CE, dal momento che essa si riferisce a partecipazioni
acquistate al fine di creare o mantenere legami economici durevoli e diretti tra l’azionista
e la società interessata e che permettono all’azionista di partecipare effettivamente alla
gestione o al controllo di tale società. L’art. 57, n. 1, CE deve perciò essere interpretato nel
senso che l’art. 56 CE lascia impregiudicata l’applicazione, da parte di uno Stato membro,
di una normativa vigente alla data del 31 dicembre 1993 che assoggetta un azionista che
percepisce dividendi da una società stabilita in un paese terzo, e di cui detiene i due terzi
del capitale sociale, a un’aliquota superiore a quella imposta ad un azionista che percepisce
dividendi da una società nazionale.
La Corte ha avuto modo di occuparsi a più riprese delle competenze mantenute dagli Stati
membri in materia di fiscalità diretta, nonché dei limiti al loro esercizio. A tal proposito,
essa si è pronunciata in merito a varie misure fiscali nazionali relative, per un verso, alla
tassazione delle società e dei loro azionisti e, per altro verso, alla tassazione dei privati.
Talune delle misure in parola sono state dichiarate compatibili con il diritto comunitario,
mentre altre sono state dichiarate incompatibili.
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In materia di fiscalità delle società, innanzitutto, varie misure nazionali sono state giudicate
interamente incompatibili con le libertà fondamentali garantite dal trattato. Così, nella
causa Geurts e Vogten (sentenza 25 ottobre 2007, causa C‑464/05), la Corte ha dichiarato
che, in assenza di valida giustificazione, l’art. 43 CE osta ad una disciplina tributaria di uno
Stato membro in materia di imposte di successione che escluda dall’esenzione da tali
imposte, prevista per le imprese familiari, le imprese che impiegano, nel corso dei tre anni
precedenti la data del decesso del de cuius, almeno cinque lavoratori in un altro Stato
membro, mentre concede una siffatta esenzione qualora i lavoratori siano impiegati
in una regione del primo Stato membro. La Corte ha infatti stabilito che il requisito
dell’impiego dei lavoratori sul territorio dello Stato membro può essere più agevolmente
soddisfatto da una società già ivi stabilita e che quindi la disciplina in questione introduce
una discriminazione indiretta tra i contribuenti in funzione del luogo in cui viene impiegato
un certo numero di lavoratori nel corso di un determinato periodo. La Corte ha poi ricordato
che, se un trattamento di tal genere può essere giustificato da ragioni relative alla
sopravvivenza di piccole e medie imprese, nonché alle esigenze connesse all’efficacia dei
controlli fiscali, è necessario altresì che esso sia idoneo a garantire il conseguimento di tali
obiettivi e che non ecceda quanto necessario per conseguirli. Orbene, la Corte ha rilevato
che le imprese familiari nazionali e straniere si trovano in una situazione analoga per
quanto riguarda l’obiettivo di continuità delle imprese e che, inoltre, l’efficacia dei controlli
fiscali può essere salvaguardata chiedendo ai contribuenti di fornire gli elementi probatori
necessari per beneficiare del vantaggio fiscale, anziché rifiutando categoricamente la
concessione del vantaggio alle società che non impieghino almeno cinque lavoratori nello
Stato membro in questione. Di conseguenza, la legislazione in esame contrasta con
l’art. 43 CE in quanto non garantisce il conseguimento dell’obiettivo perseguito e non è
proporzionata.
Nella causa Elisa (sentenza 11 ottobre 2007, causa C‑451/05), la Corte ha statuito che
l’art. 56 CE osta alla legislazione di uno Stato membro che esonera le società stabilite in
tale Stato da un’imposta sugli immobili siti sul suo territorio, subordinando invece tale
esenzione, per le società stabilite in un altro Stato membro, all’esistenza di una convenzione
bilaterale sulla lotta contro la frode e l’evasione fiscali, ovvero alla circostanza che, in forza
dell’applicazione di un trattato contenente una clausola di non discriminazione in base
alla nazionalità, tali società non siano assoggettate ad un’imposizione maggiormente
onerosa rispetto alle società residenti. La Corte ha infatti stabilito che i requisiti
supplementari richiesti dalla disciplina nazionale al fine di consentire alle società non
residenti di beneficiare dell’esenzione dall’imposta rendono meno attraente l’investimento
immobiliare per queste società. Tale disciplina rappresenta pertanto una restrizione al
principio della libera circolazione dei capitali. La Corte ha ricordato che, se la lotta contro
la frode fiscale costituisce un motivo imperativo di interesse generale che può giustificare
una restrizione ad una libertà di circolazione, la restrizione deve essere idonea a garantire
la realizzazione dell’obiettivo perseguito e non eccedere quanto necessario per
raggiungerlo. Poiché la legislazione nazionale in esame non consente alle società non
residenti di dimostrare che esse non perseguono alcun obiettivo fraudolento, la Corte ha
dichiarato che lo Stato membro avrebbe potuto adottare misure meno restrittive e che, di
conseguenza, l’imposta non era giustificata con riferimento all’obiettivo della lotta contro
la frode fiscale.
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Nella causa Meilicke e a. (sentenza 6 marzo 2007, causa C‑292/04, Racc. pag. I‑1835), la
Corte ha dichiarato che uno Stato membro non deve riservare un credito fiscale ai soli
dividendi provenienti da una società di capitali stabilita in tale Stato. Facendo riferimento
alla sua giurisprudenza che chiarisce gli obblighi derivanti dalla libera circolazione dei
capitali in materia di dividendi percepiti da persone residenti e distribuiti da società non
residenti, e in particolare alle sentenze Verkooijen (sentenza 6 giugno 2000, causa C‑35/98,
Racc. pag. I‑4071) nonché Manninen (sentenza 7 settembre 2004, causa C‑319/02,
Racc. pag. I‑7477), la Corte ha dichiarato che la normativa fiscale tedesca restringe la libera
circolazione dei capitali. La Corte ha constatato che il credito d’imposta previsto dalla
normativa nazionale ha lo scopo di eliminare la doppia imposizione degli utili delle società
distribuiti sotto forma di dividendi. Essa ha poi ricordato che una normativa di tal genere,
limitando il credito d’imposta ai dividendi distribuiti da società stabilite in Germania,
sfavorisce i soggetti passivi dell’imposta sul reddito fiscalmente residenti in Germania che
percepiscono dividendi da società aventi sede in altri Stati membri. Tali persone, infatti,
non possono imputare alla loro imposta l’imposta sulle società dovuta da tali società nello
Stato membro in cui hanno sede. Inoltre, la normativa costituisce per queste ultime società
un ostacolo alla raccolta di capitali in Germania. La Corte ha peraltro respinto l’argomento
secondo cui tale normativa sarebbe giustificata dalla necessità di garantire la coerenza del
regime tributario nazionale. Essa ha rilevato che, senza mettere in discussione la coerenza
di tale regime, sarebbe sufficiente concedere ad un contribuente titolare di azioni di una
società avente sede in un altro Stato membro un credito d’imposta calcolato in base
all’imposta da questa dovuta a titolo d’imposta sulle società in tale ultimo Stato membro.
Una soluzione di tal genere costituirebbe una misura meno restrittiva per la libera
circolazione dei capitali. Infine la Corte ha dichiarato che gli effetti della sentenza non
devono essere limitati nel tempo, rilevando, in particolare, che gli obblighi derivanti dal
principio della libera circolazione dei capitali in materia di dividendi percepiti da persone
residenti da parte di società non residenti erano già stati chiariti nella sentenza Verkooijen
e che gli effetti di quest’ultima non erano stati limitati nel tempo.
Peraltro, talune misure sono state dichiarate parzialmente incompatibili con le libertà
fondamentali del trattato, ovvero incompatibili con riserva di un controllo di proporzio­
nalità in relazione all’obiettivo — legittimo — perseguito. A tal proposito, l’attenzione
va richiamata innanzi tutto sulla causa Centro Equestre da Lezíria Grande (sentenza
15 febbraio 2007, causa C‑345/04, Racc. pag. I‑1425). Una società aveva effettuato varie
rappresentazioni artistiche in uno Stato membro nel quale non era residente e i redditi da
essa percepiti erano stati assoggettati ad imposta mediante ritenuta alla fonte. Poiché essa
non era stabilita in detto Stato membro ed era quindi soggetta ad un obbligo fiscale
limitato, tale società poteva beneficiare di un rimborso dell’imposta così prelevata a
condizione che gli oneri gestionali o le spese professionali aventi un nesso economico
diretto con i redditi soggetti ad imposta fossero superiori alla metà di tali redditi. La Corte
ha deciso che l’art. 59 del trattato CE (divenuto, in seguito a modifica, articolo 49 CE) non
osta ad una normativa di tal genere, laddove questa subordina il rimborso dell’imposta
sulle società, prelevata alla fonte sui redditi percepiti da un contribuente soggetto
d’imposta a titolo parziale, alla condizione che le spese professionali di cui il detto
contribuente chiede, a tale scopo, la presa in considerazione presentino un nesso
economico diretto con i redditi percepiti nell’ambito di un’attività esercitata nel territorio
dello Stato membro interessato, purché siano considerate tali tutte le spese che sono
inscindibili dall’attività suddetta, quali che siano il luogo o il momento in cui esse sono
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state sostenute. Il detto articolo osta, per contro, ad una normativa nazionale siffatta
laddove questa subordini il rimborso della detta imposta a tale contribuente alla condizione
che le spese professionali in questione siano superiori alla metà dei redditi summenzionati.
In secondo luogo, la citata sentenza Test Claimants in the Thin Cap Group Litigation
riguardava la normativa di uno Stato membro che limitava la possibilità per una società
residente di dedurre, a fini fiscali, gli interessi versati su prestiti concessi da una società
controllante, in via diretta o indiretta, residente in un altro Stato membro o da una società
residente in un altro Stato membro controllata da tale società controllante, senza
assoggettare a una siffatta restrizione i prestiti concessi da una società parimenti residente.
Dopo aver constatato che la disparità di trattamento così introdotta tra controllate residenti
in funzione del luogo della sede della loro controllante scoraggiava l’esercizio della libertà
di stabilimento da parte delle società stabilite in altri Stati membri, la Corte ha ricordato
che una misura nazionale che restringe la libertà di stabilimento può tuttavia essere
giustificabile se concerne specificamente le costruzioni di puro artificio, prive di realtà
economica, finalizzate a eludere la normativa di uno Stato membro interessato. Tale tipo di
comportamento è infatti, secondo la Corte, tale da violare il diritto degli Stati membri ad
esercitare la propria competenza fiscale in relazione alle attività svolte nel loro territorio e
da compromettere, così, un’equilibrata ripartizione del potere impositivo tra gli Stati
membri. La Corte ha in seguito stabilito che la normativa in esame, ostacolando la pratica
della sottocapitalizzazione, è idonea a perseguire tale obiettivo, ma non si è pronunciata
sull’effettiva proporzionalità della misura di cui trattasi, rinviando tale problematica al
giudice nazionale. Tuttavia, essa ha rilevato che la legislazione nazionale deve essere
considerata proporzionata se, in primo luogo, il contribuente è posto nella condizione di
produrre, eventualmente e senza eccessivi oneri amministrativi, elementi relativi alle
ragioni commerciali soggiacenti alla transazione in questione, consentendo in tal modo
un esame di elementi oggettivi e concreti allo scopo di individuare l’esistenza di una
costruzione puramente artificiale a soli fini fiscali e, in secondo luogo, se la riqualificazione
degli interessi versati come utili distribuiti si limiti alla frazione di tali interessi che eccede
quanto sarebbe stato convenuto in condizioni di piena concorrenza.
Infine, talune misure nazionali, benché disciplinino in maniera diversa situazioni analoghe,
sono state dichiarate compatibili con il diritto comunitario in quanto giustificate da motivi
imperativi di interesse generale. Così, nel solco della citata sentenza Test Claimants in the
Thin Cap Group Litigation, la causa Oy AA (sentenza 18 luglio 2007, causa C‑231/05) merita
di essere citata in quanto accoglie gli argomenti giustificativi basati sul rischio di evasione
fiscale. Tale causa riguardava la legislazione di uno Stato membro a norma della quale una
consociata residente in tale Stato membro poteva dedurre dai suoi redditi imponibili un
trasferimento finanziario intragruppo effettuato a favore della sua società madre solo se
quest’ultima aveva sede nel medesimo Stato membro. Dopo aver rilevato che una simile
legislazione istituisce una disparità di trattamento tra le consociate stabilite nello stesso
Stato membro a seconda che la loro società madre abbia o meno sede in questo stesso
Stato, disparità che comporta una restrizione alla libertà di stabilimento, la Corte ha
ritenuto che tale restrizione fosse giustificata dalle combinate necessità di salvaguardare
la ripartizione equilibrata del potere impositivo tra gli Stati membri e di prevenire l’evasione
fiscale. Valutate congiuntamente, tali considerazioni sono infatti costitutive di obiettivi
legittimi compatibili col trattato CE e riconducibili a ragioni imperative di interesse
generale. Secondo la Corte, ammettere la deducibilità di un trasferimento finanziario
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intragruppo transfrontaliero consentirebbe ai gruppi di società di optare liberamente per
lo Stato membro in cui gli utili della consociata vengono tassati, sottraendoli alla base
imponibile di quest’ultima e, laddove tale trasferimento sia considerato come un reddito
imponibile nello Stato membro della società madre beneficiaria, integrandoli in quella
della società madre, cosa che comprometterebbe il sistema stesso della ripartizione del
potere impositivo tra gli Stati membri. Inoltre, la possibilità di trasferire i redditi imponibili
di una consociata verso una società madre la cui sede si trova in un altro Stato membro
implica il rischio che, tramite costruzioni puramente artificiose, vengano organizzati
trasferimenti di redditi in seno ad un gruppo di società in direzione delle società situate
in Stati membri che applicano le aliquote di tassazione più basse. Infine la Corte ha
considerato che una legislazione siffatta, nonostante non sia specificamente diretta ad
escludere dal vantaggio fiscale che essa prevede costruzioni puramente artificiose, può
considerarsi proporzionata agli obiettivi di cui sopra, considerati congiuntamente, poiché
un’estensione del vantaggio fiscale alle situazioni transfrontaliere consentirebbe ai gruppi
di società di scegliere liberamente lo Stato membro in cui far tassare i loro utili, a detrimento
del diritto dello Stato membro di localizzazione della consociata di tassare gli utili generati
da attività svolte sul suo territorio.
Nel settore della fiscalità dei privati, varie misure nazionali sono state dichiarate
incompatibili con le libertà fondamentali del trattato in quanto trattavano in maniera
diversa situazioni identiche, senza valida giustificazione. Così, nella sentenza Meindl
(sentenza 25 gennaio 2007, causa C‑329/05, Racc. pag. I‑1113), la Corte ha dichiarato che
un contribuente residente non può vedersi rifiutare dallo Stato membro in cui risiede
un’imposizione congiunta con il coniuge, dal quale non è separato e che risiede in un altro
Stato membro, per il fatto che il coniuge stesso ha percepito in tale altro Stato membro al
contempo più del 10 % dei redditi del nucleo familiare e più di un determinato tetto
massimo, allorché i redditi percepiti dal detto coniuge in tale altro Stato membro non sono
ivi soggetti all’imposta sul reddito. Infatti, un contribuente di tal genere è trattatato
diversamente, pur trovandosi obiettivamente nella stessa situazione di un contribuente
residente il cui coniuge risieda nello stesso Stato membro e vi percepisca soltanto red­
diti non imponibili. La Corte ha constatato, inoltre, che lo Stato di residenza di tale con­
tribuente è l’unico Stato che possa prendere in considerazione la situazione personale
e familiare del contribuente stesso, perché quest’ultimo non soltanto risiede in tale Stato,
ma vi percepisce per giunta la totalità dei redditi imponibili del nucleo familiare. Così, in
assenza di giustificazione, il fatto che questo contribuente non possa in alcun modo
beneficiare, nel contesto dell’imposizione congiunta, della presa in considerazione della
sua situazione personale e familiare, ma si veda al contrario assoggettato all’imposta
applicabile ai celibi, nonostante il proprio stato civile di persona coniugata, rappresenta
una discriminazione vietata dal principio della libertà di stabilimento.
La sentenza Talotta (sentenza 22 marzo 2007, causa C‑383/05, Racc. pag. I‑2555) fornisce
un altro esempio di decisione che dichiara una misura in materia di imposta sul reddito
incompatibile con il trattato CE in quanto tratta in modo diverso contribuenti residenti e
non residenti che si trovano in situazioni oggettivamente analoghe. La legislazione in
questione prevedeva che, in assenza di elementi probatori, i redditi da lavoro autonomo
imponibili di un contribuente residente venissero determinati mediante raffronto con
quelli di altri contribuenti, mentre quelli di un contribuente non residente venissero
determinati facendo riferimento a basi imponibili minime. La Corte ha deciso che un
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trattamento differenziato di tal genere costituisce una discriminazione indiretta in base
alla cittadinanza, contraria alla libertà di stabilimento, in quanto, per un verso, i redditi
percepiti da un contribuente residente e da un contribuente non residente nell’ambito di
un’attività autonoma nel territorio dello Stato membro interessato sono classificati nella
stessa categoria di redditi, vale a dire quelli provenienti da un’attività autonoma esercitata
nel territorio dello stesso Stato membro, e che, per altro verso, tale trattamento rischia di
operare principalmente a danno dei cittadini di altri Stati membri, in quanto i non residenti
il più delle volte non sono cittadini di quello stesso Stato. Il fatto che l’utilizzo di basi
imponibili minime sia spesso favorevole ai contribuenti non residenti risulta essere
irrilevante a tal proposito. La Corte ha in seguito precisato che la necessità di garantire
l’efficacia dei controlli fiscali, benché costituisca una ragione imperativa di interesse
generale, non può giustificare tale discriminazione indiretta, posto che per il controllo dei
residenti sussistono le stesse difficoltà pratiche e che vi sono altri meccanismi che
consentono lo scambio di informazioni di natura fiscale tra Stati membri.
Infine, nella causa Commissione/Danimarca (sentenza 30 gennaio 2007, causa C‑150/04,
Racc. pag. I‑1169), la Corte ha accolto il ricorso per inadempimento proposto dalla
Commissione contro il Regno di Danimarca, dichiarando contraria agli artt. 39 CE, 43 CE
e 49 CE la normativa che consente ai contribuenti di detrarre o di omettere dai loro
redditi imponibili i contributi versati nell’ambito di un piano pensionistico, in quanto
esso sia stato stipulato con un ente previdenziale stabilito sul territorio nazionale,
escludendo qualsiasi vantaggio fiscale per i piani stipulati con enti previdenziali stabiliti
in altri Stati membri. La Corte ha infatti constatato che una normativa di tale genere può
produrre un effetto dissuasivo sulla libera prestazione di servizi assicurativi ad opera di
un ente pensionistico di un altro Stato membro, nonché sulla libertà di stabilimento e la
libera circolazione dei lavoratori che siano originari o che abbiano lavorato in un altro
Stato membro e che abbiano ivi già stipulato un piano pensionistico. La Corte ha respinto
gli argomenti basati sulla necessità di preservare l’efficacia dei controlli fiscali e di
prevenire l’evasione fiscale, stabilendo che esistono mezzi meno restrittivi atti a
perseguire tali due obiettivi. Del pari, è stata respinta la giustificazione basata sulla
coerenza del sistema fiscale, non risultando dimostrata l’esistenza di un nesso diretto tra
un beneficio fiscale ed un correlato svantaggio che debba essere preservato. Infatti, il
solo elemento idoneo a pregiudicare tale coerenza risiede nella possibilità che il
contribuente trasferisca la propria residenza nel periodo compreso tra il momento del
versamento dei contributi e quello dell’erogazione delle corrispondenti prestazioni, e
non tanto nel fatto che l’ente pensionistico interessato sia ubicato in un altro Stato
membro.
Visti, asilo, immigrazione
Nelle cause Regno Unito/Consiglio (sentenze 18 dicembre 2007, cause riunite C‑77/05
e C‑137/05), alla Corte è stato chiesto di pronunciarsi in merito all’interpretazione
del protocollo di Schengen (18) con riferimento all’adozione dei regolamenti (CE)
(18)
Protocollo sull’integrazione dell’acquis di Schengen nell’ambito dell’Unione europea, allegato al trattato
sull’Unione europea e al trattato che istituisce la Comunità europea dal trattato di Amsterdam.
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nn. 2007/2004 (19) e 2252/2004 (20). Il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, che
era stato escluso dal Consiglio dalla partecipazione all’adozione dei citati regolamenti,
chiedeva l’annullamento degli stessi, affermando che tale esclusione rappresentava una
violazione del protocollo di Schengen.
La Corte ha stabilito che il protocollo di Schengen era stato applicato correttamente e che
il suo articolo 5, n. 1, deve essere interpretato nel senso che la partecipazione di uno Stato
membro all’adozione di una misura in applicazione dell’articolo citato può essere presa in
considerazione solamente qualora tale Stato sia stato autorizzato dal Consiglio ad aderire
al settore dell’acquis di Schengen al quale è ascrivibile la misura da adottarsi ovvero di cui
essa rappresenta uno sviluppo, ipotesi che non ricorreva nella fattispecie. Secondo il
ragionamento da essa svolto, l’interpretazione sostenuta dal Regno Unito avrebbe avuto
la conseguenza di privare di qualsiasi effetto utile l’art. 4 del Protocollo di Schengen, in
quanto l’Irlanda e il Regno Unito sarebbero stati, in tal caso, legittimati a partecipare a
tutte le proposte e alle iniziative basate sull’acquis di Schengen, ai sensi dell’art. 5, n. 1,
anche qualora non avessero aderito alle disposizioni rilevanti di tale acquis o non fossero
stati ammessi a parteciparvi.
Regole di concorrenza
In materia di concorrenza, tre sentenze suscitano particolare interesse. Si segnala
innanzitutto la causa Autorità garante della concorrenza e del mercato (sentenza 11 di­
cembre 2007, causa C‑280/06), che ha ad oggetto i criteri per l’addebito di una viola­
zione alle regole di concorrenza in caso di successione tra imprese dipendenti da una
medesima autorità pubblica. In tale sentenza, la Corte ha innanzitutto ricordato che,
quando un’impresa viola le regole della concorrenza, essa è chiamata a rispondere di tale
infrazione secondo il principio della responsabilità personale. Quando l’ente che ha
commesso l’infrazione alle regole della concorrenza subisce una modifica giuridica o
organizzativa, tale modifica non comporta necessariamente la creazione di una nuova
impresa, svincolata dalla responsabilità per i comportamenti contrari alle regole concorrenziali
dell’ente che l’ha preceduta, qualora, dal punto di vista economico, vi sia identità tra i due
enti. La Corte ha precisato che, quando due enti costituiscono un medesimo soggetto
economico, il fatto che l’ente che ha commesso l’infrazione esista ancora non osta, di per
sé, al fatto che sia sanzionato l’ente al quale il primo ha trasferito le proprie attività
economiche. Infine, la Corte ha sottolineato che una simile applicazione della sanzione è
ammissibile segnatamente quando gli enti di cui trattasi sono stati sotto il controllo del
medesimo soggetto e, in considerazione degli stretti legami che li uniscono sul piano
economico ed organizzativo, hanno applicato sostanzialmente le stesse direttive
commerciali. Di conseguenza, la Corte ha stabilito che, nel caso di enti dipendenti dalla
stessa autorità pubblica, qualora una condotta costitutiva di una stessa infrazione sia stata
(19)
Regolamento (CE) del Consiglio 26 ottobre 2004, n. 2007, che istituisce un’Agenzia europea per la gestione
della cooperazione operativa alle frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione europea (GU L 349,
pag. 1).
(20)
Regolamento (CE) del Consiglio 13 dicembre 2004, n. 2252, relativo alle norme sulle caratteristiche di
sicurezza e sugli elementi biometrici dei passaporti e dei documenti di viaggio rilasciati dagli Stati membri
(GU L 385, pag. 1).
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commessa da un ente e successivamente completata da un altro ente succeduto al primo,
il quale non ha cessato di esistere, tale secondo ente può essere sanzionato per l’infrazione
nella sua interezza, se è provato che tali due enti sono stati sotto la tutela della citata
autorità.
In secondo luogo, deve citarsi la causa British Airways/Commissione (sentenza 15 marzo
2007, causa C‑95/04 P, Racc. pag. I‑2331), nella quale la Corte ha chiarito il regime degli
sconti e dei premi concessi da un’impresa in posizione dominante. La Corte ha stabilito
che, per decidere in merito all’eventuale carattere abusivo, da parte di un’impresa in
posizione dominante, di un sistema di sconti o di premi che non costituiscono sconti o
premi quantitativi, né sconti o premi fedeltà, bisogna valutare tutte le circostanze, in
particolare i criteri e le modalità della concessione di tali sconti o premi. Occorre in primo
luogo verificare se tali sconti o premi possano produrre un effetto preclusivo, se siano cioè
in grado, da un lato, di rendere più difficoltoso, o addirittura impossibile, l’accesso al
mercato per i concorrenti dell’impresa in posizione dominante e, dall’altro, di rendere più
difficoltoso, o addirittura impossibile, per le controparti di tale impresa, scegliere tra più
fonti di approvvigionamento o controparti commerciali. Occorre poi valutare se esista una
giustificazione economica obiettiva degli sconti e dei premi concessi. Peraltro, la Corte ha
precisato quali siano le condizioni di applicazione del divieto di discriminazione di cui
all’art. 82, n. 2, lett. c), CE, ai premi e agli sconti concessi da imprese in posizione dominante,
sottolineando che occorre constatare che il comportamento di questa impresa su un
mercato non soltanto è discriminatorio, ma tende anche a falsare la relazione concorrenziale
esistente tra le controparti dell’impresa.
Infine, nella causa Cementbouw Handel & Industrie/Commissione (sentenza 18 dicembre
2007, causa C‑202/06 P), la Corte si è occupata dell’incidenza di impegni proposti dalle
parti sulla competenza della Commissione delle Comunità europee in materia di controllo
delle concentrazioni. La Corte ha ricordato che il regolamento n. 4064/89 (21), in materia di
controllo delle concentrazioni, poggia sul principio di una precisa ripartizione delle
competenze tra le autorità di controllo nazionali e comunitarie. Tale ripartizione risponde
segnatamente ad un’esigenza di certezza del diritto, che implica che l’autorità competente
ad esaminare una determinata operazione di concentrazione possa essere individuata in
modo prevedibile. Per questa ragione, il legislatore comunitario ha stabilito taluni criteri
che sono nel contempo precisi ed obiettivi, i quali consentono di stabilire se un’operazione
raggiunga la dimensione economica richiesta per acquisire una «dimensione comunitaria»
e se rientri in tal modo nell’ambito dell’esclusiva competenza della Commissione. Inoltre,
l’esigenza di celerità che caratterizza l’economia generale del regolamento n. 4064/89 e
che impone alla Commissione di rispettare termini rigorosi per l’adozione della decisione
finale implica che la competenza della Commissione non può essere messa costantemente
in dubbio o sottoposta a continue modifiche. La Corte ha perciò statuito che, se è vero che
la Commissione perde la propria competenza a conoscere di un’operazione di
concentrazione nell’ipotesi in cui le imprese interessate abbandonino totalmente il
progetto, ciò non accade qualora le parti si limitino a proporre di apportare talune
modifiche parziali. Simili proposte non possono obbligare la Commissione a riesaminare
(21)
Regolamento (CEE) del Consiglio 21 dicembre 1989, n. 4064, relativo al controllo delle operazioni di
concentrazione tra imprese (GU L 395, pag. 1), come modificato con regolamento (CE) del Consiglio
30 giugno 1997, n. 1310 (GU L 180, pag. 1).
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la propria competenza, salvo non si voglia consentire alle imprese interessate di perturbare
in maniera significativa lo svolgimento del procedimento e l’efficacia del controllo voluto
dal legislatore. Gli impegni proposti o assunti dalle imprese rappresentano pertanto
elementi di cui la Commissione deve tener conto nell’ambito dell’esame della questione di
merito, vale a dire la compatibilità o l’incompatibilità della concentrazione con il mercato
comune, ma non possono privare la Commissione della propria competenza, una volta
che quest’ultima sia stata verificata nella prima fase del procedimento. Ne discende che la
competenza della Commissione a conoscere di un’operazione di concentrazione deve
essere determinata, per tutta la durata del procedimento, a una data determinata, la quale
deve necessariamente presentare uno stretto legame con la notifica.
Fiscalità
In tale settore, meritano di essere rammentate tre cause relative all’imposta sul valore
aggiunto (in prosieguo: l’«IVA»).
Nelle cause riunite T-Mobile Austria e a. (sentenza 26 giugno 2007, causa C‑284/04) e
Hutchison 3G e a. (sentenza 26 giugno 2007, causa C‑369/04), la Corte ha avuto modo di
precisare l’ambito di applicazione della nozione di attività economiche ai sensi dell’art. 4,
n. 2, della sesta direttiva 77/388 (22). Le due cause citate riguardavano l’attribuzione, ad
opera dell’autorità regolamentare nazionale responsabile dell’assegnazione delle
frequenze, di diritti quali quelli d’uso di frequenze dello spettro elettromagnetico al fine
di fornire al pubblico servizi di telecomunicazione mobile, mediante asta. La Corte ha
deciso che la concessione di autorizzazioni siffatte deve essere considerata come una
condizione necessaria e preliminare all’accesso degli operatori economici al mercato delle
telecomunicazioni mobili e non come una partecipazione dell’autorità nazionale com­
petente al detto mercato. Infatti, solo gli operatori economici titolari dei diritti concessi
operano sul mercato sfruttando il bene in questione al fine di ricavarne introiti aventi un
carattere di stabilità, il che non avviene nel caso delle autorità competenti. Il fatto che la
concessione dei diritti di uso in parola abbia dato luogo al pagamento di canoni non è tale
da modificare tale ragionamento. Di conseguenza, una concessione siffatta non costituisce
un’attività economica ai sensi del citato articolo 4, n. 2, e non rientra quindi nella sfera di
applicazione della sesta direttiva 77/388.
Nella causa Planzer Luxembourg (sentenza 28 giugno 2007, causa C‑73/06), la Corte ha
avuto modo di pronunciarsi sulle condizioni e sulle modalità di rimborso dell’IVA, come
previste dall’ottava direttiva 79/1072 (23) e dalla tredicesima direttiva 86/560 (24). La
(22)
Sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, 77/338/CEE, in materia di armonizzazione delle legislazioni
degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari — Sistema comune di imposta sul valore aggiunto:
base imponibile uniforme (GU L 145, pag. 1).
(23)
Ottava direttiva del Consiglio 6 dicembre 1979, 79/1072/CEE, in materia di armonizzazione delle legislazioni
degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari — Modalità per il rimborso dell’imposta sul valore
aggiunto ai soggetti passivi non residenti all’interno del paese (GU L 331, pag. 11).
(24)
Tredicesima direttiva del Consiglio 17 novembre 1986, 86/560/CEE, in materia di armonizzazione delle
legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari — Modalità di rimborso dell’imposta
sul valore aggiunto ai soggetti passivi non residenti nel territorio della Comunità (GU L 326, pag. 40).
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causa citata traeva origine dal rifiuto dell’amministrazione fiscale di uno Stato membro
di rimborsare ad un contribuente, avente sede in un altro Stato membro, l’IVA assolta da
quest’ultimo su taluni beni acquisiti nel primo Stato membro per le sue operazioni
imponibili, in quanto sussistevano dubbi in merito al luogo della direzione effettiva degli
affari del contribuente in questione — nello Stato membro della propria sede sociale
ovvero presso la propria società controllante stabilita all’esterno del territorio
comunitario — e ciò malgrado la consegna di un’attestazione dell’amministrazione dello
Stato membro in cui aveva sede il contribuente relativa alla sua sottoposizione ad IVA in
tale Stato. La Corte ha in primo luogo confermato che un’attestazione conforme al
modello di cui all’allegato B dell’ottava direttiva permette, in linea di principio, di
presumere che l’interessato non soltanto sia soggetto passivo nello Stato membro di
rilascio dell’attestazione, ma anche che risieda in tale Stato membro nell’una o nell’altra
forma, il che vincola, in via di fatto e di diritto, l’amministrazione dello Stato membro
dove si richiede il rimborso dell’imposta. Tuttavia, in caso di dubbi quanto alla realtà
economica dell’impresa il cui indirizzo è menzionato nell’attestazione rilasciata,
l’amministrazione interessata può accertarsi della realtà in questione ricorrendo alle
misure amministrative a tal fine previste dalla normativa comunitaria e, se del caso,
negare il rimborso sollecitato dal soggetto passivo, fatto salvo l’esperimento di un’azione
giudiziaria da parte di quest’ultimo. La Corte ha in seguito precisato che la sede
dell’attività economica di una società ai sensi dell’art. 1, punto 1, della tredicesima
direttiva è il luogo in cui vengono adottate le decisioni essenziali concernenti la direzione
generale di tale società e in cui sono svolte le funzioni di amministrazione centrale di
quest’ultima. La determinazione di tale luogo è basata su un complesso di fattori, al
primo posto dei quali figurano la sede statutaria, il luogo dell’amministrazione centrale,
il luogo di riunione dei dirigenti societari e quello, abitualmente identico, in cui si adotta
la politica generale di tale società. Possono essere presi in considerazione anche altri
elementi, quali il domicilio dei principali dirigenti, il luogo di riunione delle assemblee
generali, la tenuta dei documenti amministrativi e contabili e di svolgimento della
maggior parte delle attività finanziarie, in particolare bancarie. Di conseguenza, un
insediamento fittizio, come quello caratterizzante una società «casella postale» o
«schermo», non potrebbe essere qualificata come sede di un’attività economica ai sensi
dell’art. 1, punto 1, della tredicesima direttiva.
Ravvicinamento delle legislazioni e legislazioni uniformi
Questo settore ha dato origine, come nel passato, ad un’abbondante giurisprudenza, nel
cui ambito talune cause meritano di essere specificamente menzionate.
Nella causa AGM-COS.MET (sentenza 17 aprile 2007, causa C‑470/03), alla Corte è stato
chiesto di stabilire se il comportamento di un funzionario che, con dichiarazioni pubbliche,
aveva denunciato la fragilità di taluni ponti elevatori per veicoli, possa essere considerato
imputabile allo Stato. La Corte ha statuito che sono imputabili allo Stato le dichiarazioni
di un funzionario che, date la loro forma e le circostanze, suscitano nei destinatari
l’impressione che si tratti di posizioni ufficiali dello Stato e non di opinioni personali del
funzionario. L’elemento determinante consiste nel sapere se i destinatari di tali dichia­
razioni possano ragionevolmente supporre, in un dato contesto, che si tratti di posi­
zioni che il funzionario assume con l’autorità derivante dalla sua funzione. In concreto,
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le dichiarazioni del funzionario che presentano una macchina certificata conforme alla
direttiva 98/37/CE (25) come in contrasto con la relativa norma armonizzata e come
pericolosa possono ostacolare, almeno indirettamente e potenzialmente, l’immissione
sul mercato di una tale macchina e non possono essere giustificate né dall’obiettivo della
tutela della salute, né in base alla libertà d’espressione dei funzionari. Infatti, l’art. 4, n. 1,
della direttiva 98/37 dev’essere interpretato nel senso che, da un lato, esso conferisce
diritti ai singoli e, dall’altro, non lascia agli Stati membri alcun margine di discrezionalità,
nella fattispecie, per quanto riguarda le macchine conformi alla detta direttiva o presunte
tali. L’inosservanza di tale disposizione dovuta alle dichiarazioni di un funzionario di uno
Stato membro, se e in quanto imputabili a tale Stato, costituisce una violazione del diritto
comunitario sufficientemente qualificata perché possa dichiararsi accertata la responsabilità
del detto Stato.
Nella causa Ordre des barreaux francophones e germanophone e a. (sentenza 26 giugno
2007, causa C‑305/05), è stata posta la questione se il fatto di imporre agli avvocati taluni
obblighi di informazione e di cooperazione con le autorità responsabili per la lotta contro
il riciclaggio di cui all’art. 6, n. 1, della direttiva 91/308 (26), quando essi partecipano a
transazioni di carattere finanziario non connesse a procedimenti giurisdizionali, non violi
il diritto a un equo processo.
La Corte ha dichiarato che non vi era, in un simile caso, violazione del diritto a un equo
processo, ricordando in primo luogo che gli obblighi di informazione e di collaborazione
si applicano agli avvocati solo nei limiti in cui assistono i loro clienti nella progettazione o
nella realizzazione di talune operazioni essenzialmente di ordine finanziario e immobiliare,
o qualora agiscano in nome e per conto del loro cliente in una qualsiasi operazione
finanziaria o immobiliare. Di regola tali attività, per loro stessa natura, si situano in un
contesto che non è collegato ad un procedimento giudiziario e, pertanto, si pongono al di
fuori dell’ambito di applicazione del diritto a un equo processo.
Sin dal momento in cui l’assistenza dell’avvocato è richiesta per l’esercizio di un incarico di
difesa o di rappresentanza in giudizio o per l’ottenimento di consulenza sull’eventualità di
intentare o di evitare un procedimento giudiziario, tale avvocato è esonerato dagli obblighi
di informazione e collaborazione, essendo irrilevante se le informazioni siano state ricevute
o ottenute prima, durante o dopo il procedimento. Un siffatto esonero è tale da preservare
il diritto del cliente ad un equo processo.
Nella causa Land Oberösterreich/Commissione (sentenza 13 settembre 2007, cause riunite
C‑439/05 P e C‑454/05 P), la Commissione delle Comunità europee aveva respinto una
domanda di deroga alle misure di armonizzazione che la Repubblica d’Austria le aveva
notificato in base all’art. 95, n. 5, CE, e relativa ad un progetto di legge volto ad ottenere
una deroga alle disposizioni della direttiva 2001/18 (27) vietando gli organismi
(25)
Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 22 giugno 1998, 98/37/CE, concernente il ravvicinamento
delle legislazioni degli Stati membri relative alle macchine (GU L 207, pag. 1).
(26)
Direttiva del Consiglio 10 giugno 1991, 91/308/CEE, relativa alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario
a scopo di riciclaggio dei proventi di attività illecite (GU L 166, pag. 77).
(27)
Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 12 marzo 2001, 2001/18/CE, sull’emissione deliberata
nell’ambiente di organismi geneticamente modificati e che abroga la direttiva 90/220/CEE del
Consiglio — Dichiarazione della Commissione (GU L 106, pag. 1).
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geneticamente modificati nel Land Oberösterreich. A sostegno della loro impugnazione,
posto che il Tribunale aveva respinto la domanda di annullamento della decisione
controversa della Commissione, i ricorrenti facevano valere, per un verso, la mancata
osservanza del principio del contraddittorio e, per altro verso, la violazione dell’art. 95,
n. 5, CE. La Corte ha statuito che, tenuto conto delle peculiarità della procedura prevista
dall’art. 95, n. 5, CE, delle analogie tra tale procedura e quella contemplata dal n. 4 di tale
articolo, nonché dello scopo comune delle due disposizioni, consistente nel consentire
agli Stati membri di ottenere deroghe alle misure di armonizzazione, la Commissione non
è tenuta a rispettare il principio del contraddittorio prima di adottare la propria decisione
ai sensi del citato articolo 95, n. 5, CE.
Infatti, dal tenore letterale di detto articolo non emerge che la Commissione sia tenuta a
sentire lo Stato membro notificante prima di decidere in merito all’approvazione o al
rigetto delle disposizioni nazionali di cui trattasi. Il legislatore comunitario ha solamente
indicato i requisiti necessari per ottenere una decisione della Commissione, i termini entro
i quali quest’ultima deve emanare la propria decisione di approvazione o di rigetto nonché
le eventuali proroghe dei termini.
Inoltre, la procedura prevista viene avviata non da un’istituzione comunitaria o da un
organo nazionale, bensì da uno Stato membro, laddove la decisione della Commissione
viene adottata solamente a fronte di tale iniziativa. Con la sua domanda lo Stato membro
ha piena facoltà di esprimere la propria posizione in ordine alle disposizioni nazionali di
cui chiede l’introduzione, come emerge espressamente dall’art. 95, n. 5, CE, che obbliga lo
Stato membro a indicare i motivi che giustificano la sua domanda.
La Corte ha peraltro precisato che l’introduzione di disposizioni nazionali in deroga a una
misura di armonizzazione deve essere basata su nuove prove scientifiche inerenti alla
protezione dell’ambiente o dell’ambiente di lavoro, misura resasi necessaria a causa di un
problema specifico di detto Stato membro insorto dopo l’adozione della misura di
armonizzazione, e che le disposizioni previste nonché i motivi della loro adozione devono
essere notificati alla Commissione.
Nella causa Rampion e Godard (sentenza 4 ottobre 2007, causa C‑429/05), relativa alla
tutela dei consumatori in materia di credito al consumo e al diritto del consumatore di
procedere contro il creditore, la Corte ha statuito che la direttiva 87/102 (28) si applica sia
ad un credito inteso a finanziare una singola operazione sia ad un’apertura di credito che
consenta al consumatore di utilizzare il credito in momenti differenti. Peraltro, la Corte ha
deciso che gli artt. 11 e 14 di tale direttiva devono essere interpretati nel senso che ostano
a che il diritto del consumatore di procedere contro il creditore, previsto dall’art. 11, n. 2,
della direttiva medesima, sia subordinato alla condizione che la previa offerta di credito
rechi menzione del bene o della prestazione di servizi finanziati. Infatti, tale articolo, che
prevede che gli Stati membri stabiliscono entro quali limiti e a quali condizioni il diritto di
procedere contro il creditore è esercitabile, non può essere interpretato nel senso che
consente agli Stati membri di assoggettare il diritto di agire in giudizio di cui gode il
consumatore a condizioni ulteriori oltre a quelle ivi esaustivamente indicate. Tale
(28)
Direttiva del Consiglio 22 dicembre 1986, 87/102/CEE, relativa al ravvicinamento delle disposizioni legislative,
regolamentari e amministrative degli Stati membri in materia di credito al consumo (GU L 42, pag. 48).
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interpretazione è corroborata dall’art. 14, n. 1, della direttiva stessa, il quale osta, in
particolare, a che una normativa nazionale possa consentire al creditore di evitare che il
consumatore proceda nei suoi confronti in forza del citato articolo 11 mediante la semplice
omissione della menzione dei beni o dei servizi finanziati.
Nella causa Schutzverband der Spirituosen-Industrie (sentenza 4 ottobre 2007, causa
C‑457/05), la Corte ricorda che, alla luce dell’economia generale e della finalità della
direttiva 75/106 (29) nonché del principio della libera circolazione delle merci, sancito
dall’art. 28 CE, quest’ultimo articolo osta a che uno Stato vieti lo smercio di un imballaggio
preconfezionato di volume nominale di 0,071 litri non compreso nella gamma comunitaria,
ma legalmente fabbricato e immesso in commercio in un altro Stato membro, salvo il
caso che tale divieto risulti giustificato da un’esigenza imperativa, sia indistintamente
applicabile ai prodotti nazionali ed ai prodotti di importazione, sia necessario per soddisfare
tale esigenza imperativa e proporzionato all’obiettivo perseguito, e tale obiettivo non
possa essere raggiunto con provvedimenti che ostacolino in misura minore gli scambi
intracomunitari.
Le varie direttive riguardanti l’aggiudicazione degli appalti pubblici hanno, ancora una
volta, contribuito ad alimentare il contenzioso.
Nella causa Asociación Nacional de Empresas Forestales (sentenza 19 aprile 2007, causa
C‑295/05), si è posta la questione se uno Stato membro potesse attribuire ad un’impresa
pubblica uno status giuridico che le consentisse di realizzare operazioni senza essere
assoggettata alle direttive 92/50 (30), 93/36 (31) e 93/37 (32), sull’aggiudicazione degli
appalti pubblici. L’impresa pubblica di cui trattasi in concreto beneficia di uno speciale
regime che le consente di effettuare un gran numero di operazioni su incarico diretto
dell’amministrazione in qualità di servizio tecnico dell’amministrazione, senza ricorrere
alle procedure di aggiudicazione previste dalla legge, e non ha alcun margine di libertà,
né in merito al seguito da dare ad un incarico da parte delle amministrazioni competenti,
né quanto alle tariffe applicabili alle sue prestazioni. La Corte ha statuito che le direttive
citate non ostano ad un regime giuridico quale quello di cui gode questa impresa pubblica,
che le consente, in quanto impresa pubblica operante in qualità di strumento esecutivo
interno e servizio tecnico di diverse amministrazioni pubbliche, di realizzare operazioni
senza essere assoggettata al regime previsto dalle direttive in parola, qualora, da un lato,
le amministrazioni pubbliche interessate esercitino su tale impresa un controllo analogo a
quello da esse esercitato sui propri servizi e, dall’altro, la detta impresa realizzi la parte più
importante della sua attività con le amministrazioni di cui trattasi.
(29)
Direttiva del Consiglio 19 dicembre 1974, 75/106/CEE, per il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati
membri relative al precondizionamento in volume di alcuni liquidi in imballaggi preconfezionati (GU L 42,
pag. 1).
(30)
Direttiva del Consiglio 18 giugno 1992, 92/50/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli
appalti pubblici di servizi (GU L 209, pag. 1).
(31)
Direttiva del Consiglio 14 giugno 1993, 93/36/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli
appalti pubblici di forniture (GU L 199, pag. 1).
(32)
Direttiva del Consiglio 14 giugno 1993, 93/37/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli
appalti pubblici di lavori (GU L 199, pag. 54).
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Evoluzione e attività
Corte di giustizia
Nella causa Commissione/Germania (sentenza 18 luglio 2007, causa C‑503/04), avente ad
oggetto un contratto relativo allo smaltimento dei rifiuti stipulato dalla città di Brunswick
senza ricorrere alla procedura di gara a livello comunitario e a seguito della mancata
esecuzione, da parte della Repubblica federale di Germania, di una sentenza che aveva
accertato tale inadempimento ai sensi dell’art. 226 CE, la Corte ha dichiarato che, benché
la disposizione di cui all’art. 2, n. 6, secondo comma, della direttiva 89/665 (33) autorizzi gli
Stati membri a mantenere gli effetti di contratti conclusi in violazione delle direttive
sull’aggiudicazione degli appalti pubblici e tuteli così il legittimo affidamento dei
contraenti, essa, tuttavia, non può, salvo ridurre la portata delle disposizioni del trattato
che istituiscono il mercato interno, avere come conseguenza che il comportamento delle
amministrazioni aggiudicatrici nei confronti dei terzi debba essere considerato conforme
al diritto comunitario successivamente alla conclusione di tali contratti. Peraltro, detta
disposizione riguarda, come risulta dal suo tenore letterale, il risarcimento che una persona
lesa da una violazione commessa da un’amministrazione aggiudicatrice può ottenere da
quest’ultima e non può essere considerata tale da regolare anche il rapporto tra uno
Stato membro e la Comunità, rapporto che rientra invece nell’ambito degli artt. 226 CE
e 228 CE. Anche a voler ritenere che l’amministrazione aggiudicatrice possa vedersi
opporre i principi di certezza del diritto e di tutela del legittimo affidamento, il principio
pacta sunt servanda, nonché il diritto di proprietà della sua controparte contrattuale in
caso di risoluzione del contratto concluso in violazione della direttiva 92/50, uno Stato
membro non può in alcun caso avvalersi di tali principi o di tale diritto per giustificare la
mancata esecuzione di una sentenza che constata l’inadempimento ai sensi dell’art. 226
CE e sottrarsi in tal modo alla propria responsabilità di diritto comunitario.
La causa Bayerischer Rundfunk e a. (sentenza 13 dicembre 2007, causa C‑337/06) riguardava
la questione se gli organismi radiotelevisivi pubblici tedeschi rappresentino amministrazioni
aggiudicatrici ai fini dell’applicazione delle norme comunitarie in materia di aggiudicazione
degli appalti pubblici. L’art. 1 della direttiva 92/50 considera come amministrazioni
aggiudicatrici, tra gli altri, gli organismi di diritto pubblico la cui attività è finanziata in
modo maggioritario dallo Stato. La Corte ha dichiarato che vi è «finanziamento effettuato
in modo maggioritario dallo Stato» quando le attività di organismi radiotelevisivi pubblici,
come quelli di cui alla causa principale, siano finanziate in modo maggioritario da un
canone a carico di coloro che detengono un apparecchio ricevente, canone che sia imposto,
calcolato e riscosso secondo le prerogative della potestà di imperio. In caso di finanziamento
delle attività di organismi radiotelevisivi pubblici citati secondo le mo­dalità sopra esposte,
il requisito relativo al «finanziamento statale» non impone l’ingerenza diretta dello Stato o
di altre pubbliche autorità al momento dell’aggiudicazione, da parte degli organismi
radiotelevisivi pubblici, di un appalto avente ad oggetto la fornitura di servizi di pulizia. La
Corte precisa che solo gli appalti pubblici aventi ad oggetto i servizi citati all’art. 1 della
direttiva, vale a dire gli appalti pubblici aventi ad oggetto i servizi attinenti alla funzione
specifica degli organismi radiotelevisivi, ossia la creazione e la realizzazione di programmi,
sono esclusi dall’ambito di applicazione della direttiva citata. Invece, gli appalti pubblici di
servizi che non si pongono in relazione con le attività rientranti nello svolgimento della
missione di servizio pubblico sono pienamente sottoposti alle norme comunitarie.
(33)
Direttiva del Consiglio 21 dicembre 1989, 89/665/CEE, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari
e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli
appalti pubblici di forniture e di lavori (GU L 395, pag. 33).
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Corte di giustizia
Evoluzione e attività
Marchi
In questo settore la Corte si è occupata, nel contempo, del regolamento che istituisce
il marchio comunitario (34) e della direttiva di ravvicinamento delle legislazioni
nazionali (35).
La sentenza pronunciata nella causa UAMI/Kaul (sentenza 13 marzo 2007, causa C‑29/05 P,
Racc. pag. I‑2213) precisa le condizioni nelle quali possono essere presi in considerazione
fatti e prove nuovi, quando essi sono presentati a sostegno di un ricorso nell’ambito di un
procedimento d’opposizione. Più precisamente, la Corte ha stabilito che la commissione di
ricorso dell’Ufficio per l’armonizzazione nel mercato interno gode di un potere discrezionale
per decidere, nel rispetto dell’obbligo di motivazione, se sia necessario o meno tener conto,
ai fini della decisione che deve emettere, dei fatti o delle prove che la parte che ha proposto
opposizione presenta, per la prima volta, nella memoria depositata a sostegno del suo
ricorso, di modo che, da una parte, essa non è necessariamente tenuta a prendere in
considerazione tali fatti e prove e, dall’altra, la presa in considerazione dei detti fatti e delle
dette prove non può essere esclusa d’ufficio. L’art. 59 del regolamento n. 40/94, che precisa
le condizioni di proposizione di un ricorso dinanzi alla commissione di ricorso, non può
perciò essere interpretato nel senso che esso offre all’autore di un ricorso del genere un
nuovo termine per la presentazione di fatti e di prove a sostegno della propria opposizione.
Nella causa Dyson (sentenza 25 gennaio 2007, causa C‑321/03, Racc. pag. I‑687), la Corte,
pronunciandosi in merito a quali segni siano suscettibili di costituire un marchio, ha
stabilito che l’oggetto di una domanda di registrazione di marchi, la quale verta su tutte le
forme immaginabili di un recipiente o vano raccoglitore trasparente facente parte della
superficie esterna di un aspirapolvere, non costituisce un «segno» ai sensi dell’art. 2 della
direttiva 89/104 e non è, pertanto, idoneo a costituire un marchio ai sensi di quest’ultima.
Infatti, l’oggetto di una domanda siffatta, che consiste, in realtà, in una semplice proprietà
del prodotto considerato, riveste potenzialmente una moltitudine di aspetti differenti e
non è, dunque, determinato. Tenuto conto dell’esclusività inerente al diritto dei marchi, il
titolare di un marchio avente un siffatto oggetto indeterminato otterrebbe, a dispetto
dello scopo dell’art. 2 della direttiva, un vantaggio concorrenziale indebito, giacché
avrebbe il diritto di impedire ai concorrenti di proporre aspirapolvere recanti sulla superficie
esterna qualunque tipo di contenitore di raccolta trasparente, indipendentemente dalla
forma dello stesso.
Nella causa Adam Opel (sentenza 25 gennaio 2007, causa C‑48/05, Racc. pag. I‑1017), la
Corte ha ricordato che, ai sensi dell’art. 5, n. 1, della prima direttiva 89/104/CEE, un marchio
di impresa registrato conferisce al titolare un diritto esclusivo di vietare ai terzi, salvo
proprio consenso, di usare nel commercio un segno identico al marchio di impresa per
prodotti identici a quelli per cui esso è stato registrato. Ciò consente al titolare del marchio
di tutelare i propri interessi specifici, ossia di garantire che il marchio possa adempiere le
funzioni sue proprie, e, in particolare, quella di garantire ai consumatori la provenienza del
(34)
Regolamento (CE) del Consiglio 20 dicembre 1993, n. 40/94, sul marchio comunitario (GU L 11, pag. 1).
(35)
Prima direttiva del Consiglio 21 dicembre 1988, 89/104/CEE, sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati
membri in materia di marchi d’impresa (GU L 40, pag. 1).
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Corte di giustizia
prodotto. Pertanto, l’apposizione da parte di un terzo, senza autorizzazione del titolare del
marchio, nel caso di specie Opel, di un segno identico a tale marchio su modellini di veicoli
del marchio in questione, al fine di riprodurre fedelmente tali veicoli, nonché lo smercio
dei detti modellini possono essere vietati solamente qualora arrechino o possano arrecare
pregiudizio alle funzioni del marchio, in quanto marchio registrato per giocattoli. Quanto
alle conseguenze da trarre dal fatto che, da un lato, il logo Opel è registrato anche per gli
autoveicoli e, dall’altro, che il marchio pare godere di notorietà in Germania per questo
tipo di prodotti, la Corte ha altresì rilevato come il titolare di un marchio possa impedire
l’uso che, senza giusta causa, consenta di trarre indebitamente vantaggio dal carattere
distintivo o dalla notorietà del marchio, in quanto marchio registrato per gli autoveicoli,
ovvero arrechi pregiudizio a tali caratteristiche del marchio.
Una decisione nello stesso ordine di idee è stata adottata nella causa Céline (sentenza
11 settembre 2007, causa C‑17/06), con riferimento all’uso di una denominazione sociale,
di un nome commerciale o di un’insegna identici ad un marchio anteriore nell’ambito di
un’attività di commercializzazione di prodotti identici a quelli per cui tale marchio è stato
registrato. La Corte ha aggiunto che, ai sensi dell’art. 6, n. 1, lett. a), di tale direttiva, il diritto
conferito dal marchio non permette al suo titolare di vietare a un terzo l’uso nel commercio
del suo nome e del suo indirizzo, purché tale uso sia conforme agli usi consueti di lealtà in
campo industriale e commerciale.
Nella causa Häupl (sentenza 14 giugno 2007, causa C‑246/05), la Corte è stata chiamata ad
interpretare gli artt. 10, n. 1, e 12, n. 1, della prima direttiva 89/104. Interrogata in merito
alla data nella quale la procedura di registrazione di un marchio deve essere considerata
conclusa, in quanto tale data segna l’inizio del periodo d’uso, la Corte ha statuito che detta
direttiva non determina in modo univoco l’inizio di tale periodo di tutela e la formulazione
consente quindi di adattare il termine in parola alle caratteristiche peculiari delle procedure
nazionali. Di conseguenza, la «data in cui si è chiusa la procedura di registrazione», ai sensi
dell’art. 10, n. 1, della direttiva, dev’essere determinata in ogni Stato membro sulla base
delle norme procedurali ivi vigenti in materia di registrazione. In concreto, tale disposizione
definisce l’inizio del periodo di cinque anni durante il quale il marchio deve cominciare a
formare oggetto di uso effettivo, salvo non ricorrano motivi legittimi. In tal senso, la Corte
ha affermato che, ai sensi dell’art. 12, n. 1, della direttiva, costituiscono «motivi legittimi
per il mancato uso» di un marchio gli ostacoli aventi un legame diretto con il detto
marchio che siano tali da renderne l’uso impossibile o irragionevole e che siano indipen­
denti dalla volontà del titolare del marchio medesimo. Spetta al giudice del rinvio valu­
tare, caso per caso, gli elementi di fatto rilevanti della causa principale e verificare se essi
rendano irragionevole l’uso del marchio stesso.
Politica economica e monetaria
Nella causa Estager (sentenza 18 gennaio 2007, causa C‑359/05, Racc. pag. I‑581), la Corte
ha stabilito che i regolamenti nn. 1103/97 e 974/98, relativi all’introduzione dell’euro (36),
(36)
Regolamento (CE) del Consiglio 17 giugno 1997, n. 1103, relativo a talune disposizioni per l’introduzione
dell’euro (GU L 162, pag. 1). Regolamento (CE) del Consiglio 3 maggio 1998, n. 974, relativo all’introduzione
dell’euro (GU L 139, pag. 1).
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ostano ad una normativa nazionale che, nell’operazione di conversione in euro, aumenta
l’importo di una tassa, salvo che un tale aumento rispetti le esigenze di certezza del diritto
e di trasparenza, consentendo così di proteggere l’affidamento degli operatori economici
sull’introduzione dell’euro. Ciò implica che la disciplina nazionale in esame deve consentire
una chiara distinzione tra la decisione delle autorità dello Stato membro di aumentare
l’importo della tassa e l’operazione di conversione dell’importo stesso in euro.
Politica sociale
Tra le sentenze della Corte intervenute nel settore della politica sociale, meritano di essere
segnalate talune cause riguardanti l’attuazione del principio della parità di trattamento e
la sfera dei diritti dei lavoratori, nonché la tutela degli stessi.
Quanto alle norme di diritto comunitario che disciplinano la parità di trattamento tra
uomini e donne in materia di impiego e di condizioni di lavoro, la Corte ha anzitutto
precisato il regime giuridico delle lavoratrici incinte nell’ambito di talune questioni
pregiudiziali relative all’interpretazione delle direttive 76/207/CEE (37) e 92/85/CEE (38).
Così, nella sua sentenza Kiiski (sentenza 20 settembre 2007, causa C‑116/06), la Corte ha
stabilito che le citate disposizioni comunitarie ostano a una normativa nazionale in materia
di congedo di educazione che, nei limiti in cui non tiene conto dei cambiamenti causati
dallo stato di gravidanza alla lavoratrice interessata per il limitato periodo di almeno
quattordici settimane, precedente e successivo al parto, non le permette di ottenere, su
sua domanda, una modifica del periodo del suo congedo di educazione nel momento
in cui essa fa valere i suoi diritti al congedo di maternità e la priva così di diritti connessi
a tale congedo. Nella sentenza Paquay (sentenza 11 ottobre 2007, causa C‑460/06),
la Corte ha inoltre precisato che la direttiva 92/85/CEE vieta di notificare una decisione di
licenziamento in ragione della gravidanza e/o della nascita di un figlio durante il periodo
di tutela definito al suo articolo 10, n. 1, e di assumere misure preparatorie ad una tale
decisione prima della scadenza di tale periodo. Avendo stabilito che una decisione di tal
genere è contraria agli artt. 2, n. 1, e 5, n. 1, della direttiva 76/207/CEE, qualunque sia il
momento della sua notificazione e anche se tale notificazione avviene dopo la scadenza
del periodo di tutela previsto all’art. 10 della direttiva 92/85/CEE, la Corte ne ha dedotto
che la misura scelta da uno Stato membro in forza dell’art. 6 della direttiva 76/207/CEE per
sanzionare la violazione di tali disposizioni comunitarie deve essere almeno equivalente a
quella prevista in esecuzione degli artt. 10 e 12 della direttiva 92/85/CEE.
La Corte ha altresì arricchito la propria giurisprudenza in merito all’attuazione della parità
di trattamento tra uomini e donne nel settore del regime pensionistico. Per quanto riguarda
le pensioni comunitarie, la Corte ha ritenuto, in particolare, che l’uso di fattori differenziati
a seconda del sesso ai fini del calcolo degli abbuoni di annualità in caso di trasferimento al
(37)
Direttiva del Consiglio 9 febbraio 1976, 76/207/CEE, relativa all’attuazione del principio della parità di
trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla
promozione professionali e le condizioni di lavoro (GU L 39, pag. 40).
(38)
Direttiva del Consiglio 19 ottobre 1992, 92/85/CEE, concernente l’attuazione di misure volte a promuovere
il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di
allattamento (GU L 348, pag. 1).
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regime comunitario dei diritti a pensione acquisiti da un funzionario in forza di attività
professionali precedenti alla propria entrata al servizio delle Comunità rappresenta
una discriminazione in base al sesso non giustificata dalla necessità di garantire
una sana gestione finanziaria del regime pensionistico (sentenza 11 settembre 2007,
causa C‑227/04 P, Lindorfer/Consiglio). Per quanto riguarda la parità di trattamento tra
uomini e donne in materia di previdenza sociale, la Corte ha deciso che la direttiva
79/7/CEE (39) non osta all’adozione di una normativa nazionale che consente a persone di
un determinato sesso, in origine discriminate, di beneficiare, per tutta la durata della loro
pensione, del regime di pensione applicabile alle persone dell’altro sesso mediante il
pagamento di contributi di regolarizzazione che rappresentano la differenza tra i contributi
pagati dalle persone in origine discriminate nel periodo durante il quale la discriminazione
è avvenuta e i contributi più elevati pagati dall’altra categoria di persone nello stesso
periodo, maggiorati di interessi che compensano la svalutazione monetaria. Tuttavia, il
pagamento dei contributi di regolarizzazione non può essere maggiorato di interessi
diversi da quelli diretti a compensare la svalutazione monetaria. Inoltre, non si può esigere
che un tale pagamento avvenga in un’unica soluzione, qualora detta condizione renda
praticamente impossibile o eccessivamente difficile la regolarizzazione perseguita
(sentenza 21 giugno 2007, cause riunite da C‑231/06 a C‑233/06, Jonkman). La Corte ha
anche ricordato che, in caso di incompatibilità di una normativa nazionale con il diritto
comunitario, che emerga da una sentenza pronunciata su rinvio pregiudiziale, le autorità
nazionali sono tenute ad adottare i provvedimenti idonei a garantire il rispetto del diritto
comunitario, vigilando in particolare affinché il diritto nazionale sia rapidamente adeguato
al diritto comunitario e affinché sia data piena attuazione ai diritti che sono attribuiti ai
singoli da quest’ultimo. Nei casi in cui è stata constatata una discriminazione incompatibile
col diritto comunitario, e finché non siano adottate misure volte a ripristinare la parità di
trattamento, il giudice nazionale è tenuto a disapplicare qualsiasi disposizione nazionale
discriminatoria, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione da parte del
legislatore, e deve applicare ai componenti del gruppo sfavorito lo stesso regime che viene
riservato alle persone dell’altra categoria.
Peraltro, il principio di parità delle retribuzioni tra lavoratori e lavoratrici è esaminato
nell’ambito di una sentenza (sentenza 6 dicembre 2007, causa C‑300/06, Voß) che interpreta
l’art. 141 CE nel senso che esso osta ad una normativa nazionale la quale, da un lato,
definisce le ore straordinarie effettuate sia dai dipendenti pubblici a tempo pieno sia da
quelli a tempo parziale come ore che essi svolgono oltre il loro orario individuale di lavoro
e, dall’altro lato, retribuisce tali ore secondo una tariffa inferiore alla tariffa oraria applicata
alle ore effettuate entro l’orario individuale di lavoro, in modo tale che i dipendenti pubblici
a tempo parziale sono retribuiti in modo meno vantaggioso dei dipendenti pubblici a
tempo pieno per quanto riguarda le ore che effettuano oltre il loro orario individuale di
lavoro e nei limiti del numero di ore dovute da un dipendente pubblico a tempo pieno
nell’ambito del suo orario, in quanto tale normativa riguardi una percentuale notevolmente
più elevata di lavoratori di sesso femminile che di lavoratori di sesso maschile, e in mancanza
di giustificazione di una tale disparità di trattamento in base a fattori obiettivi ed estranei
a qualsiasi discriminazione fondata sul sesso.
(39)
Direttiva del Consiglio 19 dicembre 1978, 79/7/CEE, che stabilisce un quadro generale per la parità di
trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (GU L 6, pag. 24).
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La parità di trattamento in materia di occupazione e di lavoro, esaminata questa volta sotto
il profilo del divieto di discriminazione basata sull’età, è stata oggetto della sentenza
Palacios de la Villa (sentenza 16 ottobre 2007, causa C‑411/05), avente ad oggetto la
compatibilità con la direttiva 2000/78/CE (40) di una normativa spagnola che ammetteva la
validità delle clausole di pensionamento obbligatorio stabilite nei contratti collettivi, che
introducevano una risoluzione di pieno diritto del rapporto di impiego qualora il lavoratore
avesse raggiunto il limite di età, fissato a 65 anni da tale normativa, per accedere al
pensionamento e soddisfacesse gli altri criteri di concessione di una pensione di vecchiaia
di tipo contributivo. La Corte ha considerato che il divieto di discriminazione basato sull’età,
realizzato da detta direttiva, non osta a una tale disposizione nazionale, purché questa sia
oggettivamente e ragionevolmente giustificata da una finalità legittima relativa alla
politica del lavoro e al mercato del lavoro e purché i mezzi applicati per conseguirla non
appaiano inappropriati e non necessari. Dopo aver considerato che l’obiettivo di inte­
resse generale di regolamentazione del mercato del lavoro, mirante, segnatamente, a con­
trastare la disoccupazione e a promuovere l’occupazione, deve essere ritenuto, in via
di principio, nell’ambito del diritto nazionale, tale da giustificare una disparità di tratta­
mento in ragione dell’età, la Corte ha concluso riconoscendo il carattere adeguato e
necessario della misura, posto che quest’ultima prende in considerazione la circostanza
che gli interessati beneficino di una pensione di vecchiaia, nonché la facoltà che è offerta
alle parti sociali di avvalersi, attraverso i contratti collettivi, e quindi con flessibilità, del
meccanismo del pensionamento obbligatorio.
Infine, una questione pregiudiziale proposta da un giudice spagnolo in merito alla
concessione di scatti di anzianità ha consentito alla Corte di stabilire che la nozione di
«condizioni di impiego» di cui alla clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a
tempo determinato (41), le cui prescrizioni, come quelle della direttiva 1999/70/CE (42) in
allegato della quale tale accordo quadro figura, possono anche applicarsi ai contratti e ai
rapporti di lavoro a tempo determinato conclusi con gli enti del settore pubblico, può
servire da base ad una pretesa che mira all’attribuzione, ad un lavoratore assunto a tempo
determinato, di scatti di anzianità che l’ordinamento nazionale riserva ai soli lavoratori
assunto a tempo indeterminato (sentenza 13 settembre 2007, causa C‑307/05, Del Cerro
Alonso). Inoltre, la stessa disposizione osta, come precisa la Corte, all’introduzione di una
disparità di trattamento tra lavoratori assunti a tempo determinato e lavoratori assunti a
tempo indeterminato, giustificata dalla mera circostanza che essa sia prevista da una
disposizione legislativa o regolamentare di uno Stato membro ovvero da un contratto
collettivo concluso tra i rappresentanti sindacali del personale e il datore di lavoro
interessato.
La portata di talune disposizioni comunitarie relative ai diritti dei lavoratori e alla loro
tutela è stata puntualizzata dalla Corte in risposta a varie questioni pregiudiziali. Così,
(40)
Direttiva del Consiglio 27 novembre 2000, 2000/78/CE, che stabilisce un quadro generale per la parità di
trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (GU L 303, pag. 16).
(41)
Accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, contenuto in allegato alla
direttiva del Consiglio 28 giugno 1999, 1999/70/CE, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro
a tempo determinato (GU L 175, pag. 43).
(42)
Direttiva del Consiglio del 28 giugno 1999, 1999/70/CE relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul
lavoro a tempo determinato (GU L 175, pag. 43).
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Corte di giustizia
nella sentenza Jouini e a. (sentenza 13 settembre 2007, causa C‑458/05), la Corte ha
precisato la nozione di trasferimenti di imprese in seguito a una cessione contrattuale, ai
sensi della direttiva 2001/23/CE (43), e ha stabilito che quest’ultima riguarda l’ipotesi in cui,
per un verso, una parte del personale amministrativo e una parte dei lavoratori interinali
vengono trasferite ad un’altra agenzia di lavoro interinale per esercitarvi le stesse attività
al servizio di clienti identici e, per altro verso, gli elementi interessati dal trasferimento di
un ente economico sono già di per sé sufficienti a consentire lo svolgimento di prestazioni
caratteristiche dell’attività economica in oggetto senza ricorrere ad altri mezzi di produzione
significativi né ad altre parti dell’impresa, il che dev’essere verificato dal giudice del rinvio.
La sentenza Robins e a. (sentenza 25 gennaio 2007, causa C‑278/05, Racc. I‑1053), da parte
sua, ha chiarito varie problematiche relative alla tutela dei lavoratori subordinati in caso di
insolvenza del datore di lavoro, sollevate da un giudice del Regno Unito di Gran Bretagna
e Irlanda del Nord in un rinvio pregiudiziale. Tenuto conto dell’ampio potere discrezionale
riconosciuto agli Stati membri in materia, è stato così stabilito, con riferimento all’art. 8
della direttiva del Consiglio 20 ottobre 1980, 80/987/CEE (44), che, in caso di insolvenza del
datore di lavoro e di insufficienza delle risorse dei regimi complementari di previdenza,
professionali o interprofessionali, il finanziamento dei diritti alle prestazioni di vecchiaia
maturati non deve essere obbligatoriamente assicurato dagli Stati membri medesimi,
né deve essere integrale. Inoltre, la Corte non ha mancato di ricordare che, in caso di
attuazione non corretta di una disposizione comunitaria di tal genere, la responsabilità
dello Stato membro interessato è subordinata alla constatazione di una violazione grave e
manifesta, da parte di questo, dei limiti che si impongono al suo potere discrezionale.
Ambiente
Nella causa Commissione/Finlandia (sentenza 14 giugno 2007, causa C‑342/05), la Corte è
stata investita della questione se, come sostenuto dalla Commissione, la Repubblica di
Finlandia sia venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza della direttiva del
Consiglio 21 maggio 1992, 92/43/CEE, relativa alla conservazione degli habitat naturali e
seminaturali e della flora e della fauna selvatiche (45), autorizzando la caccia al lupo. Infatti,
ai sensi dell’art. 12, n. 1, e dell’allegato IV, punto a), di detta direttiva, i lupi fanno parte delle
specie animali che necessitano di una rigida tutela. Tuttavia, l’art. 16 di questa stessa
direttiva prevede un regime di eccezione a tali divieti. In forza delle disposizioni nazionali
di trasposizione dello stesso, le autorità finlandesi hanno attribuito, ogni anno, a titolo
derogatorio, licenze di caccia al lupo. La Corte ha in primo luogo ricordato che, secondo
una costante giurisprudenza, anche se la normativa nazionale vigente è, di per sé,
compatibile con il diritto comunitario, un inadempimento ai sensi dell’art. 226 CE può
derivare dall’esistenza di una prassi amministrativa in contrasto con tale diritto, purché
(43)
Direttiva del Consiglio 12 marzo 2001, 2001/23/CE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli
Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di
stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti (GU L 82, pag. 16).
(44)
Direttiva del Consiglio 20 ottobre 1980, 80/987/CEE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli
Stati membri relative alla tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro
(GU L 283, pag. 23).
(45)
GU L 206, pag. 7.
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essa presenti un certo grado di costanza e di generalità. La Corte ha poi constatato che
l’art. 16 di detta direttiva, in quanto prevede una deroga, deve essere interpretato in senso
restrittivo e deve far gravare l’onere di provare la sussistenza delle condizioni richieste,
per ciascuna deroga, sull’autorità che decide in merito. In tal caso, gli Stati membri sono
tenuti a garantire che qualsiasi intervento riguardante le specie protette sia autorizzato
solo in base a decisioni contenenti una motivazione precisa e adeguata riferentesi ai
motivi, alle condizioni e alle prescrizioni di cui a questo articolo. Orbene, la conservazione
soddisfacente delle popolazioni delle specie interessate nella loro area di ripartizione
naturale costituisce un presupposto necessario per la concessione delle deroghe previste.
Il rilascio di tali deroghe è eccezionalmente possibile solo quando risulti debitamente
accertato che esse non sono tali da peggiorare lo stato di conservazione non soddisfacente
di dette popolazioni o da impedire il riassestamento, in condizioni di conservazione
soddisfacente, di quest’ultime, obiettivo di cui all’art. 16 della stessa direttiva. Infatti, non
si può escludere che l’abbattimento di un numero limitato di lupi, anche se taluni di essi
possono cagionare danni rilevanti, abbia un’incidenza rispetto a questo obiettivo. La Corte
ne ha concluso che uno Stato membro che autorizza la caccia al lupo in via preventiva,
senza che sia accertata la sua idoneità a prevenire gravi danni, viene meno agli obblighi ad
esso incombenti in forza della direttiva 92/43.
Cooperazione giudiziaria in materia civile
Nel settore della cooperazione in materia civile e giudiziaria, ci si soffermerà innanzi tutto
sulla sentenza pronunciata nella causa C (sentenza 27 novembre 2007, causa C‑435/06),
che interpreta per la prima volta le disposizioni del regolamento n. 2201/2003 relativo alla
competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e
in materia di responsabilità genitoriale, che abroga il regolamento n. 1347/2000 (46). La
Corte ha statuito che questo regolamento trova applicazione ad una decisione unica che
dispone la presa a carico immediata e la collocazione di un minore al di fuori della sua
famiglia d’origine, in una famiglia affidataria, qualora tale decisione sia stata adottata
nell’ambito delle norme di diritto pubblico relative alla protezione dei minori. Una decisione
di tal genere rientra nell’ambito di applicazione del regolamento perché è relativa
alla «responsabilità genitoriale» e rientra nella nozione di «materie civili», posto che
quest’ultima nozione deve essere oggetto di un’interpretazione autonoma e può
quindi comprendere misure che, dal punto di vista del diritto nazionale, rientrano nel
diritto pubblico. Inoltre, la Corte ha stabilito che una normativa nazionale armonizzata,
relativa al riconoscimento e all’esecuzione di decisioni amministrative di presa a carico e di
collocazione di persone, adottata nell’ambito della cooperazione nordica, non può essere
applicata a una decisione di presa a carico di un minore che rientri nell’ambito di
applicazione del regolamento n. 2201/2003. Infatti, conformemente al suo articolo 59,
n. 1, il regolamento n. 2201/2003 sostituisce, per gli Stati membri, le convenzioni che essi
hanno stipulato tra loro e che riguardano materie disciplinate dal regolamento stesso. La
cooperazione tra gli Stati nordici non figura tra le eccezioni tassativamente elencate in tale
(46)
Regolamento (CE) del Consiglio 27 novembre 2003, n. 2201, relativo alla competenza, al riconoscimento e
all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, che abroga
il regolamento (CE) n. 1347/2000, come modificato dal regolamento del Consiglio 2 dicembre 2004, n. 2116
(GU L 367, pag. 1).
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regolamento. La Corte ha anche precisato che questa interpretazione non è infirmata dalla
dichiarazione comune sulla cooperazione nordica allegata all’atto di adesione della
Repubblica d’Austria, della Repubblica di Finlandia e del Regno di Svezia agli adattamenti
dei trattati sui quali si fonda l’Unione europea (47). Infatti, ai sensi della suddetta
dichiarazione, gli Stati aderenti alla cooperazione nordica membri dell’Unione si sono
impegnati a proseguire tale cooperazione in conformità al diritto comunitario. Tale
cooperazione deve perciò rispettare i principi dell’ordinamento giuridico comunitario.
Merita poi di essere segnalata la causa Color Drack (sentenza 3 maggio 2007, causa
C‑386/05), in cui la Corte è stata chiamata ad interpretare l’art. 5, punto 1, lett. b), del
regolamento n. 44/2001, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e
l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale. Secondo tale disposizione,
una persona può essere convenuta, in materia contrattuale, dinanzi al giudice del luogo in
cui l’obbligazione dedotta in giudizio è stata o deve essere eseguita, precisandosi che, nel
caso della compravendita di beni, tale luogo, salvo diverso accordo, è il luogo di uno Stato
membro in cui i beni sono stati o avrebbero dovuto essere consegnati in base al contratto.
La Corte ha precisato che tale disposizione è applicabile in caso di pluralità di luoghi di
consegna in un unico Stato membro e che, in ipotesi del genere, il giudice competente a
conoscere di tutte le domande fondate sul contratto di compravendita di beni è quello nel
cui circondario si trova il luogo della consegna principale, la quale dovrà essere determinata
in ragione di criteri economici. In mancanza di elementi decisivi per stabilire il luogo della
consegna principale, l’attore può citare il convenuto dinanzi al giudice del luogo di
consegna di sua scelta.
Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale e lotta contro il terrorismo
Nella sentenza 3 maggio 2007, causa C‑303/05, Advocaten voor de Wereld, la Corte non ha
riscontrato alcun elemento tale da incidere sulla validità della decisione quadro 2002/584,
relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri (48). Tale
decisione quadro non mira all’armonizzazione del diritto penale sostanziale degli Stati
membri: essa prevede il ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari degli
Stati membri relative alla cooperazione giudiziaria in materia penale e ha ad oggetto
l’instaurazione di un sistema semplificato di consegna, tra autorità giudiziarie, di persone
condannate o sospettate, al fine dell’esecuzione di sentenze o per sottoporle all’azione
penale. Essa non è stata adottata in violazione dell’art. 34, n. 2, UE, il quale elenca e
definisce, in termini generali, i diversi tipi di strumenti giuridici di cui ci si può avvalere per
realizzare gli obiettivi dell’Unione enunciati al titolo VI del trattato sull’Unione europea,
e che non può essere interpretato nel senso di escludere che il ravvicinamento delle
disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri mediante l’adozione di una
decisione quadro possa riguardare settori diversi da quelli menzionati all’art. 31, lett. e), UE e,
in particolare, la materia del mandato d’arresto europeo. L’art. 34, n. 2, UE non stabilisce
(47)
Dichiarazione comune n. 28 sulla cooperazione nordica, allegata all’atto relativo alle condizioni di adesione
della Repubblica d’Austria, della Repubblica di Finlandia e del Regno di Svezia e agli adattamenti dei trattati
sui quali si fonda l’Unione europea(GU 1994, C 241, pag. 21, e GU 1995, L 1, pag. 1).
(48)
Decisione quadro del Consiglio 13 giugno 2002, 2002/584/GAI (GU L 190, pag. 1).
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neanche un ordine di priorità tra i diversi strumenti elencati. È vero che il mandato d’arresto
europeo avrebbe potuto essere disciplinato anche con una convenzione; tuttavia, rientra
nella discrezionalità del Consiglio la possibilità di privilegiare lo strumento giuridico della
decisione quadro quando, come in questa fattispecie, siano presenti le condizioni per
l’adozione di tale atto. Tale conclusione non è inficiata dalla circostanza che la decisione
quadro sostituisce, a partire dal 1o gennaio 2004, nelle sole relazioni tra gli Stati membri, le
corrispondenti disposizioni delle precedenti convenzioni relative all’estradizione. Qualsiasi
altra interpretazione che non trovi sostegno né nell’art. 34, n. 2, UE, né in altre disposizioni
del trattato sull’Unione europea rischierebbe di privare dell’aspetto essenziale del suo effetto
utile la facoltà riconosciuta al Consiglio di adottare decisioni quadro in settori precedentemente
disciplinati da convenzioni internazionali. Peraltro, la soppressione, ad opera della decisione
quadro, del controllo della doppia incriminazione per taluni reati è conforme al principio di
legalità dei reati e delle pene, nonché al principio di uguaglianza e di parità di trattamento.
Nella causa Dell’Orto (sentenza 28 giugno 2007, causa C‑467/05), la Corte ha avuto modo
di pronunciarsi in merito alla nozione di vittima ai sensi della decisione quadro 2001/220,
relativa alla posizione della vittima nel procedimento penale (49). Essa ha statuito che,
nell’ambito di un procedimento penale e, più specificamente, nell’ambito di un
procedimento di esecuzione successivo ad una sentenza definitiva di condanna, la nozione
di vittima ai sensi della decisione quadro non include le persone giuridiche che hanno
subito un pregiudizio causato direttamente da atti o omissioni che costituiscono una
violazione del diritto penale di uno Stato membro, poiché lo scopo del legislatore è
quello di prendere in considerazione unicamente le persone fisiche vittime di un pregiudizio
causato da una violazione del diritto penale. Tale interpretazione, a parere della Corte, non
può essere contestata per il fatto che essa non concorda con la disposizione della direttiva
2004/80 (50), relativa all’indennizzo delle vittime di reato, poiché, anche supponendo che
le disposizioni di una direttiva adottata sul fondamento del trattato CE possano in qualche
modo incidere sull’interpretazione delle disposizioni di una decisione quadro fondata
sul trattato sull’Unione europea e che la nozione di vittima ai sensi di tale direttiva
possa essere interpretata nel senso che essa ricomprende anche le persone giuridiche, la
decisione quadro e detta direttiva disciplinano materie diverse e non si trovano comunque
in un rapporto tale da imporre un’interpretazione uniforme della nozione di cui trattasi.
Varie sentenze della Corte sono ascrivibili al tema della lotta contro il terrorismo.
Nella causa PKK e KNK/Consiglio (sentenza 18 gennaio 2007, causa C‑229/05 P, Racc.
pag. I‑439), la Corte ha insistito in particolare sulle esigenze correlate al diritto dei sin­
goli a una tutela giurisdizionale effettiva, con particolare riferimento al regolamento
n. 2580/2001, relativo a misure restrittive specifiche contro determinate persone e entità
destinate a combattere il terrorismo.
Nell’ambito dell’attuazione della risoluzione n. 1373 (2001) del Consiglio di sicurezza delle
Nazioni Unite, il Consiglio dell’Unione europea, nel 2002, ha deciso di iscrivere il Partito dei
lavoratori del Kurdistan (PKK) in un elenco di gruppi terroristici, con conseguente
(49)
Decisione quadro del Consiglio 15 marzo 2001, 2001/220/GAI (GU L 82, pag. 1).
(50)
Direttiva del Consiglio 29 aprile 2004, 2004/80/CE (GU L 261, pag. 15).
50
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congelamento dei suoi capitali. Avverso tale decisione è stato proposto un ricorso, da
parte di un primo ricorrente, per conto del PKK e, da parte di un secondo ricorrente, per
conto del Congresso nazionale del Kurdistan (KNK). Poiché il Tribunale aveva dichiarato
irricevibile tale ricorso, i due ricorrenti hanno proposto impugnazione dinanzi alla Corte.
Quest’ultima ha deciso in particolare che, con riferimento al regolamento citato, l’effet­
tività della protezione giurisdizionale è tanto più importante dal momento che le
misure restrittive previste da tale regolamento comportano conseguenze gravi. Non
soltanto a una persona, un gruppo o un’entità cui tale regolamento si applica è precluso
effettuare tutti i tipi di operazioni e servizi finanziari, ma la loro reputazione e azione
politica sono danneggiate dal fatto che essi vengono qualificati come terroristi.
Ai sensi dell’art. 2, n. 3, del regolamento n. 2580/2001 (51), in combinato disposto con
l’art. 1, nn. 4-6, della posizione comune 2001/931 (52), una persona, un gruppo o
un’entità possono essere inclusi nell’elenco delle persone, gruppi ed entità controverso
a cui si applica il detto regolamento solo in presenza di taluni elementi probanti, e con
riserva dell’identificazione precisa delle persone, dei gruppi e delle entità interessate. È
inoltre precisato che il nome di una persona, di un gruppo o di un’entità non può essere
mantenuto in tale elenco senza un riesame periodico della sua situazione da parte del
Consiglio. Tutti questi elementi devono essere controllabili da parte di un giudice.
La Corte ne ha dedotto che se il legislatore comunitario ritiene che un’entità abbia un’esi­
stenza sufficiente per essere oggetto delle misure restrittive previste dal regolamento
n. 2580/2001, la coerenza e la giustizia impongono di riconoscere che detta entità conti­
nui a godere di un’esistenza sufficiente per contestare tale provvedimento. Ogni altra
conclusione avrebbe la conseguenza che un’organizzazione potrebbe essere inclusa
nell’elenco delle organizzazioni terroristiche senza poter proporre un ricorso avverso tale
inclusione.
Conseguentemente, la Corte ha annullato l’ordinanza del Tribunale di primo grado nella
parte in cui ha respinto il ricorso del ricorrente per conto del PKK.
Nelle cause Gestoras Pro Amnistía e a./Consiglio, nonché Segi e a./Consiglio (sentenze
27 febbraio 2007, causa C‑354/04 P, Racc. pag. I‑1579 e C‑355/04 P, Racc. pag. I‑1657),
la Corte ha respinto i ricorsi di due organizzazioni che chiedevano un risarcimento a seguito
della loro iscrizione sull’elenco di persone, gruppi ed entità coinvolti in atti terroristici,
allegato a una posizione comune del Consiglio (53).
La Corte ha innanzitutto rilevato che, nell’ambito del titolo VI del trattato sull’Unione
europea relativo alla cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale, il legislatore
comunitario non le ha attribuito alcuna competenza a conoscere dei ricorsi per risarcimento.
(51)
Regolamento (CE) del Consiglio 27 dicembre 2001, n. 2580/2001, relativo a misure restrittive specifiche,
contro determinate persone e entità, destinate a combattere il terrorismo (GU L 344, pag. 70).
(52)
Posizione comune del Consiglio 27 dicembre 2001, 2001/931/PESC relativa all’applicazione di misure
specifiche per la lotta al terrorismo (GU L 344, pag. 93).
(53)
Posizione comune del Consiglio 2 maggio 2002, 2002/340/PESC, che aggiorna la posizione comune
2001/931/PESC relativa all’applicazione di misure specifiche per la lotta al terrorismo (GU L 116, pag. 75).
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Tuttavia, ha proseguito la Corte, i ricorrenti che intendono contestare in sede giudiziale la
legittimità di una posizione comune non sono privi di qualsivoglia tutela giurisdizionale.
Infatti, non prevedendo che i giudici nazionali possano sottoporre alla Corte una questione
pregiudiziale vertente su una posizione comune, ma solo una questione relativa alle
decisioni o alle decisioni quadro, quest’ultimo identifica, quali atti idonei ad essere
oggetto di un siffatto rinvio pregiudiziale, tutte le disposizioni adottate dal Consiglio
e destinate a produrre un effetto giuridico nei confronti dei terzi. Posto che il proce­dimento
pregiudiziale è diretto a garantire il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione
del trattato, la possibilità di adire la Corte in via pregiudiziale deve pertanto essere concessa
riguardo a tutte le disposizioni adottate dal Consiglio dirette a produrre effetti giuridici nei
confronti dei terzi, a prescindere dalla loro natura o dalla loro forma.
Di conseguenza, un giudice nazionale cui è stata sottoposta una controversia che, in via
incidentale, sollevi la questione della validità o dell’interpretazione di una posizione comune
adottata nell’ambito del titolo VI del trattato sull’Unione europea e che nutre un fondato
dubbio che tale posizione comune produca in realtà effetti giuridici nei confronti di terzi,
potrebbe chiedere alla Corte di pronunciarsi in via pregiudiziale. Spetterebbe quindi alla
Corte dichiarare, se del caso, che la posizione comune è diretta a produrre effetti giuridici nei
confronti dei terzi, restituirle la sua vera qualificazione e pronunciarsi in via pregiudiziale.
Infine, ha constatato la Corte, spetta agli organi giurisdizionali nazionali interpretare e
applicare le norme procedurali nazionali che disciplinano l’esercizio del diritto di azione in
maniera da consentire alle persone fisiche e giuridiche di contestare in sede giudiziale la
legittimità di ogni decisione o di qualsiasi altro provvedimento nazionale relativo
all’elaborazione o all’applicazione nei loro confronti di un atto dell’Unione europea e di
chiedere il risarcimento del danno eventualmente subito.
Pertanto, la Corte ha concluso che le ricorrenti non sono state private di una tutela
giurisdizionale effettiva e che le ordinanze del Tribunale non hanno arrecato pregiudizio al
loro diritto ad una siffatta tutela.
Nella causa Möllendorf e Möllendorf-Niehuus (sentenza 11 ottobre 2007, causa C‑117/06),
la Corte ha deciso, in sostanza, che una vendita immobiliare non deve essere eseguita
se il diritto comunitario ha nel frattempo imposto il congelamento delle risorse finanziarie
dell’acquirente.
Investita di un ricorso avverso il diniego del Grundbuchamt (amministrazione responsabile
della tenuta del registro fondiario) di trascrivere definitivamente un trasferimento di
proprietà, condizione necessaria per l’acquisto della proprietà di un bene immobile in diritto
tedesco, un giudice tedesco ha chiesto alla Corte se le disposizioni del regolamento
n. 881/2002, che impone specifiche misure restrittive nei confronti di determinate per­
sone ed entità associate a Osama bin Laden, alla rete Al-Qaeda e ai Talibani (54) vietino la
(54)
Regolamento(CE) del Consiglio 27 maggio 2002, n. 881, che impone specifiche misure restrittive nei
confronti di determinate persone ed entità associate a Osama bin Laden, alla rete Al-Qaeda e ai Talibani e
abroga il regolamento (CE) n. 467/2001 che vieta l’esportazione di talune merci e servizi in Afghanistan,
inasprisce il divieto dei voli e estende il congelamento dei capitali e delle altre risorse finanziarie nei confronti
dei Talibani dell’Afghanistan (GU L 139, pag. 9), come modificato dal regolamento (CE) del Consiglio
27 marzo 2003, n. 561(GU L 82, pag. 1).
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trascrizione del trasferimento della proprietà ad un acquirente che, successivamente alla
conclusione del contratto di compravendita, è stato iscritto nell’elenco delle persone
associate a Osama bin Laden, alla rete Al‑Qaida e ai Talibani, allegato al regolamento in
parola.
La Corte ha risposto affermativamente, constatando che l’art. 2, n. 3, del regolamento
n. 881/2002 deve essere interpretato nel senso che, in una situazione in cui tanto il contratto
di compravendita di un bene immobile quanto l’accordo sul trasferimento della proprietà
di tale bene siano stati conclusi prima della data di iscrizione dell’acquirente nell’elenco di
cui all’allegato I di detto regolamento e in cui il prezzo di vendita sia stato del pari pagato
prima di tale data, la detta disposizione vieta la trascrizione definitiva, in esecuzione del
contratto summenzionato, del trasferimento di proprietà nel registro fondiario
successivamente a tale data.
La Corte ha infatti deciso che, per un verso, tale disposizione si applica ad ogni caso in cui
sia messa a disposizione una risorsa economica, e dunque anche ad un atto che consegue
all’esecuzione di un contratto sinallagmatico, per il quale il consenso è stato prestato in
cambio del pagamento di una contropartita economica. Per altro verso, l’art. 9 di questo
stesso regolamento va interpretato nel senso che le misure imposte da quest’ultimo, tra
cui il congelamento delle risorse economiche, vietano altresì il compimento di atti esecutivi
di contratti conclusi anteriormente all’entrata in vigore di detto regolamento.
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