questioni di metodologia clinica - Dipartimento di Scienze Politiche

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questioni di metodologia clinica - Dipartimento di Scienze Politiche
Centro di metodologia delle scienze sociali
QUESTIONI DI METODOLOGIA CLINICA
Domande a Vito Cagli
Dario Antiseri
Working Papers
n. 106, 2007
© 2007, Pubblicazioni a cura del Centro di metodologia delle scienze sociali, LUISS Guido Carli, Roma – Viale Romania, 32 00197 Roma - Tel. 06/85225.702-762 - Fax 06/85225.503 - E-mail: [email protected]
Prefazione
Fu Augusto Murri a sostenere che «gli ingegni più acuti han sempre riconosciuto che la
discussione sul metodo è la più essenziale e la più profonda». E ai nostri giorni la discussione
sul metodo, in campo medico, essenziale come sempre, si è davvero acutizzata. Acutizzata, e
non solo a motivo delle questioni connesse a problemi di bioetica e alle promesse e ai progetti e
alle minacce dell’ingegneria genetica, ma anche, per esempio, dall’assedio al quale è sottoposta
la medicina “occidentale” da parte delle medicine “eretiche”. Forse non è più vero quello che
diceva Goethe, e cioè che «nulla è più funesto dell’ignoranza attiva»? Ma poi: la psicanalisi è
scientifica, cioè fattualmente controllabile, ovvero aveva ragione Karl Kraus a dire che «la
psicanalisi è quella malattia di cui ritiene di essere la terapia»? In che senso esistono le
“malattie”: la malattia è un’entità a se stante ovvero è un puro nome dietro al quale si nasconde
l’unica cosa vera, cioè il malato?; hanno, insomma, ragione i sostenitori dell’ipotesi “realistica”
o quanti hanno abbracciato e abbracciano l’ipotesi “nominalistica”? e una volta risolto, per
quanto possibile, questo problema, risulterà davvero facile stabilire dove finisce la “normalità” e
dove comincia la malattia? E quale è la natura del procedimento diagnostico: le diagnosi sono
esiti di argomentazioni induttive ovvero il clinico, anche se non lo sa e non voglia ammetterlo,
usa per necessità logiche ed epistemologiche, il metodo ipotetico-deduttivo? L’“invasione
tecnologica” non ha prodotto e non produce, in campo clinico, delle autentiche “rotture” con
decisivi influssi sulla “metamorfosi” della diagnosi? E perché mai nelle Facoltà di Medicina non
circola quello che Murri considerava il Manuale più importante, vale a dire il Manuale degli
errori? L’“occhio clinico” è frutto di una dissennata mitologia che, per dirla con Claude
Bernard, «va condannata e bandita, in nome della scienza e dell’umanità», ovvero al fondo di
tale mitologia è in qualche modo rinvenibile, per esempio tramite l’idea di “conoscenza tacita”
proposta da M. Polanyi, un qualche difendibile tratto teorico? La diagnosi è una spiegazione
storica, è un’indagine sulle cause degli stati morbosi, ma la struttura logica e i requisiti
epistemologici del modello nomologico-deduttivo riescono o no a render conto della varietà
delle diagnosi, ovvero, come sostenuto da alcuni, il “modello Popper-Hempel” non si applica a
certi tipi di spiegazione medica? Di fronte ai successi e agli utili vantaggi della Evidence-BasedMedicine, i medici sono anche consapevoli del fatto che, come diceva G. E. Moore, nulla è
meno evidente del concetto di “evidenza” e che i “fatti” nella clinica, come in ogni altra scienza,
sono “artefatti” che vengono fatti, rifatti e magari cancellati tramite costruzioni e de-costruzioni
teoriche? Il medico è un interprete: lo è stato ieri e lo è oggi – le sue diagnosi sono
interpretazioni di “segni” le quali possono venir confermate o falsificate dai dati osservativi
disponibili. Ma questa antica e venerabile pratica – la semeiotica – non dovrebbe render proprio
il medico un difensore dell’unicità del metodo scientifico? In altri termini, l’Erklären e il
Verstehen denotano due diversi metodi o descrivono una medesima procedura? Il fisico spiega
casualmente un fenomeno. E cosa fa uno storico allorché comprende l’azione di un individuo se
non descriverla e indagarne le cause? E un medico che interpreta “sogni”, “segni” e “sintomi”
non si affida, appunto, a delle descrizioni di “fatti” di cui va alla ricerca delle cause attraverso la
proposta di diagnosi? Diceva Albert Einstein che «nel campo di coloro che cercano la verità non
esiste alcuna autorità umana; e chiunque tenti di fare il magistrato viene travolto dalle risate
degli dei» - una preziosa considerazione che spinge a porre la seguente domanda: nelle Facoltà
di Medicina i nostri giovani vengono oggi educati in una atmosfera “falsificazionista” o
“verificazionista” e cioè alla mente critica o all’ossequio del dogma? E perché, allora, accanto al
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potenziamento di Cattedre di Storia della medicina, non sono stati introdotti e non si
introducono insegnamenti più che necessari quali la Logica e la Filosofia della scienza?
Non è da oggi che Vito Cagli affronta, con rara competenza e perspicacia, problemi di
epistemologia e di filosofia emergenti dalle scienze biomediche – come testimoniano altre sue
opere quali: Interpretazione clinica degli esami biochimici (1976²); La visita medica (1991);
Elogio del metodo clinico. Mutamenti e problemi della “medicina al letto del malato” (1997);
L’equivoco psicosomatico. Causalità fisica e causalità psichica nella genesi delle malattie
(2002); Malattie come racconti. La medicina, i medici e le medicine nelle descrizioni di
romanzieri e drammaturghi (2005). E recente è un altro suo lavoro La crisi della diagnosi. Cosa
è mutato nel concetto e nelle procedure della diagnosi medica (edito da Armando) – lavoro nel
quale l’Autore riprende problemi già da lui discussi e ne propone altri – approfondisce i primi,
propone soluzioni per i secondi e nell’uno come nell’altro caso fa emergere non trascurabili
interrogativi. Ed è così, allora, che mi sono proposto, con le pagine che seguono, di tentare di
rispondere ad interrogativi che, in maniera esplicita o implicitamente, scaturiscono dalle sue
considerazioni, cercando, al medesimo tempo, di porgliene altri, da parte mia. Tutto ciò, nella
consapevolezza, come ha scritto Edmund Pellegrino che «le potenzialità della medicina
moderna, i suoi considerevoli costi, le sfide etiche che essa impone, e l’influsso che esercita
sulla società e sulla cultura ci spingono a fronteggiare molte e diverse questioni filosofiche. Ed è
per questo che la filosofia della medicina è divenuta un campo di indagine ampiamente
riconosciuto e in espansione».
Roma
LUISS Guido Carli
Ottobre 2007
Dario Antiseri
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1. Un primo problema filosofico: l’idea di malattia tra “realisti” e “nominalisti”
La crisi della diagnosi – argomento del più recente lavoro di Vito Cagli – richiede, ad
avviso dell’Autore, un preventivo chiarimento di una questione di fondo: 1) che cosa viene
diagnosticato; 2) quali sono i caratteri definitori della diagnosi. Ora va da sé che quel che i
medici diagnosticano sono le malattie. Ma: che cos’è una malattia?; a che cosa ci riferiamo – si
chiede Cagli – allorché parliamo di “malattia”? (p. 11). Ebbene, secondo una ipotesi realistica,
«la malattia esisterebbe in quanto “ente”, in modo analogo a quello di una specie vivente: una
sorta di “parassita”, secondo l’opinione di Paracelso (1493-1541), che invade dall’esterno
l’organismo» (Ibidem). A siffatta concezione della malattia si sono opposti e si oppongono i
sostenitori dell’ipotesi nominalistica, stando alla quale la malattia sarebbe «qualcosa di per sé
inesistente, un puro nome dietro cui si nasconderebbe l’unica cosa vera e cioè il malato»
(Ibidem).
E’ questo il primo problema di pura natura filosofica che Cagli affronta nel suo libro: si
tratta della vexata quaestio del rapporto tra nomina e res, in breve del problema degli universali
– un problema antico e venerabile che si ripropone, per esempio, nell’epistemologia delle
scienze naturali, in filosofia della matematica, in teoria della storiografia come in medicina. Ed
ecco, tanto per semplificare, uno storico, Gaetano Salvemini (1873-1957) che viene a dirci come
il medico e lo storico si trovino davanti allo stesso problema metodologico - problema che egli
risolve nella scia della tradizione nominalistica. Nella Prefazione a La Rivoluzione francese
1788-1792 afferma che l’uso del termine “Rivoluzione francese” «ci consente di richiamare alla
memoria l’immagine complessiva degli avvenimenti, senza dovere volta per volta ripetere
l’enumerazione particolareggiata». Il guaio, però, sta nel fatto – egli precisa subito – che «l’uso
dei nomi personali e concreti ci ha così assuefatti a vedere dietro ad ogni nome un’entità reale,
che noi finiamo molto spesso col personificare anche i nomi collettivi e astratti. E allo stesso
modo che pensiamo la malattia come un’entità concreta esistente al di fuori e al di sopra
dell’ammalato, così trattiamo la Rivoluzione come qualcosa di esistente al di fuori e al di sopra
degli uomini che vissero nel periodo rivoluzionario» (G. SALVEMINI, La Rivoluzione francese
1788-1792, a cura di F. Venturi, Milano, 1989, p. 4).
Dunque: un primo problema filosofico: la malattia è un’entità o un puro nome dietro al
quale si nasconde l’unica cosa vera, e cioè il malato? Il problema, tuttavia, non è, ad avviso di
Cagli, soltanto filosofico, ma è altresì ricco di non trascurabili implicazioni pratiche. E questo
nel senso che «nel primo caso (ipotesi “essenzialistica”) la patologia deve precedere la clinica e
quest’ultima viene dedotta dalla prima, perché ci si avvicina al singolo fenomeno (nel nostro
caso il malato) con il bagaglio che la teoria ci fornisce. Nel secondo caso, (ipotesi
“nominalistica”) verrebbe meno la possibilità di teorizzare, perché se solo i malati esistono
ognuno fa storia a sé» (Op. cit., pp. 11-12).
2. Che cosa è che rende «unico» il «caso clinico»
Ci troviamo così in presenza di un altro pressante problema filosofico, affrontato
indubbiamente da medici attenti al loro tipo di sapere e alle caratteristiche della loro attività, ma
ancor più discusso in teoria della storiografia: lo storico ha a che fare con eventi o fatti unici ed
irripetibili e, dunque, la storia non potrebbe essere scienza come la fisica che tratterebbe oggetti
o fatti tipici e ripetibili. È questa una obiezione che, ripetutamente, è stata avanzata contro la
teoria unificata del metodo e, quindi, a favore della classica distinzione tra scienze fisiconaturali (il cui compito dovrebbe consistere nell’Erklären, cioè nella spiegazione causale) e
scienze storico-sociali o scienze umane (il cui compito dovrebbe consistere nel Verstehen, cioè
nella comprensione del significato di un evento storico o delle azioni umane). Ma qui vorrei
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porre a Vito Cagli alcune inevitabili domande: regge la distinzione tra Erklären e Verstehen?
Comprendere un evento o un’azione non equivale a descriverli, indagarne le cause e vederne le
conseguenze – esattamente come nel caso di eventi e fatti fisici? Certo, è necessario che il
clinico dica ai suoi allievi che ogni malato è un caso unico – ma forse ciò proibisce che il caso
unico sfugga alla teoria, che non possa venir spiegato tramite teorie? Anche il Big-Bang è un
caso unico, come è un evento unico il corrugamento ercinico: sono forse casi ed eventi di fronte
ai quali verrebbe meno la possibilità di teorizzare? Ciò che rende unico un fatto storico come un
caso clinico è l’intreccio, più o meno complesso, di aspetti tipici – indagabili con teorie
generali. Senza teorie generali non è possibile, in qualsiasi ambito di ricerca, né la spiegazione
né la previsione. Un incidente stradale è sempre un fatto unico, ma è, appunto, unico
nell’intreccio di aspetti tipici: il guidatore era ubriaco; la strada era viscida e la curva troppo
stretta; le gomme erano logorate, i freni poco funzionanti e un cane ha attraversato la strada. La
costellazione degli aspetti tipici rende comprensibile un evento tramite un fascio di teorie in
grado di catturare l’eventuale costellazione delle cause dell’evento accaduto. Vale qui, come
altrove, la sentenza di Hans Albert: «nulla vi è di più pratico che una buona teoria».
In ogni caso, la polarità malattia-ente o malattia-nome, prosegue Cagli, non esaurisce le
concezioni relative alla malattia. Egli dapprima richiama l’impostazione evoluzionistica, stando
alla quale «evolutivamente, la malattia è la conseguenza dell’incongruenza tra l’organismo
individuale e qualche aspetto dell’ambiente, interno o esterno; incongruenza che può
manifestarsi attraverso la difficoltà di condurre agevolmente un’esistenza quotidiana, o
comunque una minaccia per la vita, o come una riduzione della capacità riproduttiva, ovvero
che può procurare un handicap residuo» (G. CORBELLINI – G. PRETI, Una “sintesi”
evoluzionistica per la medicina, in «Nuova Civiltà delle Macchine», 2005, 23 (3), pp. 43-52). E
poi pone l’attenzione sull’approccio empirico-razionale di G. Del Vecchio che, dice Cagli,
«offre la possibilità di concepire la malattia come un costrutto mentale, edificato sulla base di
osservazioni scientifiche e cliniche raccolte in epoche diverse e perciò modificate con il
modificarsi di tali osservazioni; in rapporto ai differenti retroterra e ai diversi mezzi di
osservazione» (Op. cit., p. 12. G. DEL VECCHIO, Esistono le malattie?, in «Medic», 1997, 5,
pp. 49-54). Nel primo caso, la concezione evoluzionistica delle malattie offre un quadro teorico
di riferimento, ma non diagnosi e terapia dei singoli stati morbosi – nel secondo caso, che Cagli
considera «una buona soluzione», malattie, diagnosi e terapie sono specifiche teorie risolutive di
problemi (stati morbosi) controllabili e controllate sulla base delle loro conseguenze
osservative.
3. Dalla “sindrome” alla “malattia”
Le malattie, in quanto “entità cliniche”, trovano le loro “pietre costitutive” nei sintomi e
nei segni. I primi, scrive Cagli, «sono le espressioni soggettive di un processo morboso, come,
ad esempio, il dolore o l’astenia e sono legati al giudizio del malato che, in una società
“medicalizzata” come la nostra, considera non di rado sintomo di malattia ciò che in passato
poteva non esserlo» (Op. cit., p. 13). I segni, invece, «sono espressioni obbiettive, come, ad
esempio, il reperto palpatorio di una tumefazione o quello auscultatorio di un soffio e dunque
derivano da un giudizio del medico. Nella medicina moderna ai segni obiettivi si affiancano
quelli strumentali e di laboratorio: mezzi semiologici e non diagnostici […]» (Ibidem). Ebbene,
l’insieme di più sintomi e/o segni – precisa Cagli - «quando non sia riferibile ad una causa nota
e non rientri esattamente nei confini di un quadro nosografico, si designa con il termine di
“sindrome”», mentre «un insieme sufficientemente tipico di segni e sintomi, propri di un quadro
nosografico determinato, se riferibile anche ad una determinata causa, prende invece il nome di
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“malattia”» (Ibidem). Ed ecco, allora, che «la combinazione di segni e sintomi cessa di essere
sindrome e diviene malattia quando rinvia ad una precisa causa e ad uno specifico tipo di
lesione in una data sede» (Ibidem). Talché, «natura e sede del processo morboso sono le
coordinate fondamentali per identificare la malattia o almeno per identificare la maggior parte
delle malattie» (Op. cit., pp. 13-14). La maggior parte, e non tutte – giacché non mancano le
eccezioni, come è il caso – avverte un grande esperto quale egli è – dell’ipertensione arteriosa
essenziale, in cui «né sede né natura sono evidenti» e che si identifica «con un unico segno»
(Op. cit., p. 14). E c’è da riflettere sul fatto che «la categoria “malattia” è cambiata perché i
mezzi con cui andiamo ad indagare le condizioni di salute di un essere umano sono cambiati, e,
in molti casi, la tecnica mette a nostra disposizione mezzi di indagine più sensibili, così che noi
scopriamo la malattia prima che abbia provocato danni anatomici e funzionali» (Ibidem). In tal
modo, si scopre la malattia prima che essa diventi tale: i fattori di rischio altro non sono «se
non il preannuncio di una malattia (di ciò che in questo contesto viene definito come “danno
d’organo” o come “evento”), ma, come ogni preannuncio, avrebbero soltanto un valore
probabilistico. Il fattore di rischio è una sorta di nuvola che fa temere la pioggia che potrebbe
anche non cadere; la pioggia che invece sta già cadendo è la malattia: non più un evento
previsto con un certo grado di probabilità, ma un evento reale già presente davanti a noi»
(Ibidem).
Sin qui, quindi: concezioni filosofiche dell’idea di malattia; il problema filosofico
relativo al caso clinico come caso a sé, al malato come caso a sé; precisazioni concettuali di
“sintomo”, “segno” e “sindrome”; definizione di malattia: «la combinazione di segni e sintomi
cessa di essere sindrome e diviene malattia quando rinvia ad una precisa causa e ad uno
specifico tipo di lezione in una data sede». Il richiamo è classico: De sedibus et causis
morborum, di Giovan Battista Morgagni.
4. Dove finisce la normalità comincia la malattia: ma è sempre facile stabilire il confine tra
le due?
La definizione di “malattia” trascina con sé l’idea di “normalità”: dove finisce la
normalità, comincia la malattia. Sennonché, non è sempre poi così facile stabilire il significato
del termine “normale”. Due sono le accezioni fondamentali di normalità: quella statistica e
quella biologico-clinica. La prima «è un giudizio fondato su convenzioni più o meno accettate:
ad esempio, è soltanto una convenzione definire come “normalità” ciò che rientra nella media ±
2 deviazioni standard» (Op. cit., 15). La seconda accezione, quella biologico-clinica, non è un
giudizio automatico, richiede «una seria riflessione» e comporta – e qui Cagli è d’accordo con
Canguilhen (cfr. di quest’ultimo, Il normale e il patologico, trad. it., Einaudi, 1998) – un
riferimento alla vita concepita come «lo sforzo spontaneo di difesa e di lotta contro tutto ciò che
è di valore positivo». Una domanda al prof. Cagli: se il giudizio di normalità va dato a tutto ciò
che aiuta la vita (o, aggiungiamo, non reca disturbi ad essa), allora l’organismo normale (sano) e
quello malato non ci riportano necessariamente alla concezione evoluzionistica?
Cagli, da esercitato falsificazionista, fa vedere che anche nel caso della seconda
accezione di normalità (quella biologico-clinica) il giudizio può farsi difficile, «perché non sono
pochi i processi “difensivi” (flogosi, immunità, etc.) che possono in taluni casi divenire
meccanismi patogeni» (Op. cit., p. 15). Parallelamente, le difficoltà non svaniscono quando
adoperiamo il termine “patologico” in contrapposizione a “normale”, assegnando a “normale” il
risultato di un esame di laboratorio che, non di rado – sulla base di un computer programmato -,
allarma inutilmente pazienti e pure qualche medico e questo magari per inezie al di sopra o al di
sotto dell’ambito di “normalità” contrassegnato da numeri o asterischi. Pertanto, «meglio
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sarebbe – fa presente Cagli – che, come sta entrando nell’uso, nei referti di laboratorio venissero
sempre indicati non “i valori normali”, ma gli “intervalli di riferimento”» (Op. cit., p. 16). Tutto
ciò per dire che ragionare in termini di normale/patologico molto spesso non aiuta, in quanto
una logica binaria (si/no) lascia sfuggire tutte quelle situazioni raggruppate sulla categoria di
“non-malattia” – quale «condizione somigliante ad una malattia, ma in realtà non patologica»
(Op. cit., p. 16). Per il concetto di non-malattia e, rispettivamente, per una chiarificazione delle
non-malattie, Cagli si richiama a: C. MEADOR, The Art and Science of non-desease, in “New
England Journal of Medicine”, 1965, 272, pp. 92-95; F. D. HART, The importance of nondesease, in “Practitioner”, 1973, 211, pp. 193-196.
L’incertezza dei confini tra malattia e salute spinge, quasi naturalmente, Cagli in
incursioni filosofiche in campi quali il “pensiero debole” (Op. cit., pp. 20-21), l’applicazione del
modello fuzzy alla diagnosi clinica (Op. cit., pp. 21-22), i rapporti tra ermeneutica ed
epistemologia (Op. cit., p. 21), la non equivalenza tra “evidenza” e “verità” (Op. cit., p. 21). E la
conclusione che Cagli trae dalle sue precedenti considerazioni è che «ciò che va comunque
tenuto presente è che la distinzione netta tra normale e patologico è un artefatto, perché queste
due condizioni sfumano spesso l’una nell’altra, il loro confine è mutevole nel tempo, non di
rado è arbitrario e in molti casi difficile da identificare. Sotto questo profilo l’esempio più
evidente è quello che concerne le malattie psichiatriche, e ne sono buon testimone le vicende
delle diverse classificazioni nosografiche succedutesi nel corso degli anni» (Op. cit., p. 23).
Pienamente d’accordo – con l’attenzione puntata, però, sull’idea che quell’artefatto che è la
distinzione tra normale e patologico si avvicini sempre più a quel fatto che è l’uomo malato e a
quel fatto che è l’uomo sano.
Diagnosticare significa diagnosticare una malattia, ma la malattia per essere
riconosciuta in quanto tale e differenziata da altre più o meno simili deve entrare a far parte del
“nosografismo”, vale a dire «di quell’elenco in cui le affezioni morbose sono ordinate,
raggruppate e codificate» (Op. cit., p. 25). E qui Cagli, in un conciso e prezioso excursus
storico, fa vedere come, dopo il tramonto dei “sistemi”, con diversi criteri si siano via via
ordinate le malattie nei loto multiformi e variegati aspetti. Fu Giorgio Balivi (1668-1707), nel
suo De praxi medica ad priscam observandi rationem revocanda a sottolineare, appunto, la
necessità che il medico ridiscendesse da «quelle dotte e ingegnose favole» e si dedicasse «ad
osservare le qualità dei morbi e le virtù dei medicamenti e ad scrutarne le proprietà». Era nata la
nosologia – la quale, in verità, aveva pur avuto predecessori in Linneo (1707-1778) con il suo
Genera morborum (1763), in François Boissier de Sauvages de la Croix (1706-1707), medico a
Montpellier, la cui Nosologia metodica è del 1763. In ogni caso, afferma Cagli sulla scia di M.
D. Grmek (cfr. M.D. GRMEK, Il concetto di malattia,in AA.VV., Storia del pensiero medico
occidentale, a cura di M. D. Grmek, Laterza, Roma-Bari, 1996, vol. 2, p. 279), la nosografia,
intesa in senso moderno, inizia con il medico e statistico William Farr (1807-1883),
responsabile del General Register Office dell’Inghilterra e del Galles, per giungere, anche grazie
all’intervento della WHO, con la classificazione del 1994 articolata in ventidue capitoli che
comprendono 270 “blocchi” con un totale di 11.745 voci – e dove le condizioni morbose
inserite nei diversi capitoli sono classificate secondo l’etiopatogenesi (I, XVII, XIX, XX),
secondo la natura del processo morboso (II), secondo particolari circostanze (XV, XVI),
secondo le modalità con cui sono rilevate (XVIII), mentre due capitoli (XXI, XXII) vengono
riservati ad aspetti particolari. Cagli commenta: «Appare, dunque, con chiarezza l’impossibilità
di una classificazione delle malattie che possa essere ispirata ad un unico criterio. E questo fatto,
assieme alle incertezze suscitate […] dalle “malattie sintomo” e dall’incerto confine tra molte
condizioni morbose e la normalità, ha certamente contribuito a quella crisi della diagnosi di cui
ci stiamo occupando»(Op. cit., pp. 27-28).
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5. Sulla via indicata da G. B. Morgagni
Sin qui Vito Cagli ha esposto le sue considerazioni sull’idea di malattia. La malattia è
oggetto della diagnosi. Ma in che cosa consiste, nei suoi tratti distintivi, la diagnosi? Ebbene,
ancor oggi – fa notare Cagli - i pilastri della diagnosi restano quelli indicati da G. B. Morgagni
nel suo De sedibus et causis morborum per anatomen indagatis (1761), e cioè la sede e la causa
delle malattie. «La sede era per Morgagni, e resta per noi, un elemento fondamentale della
diagnosi. Un numero elevatissimo di malattie portano nel loro nome l’indicazione della sede,
oggi spesso riferita ad un livello microscopico. Si pensi a termini come glomerulofrenite o
leucemia che vanno al di là dell’organo o del tessuto per giungere al piano cellulare, secondo
l’orientamento introdotto da Rudolph Virchow (1821-1902). E la sede, in fondo, persiste ancora
quando ci spostiamo con Archibald Garrod (1858-1936) al concetto di malattia biochimica (per
es., l’aclaptonuria), con Linus Pauling (1901-1994) a quello di malattia molecolare (per es., la
falcemia), prima ancora che fosse possibile individuare quest’ultima a livello cromosomico e
genico» (Op. cit., p. 30). La sede della malattia è, dunque, caratteristica fondamentale della
diagnosi. Eppure, fa notare Cagli, «non mancano le condizioni patologiche in cui il riferimento
alla sede diviene quanto meno problematica», come nel caso dell’ipertensione essenziale o in
casi di disturbi e malattie mentali (Op. cit., pp. 30-33). Insieme a quello della sede, l’altro
connotato fondamentale della malattia è la causa, «il cui riconoscimento è spesso contenuto
nella diagnosi sia in positivo, quando essa è nota (per es., ipertensione arteriosa reno-vascolare),
sia in negativo, quando essa è ignota (per es., ipertensione arteriosa essenziale). Per non parlare
delle malattie da infezioni in cui il riconoscimento dell’agente infettivo è implicito in molte
diagnosi (per es., tifo addominale, tetano, influenza) o addirittura esplicito (per es. polmonite da
legionella, epatite da virus C)» (Op. cit., p. 33). E quando la causa della malattia non è inclusa,
esplicitamente o implicitamente nella diagnosi, sotto forma di etiologia, «può esserlo però – in
termini di patogenesi, con un rinvio, per esempio, a meccanismi legati all’immunità (per es.,
tiroitide autoimmune)» (Op. cit., p. 34).
Siffatte considerazioni fanno ben comprendere come porre la causa (etiologia o
patogenesi) al centro della diagnosi indirizza, nella fase di accertamento, verso determinate
analisi di laboratorio, così come l’indicazione della sede indirizza ricerche di immagine
(Ibidem). E si comprendono, inoltre, le ragioni per cui «gran parte dello sforzo della medicina
moderna è volto alla ricerca di agenti e/o di meccanismi causali» (Ibidem); e la precisazione
diagnostica di tali meccanismi è già anche un’indicazione in senso terapeutico (per es., diabetemellito insulino dipendente)» (Ibidem).
Dunque: sede e causa delle malattie quali caratteristiche fondamentali della diagnosi.
Senza che tuttavia si dimentichino – ammonisce Cagli - «le classiche distinzioni tra cause
necessarie e sufficienti (per esempio, un avvelenamento da funghi), necessarie ma non
sufficienti (per es., la maggior parte delle malattie da infezione), sufficienti ma non necessarie
(si pensi alle differenti cause dell’astenia), e infine non sufficienti e non necessarie (per es., il
legame possibile tra fumo di sigaretta e malattie cardiovascolari)» (Ibidem). Si tratta di
distinzioni le quali «mantengono tutto il loro valore e sono incluse nella diagnosi esplicitamente
o implicitamente» (Ibidem).
6. La metamorfosi della diagnosi dopo l’“invasione tecnologica”
Se poi dalla diagnosi come risultato volgiamo lo sguardo alla diagnosi come processo,
si deve dire che «negli ultimi cento anni la tecnologia, in moto uniformemente accelerato ha
invaso la medicina e ha finito per posporre un rapporto fra medico e malato che sembrerebbe
prescindere da quell’elemento caratterizzante, che per oltre un secolo ne è stato al centro: la
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visita medica» (Op. cit., p. ). Con l’entrata in scena di mezzi e strumenti tecnologici, la
situazione è, insomma, mutata, in quanto non è più il medico che stabilisce la diagnosi al letto
del paziente, poiché «il dato di laboratorio o strumentale finisce talora per divenire esso stesso la
diagnosi. “Ipercolesterolomia”, è un dato di laboratorio ma è anche la diagnosi di un
determinato paziente» (Op. cit., p. 40). Certo, dice Cagli, bisognerebbe pur sempre ricordare che
dovremmo aggiungere specificazioni come “primitiva” o “poligenica”: e «allora il paziente
subentra al plasma e la diagnosi è fatta insieme dall’indagine di laboratorio e dal medico che la
inserisce in quel dato paziente» (Ibidem). Ci sono, però, condizioni morbose – prosegue Cagli –
in cui «la diagnosi è totalmente (o pressoché totalmente) determinata da un’indagine
strumentale» (Op. cit., pp. 40-41). Così, per esempio, l’infarto del miocardio è “nato” alla
clinica soltanto dopo l’introduzione dell’elettrocardiografia (Op. cit., p. 41); le glomerulonefriti
hanno nel loro termine una specificazione che rinvia ad una struttura microscopica: il glomerulo
(Ibidem). E quando si afferma che un determinato paziente è affetto da glomerulonefrite
membrano-proliferativa di tipo I o da glomerulosclerosi focale-segmentale, non si fa altro che
ripetere il referto dell’istopatologo: il referto bioptico finisce per coincidere con la diagnosi
clinica (Op. cit., p. 42). Tutto ciò porta Cagli a concludere che l’invasione tecnologica pone di
fronte ad una “rottura metodologica” che «consegna la diagnosi ad una tecnica e ad un
personaggio diverso dal clinico» (Op. cit., p. 44). Al clinico, tuttavia, sottolinea Cagli, «resta, e
non dovrebbe rinunciarvi né dovrebbe ritenere il fatto come qualcosa di secondario, il compito
di inserire quel determinato reperto nel contesto del malato. In sostanza, se una tecnica può
offrirci la diagnosi della malattia, soltanto il clinico può darci la diagnosi del malato.
E c’è poi il fatto che l’“invasione” tecnologica ha in gran parte, spesso, ormai sostituito
quell’esame obiettivo che parte dall’anamnesi con indagini di routine non orientate su di
un’ipotesi di base, ma uguali per tutti gli ammalati. D’accordo con Cesare Scandellari (C.
SCANDELLARI, Quali esami di primo livello nell’inquadramento clinico del malato
internistico. Due diversi approcci, in «Ann. Ital. Med. Int.», 2005, 20, pp. 177-193), Cagli è
dell’idea che «l’“invasione ” tecnologica dovrebbe essere, in linea di massima, ridimensionata e
che, comunque, sia doveroso assumere una posizione critica di fronte alla richiesta
indiscriminata di esami. A nostro avviso […] il primo approccio dovrebbe rimanere quello
classico, con l’anamnesi e l’esame obiettivo» (Op. cit., p. 45). Ma, qui, a parte il problema dei
costi, in quanto il ricorso alla tecnologia aumenta a dismisura la spesa sanitaria sia direttamente
sia indirettamente, si impone una questione più radicale, e cioè «se i medici di oggi abbiano
ancora il tempo e la capacità per condurre un esame del malato con accuratezza e competenza»
(Ibidem). In fondo, «forse l’aspetto più delicato connesso alla “invasione tecnologica” è la
creazione di una mentalità tecnologica» (Op. cit., p. 46) – mentalità per cui «la prima risposta ad
un problema diagnostico minaccia di diventare, se già non è diventata, una risposta tecnologica»
(Ibidem). Indubbiamente, la mentalità tecnologica «è in certa misura inevitabile» e «non è da
considerare completamente negativa», in quanto la dimensione tecnologica «ci offre
grandissime opportunità per risolvere meglio e più celermente i problemi diagnostici» (Ibidem).
Solo che in essa si annida l’errore di quanti pretendono di «cancellare tutto quanto viene prima
della tecnologia, ritenendo che il colloquio con il proprio paziente e un esame fisico attento e
dettagliato siano inutili riti da archiviare come residui di un modo di operare ormai
definitivamente tramontato» (Ibidem). Né Cagli dimentica l’enorme contributo della genetica
applicata alla diagnosi delle malattie – applicazione che «ci porta nell’ambito di una diagnosi
predittiva e dunque probabilistica, con un tasso di probabilità che a seconda delle diverse
situazioni può essere più o meno elevato e che comunque non ci consente di sapere con certezza
entro quanto tempo la malattia si svilupperà. Di qui la necessità di un uso molto attento e
responsabile delle indagini genetiche» (Op. cit., p. 48).
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7. Quando l’ideale razionalistico “una causa, una malattia, una diagnosi, un farmaco” non
può funzionare
L’“invasione tecnologica” è fattore importante nella metamorfosi delle diagnosi. Ma
questa «è condizionata, oltre che dai mezzi di indagine, anche dal tipo di pazienti in esame e
dalla disponibilità o indisponibilità di efficaci mezzi terapeutici» (Op. cit., p. 51). Il tipo di
paziente sempre più frequente che la medicina ha di fronte, a causa del prolungarsi dell’età
media, è l’anziano, il vecchio. E proprio «il fenomeno della “comorbosità” (comorbidity)
costituisce uno dei problemi che rende più difficile la diagnosi (e non soltanto la diagnosi) negli
anziani e nei vecchi» (Op. cit., p. 52). Per cui «nel vecchio, ma non soltanto nel vecchio, l’ideale
razionalistico di “una causa, una malattia, una diagnosi, un farmaco” non si avvera quasi mai»
(Op. cit., p. 53). Questo fa sì che l’insegnamento della Patologia medica, cioè l’insegnamento
per malattie, è da considerare «una strategia didattica propedeutica a quella della clinica», senza
tuttavia che, attraverso tale insegnamento, ci si aspetti di incontrare malattie singole. Con
efficace metafora Cagli osserva: «La Patologia medica resta pur sempre ortografia della frase.
Conoscere l’ortografia non significa saper scrivere; ma non è possibile “scrivere” senza
conoscere l’ortografia» (Op. cit., p. 54). E se è vero, per usare l’espressione di Baccelli, che «la
diagnosi esatta è la somma necessità della cura», oggi, pur dinanzi agli enormi successi della
terapia, si danno situazioni nelle quali «si assiste nella pratica all’imitazione di una terapia con
una diagnosi generica o soltanto presuntiva» (Op. cit., p. 55). È questo il caso di affezioni osteoarticolari «in cui i cosiddetti antireumatici (FANS e Coxib) vengono largamente adoperati prima
ancora che si sia giunti a diagnosticare con precisione causa e tipo dell’affezione stessa», o
anche il caso di «non pochi processi febbrili trattati con antibiotici in mancanza di una sicura
diagnosi etiologica» (Ibidem). Ebbene, «in tutti questi casi – fa notare Cagli – si giustifica la
rottura metodologica di una terapia che precede la diagnosi, non soltanto con un’urgenza (non di
rado soltanto presunta) o con la necessità di alleviare il dolore, ma anche con l’introduzione di
categorie sincroniche che hanno il compito di mascherare l’infrazione alla regola che vuole la
diagnosi prima della terapia. Nascono così le “sindromi febbrili”, le “sindromi reumatiche”, le
“sindromi dispeptico-dolorose”: si snatura in tal modo il concetto stesso di diagnosi» (Op. cit.,
pp. 55-56). Eppure, per semplice osservanza della verità, come direbbe Croce, Cagli è pronto a
«riconoscere che, pur con i suoi limiti e i suoi rischi, una tale prassi è spesso non priva di
efficacia sul piano pratico. Il dolore “reumatico” scompare, la febbre cessa, il mal di stomaco si
dilegua» (Op. cit., p. 56). Ed è così, allora, che «quando la vittoria è definitiva, resta la riserva
che non sapremo mai come sarebbero andate le cose se non fossimo intervenuti. In alcuni casi
poi il successo è soltanto effimero o manca del tutto e la nostra terapia ha soltanto contribuito a
rendere più tardive o magari più difficili, una diagnosi precisa e una terapia efficace» (Ibidem).
8. Intermezzo: medicina “preventiva”, medicina “previsiva”, medicina “difensiva”
Medicina “preventiva” e medicina “predittiva” e loro differenze: di questo Cagli parla
nelle pagine finali del capitolo terzo del suo libro (pp. 47-50). Alla medicina “difensiva” egli
dedica il capitolo 5, dove – dopo un interessante excursus storico sui “medici sotto accusa” –
afferma che la medicina difensiva è «la risposta della classe medica ai malati divenuti sempre
più rivendicativi, alle società di assicurazione, con riserve ogni giorno crescenti nei confronti
dei rimborsi da erogare, e ai tribunali chiamati con allarmante frequenza a giudicare l’operato
dei medici» (Op. cit., p. 59). E non va sottovalutato – dice Cagli – un fatto non indifferente, e
cioè che «la crescente laicizzazione della società mette in crisi la rassegnazione della volontà
divina e aumenta le pretese nei confronti dei medici e della medicina, chiamando i primi ad
essere infallibili e la seconda ad essere onnipotente» (Ibidem).
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9. Razionale non è il medico che vuole ragione, ma il medico che vuole imparare: dai
propri errori e da quelli altrui
Le “proficue incursioni” che alcuni filosofi, a cominciare da Massimo Baldini, hanno
fatto nel campo della metodologia della clinica va a loro merito, soprattutto quando la
stragrande maggioranza dei medici non ha mostrato e non mostra sensibilità nei confronti della
meta-analisi relativa ai nodi filosofici che inevitabilmente zampillano dalla teoria e dalla pratica
bio-medica. Così non è per Cagli, come non lo è per medici come Cesare Scandellari, Giovanni
Federspil, Paolo Ranieri, Pietro Serra, Mario Timio, Massimo Lopez, Giacomo Delvecchio,
Antonello Malavasi e Fausto Bonora. Come non lo è stato per maestri come Cesare Frugoni,
Giuseppe Giunchi, Mario Austoni ed Enrico Poli. E come non lo fu per Maurizio Bufalini e
Augusto Murri. «La discussione sul metodo è la più essenziale e la più profonda» - diceva
proprio Murri, il cui atteggiamento nei confronti di quelle ipotesi che sono le diagnosi, è di
chiara natura fallibilista. «L’inventiva e la speculazione sono le prime qualità dello spirito
umano, anche per la scienza, ma s’illudono coloro che le credono dissociabili da una grande
penetrazione critica». E ancora: «La nostra ragione è tutt’altro che un infallibile congegno
generatore di luce; è strano, ma siamo proprio noi razionalisti, che più diffidiamo di essa. Lo
disse già da par suo il principe dei razionalisti: la pretesa di non errar mai è un’idea da matti
[…]». «Solo gli sciocchi e i semidei, che si credono invulnerabili, prendono la critica per
avversione, invece la critica non sarà la più alta, ma è certo la più fondamentale dote dello
spirito, perché la più efficace profilassi dell’errore. Possono averla a vile solo coloro che, s’essa
non fosse, passerebbero per geni». La realtà, diceva Murri, è che «ogni giorno si corregge un
errore, ogni giorno si impara a saper meglio quello che possiamo far di bene o quello che siamo
condannati ancora a lasciar avvenire di male, ogni giorno erriamo meno della vigilia e
impariamo a sperare di far meglio lo dimane. Errare, sì. È una parola che fa paura al pubblico.
Errare a nostre spese? Errare a costo della nostra vita? La meraviglia pare giustissima, l’accusa
pure grave! Eppure, o avventurarci al pericolo d’un errore o rinunziare ai benefici del sapere!
Non c’è altra strada per l’uomo. L’uomo che non erra, non c’è». E, allora, ecco qualche
ammonimento di Murri: «Si godano pure i metafisici i loro veri eterni, su cui ancora non si sono
messi d’accordo. Noi preferiamo i nostri errori d’oggi, a noi basta sapere che questi contengono
un po’ di vero degli errori di ieri». Per tutto ciò Murri si chiedeva perché mai nelle Facoltà di
medicina non circolasse quello che lui riteneva il manuale più importante, e cioè il Manuale
degli errori.
È esattamente nell’orizzonte di siffatte considerazioni e con espliciti richiami a Murri
che Cagli prende in esame il problema dell’errore in medicina. «Lo studio dell’errore – egli
scrive – può essere affrontato in modo casistico o in modo sistematico: il primo consiste in
esemplificazioni od elenchi di errori analiticamente studiati come è il caso, ad esempio,
dell’analisi epicritica in base ai dati autoptici degli errori diagnostici compiuti sul paziente in
vita; il secondo prende le mosse da criteri ben definiti come quello di sede (dove ho sbagliato),
di natura (come ho sbagliato), di motivazione (perché ho sbagliato). Insomma, si può sbagliare
per aver trascurato o mal interpretato un dato anamnestico o dell’esame obiettivo, oppure delle
indagini di laboratorio o strumentali; ma anche perché si è ragionato in modo scorretto; o,
infine, per la presenza di elementi di disturbo che hanno interferito con la possibilità di
esaminare correttamente il malato e di avere tempo e modo per riflettere». A questo riguardo
Cagli, richiamandosi al contributo di Giacomo Delvecchio, distingue ancora tra errore del
singolo medico ed errore del “gruppo-pensiero”, cioè agli errori commessi agli appartenenti al
“gruppo”, i quali «inconsapevolmente si autocensurano nella produzione e nell’accogliere
dall’esterno idee innovative rifugiandosi nella sicurezza delle scelte consuetudinarie e
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ancorandosi a criteri inconsci di invulnerabilità del gruppo stesso e sottovalutando nel contempo
le possibilità di errore esistenti in tale pratica» (G. DELVECCHIO, Decisione ed errore in
medicina, Centro Scientifico Editore, Torino, 2005, p. 170). Ad un livello ancora più generale,
questa distinzione è una sottospecie della distinzione tra l’errore del medico e l’errore della
medicina, vale a dire della teoria accettata per vera e che invece era falsa e della pratica assunta
per valida e che invece era dannosa. Riflessioni, queste ultime, che dovrebbero far puntare
l’attenzione, se non altro, sul macroscopico fenomeno degli effetti collaterali anche delle terapie
più efficaci (per specifici disturbi) – effetti collaterali da inquadrare nell’analisi epistemologica
e logica della inevitabile insorgenza delle conseguenze inintenzionali (prevedibili e non
prevedibili, desiderate o dannose) delle azioni umane intenzionali. In ogni caso, Cagli si ritrova
in piena sintonia con Augusto Murri quando costui affermava che «per la formazione d’un retto
criterio medico sarebbe di beneficio incalcolabile una cattedra di Storia della medicina, o,
meglio, degli errori medici: l’esame critico di questi errori costituirebbe il più utile
insegnamento di logica medica». Il marchigiano Cagli in sintonia con il marchigiano Murri e
con un altro marchigiano ancora: Giuseppe Giunchi. E in sintonia con la più recente riflessione
epistemologica. H. Reichenbach: «la via della verità è la stessa di quella dell’errore». Con Oscar
Wilde, Popper ha ripetuto che «“esperienza” è il nome che ciascuno di noi dà ai propri errori».
Di nuovo Popper: l’errore commesso, individuato ed eliminato, «è il debole segnale rosso che ci
permette di venir fuori dalla caverna della nostra ignoranza», per cui «evitare l’errore è un
ideale meschino» - se ci confrontiamo con un problema difficile è facile che sbaglieremo.
«Razionale non è un uomo che voglia avere ragione, ma colui che sa apprendere dai propri
errori e da quelli altrui». E poi A. N. Whitehead: «Il panico dell’errore è la morte del
progresso». Infine, R. Oppenheimer: «La fisica progredisce perché non sbaglia mai due volte
allo stesso modo». Potremmo sintetizzare quanto sin qui detto affermando che il medico
razionale non è colui che per salvare la diagnosi uccide il paziente, quanto piuttosto colui che,
per salvare il paziente, uccide, cioè elimina o falsifica le diagnosi una dopo l’altra finché arriva,
sperabilmente per il malato, a quella buona.
10. Claude Bernard: quando l’“occhio” clinico è «pura fantasia che va condannata e
bandita in nome della scienza e dell’umanità»
Attorno all’idea di “occhio clinico” si è non di rado sviluppata una corposa mitologia.
Ma che cos’è, davvero, l’occhio clinico? È occhio “logico”, occhio “magico”, occhio “acritico”,
o occhio “fortunato”? Una pur concisa rassegna della letteratura di maggior rilievo
sull’argomento ci porterebbe molto lontano. Mi limito qui a richiamare Cesare Scandellari,
secondo il quale non c’è affatto mistero nel “misterioso” occhio clinico, in quanto per l’occhio
clinico occorrono, a suo avviso, cultura e esperienza, flessibilità argomentativa e forza logica e
«la capacità di richiamare alla mente rapidamente anche aspetti meno frequenti della patologia e
di essere stimolati da piccole sfumature o da particolari quasi impercettibili» (C.
SCANDELLARI, L’occhio clinico: occhio magico o occhio logico?, in «Medicina nei secoli»,
3, 1997, pp. 404-405). Quindi, il medico dall’occhio clinico non differisce affatto dal medico
esperto, da un medico cioè che ha sapere, esperienza, fantasia e logica. L’occhio clinico,
pertanto, non esiste, se con esso pensiamo ad un occhio magico o divinatorio. Esso esiste solo
per il medico presuntuoso o per il paziente impaziente. Fare diagnosi, diceva Murri, significa
riconoscere, ricostruire. E «tutto questo lavoro di ricostruzione – egli affermava – è opera della
ragione […]. Quel famoso occhio clinico – si chiedeva Murri – che cos’è mai, se non questa
facoltà di ricostruir bene?» (A. MURRI, Quattro lezioni e una perizia. Il problema de metodo in
medicina e in biologia, Zanichelli, Bologna, 1972, pp. 15-16). E per ricostruire bene è
necessaria, oltre forza logica nella critica, una mente pullulante di ipotesi: una mente pullulante
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di ipotesi riesce a cogliere, a rilevare – scrive Murri – “fatti che per altre menti, povere di
ipotesi, sarebbero rimasti insignificanti o sarebbero stati addirittura ignorati. Meno di tutti
accarezzo quell’aura di stregoneria che si aggira attorno al medico possessore del supposto
“occhio clinico”. E, d’altra parte, «se molto spesso il giudizio par rapido ed è nondimeno esatto,
dovete riflettere, che certe malattie capitano spesso ed hanno talora manifestazioni così
singolari, che un medico esercitato compie quasi inconsapevole un lungo lavoro mentale in
brevissimo tempo» (Op. cit., p. 41). In conclusione, per Murri, l’occhio clinico in alcuni, anzi in
molti casi, è l’occhio del medico esercitato e comunque si risolve nella «facoltà di ricostruire
bene». Di qui la sua triste considerazione per cui «l’occhio medico, l’istinto, l’intuizione clinica,
la divinazione sono frasi di un valore inestimabile per coloro che debbono nascondere la propria
incapacità a osservare e a ragionare correttamente» (A. MURRI, Scritti medici, Tipografia
Gamberoni e Parmeggiani, Bologna, 1902, p. 362). Prima di Augusto Murri, nel suo classico
testo Introduzione allo studio della medicina sperimentale (trad. it., Feltrinelli, Milano, 1951;
rist., 1971, p. 223), Claude Bernard aveva contestato i sostenitori dell’idea che «la medicina
possa essere appresa inconsapevolmente, come una specie di scienza infusa che essi chiamano il
“tatto” o l’“occhio clinico”». «Io non nego – ammetteva Bernard – che in medicina, come nelle
altre scienze pratiche si possa avere quello che si chiama tatto o colpo d’occhio. La pratica,
infatti, conferisce all’uomo una specie di conoscenza empirica capace di guidarlo anche senza
che egli si renda esattamente conto a primo colpo di una data cosa. Quello che io, però,
condanno è il voler rimanere in questo stato di empirismo senza mai uscirne. Mediante
l’osservazione attenta e lo studio si può sempre arrivare a rendersi conto di quel che si fa, e solo
in tal modo è possibile trasmettere agli altri quello che sappiamo. Non nego che la pratica
medica richieda molti requisiti, ma qui parlo di scienza pura e combatto il cosiddetto occhio
clinico come un dato antiscientifico che, per i suoi facili errori, nuoce notevolmente alla
scienza» (Ibidem). Il medico dall’occhio clinico – ha fatto presente Ettore Debenedetti – passa
per «veggente», viene ammirato come «un profeta»: «e nulla è più apprezzato che il potere
divinatorio in questo mondo, dove non se ne indovina mai una, dove si esce senza ombrello
quando di lì a poco pioverà, e si gira coll’ombrello tutto il giorno sotto un cielo smagliante» (E.
DEBENEDETTI, Il doppio volto della medicina: scienza e arte, Europa, Verona, 1947, p. 90).
Sennonché, obietta subito Debenedetti, «il medico non è un indovino; non ha bisogno di essere,
non deve essere un indovino. Il procedimento diagnostico più fulmineo, più sconcertante non
esce dalla razionalità più castigata. Quello che caratterizza l’occhio clinico è la rapidissima
intuizione dei rapporti che sfuggono al meno esperto o affiorano alla coscienza dopo lungo
lavoro logico. Chi ha l’occhio clinico (e ogni medico può averlo in determinate circostanze) è
come uno di quei calcolatori che in trenta secondi ti dicono in che giorno cadeva la Pasqua del
1638 […]. Ma tutto ciò – annotava Debenedetti - «non è che cultura, esperienza, spirito di
osservazione, senso della proporzione e dei rapporti, nell’ambiente, di uno spirito agile ed
allenato: nulla, dunque, che non sia rigidamente razionale» (Op. cit., pp. 90-91).
Tutte queste considerazioni portano alla seguente sindrome dell’occhio clinico: sapere
di sfondo, fantasia, forza logica, rigore medologico, esperienza di casi risolti e di errori
commessi. In breve, per dirla ancora con Bernard, «l’ispirazione del medico, se non si basa sulla
scienza sperimentale, è pura fantasia e va condannata e bandita in nome della scienza e
dell’umanità» (C. BERNARD, Introduzione allo studio della scienza sperimentale, cit., p. 225).
11. L’idea di «conoscenza tacita» di M. Polanyi è in grado di riportare in vita la figura
dell’“occhio clinico”
Cagli, parlando della sua esperienza di medico, di lungo corso, dice di ricordare «assai
poche diagnosi da “occhio clinico” – diagnosi che riguardano tutte il volto del paziente:
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«ricordiamo un caso di miastenia (ptosi palpebrale, in un ragazzo venuto per astenia), uno di
acromegalia (facies caratteristica, in un paziente venuto per ipertensione arteriosa), uno di
morbo di Bosedow (modico esoftalmo, in una paziente venuta per “colite ribelle a tutte le
cure”)» (V. CAGLI, La crisi della diagnosi, cit., pp. 79-80). Ma egli fa immediatamente
presente che si tratta sempre «di un’osservazione coniugata ad un rapido ragionamento perché
l’occhio clinico non è un occhio magico, e non contraddice la logica, anche se necessita di quel
lampo che sta tra fantasia e intuizione per potersi realizzare […]» (Op. cit., p. 80). Cagli accosta
questi lampi, quella “luce” che si accende nella mente del medico al primo contatto con il
malato, a quelle intuizioni che Conan Doyle vede guizzare dalla mente di Sherlock Holmes (Cfr.
CONAN DOYLE, Gli aforismi di Sherlock Holmes, antologia a cura e con Introduzione di M.
BALDINI, Newton, Roma, 1995). Certo, Cagli è ben consapevole che questi lampi, questa luce
che si accende all’improvviso, queste diagnosi “immediate”, diagnosi da “occhio clinico” sono
frutto di «un forte spirito di osservazione coniugato alla capacità di trarre connessioni logiche da
quanto osservato» (V. CAGLI, La crisi della diagnosi, cit., p. 79), e quindi fa rientrare le
diagnosi da occhio clinico all’interno della più rigorosa logica della razionalità scientifica
(problemi-congetture-critiche). Ma quanto qui interessa – e che rappresenta una novità su cui
riflettere – è che Cagli inserisce il tema dell’occhio clinico nell’orizzonte di quella che Michael
Polanyi ha chiamato “conoscenza tacita” (Cfr. M. POLANYI, La conoscenza personale, trad.
it., e con Introduzione di E. RIVERSO, Rusconi, Milano, 1990, Parte seconda: La componente
tacita; e M. POLANYI, La società libera, a cura di M. BALDINI e A. MALAVASI, Armando,
Roma, 2006). Conoscenza “tacita” o “personale” nel senso che «noi possiamo conoscere più di
quello che possiamo esprimere». Questo scrive Polanyi. Ed ecco il commento di Emanuele
Riverso: la scoperta di Polanyi sta nell’aver visto che «il conoscere, cioè l’approccio del vivente
alla realtà, non risponde mai agli schematismi rigidi descritti dalle scienze formali ed esposti
nelle teorizzazioni scientifiche o ipotizzati dalla psicologia riflessologica e comportamentistica,
ma è sempre un’attività personale, che comporta il coinvolgimento di tutte le componenti
funzionali della persona, come la sensibilità, l’emozionalità, la socialità, l’impegno, il rischio, la
scelta, la responsabilità, il rispetto per le persone dotte, la credenza, ecc.» (E. RIVERSO,
Introduzione, cit., p. 15). In breve, c’è una “conoscenza esplicita”, ma c’è anche una
“conoscenza tacita”. «È così –scrive Polanyi – che uno inventa un metodo di nuotare, senza
sapere che esso consiste nel regolare il respiro in una particolare manima, o scopre il principio
dell’andare in bicicletta, senza rendersi conto che esso consiste nell’aggiustamento della sua
momentanea direzione e velocità, in modo da neutralizzare continuamente la sua momentanea e
accidentale mancanza di equilibrio. Da qui deriva la scoperta pratica di una grande quantità di
regole non consciamente conosciute di abilità e di dote da intenditore, che include importanti
processi tecnici che raramente possono essere del tutto specificati e, quando possono esserlo, lo
sono solo attraverso un’ampia ricerca scientifica» (M. POLANYI, La conoscenza personale,
cit., p. 153). D’altra parte, prosegue Polanyi, «un’arte che non può essere specificata nei
dettagli, non può essere trasmessa mediante prescrizioni, perché non esiste alcuna prescrizione.
Può essere trasmessa soltanto mediante l’esempio del maestro all’apprendista. Questo restringe
l’ambito di diffusione a quello dei contatti personali e quindi troviamo che l’abilità artigianale
tende a sopravvivere in tradizioni locali strettamente circoscritte […]. Ne segue che un’arte
caduta in disuso per il tempo di una generazione, è perduta del tutto […]. In genere si tratta di
perdite irreparabili. È patetico vedere gli sforzi innumerevoli che si fanno con l’aiuto di
microscopi e di mezzi chimici, della matematica e dell’elettronica, per riprodurre un violino
come quelli che il semianalfabeta Stradivari costruiva abitualmente duecento anni fa» (Op. cit.,
p. 140). Anche il medico è un apprendista alla scuola di un maestro: «L’abilità di fare una
diagnosi medica è tanto un’arte di fare che un’arte di conoscere. L’abilità di controllare quasi
fiutando è molto vicina alle abilità più propriamente muscolari come il nuotare o l’andare in
bicicletta» (Op. cit., p. 142). La dote di intenditore, in altre parole, «può essere trasmessa
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soltanto mediante l’esempio, non mediante un precetto. Per diventare un esperto sommelier, per
acquistare la conoscenza di innumerevoli diverse mescolanze di tè o per essere addestrato a fare
le diagnosi mediche, bisogna fare un lungo corso di esperienze, sotto la guida di un maestro. Se
un medico non è in grado di riconoscere alcuni sintomi, per esempio, l’accentuazione del
secondo suono dell’arteria polmonare, è inutile leggere la descrizione delle sindromi a cui
appartiene questo sintomo. Egli deve conoscere personalmente questo sintomo e può impararlo
solo attraverso ripetuti casi di auscultazione in cui una debita autorità riconosce che il sintomo è
presente, casi che sono spesso vicini ad altri casi in cui la debita autorità riconosce che il
sintomo è assente; alla fine egli si rende conto pienamente della differenza tra gli uni e gli altri
casi e può dimostrare la sua conoscenza praticamente in modo da soddisfare un esperto» (Op.
cit., p. 142).
Cagli trova straordinaria la consonanza tra questa posizione del medico-filosofo M.
Polanyi e la posizione di quel clinico “di grandissima esperienza e sapere” che è stato Cesare
Frugoni, che di Cagli fu maestro. Difatti, nella sua Prolusione romana del 1932 Frugoni, tra
l’altro, affermava: «Argomentazioni e ragionamento […], talora oltre un certo limite logico non
possono andare e giunti all’ultimo bivio non sempre può dirsi il perché della definitiva nostra
preferenza per una delle ipotesi residue. A questo punto le nostre argomentazioni sono non di
rado sofismi, dei quali rivestiamo il nostro convincimento, ma è chiaro che ragionativamente
forse non riusciremmo a convincere un contraddittore, eppure si concreta un convincimento e
una diagnosi si precisa e nasce in noi la sensazione esatta di battere la giusta via: e spesso è
così» (C. FRUGONI, L’essenza e gli obiettivi dell’insegnamento clinico, “Il Policlinico”, Sez.
Prat., 1932,39, pp. 125-133). E del resto, commenta Cagli, «chiunque abbia davvero fatto
dell’esercizio clinico la propria attività principale sa bene che la diagnosi è spesso un atto
immaginativo, una luce che si accende improvvisa in noi e ci suggerisce un’ipotesi che sentiamo
subito come vera, anche se dovremo poi cercare di dimostrarla tale» (V. CAGLI, La crisi della
diagnosi, cit., p. 79). La conoscenza, sia essa esplicita che tacita, è, pertanto, conoscenza solo se
passibile di controlli empirici, pur se non dobbiamo dimenticare che una teoria potrebbe essere
vera anche se all’epoca non siamo in grado di controllarla. Magna est veritas: l’ambito del
possibilmente vero è sempre più ampio dell’ambito del fattualmente controllabile.
12. La differenza tra spiegazione “nomologico-deduttiva” e spiegazione “probabilistica”
non comporta due diverse “logiche”
Diversamente dalla terapia che è “scienza tecnologica”, la diagnostica è scienza storica:
va alla ricerca della causa o delle cause della malattia. In realtà, scrive Cagli, «se la diagnosi
deve non solo indicare una casella nosografia, ma fornire anche un’indicazione sui meccanismi
etiopatogenetici in gioco, essa deve far riferimento a delle leggi generali che concernono i
fattori causali quali sono noti dalle conoscenze che le acquisizioni scientifiche hanno consentito
di raggiungere» (Op. cit., p. 69). Su questa base funziona l’applicazione alla clinica del
«modello Popper-Hempel» (e Oppenheim – come Cagli precisa correttamente da un punto di
vista storico), stando al quale un fatto (o, meglio, un asserto – Explanadum – che descrive un
fatto) è spiegato scientificamente quando è dedotto da un Explanans formato da leggi generali L
1, L2, L3, … Ln in connessione con condizioni iniziali C1, C2, C3, … Ck antecedenti e/o
simultanee al fatto da spiegare. In realtà, un fatto è causa di un altro fatto (l’effetto) solo in
relazione a leggi generali che appunto legano in modo universale fatti a fatti, fenomeni a
fenomeni. Senza leggi non c’è né spiegazione né previsione. E in ogni spiegazione, da quelle
offerte nella vita quotidiana a quelle proposte nelle scienze più rigorose, la presenza esplicita o
implicita, perché, in quest’ultimo caso, data per scontata) delle leggi non è un lusso quanto
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piuttosto una necessità logica. Ebbene, «in ambito clinico – scrive Cagli – questo modello
esplicativo potrebbe indicare una via per giungere alla diagnosi. Ad esempio: posto che
l’influenza si manifesti con malessere generale, febbre e impegno delle prime vie aeree (legge
generale), che il paziente presenta questo insieme di sintomi e che senza essere vaccinato è stato
a contatto con un malato di influenza (condizioni iniziali), in base a questi presupposti (raccolti
sotto il termine di Explanans) posso pensare che la malattia del paziente (Explanandum) sia
l’influenza» (Ibidem). In realtà, prosegue Cagli, «si tratta […] di un itinerario che corrisponde a
quello che di regola i medici seguono senza sapere che stanno mettendo in pratica il modello di
Popper-Hempel-Oppenheim» (Ibidem). Un modello, dunque, che i medici seguono di regola,
ma non sempre, anzi in non molti casi – obietta Cagli -, e cioè per la ragione che le
generalizzazioni usate dai medici non sono di natura deterministica, vale a dire rigorosamente
universali (come in scienze “dure” quali la fisica), ma di natura probabilistica. «In sostanza,
sembra davvero che lo schema di Hempel-Popper-Oppenheim non si presti ad un’applicazione
alla diagnosi clinica che viene costruita sulla base di conoscenze probabilistiche e che viene
formulata in modo probabilistico» (Op. cit., p. 70).
Ora, però, a parte il fatto che anche nelle scienze “più dure” come la fisica, il ricercatore
ha a che fare con leggi probabilistiche e offre spiegazioni sulla base di queste leggi, è sbagliato
sostenere che il modello nomologico non sia applicabile in presenza di leggi probabilistiche. Se
le leggi sono “deterministiche” abbiano spiegazioni “nomologico-deduttive” rigorose, se le
leggi sono di natura probabilistica avremo una spiegazione probabilistica (Cfr. C. G. HEMPEL,
a) Filosofia delle scienze naturali, trad. it., il Mulino, Bologna, 1968, pp. 92-108; b) Aspetti
della spiegazione scientifica, trad. it., Il Saggiatore, Milano, 1986, p. 23 ss.). Sull’argomento
alcune considerazioni di Evandro Agazzi: «È convinzione diffusa, oggi, che ogni spiegazione
scientifica sia intrinsecamente di natura probabilistica, perché anche le leggi scientifiche
apparentemente più sicure hanno solo il valore di asserzioni di elevata probabilità, dal momento
che le conferme da esse godute non hanno mai un valore decisivo» (E. AGAZZI, Temi e
problemi di filosofia della fisica, C. Manfredi Editore, Milano, 1969, p. 191). Da ciò consegue
«che, mentre nel caso delle spiegazioni nomologico-deduttive il fatto da spiegare segue dalle
relative ipotesi per pura necessità logica (cosicché il suo eventuale non verificarsi comporta
automaticamente la messa in crisi della spiegazione o per scorrettezze deduttive o perché
qualche ipotesi è falsa), nel caso invece delle spiegazioni probabilistiche, ossia di quelle in cui
le ipotesi enunciano delle probabilità, anche il fatto che esse devono spiegare segue da esse,
associato ad un certo grado di probabilità (in genere anche effettivamente precisabile), cosicché
il suo non verificarsi non è ragione sufficiente per infirmare la relativa spiegazione» (Op. cit., p.
192). Questa differenza tra i due tipi di spiegazione non comporta affatto, scrive Agazzi, che si
debba parlare di due diverse “logiche”, in quanto «anche nella spiegazione probabilistica si ha
un’inferenza necessaria, solo che questa non riguarda il semplice verificarsi di un fatto, ma il
verificarsi con una certa probabilità» (Ibidem). Così, ad esempio, data l’ipotesi per cui un certo
fatto A si accompagna con probabilità p ad un certo altro fatto B e si appuri poi che un certo
procedimento fisico dà luogo al fatto A; allora si dedurrà necessariamente, in base alla logica
usuale, che esiste una probabilità p che il medesimo procedimento dia luogo anche al fatto B
(Ibidem).
Dunque: la struttura logica di una spiegazione è la stessa, sia nelle spiegazioni
nomologico-deduttive che in quelle probabilistiche. Nell’uno e nell’altro caso le leggi sono
necessarie, solo che nel primo caso sono di natura deterministica (con conseguenze esplicative e
previsive deterministiche) e nel secondo di natura probabilistica (con conseguenze esplicative e
previsioni probabilistiche). Per cui non penso sia nel giusto Cagli allorché afferma che «lo
schema Hempel-Popper-Oppenheim non si presta ad una applicazione alla diagnosi clinica che
viene costruita sulla base di conoscenze probabilistiche e che viene formulata in modo
probabilistico» (V. CAGLI, La crisi della diagnosi, cit., p. 70). E il fatto citato da P. Thagart
15
(La spiegazione scientifica della malattia, trad. it., Mc Graw-Hill, Milano, 2001, p. 120) che
«non ci sono leggi generali sull’origine dell’ulcera e del cancro», non è un difetto del modello
esplicativo, è solo la constatazione della attuale impotenza della patologia.
13. Vito Cagli: un deduttivista che non vuole ammettere di esserlo
«Se […] si dà giustamente il massimo risalto al ragionamento ipotetico-deduttivo della
diagnosi, non se ne possono più sottacere gli aspetti induttivi: le congetture riguardano le “cause
dei sintomi”, e dunque tali sintomi devono prima essere rivelati; le confutazioni si fondano su
“elementi osservativi” che pertanto vanno preventivamente raccolti. Insomma, l’esercizio
ipotetico-deduttivo che porta alla diagnosi necessita di un punto di partenza induttivo, la
raccolta dei dati, senza dei quali non si saprebbe su che cosa avanzare congetture» (V. CAGLI,
La crisi della diagnosi, cit., pp. 66-67). Certo, afferma Cagli rifacendosi anche qui a Murri,
siamo giunti a formulare ipotesi diagnostiche attraverso atti di fantasia, di creatività; tuttavia,
egli aggiunge, «le ipotesi che l’immaginazione ha suggerito a partire da alcuni elementi di fatto,
magari anche da un unico elemento che può essere però sufficiente a innescare il ragionamento
clinico, richiedono il controllo più severo della logica e della raccolta di nuovi elementi a
conferma o a smentita» (Op. cit., p. 68).
Dunque: cosa intende Cagli per “induzione”? Per lui “induzione” vuol dire che la
diagnosi «necessita di un punto di partenza induttivo», quei sintomi che «debbono prima essere
rilevati»; e, inoltre, che i controlli delle ipotesi diagnostiche si basano su “elementi osservativi”
che vanno preventivamente raccolti». Ora, però, occorrerebbe qui precisare che gli “elementi
osservativi” di controllo di una diagnosi, come di qualsiasi altra ipotesi, possono essere già a
disposizione in quanto “preventivamente raccolti” o possono venir cercati in quanto “non
preventivamente raccolti” ma, appunto, cercati in base ai comandi delle ipotesi sotto controllo.
Ma, a parte ciò, quel che Cagli intende per induzione è il rapporto che la teoria deve avere con i
“fatti” sia all’inizio dell’indagine che al termine dei controlli. Se, come credo, questo è quanto
Cagli intende per “induzione”, allora la questione è tranquilla. Tranquilla, per la semplice
ragione che evita gli annosi e classici problemi dell’induzione: sia di quella per ripetizione
(aristotelica) che di quella per eliminazione (baconiana).
Cagli afferma che non si possono sottacere gli “aspetti induttivi” della diagnosi – che,
certo, è una congettura che si fa sui “sintomi”, ma questi “sintomi”, questi fatti, vanno prima
rilevati, e tale rilevazione e, quindi, la presenza di fatti sintomatici costituirebbe un aspetto
induttivo della diagnosi. Ebbene, mi permetto di far notare a Cagli che questi sintomi, questi
fatti, magari quell’unico elemento o sintomo in grado di «innescare il ragionamento clinico»
non sono descrizioni di fatti qualsiasi riguardanti il paziente (come potrebbe essere la distanza
della punta del suo naso dal centro della luna), consistono piuttosto nella descrizione di un fatto
problematico, «sufficiente ad innescare il ragionamento clinico». Quindi, come in ogni altro
angolo della ricerca, anche in clinica si cerca di risolvere problemi, si parte da problemi, da
osservazioni che deludono “attese” e che reclamano una soluzione, e non da osservazioni
qualsiasi. E, come in ogni altro angolo della ricerca, i tentativi di soluzione dei problemi
consistono in ipotesi; e quelle ipotesi che sono le diagnosi vengono controllate sulla base delle
loro conseguenze osservative, cioè di “fatti” che le possono confermare (e non per l’eternità) o
smentire (e, anche qui, non per l’eternità). Il metodo della ricerca è unico e, per dirla con
Popper, si risolve in tre parole: problemi-teorie-critiche. Vale, insomma, per la clinica quello
che vale in fisica, in economia, in chimica o in linguistica: il metodo è unico, svariate sono le
metodiche, cioè le tecniche di prova. «Fatti e ipotesi – scrive Cagli – e non gli uni contro le
altre, ma piuttosto tra essi dialoganti» (Op. cit., p. 68). Giusto, solo che questo dialogo non
equivale al cosiddetto «procedimento induttivo». L’induzione (per ripetizione o per
16
eliminazione) non esiste; non esiste perché non può esistere; non può esistere per ragioni logicomatematiche. Purché fatti e ipotesi siano tra di essi dialoganti, «non importa, dice Cagli, quanto
siamo induttivisti o ipotetico-deduttivisti» (Ibidem). No! La cosa importa. Non siamo
induttivisti perché non lo possiamo essere, come non ci è possibile assumere un modello
metodologico “arlecchinesco”. Logica ed epistemologia ci costringono ad essere ipoteticodeduttivisti. E così, di soppiatto e fugacemente, egli ha fatto una piccola genuflessione davanti
al mito dell’induzione. E’ caduto in induzione.
14. Peter B. Medawar: la “mente del medico è una mente da medico”
Tra i medici, e non solo fra loro, ma soprattutto tra i medici il mito induttivistico è
piuttosto duro a morire. Che cosa deve, infatti, fare un medico se non osservare il suo paziente,
osservarlo con cautela da capo a piedi, guardare i sintomi, non tralasciare nessun sintomo? Un
medico – si dice – non ha il diritto, davanti al suo paziente, di abbandonarsi all’immaginazione.
Deve stare ai fatti. L’idea, insomma, che si ha dell’atto della diagnosi è quella di una
osservazione attenta e accurata del paziente, al fine di trarre, o di indurre, dai fatti osservati una
diagnosi in base alla quale stabilire una terapia. Per questo l’ideale sarebbe ancora quello di un
medico che, davanti al paziente, sgombra la sua mente da tutti i pregiudizi e, con mente simile
ad una tabula rasa, osserva quel brano del gran libro della Natura che è un paziente.
Tutti conosciamo il sarcasmo di Molière nei riguardi delle pseudospiegazioni dei medici
del suo tempo. E, ai nostri giorni, Peter B. Medawar ha tracciato la seguente caricatura del
medico induttivista: «Un paziente si sente male e va dal suo medico; questi si dispone a scoprire
ciò che non va nel suo cliente. Al modo induttivo, il medico sgombra la sua mente da tutti i
pregiudizi e preconcetti, e osserva attentamente il malato: ne rileva il colore, ne conta le
pulsazioni, ne prova i riflessi e ne ispeziona la lingua (un organo che di rado viene esposto al
pubblico esame). Poi procede ad altre sofisticate azioni: gli fa fare l’esame delle urine e vari
esami del sangue; manda le biopsie del fegato e del midollo al dipartimento di patologia; gli
infila tubi in tutte le aperture e gli applica elettrodi ovunque. Le prove dei fatti così raggiunte
possono essere classificate e “trattate” secondo i canoni dell’induzione. Una diagnosi (per
esempio, l’asserzione che il male deriva da qualcosa che il paziente ha mangiato) potrà allora
essere raggiunta attraverso un ragionamento che, a rigor di logica, potrebbe in linea di principio
essere affidato anche a un calcolatore elettronico; e tale diagnosi sarà giusta a condizione che la
cruda informazione data dai fatti non sia stata errata o incompleta» (P. B. MEDAWAR,
Induzione e intuizione nel pensiero scientifico, trad. it., Armando, Roma, 1971, p. 72).
Ora, dinanzi a questo quadro, Medawar si chiede se, in realtà, si tratti di una grossolana
esagerazione. E risponde che, naturalmente, si tratta proprio di una esagerazione: «Ho detto –
egli afferma – che avrei fatto una caricatura; ma, come ogni caricatura, non esagerata oltre i
limiti ragionevoli»(ibidem). E per renderci conto di quanto e perché sia errata questa immagine
del lavoro del medico, diamo uno sguardo, sempre insieme a Medawar, ad un altro medico
nell’atto di una diagnosi. «Questo secondo medico – scrive Medawar – osserva sempre il suo
paziente con un intento, con un’idea in mente. Dal momento che il malato gli si presenta, egli
non fa che porsi delle domande, suggeritegli dalla prescienza o da un indizio sensoriale; e queste
domande dirigono il suo pensiero, guidandolo verso nuove osservazioni, che gli diranno se le
ipotesi provvisorie che egli continuamente va formando sono accettabili o no. È il malato
veramente malato? La causa del suo male può essere stato qualcosa che egli ha mangiato? C’è
in giro un virus che attacca le vie respiratorie: può avere attinenza col caso? Oppure può essere
il fegato che ha subito un danno irreparabile?» (Op. cit., p. 73). come ben si vede, qui, nel caso
di questo secondo medico, non c’è un’osservazione casuale; non si vanno ad osservare tutti (e
chi li potrebbe conoscere tutti?) i sintomi; non c’è traccia del cosiddetto e “presunto”
17
procedimento induttivo. Piuttosto «c’è uno scambio rapido fra un procedimento immaginativo e
uno critico, fra una congettura immaginativa e una valutazione critica. A mano a mano che il
procedimento avanza, prende forma un’ipotesi che dà adito alla formulazione di una
ragionevole base di cura o ad ulteriori esami, che il clinico tuttavia non considererà mai
definitivi» (Op.cit., pp. 73-74).
In sostanza, questo secondo medico – e, diciamo tutti i medici – non si avvicinano mai
ad un malato con la mente vuota: la mente del medico è una mente da medico. Se si trattasse di
guardare il malato, basterebbero gli occhi (e i non medici avrebbero la mente più pura – almeno
dai “pregiudizi” medici – di quella dei medici), ma il fatto sta che occorre osservare, che
l’osservazione si effettua sempre con uno scopo in mente, alla luce di congetture; sta il fatto che,
al letto del malato, il medico non fa tutte le possibili osservazioni, ma fa solo quelle
osservazioni che egli reputa importanti o rilevanti: rilevanti per le ipotesi diagnostiche che una
dopo l’altra gli passano per la testa. Il fatto è che: dietro gli occhi e le mani del medico c’è una
mente da medico e questa mente da medico è carica di teorie, di aspettazioni, di esperienze, di
errori già commessi da lui stesso e da altri, di accorgimenti tecnici, di teorie terapeutiche, di casi
risolti (e casi irrisolti). La mente del medico non è, dunque, una tabula rasa; essa è, piuttosto,
una tabula plena: piena (più o meno, e più o meno bene, a seconda dell’epoca in cui il medico
vive, a seconda della formazione ricevuta, a seconda dell’impegno professionale, a seconda
delle “esperienze” fatte, ecc.) di teorie. E se gli occhi servono per vedere, è con la mente che il
medico osserva: e le sue osservazioni – al pari che nelle altre indagini delle altre scienze – sono
sempre pro o contro una sua diagnosi o congettura sulle cause della malattia. I sintomi, come
anche i dati di analisi di laboratorio, i reperti radiologici, le “immagini”, gli esiti della terapia, i
dati anamnestici costituiscono di certo la base osservativa della medicina clinica, ma la base
non è tutto l’edificio: l’edificio è dato dall’apparato teorico, e la base (più o meno resistente, a
seconda dei casi) è in funzione della conferma o della smentita dell’apparato teorico.
15. La logica dell’argomentazione diagnostica
Con tutto ciò vediamo che l’ atto diagnostico è un procedimento esplorativo che avanza
per congetture e confutazioni; è un dialogo spesso rapido tra le ipotesi proposte dalla mente del
medico e le “osservazioni ”. Conoscere, diceva Murri, è diverso dal riconoscere. E il diagnosta
deve riconoscere. Le diagnosi sono ipotesi, sospetti che vanno messi alla prova sulle loro
conseguenze “osservative”. Il clinico, in breve, ragiona così: dato il mio sapere di sfondo, io
suppongo che il disturbo del paziente (evidenziabile e descrivibile attraverso i sintomi x1 …, xn)
sia prodotto dalle condizioni y1 … yn (e queste condizioni sono causa del disturbo perché
valgono le leggi L1, …, Ln). Ora, però, questa supposizione è vera o falsa?, non potrebbe il
clinico ingannarsi? Certamente, il clinico potrebbe essersi ingannato, e la sua supposizione sulle
cause del malanno (supposto, inoltre, che di quel malanno si tratti), potrebbe risultare errata.
Quindi, occorre mettere alla prova la diagnosi. E la diagnosi, come qualsiasi altra ipotesi, si
prova sulle sue conseguenze. Per cui il clinico procede nella argomentazione di controllo della
sua diagnosi in questo modo: se la mia diagnosi (indicante le supposte cause dei sintomi
evidenziati) è giusta, allora dovrebbe, per esempio, darsi che l’anamnesi deve portare in
evidenza i fatti f1 …, fn, le analisi di laboratorio dovrebbero dare i risultati p1 …, pn, la
radiografia dovrebbe mettere in luce i dati r1 …, rn, la terapia dovrebbe portare gli esiti e1 …, en.
Se le prove risultano negative, se cioè i dati previsti non si verificano, allora il clinico cadrà di
nuovo sotto le morse del dubbio: ho tralasciato qualche sintomo rilevante (per una qualche
teoria)?, ho osservato male?, ho visto sintomi rilevanti dove non c’era niente di rilevante?, i
sintomi da me rilevati sono inquadrabili in un’altra o in altre sindromi?, non ho forse dato
troppo peso ad un sintomo piuttosto che ad altri?, e i dati dell’anamnesi non possono essere
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errati al pari dei dati di altre storie?, sono sicuro che si tratti del malanno che si suppone
affliggere il paziente?, non può trattarsi di un’altra malattia?, possiamo ripetere in altre
condizioni le analisi del laboratorio?, possiamo fare altre analisi?
Sotto la pressione di simili ed ancora altri dubbi, il clinico proporrà una seconda
diagnosi, anch’essa controllabile sulle proprie conseguenze, e saranno proprio queste a dirgli se
il suo secondo tentativo di soluzione è azzeccato o no. E se anche questa seconda congettura
crolla, il clinico tenterà ancora di nuovo e ancora di nuovo sottoporrà a prova il suo tentativo, e
così di seguito, con la speranza di arrivare (presto) alla diagnosi giusta. Razionale non è il
medico che per salvare la diagnosi uccide il paziente; razionale è, invece, il medico che per
salvare il paziente uccide – cioè falsifica e scarta – le sue diagnosi, finché arriva, sperabilmente,
a quella buona.
16. Meriti e limiti della Evidence-based Medicine
Cagli sa bene che le diagnosi sono ipotesi che restano sempre sotto assedio – ed è ben
consapevole che i “fatti” sono costrutti - proposizioni che, per quanto ne sappiamo, descrivono
pezzi o aspetti della realtà. Ed è esattamente in questo orizzonte che egli valuta la Evidencebased Medicine. «Praticare l’EBM – egli afferma – significa integrare la competenza clinica
individuale con la migliore evidenza clinica disponibile proveniente da ricerche sistematiche»
(Op. cit., p. 75). In altre parole, «il medico che pratica l’EBM inserisce nel proprio sapere di
sfondo (studio ed esperienza) i dati che provengono dalle revisioni sistematiche o dalle lineeguida che ne sono l’emanazione pratica e su queste basi prende le decisioni più idonee per la
soluzione dei problemi clinici» (Op. cit., p. 76). In tal modo, prosegue Cagli, «perdono […] il
ruolo di protagoniche affermazioni viziate, anche da una eccessiva genericità come “Nella mia
esperienza…” o secondo la nostra scuola…”, troppe volte ascoltati fino ad un passato ancora
recente» (Ibidem).
La Evidence-based Medicine costituisce, fuor d’ogni dubbio, un prezioso e lodevole sforzo teso
a fondare l’atto medico – sia esso diagnostico, pragmatico o terapeutico – sui risultati di ampie
sperimentazioni resi noti su pubblicazioni di indiscusso prestigio internazionale. Dunque: una
chiara presa d’atto dei meriti della EBM. Tuttavia Cagli, fra i limiti della EBM nei indica due:
“anzitutto che non vi sono “evidenze” per ogni situazione, e poi che si può correre il rischio di
adottare una mentalità clinica che si rifugia pedissequamente nelle indicazioni delle lineeguida» (Op. cit., pp. 76-77). Per Cagli, insomma, «il medico non dovrebbe considerare l’EBM
come una vettura tranviaria obbligata a seguire un determinato binario per portarci a
destinazione, ma come un’automobile con cui sia possibile, in certi casi, scegliere una strada più
conveniente rispetto a quella indicata dalla ‘mappa ufficiale’» (Op. cit., p. 77). E ciò, se non
altro, che “gli studi inclusi nelle revisioni sistematiche in base ai quali vengono costruite le
linee-guida vengono effettuati su pazienti selezionati e come tali spesso molto diversi da quelli
della pratica corrente. I trials, infatti, reclutano i casi da studiare secondo rigidi criteri che
escludono in buona misura quei malati che per età, comorbosità, inaffidabilità nel seguire le
cure, ecc. si incentrano invece così spesso nella pratica corrente» (Ibidem. Sull’argomento Cagli
richiama il saggio di R. FESTA, Principio di evidenza totale, decisioni cliniche ed Evidence
Based Medicine, in Aa.Vv., Forme della razionalità medica, a cura di G. Federspil e P. Giaretta,
Rubbettino, Soveria Mannelli, 2004, pp. 47- 82).
Diversamente che nel tema dell’induzione, sento di trovarmi in pieno accordo con Cagli
sulla questione relativa all’EBM. La EBM ormai interessa, in varia misura, tutte le
organizzazioni sanitarie impegnate «in una evoluzione positiva non conclusa, ma certamente già
iniziata» (G. Gensini). In breve: la EBM si configura come un procedimento medico
19
standardizzabile su ipotesi ben controllate, tenendo conto del rapporto tra costi e benefici per il
paziente e dell’incremento di efficienza e produttività dei sistemi sanitari nazionali. Da qui lo
sviluppo di protocolli diagnostici e terapeutici, di percorsi assistenziali mirati e di sistemi in
grado di guidare, di affiancare o addirittura vicariare il medico nel procedimento diagnostico e
curativo (G. Ballardini – F. Bianchi).
Nessuno nega la rilevanza della EBM; ma, sulla scia delle considerazioni di Cagli,
vorrei ricordare che proprio dal VII Cochrane Colloquium, tenutosi qualche anno fa a Roma
sulla EBM, è venuto un forte monito a non atteggiarsi acriticamente nei confronti della EBM e a
puntare l’attenzione sui rapporti tra ricerca scientifica medica e sistema di informazioni da una
parte e interessi commerciali dall’altra; sul fatto che le revisioni sistematiche – su cui si articola
la EBM – dovrebbero venir prodotte e diffuse in modo “indipendente”; e ancora sul fatto che a
differenza delle ricerche che offrono risultati favorevoli, quelle che danno risultati negativi sulla
efficacia di un prodotto o di una tecnica diagnostica hanno non di rado scarsa probabilità di
essere rese note – dimentichi della grande lezione per cui «non ogni verità ci indica una via da
seguire, mentre ogni errore ci indica una via da evitare» (G. Vailati).
In ogni caso, pure a prescindere da questi ammonimenti, è necessario non sottovalutare
altre questioni. La prima delle quali è che il massiccio, e talvolta “mitizzato”, influsso della
EBM potrebbe scoraggiare i ricercatori di centri minori o periferici e bloccare quella
proliferazione di ipotesi e di tecniche di prova che costituiscono l’anima della ricerca. In
secondo luogo, è urgente far presente che non si dà traslazione automatica alle generalità dei
casi dell’efficacia di un trattamento ottenuto in studi controllati su di un numero sempre e
comunque limitato di soggetti arruolati secondo determinati criteri. L’inferenza dei dati dal
campione esaminato alla generalità dei pazienti è logicamente illegittima «e particolarmente
inappropriata sarebbe una illusoria sicurezza di generalizzabilità ingenerata dalla Medicina
Basata sulle Evidenze» (G. Gensini). E tutto ciò, non dimenticando mai – come ha scritto I.
Hoggins in un recente editoriale apparso sul British Medical Journal – che «l’assenza di
evidenza non significa che un trattamento non sia efficace, ma soltanto che non la conosciamo».
Dunque: fronteggiare criticamente questo meritorio evento della EBM che, pur nel giro
di pochi anni, ha di certo arricchito di risultati apprezzabili e di maggior rigore metodologico il
mondo della sanità. E critici bisogna essere soprattutto sul concetto fondamentale della EBM –
vale a dire sul concetto di evidenza, per la ragione che l’idea di evidenza trascina con sé quella
di fatto indiscutibile, con la conseguenza di indurci nella tentazione positivistica stando alla
quale “i fatti sono sacri”. Sennonché quella di “evidenza” – come, tra altri, ha insegnato G. E.
Moore – non è affatto un’idea evidente, e i “fatti” restano pur sempre discutibili.
Fu Jevons a notare che fatto è participio passato del verbo fare: i fatti della scienza sono
tali perché sono stati fatti; e sono stati fatti dagli scienziati attraverso costruzioni e demolizioni
teoriche. Le teorie le appendiamo a quei chiodi che sono i fatti: ma anche quei chiodi - diceva
Poincaré – li fanno gli scienziati. Non appena noi parliamo della realtà, di qualche aspetto o
pezzo di realtà, vi gettiamo sopra concetti e teorie. Ogni nostra osservazione è imbrattata di
teoria: una maschera di teoria copre l’intero volto della natura. Dopo Kant, Cassirer, Gombrich,
Bruner e dopo i lavori di R. L. Gregory, M. H. Segal, D. Campbell e M. J. Herskovitz, ci è
possibile ripetere con N. Goodman che non esiste occhio innocente: «Quando si mette al lavoro,
l’occhio è sempre antico, ossessionato dal proprio passato e dalle suggestioni, vecchie e nuove,
che gli vengono dall’orecchio, dal naso, dalla lingua, dalle dita, dal cuore e dal cervello. Esso
funziona non come uno strumento isolato e dotato di potere autonomo, ma come membro
obbediente di un organismo complesso e capriccioso. Non solo come, ma ciò che vede è
regolato da bisogni e presunzioni. Esso seleziona, respinge, organizza, discrimina, associa,
classifica, analizza, costruisce. Non tanto rispecchia, quanto raccoglie ed elabora; ciò che
raccoglie ed elabora esso non lo vede spoglio, come una serie di elementi senza attributi, ma
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come cose, cibo, gente, nemici, stelle, armi» (N. GOODMAN, I linguaggi dell’arte, trad. it., Il
Saggiatore, Milano, 1976, pp. 12-13).
17. M. Bufalini, A. Murri e L. Fleck: i “fatti” sono “costrutti”
Un fatto, nella scienza, è una proposizione che, per quanto ne sappiamo, descrive
qualche pezzo di realtà. E questa descrizione può essere errata. Fatti nascono: dov’erano
l’inconscio prima di Freud o la cellula prima di Virchow? E se fatti nascono, fatti muoiono
anche: Lavoisier fa scomparire il flogisto, Einstein ha eliminato l’etere dal mondo dei fatti. La
vita di un fatto è la storia delle teorie che ne parlano. L’atomo è un fatto, ma l’atomo è,
precisamente, quel fatto via via raccontato – descritto e spiegato – dai concetti e dalle teorie che
intessono la storia dell’atomismo da Democrito a Rubbia. Avevano ragione i medievali a
sentenziare che “talia sunt obiecta qualia determinantur a praedicatis suis”. Ed ecco come un
medico del secolo scorso, Maurizio Bufalini, precisa la natura di quel fatto che è l’oro. «la fisica
– scriveva Bufalini – si occupa dei corpi fisici, delle loro qualità sensibili, delle loro relazioni,
attraverso l’osservazione dei fatti. Ma la natura non ci offre fatti così semplici da produrre in noi
idee semplici, le nostre prime idee sono necessariamente composte così da essere poi scomposte
una ad una». Se uno di noi vede l’oro, prosegue Bufalini, si fa un’idea composta dell’oro, ma
qualora se ne considerano l’estensione, la figura, il peso, il colore, la lucentezza, riacquistiamo
le idee semplici che formano quella composta di oro. «Ma queste sono le qualità sensibili
dell’oro, non le modificazioni cui può andare incontro, cioè i fenomeni che appartengono
all’oro. Perciò occorrono altre osservazioni: la duttilità dedotta dal fatto che l’oro battuto si
distende; la fusibilità perché, riscaldato, si liquefa; la lega con altri metalli perché si scioglie con
l’acido muriatico. Questi fenomeni si possono costruire solo con l’esperienza. I fenomeni così
osservabili non si esauriscono mai e la scienza fisica ne scopre continuamente di nuovi». E qui
Bufalini si chiede se mai avremo una perfetta conoscenza dell’oro. «Esso è l’insieme delle
qualità sensibili e dei fenomeni che può racchiudere, ma la sua essenza ci sfuggirà sempre» (M.
BUFALINI, Intorno alla medicina analitica. Cicalate, in Opere di Maurizio Bufalini. Opere
varie, Napoli, L. Padoa, 1857, pp. 159-221. Cfr. Cicalata 6). E sulla scia di Bufalini, un altro
medico, Augusto Murri: «La critica più severa si fa proprio sui fatti. Non è altro che un lavoro
logico quello il quale serve a distinguere un’osservazione fatta bene da un’osservazione fatta
male» (A. MURRI, Lezioni cliniche, Società Editrice Libreria, Milano, 1908, p. 45). È stato
Ludwig Fleck, un medico polacco, a mostrare, in un libro pubblicato nel 1935 e intitolato
Genesi e sviluppo di un fatto scientifico, come la storia di quel fatto che noi chiamiamo sifilide
si risolve nella storia dei concetti e delle teorie che lo presero (e lo prenderanno) in
considerazione. Scrive Fleck: «Lo sviluppo del concetto di sifilide come malattia specifica non è
dunque concluso e non può esserlo, poiché questo concetto partecipa di tutte le scoperte e di
tutte le innovazioni della patologia, della microbiologia e dello studio delle epidemie e delle
infezioni. Il suo carattere da mistico è divenuto empirico e quindi patogenetico, per poi
diventare essenzialmente etiologico; nel corso di questo processo non solo ci si è arricchiti di un
gran numero di singoli fatti, ma sono andati anche perduti molti aspetti particolari delle antiche
teorie, sappiamo e possiamo, infatti, dire poco o nulla, al giorno d’oggi, circa la dipendenza
della sifilide dal clima, dalle stagioni, e dalla costituzione generale del malato, quando invece
negli antichi scritti è possibile trovare molte osservazioni a tal riguardo. Ma con la
trasformazione del concetto di sifilide sono nati anche nuovi problemi e nuovi settori del sapere,
sì che, in effetti, non vi è niente di stabilito in maniera definitiva» (C. FLECK, Genesi e
sviluppo di un fatto scientifico, trad. it., il Mulino, Bologna, 1983).
I ‘fatti’, cioè le asserzioni che, per quel che ci è possibile saperne, descrivono i fatti – e
le basi empiriche della scienza, insomma sono ‘artefatti’ che vengono continuamente ‘rifatti’
21
attraverso costruzioni e demolizioni teoriche. Essi non sono dati immutabili, ma “costrutti” che
hanno una storia: una genesi, uno sviluppo, mutazioni, e talvolta anche una morte. Ciò che oggi
chiamiamo un fatto, ieri era una teoria. Ed è gran parte dell’epistemologia del nostro secolo da
Henri Poincaré per giungere alle proposte di P. K. Feyerabend, H. R. Hanson e N. Goodman,
che ha frantumato il mito della sacralità dei fatti. Certo, le teorie scientifiche poggiano sui fatti,
ma questi non sono una roccia indistruttibile. In altri termini, la scienza ha sì una base, ma
questa base non è un fondamento certo. Per dirla con Popper: «[…] la base empirica delle
scienze oggettive non ha in sé nulla di “assoluto”. La scienza non poggia su un solido strato di
roccia. L’ardita struttura delle sue teorie si eleva, per così dire, sopra una palude. È come un
edificio costruito su palafitte. Le palafitte vengono conficcate dall’alto, giù nella palude: ma non
in una base naturale “data”; e il fatto che desistiamo dai nostri tentativi di conficcare più a fondo
le palafitte non significa che abbiamo trovato un terreno solido. Semplicemente, ci fermiamo
quando siamo soddisfatti e riteniamo che almeno per il momento i sostegni siano abbastanza
stabili da sorreggere la struttura» (K. R. POPPER, Logica della scoperta scientifica, trad. it.,
Einaudi, Torino, 1970, pp. 107-109). In breve: «la nostra conoscenza ha fonti d’ogni genere, ma
nessuna ha autorità».
18. “Evidence Based Medicine” oppure “Evidence Guided Medicine”?
È in un orizzonte del genere che l’aiuto offerto dalla EBM non correrà il rischio di
trasformarsi in un ergastolo teorico e pratico per i medici. E più che legittimi appariranno quesiti
come i seguenti: le “evidenze” della EBM hanno vita breve o lunga? Quali hanno avuto vita
breve? E le evidenze dalla vita breve sono forse risultati di esperimenti condotti in
atteggiamento verificazionista o falsificazionista? Quale peso è stato dato, in questo o quel trial,
alle “evidenze” negative? E non è forse più che necessario sottolineare che l’applicazione
meccanica delle linee-guida – supportate dalla EBM – non è affatto una applicazione oggettiva,
cioè in grado di risolvere i problemi di pazienti, ognuno caso-a-sé? Per questo ha ben ragione il
clinico padovano Cesare Scandellari allorché, invece che di Evidence Based Medicine, pensa
più opportuno parlare di Evidence Guided Medicine. E talvolta l’EBM non è in grado – cosa
posta in chiaro in alcuni scritti dal professor Mario Timio – nemmeno di servire da guida, come
quando pone il medico di fronte a due messaggi di segno opposto. A tal proposito è
emblematica la pubblicazione di sue articoli sullo stesso numero di “The New England Journal
of Medicine” (339-1998) concernenti l’eradicazione antibiotica dell’infezione di Helicobacter
pilori in pazienti con dispepsia non ulcerosa, inseriti in studi randomizzati e controllati. Nel
primo articolo si dà evidenza positiva per il beneficio clinico conseguente alla eradicazione, nel
secondo l’evidenza è negativa. E allora, su quale di queste due evidenze il medico baserà il suo
intervento? Certo, questo è un caso limite – un caso, però, che mostra come le “evidenze”
vadano adattate, tramite forza critica e argomentativi e attenzione continua alle conseguenze
prevedibili e ai fatti collaterali, alle condizioni cliniche dei singoli pazienti. Insomma, delle
“evidenze” della EBM, come di ogni altro fatto o evidenza, possiamo e dobbiamo dire in
accordo con Popper: ci affidiamo ad essi, ma di essi non ci fidiamo. Goethe aveva perfettamente
ragione a sentenziare che “alles Faktische schon Teorie ist”. E, con Popper e Goethe, ancora un
grande ammonimento di Augusto Murri: “Nella clinica, come nella vita, bisogna, dunque, avere
un preconcetto, uno solo, ma inalienabile – il preconcetto che tutto ciò che si afferma e che par
vero può essere falso: bisogna porsi una regola costante di criticare tutto e tutti, prima di
credere: bisogna domandare sempre come primo dovere «perché devo io credere questo?»” (A.
MURRI, Lezioni cliniche, cit., p. 21). «Il tempo dell’infallibilità- diceva Murri ai suoi allievi –
deve venire ancora» (Op. cit., p. 724); e «della verità bisogna dubitare sempre» (A. MURRI,
Scritti medici, Tipografia Gamberoni e Parmeggiani, Bologna, 1902, p. 694). Di conseguenza
22
“cura scrupolosa”, raccomandava Murri “nell’acquisizione dei fatti” (Op. cit., p. 393), perché
non è raro imbattersi in “falsi giudizi e osservazioni mal fatte” (Op. cit., p. 504). E, in realtà, “il
veder molto è senza meno ottima cosa, ma è perfettamente inutile se non s’è veduto bene”.
19. Il medico è un interprete di sintomi, segni e segni ma il “Verstehen” è davvero diverso
dall’ “Erklären”
Nel primo capitolo del libro – capitolo intitolato Malattia e nosografia - parlando di
quegli elementi che porterebbero alla “dissoluzione” della diagnosi, Cagli inserisce, tra questi
elementi «la valorizzazione del linguaggio e quindi dell’ermeneutica, piuttosto che
dell’epistemologia, cioè interpretazione in luogo di certezze». Non so, da questo accenno, se
Cagli vede una drastica separazione tra scienze naturali e scienze umane, le prime dedite
all’erklären (cioè alla spiegazione causale) e le seconde dedite al verstehen (alla comprensione:
di un’azione, di un rito, di un testo, di reperto storico, ecc.). ed è esattamente questa la domanda
che vorrei porgli: quale è la differenza tra il metodo popperiano del trial and error e la teoria
ermeneutica di Gadamer relativa al Zirkel des Verstehens? Posta in modo differente la richiesta
è la seguente: le teorie di un fisico sono scientifiche e le interpretazioni di un documento offerte
da uno storico o le interpretazioni di un testo avanzate da un filologo sono necessariamente non
scientifiche? Queste domande poste a Cagli assumono maggior rilievo non solo perché egli
come medico ha familiarità con la semeiotica teorica e pratica, vale a dire con l’interpretazione
dei sintomi, ma anche e soprattutto per la ragione che egli è un profondo conoscitore della
psicoanalisi e ammiratore di quel suggestivo e affascinante interprete di “sogni” e “segni” che è
stato Sigmund Freud.
Ebbene, che fisici, biologi, chimici, medici e geologi usino il metodo o procedura in cui
il ricercatore, partendo dai problemi, propone congetture da controllare, ecco, questa è una idea
oggi combattuta unicamente da sparuti gruppetti di retroguardia. Questo metodo, però, come
ripeto, non pare a tanti poter essere il metodo adeguato per le scienze umane. In altri termini,
laddove c’è da esaminare il mondo dell’uomo, la spiegazione causale (erklären) non
funzionerebbe; il metodo del tentativo e dell’errore, insomma, non varrebbe quando ci sarebbero
da spiegare le azioni dell’uomo o anche i prodotti dello spirito umano quali produzioni
artistiche, sistemi di leggi, credenze religiose e filosofiche, istituti sociali e istituzioni politiche.
In quest’ambito sarebbe necessario un altro metodo, una procedura diversa in grado di
permettere di comprendere un’azione umana, di interpretare il senso di una norma di un codice
penale, di capire la funzione di una istituzione o di un rito. In breve: ci sarebbe tutto un universo
di oggetti (azioni umane, istituzioni sociali, testi contenenti codici giuridici, sistemi filosofici,
dogmi religiosi, romanzi, follie, ecc.) da interpretare e comprendere (verstehen) piuttosto che da
spiegare casualmente.
Ma è proprio vero che esistono due (o, magari, più metodi) della ricerca scientifica? O
vi è un unico metodo? Comprendere un’azione umana o un rito o una istituzione è davvero una
cosa differente dal comprenderne le cause o gli effetti? E poi: interpretare un testo (giuridico,
filosofico, letterario, ecc.) è una procedura davvero differente da quella usata in fisica, dove si
propongono congetture che si mettono a prova sulle loro conseguenze “osservative”?
Se si analizza quel classico dell’ermeneutica che è Verità e metodo, puntando
l’attenzione sull’idea che di scienza naturale e del suo metodo ha Hans Georg Gadamer,
vedremo subito che Popper è nel giusto quando afferma che non pochi teorici dell’ermeneutica
sono vittima di un’idea sbagliata di scienza naturale. D’altra parte, esaminando la descrizione
che Gadamer effettua del procedimento ermeneutico e le sue analisi del concetto di esperienza,
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si deve concludere che Popper ha ancora ragione quando sostiene che il metodo dell’ermeneuta
è quello del fisico.
Esistono testi forniti di senso che, a loro volta, parlano di cose; l’interprete si avvicina ai
testi non con la mente simile ad una tabula rasa, ma con la sua precomprensione
(Vorverständnis), cioè con i suoi pregiudizi, le sue presupposizioni, le sue attese: dato quel testo
e data quella pre-comprensione dell’interprete, l’interprete abbozza un preliminare “significato”
di tale testo, e siffatto abbozzo si ha proprio perché il testo viene letto dall’interprete con certe
attese determinate, derivanti dalla sua pre-comprensione. E il successivo lavoro dell’ermeneuta
consiste tutto nella elaborazione di questo progetto iniziale, «che viene continuamente riveduto
in base a ciò che risulta dall’ulteriore penetrazione del testo». In realtà, prosegue Gadamer,
«bisogna […] tener conto che ogni revisione del progetto iniziale comporta la possibilità di
abbozzare un nuovo progetto di senso; che progetti contrastanti possono intrecciarsi in una
elaborazione che alla fine porta a una più chiara visione dell’unità del significato; che
l’interpretazione comincia con dei pre-concetti i quali vengono via via sostituiti da concetti più
adeguati. Proprio questo continuo rinnovarsi del progetto che costituisce il movimento del
comprendere e dell’interpretare è il processo che Heidegger descrive. Chi cerca di comprendere
è esposto agli errori derivanti da pre-supposizioni che non trovano conferma nell’oggetto.
Compito permanente della comprensione è l’elaborazione e l’articolazione dei progetti corretti,
adeguati, i quali come progetti sono anticipazioni che possono convalidarsi solo in rapporto
all’oggetto. L’unica obiettività è qui la conferma che una pre-supposizione può ricevere
attraverso l’elaborazione. Che cos’è che contraddistingue le pre-supposizioni inadeguate se non
il fatto che, sviluppandosi, esse si rivelano insufficienti? Ora, il comprendere perviene alla sua
possibilità autentica solo se le pre-supposizioni da cui parte non sono arbitrarie. C’è, dunque, un
senso positivo nel dire che l’interprete non accede al testo semplicemente rimanendo nella
cornice delle pre-supposizioni già presenti in lui, ma piuttosto, nel rapporto col testo, mette alla
prova la legittimità, cioè l’origine e la validità di tali pre-supposizoni» (H. G. GADAMER,
Verità e medico, trad. it., Fratelli Fabbri Editori, Milano, 1972, p. 314).
Dunque: l’interprete accosta il testo con il suo Vorverstandnis, con le sue presupposizioni, i suoi pregiudizi. E in base a questi elabora un preliminare abbozzo di
interpretazione. Ma questo abbozzo può essere adeguato o meno. Ed è la successiva analisi del
testo (del testo e del contesto) a dirci se questo primo abbozzo di interpretazione è corretto o
meno, se corrisponde a quel che il testo dice o no. E se questa prima interpretazione si mostra in
contrasto con il testo, se urta contro di esso, allora l’interprete elaborerà un secondo progetto di
senso, vale a dire una ulteriore interpretazione, che metterà al vaglio sul testo (e sul contesto)
per vedere se essa possa risultare adeguata o meno. E così via. E così via all’infinito, giacché il
compito dell’ermeneuta è un compito infinito e tuttavia possibile.
Interconnessi con simile idea di Zirkel des Verstehens sono i punti centrali della teoria
dell’esperienza ermeneutica. «Che l’esperienza sia valida fino a che non viene contraddetta da
una nuova esperienza (ubi non reperitur in stantia cintradictoria) è un dato che caratterizza
ovviamente la natura generale dell’esperienza, sia che si tratti dell’organizzazione scientifica di
essa in senso moderno, sia che si tratti dell’esperienza comune che da sempre l’uomo fa» (Op.
cit., p. 405). Più in particolare, per Gadamer, la formazione delle universalità della scienza «si
svolge […] attraverso un processo in cui continuamente delle generalizzazioni vengono
contraddette dall’esperienza, e qualcosa che era ritenuto tipico viene per dir così detipicizzato.
Ciò si esprime già nel linguaggio, quando noi parliamo di esperienza in due sensi: da un lato
delle esperienze che si inseriscono ordinatamente nelle nostre aspettative, dall’altro delle
esperienze che uno “fa”. Quest’ultima, che è l’esperienza autentica, è sempre un’esperienza
negativa. Quando diciamo di aver fatto una certa esperienza, intendiamo dire che finora non
avevamo visto le cose correttamente, e che ora sappiamo meglio come esse stanno. La
negatività dell’esperienza ha quindi un senso peculiarmente produttivo» (Op. cit., p. 408).
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E qua non possiamo non chiedere: il metodo popperiano per trial and error e il “circolo
ermeneutico” di Gadamer descrivono due differenti procedure oppure si tratta di una stessa
procedure descritta in due differenti “gerghi”? E ancora: la semeiotica – l’interpretazione dei
sintomi – non si inquadra perfettamente nell’orizzonte della teoria ermeneutica di Gadamer?, e
cioè nell’orizzonte della semiotica? E la stessa diagnostica per immagini non consiste in un
continuo esercizio ermeneutico?
20. Un medico senza passione non sente la vita e la morte; forse può scorgere la malattia,
non vedrà mai il malato
La diagnosi nell’epoca della velocità e della complessità è il titolo dell’ultimo capitolo
del libro di Cagli, dove egli scrive: «se ad un solo dato volessimo far risalire ciò che ha fatto del
nostro tempo un tempo di crisi, diremmo che questo dato è “la velocità”. Tutto si svolge sotto la
sua insegna; e la velocità travolge, sommerge, cancella e ricrea le novità, le fa apparire e le
brucia, porta notizie sopraffatte subito dopo all’arrivo di altre, costringe gli uomini a mettersi al
passo con un ritmo che non è umano, che è piuttosto quello delle macchine che condizionano la
loro vita: l’automobile, l’aereo, la radio, la televisione, il computer, gli sms. Distanze cancellate,
tempi ridotti ad attimi e allora manca lo spazio per il silenzio, l’ascolto, la riflessione» (Op. cit.,
p. 83). Dunque: nella “velocità” Cagli vede ciò che fa del nostro tempo un tempo di crisi. E «la
medicina, egli scrive, è immersa in tutto questo, patisce di tutto questo: le sue difficoltà; almeno
per una cera parte, derivano da qui, perché anch’essa deve farsi veloce, in quanto solo così può
dimostrare la propria efficienza; ma così essa cambia e si stravolge» (Op. cit., p. 84). Si
stravolge per la ragione che da una parte «c’è una sofferenza antica come l’uomo», una
sofferenza «che viene patita nelle ore, nei giorni, nelle settimane, nei mesi, talora negli anni e
mai negli attimi», e dall’altra parte «c’è la medicina della velocità, con l’incontro fugace, con il
sollievo affidato ad un farmaco, che agirà quando può e come può, con un intervallo che resta
aperto al dolore, alla sofferenza, all’angoscia: un dolore che reclamerebbe una presenza
mediatrice e non la trova» (ibidem). Sebbene, mai come in questo nostro tempo la medicina è
stata capace di guarire, il malato non di rado finisce per sentirsi solo: «dimesso rapidamente
dall’ospedale o visitato frettolosamente dai medici, si rifugia nella speranza che il trattamento
prescritto sia efficace, che quelle compresse chiuse in quella scatola multicolore siano davvero il
farmaco che guarisce, ma non può sottrarsi alla paura e ad un sentimento profondo di infelicità»
(Ibidem). E sono le stesse grandi speranze accese dalla attuale medicina che «rendono ancora
più crudo il contrasto con l’organizzazione attraverso cui queste speranze dovrebbero realizzarsi
e, in effetti, in molti casi, nonostante tutto, finiscono per realizzarsi» (Ibidem). In realtà
l’itinerario che porta alla diagnosi è spesso necessariamente lungo e il malato non sempre si
rende conto delle difficoltà e della complessità che tale itinerario comporta; ma, in ogni caso, fa
presente Cagli, «il malato accetterebbe con più comprensione quella che gli appare come una
procedura diagnostica intollerabile,se soltanto avesse avuto dal “suo” medico vicinanza,
partecipazione, capacità di spiegare e sostenere, tutto quello, insomma, che la velocità del nostro
tempo ha ridotto al lumicino» (Op. cit., p. 85).
D’altro canto, non si deve affatto pensare che il medico non viva l’angoscia e il
tormento della diagnosi. Difatti, i “casi difficili”, annota Cagli, «non hanno una luce rossa che si
accende sulla fronte del paziente e segnala la difficoltà e l’impegno che quella situazione
richiederebbe» (Ibidem); il triage al Pronto Soccorso «è un intervento tecnico, effettuato da
infermieri esperti che serve a razionalizzare il lavoro», ma per il paziente in attesa al Pronto
Soccorso il codice è quasi sempre “rosso”, e questo vuol dire che «l’urgenza soggettiva e quella
oggettiva (pur nella misura in cui può essere oggettiva ed esatta) non coincidono mai» (Ibidem).
Certo, di fronte a malattie difficili, è difficile per il medico «cavarsela da solo» - per cui «il
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ricorso alle fonti di informazione, cartacee ed elettroniche che siano, dovrebbe essere sempre
presente alla mente del medico» (Op. cit., p. 86). Non è da condividere l’atteggiamento di quei
medici che si affidano «quasi esclusivamente (fatta salva la terapia, campo di aggiornamento
incontrastato dagli informatori scientifici dipendenti dalle industrie farmaceutiche) alle nozioni
apprese sui banchi dell’Università – dieci, venti o anche più anni prima»(Op. cit., p. 87). Tra
queste nozioni ve ne possono essere certamente anche di valide – della verità, infatti, non
chiediamo la data di nascita – tuttavia, precisa Cagli, «anche ciò che è ancora “vero” può essersi
arricchito di nuovi aspetti, di elementi nuovi e rilevanti», per cui «non si deve tralasciare l’utilità
di controllare su fonti aggiornate e degne di fede quanto abbiamo fatto o ci proponiamo di fare»
(Ibidem). E ancora: in passato problemi complessi e difficili richiedevano il “consulto” – un
clinico di chiara fama veniva chiamato a visitare il paziente insieme al medico curante e a
discutere con costui diagnosi, terapia e prognosi. Ma ai nostri giorni, scrive Cagli, non sono
pochi i cambiamenti intervenuti che via via hanno ridotto il ricorso al consulto. E tra questi
cambiamenti decisiva è «la parcellizzazione delle conoscenze mediche con la conseguente
affermazione di specialità e sotto-specialità» - parcellizzazione che «ha reso spesso difficile al
medico curante individuare il consulente adatto. Inoltre, in non pochi casi si rendono necessari
altri esami e allora il risultato del consulto viene ad essere il ricovero in ospedale» (Ibidem).
Tutto ciò, per non parlare degli aspetti economico-sociali che rendono a volte proibitivo il
ricorso al consulto, in quanto «in un regime di assistenza gratuita o quasi gratuita come il
nostro, la spesa per un onorario da corrispondere potrebbe essere troppo elevata per alcuni, ma
anche rifiutata in linea di principio da altri» (Ibidem). E, ad ogni modo, il medico di famiglia è
difficile che trovi, nella sua giornata così fitta di impegni, il tempo e la voglia di ricorrere al
consulto. E anche il ricorso allo “specialista” non è privo di rischi: «la scelta dello specialista
dovrebbe essere oculata perché “l’errore di specialità” (per es. l’invio al cardiologo di un
paziente con dispnea da sforzo, in realtà portatore di anemia) può ritardare la diagnosi o
condurre del tutto fuori strada» (Op. cit., p. 88).
Ebbene, «questo insieme di circostanze, che derivano dell’enorme accrescimento del
sapere medico, dalla crescita impressionante delle nostre capacità di indagine (analisi di
laboratorio, ricerche di immagini e strumentali), dalla frammentazione della competenza che ne
è seguita, in una parola dalla accresciuta complessità della medicina attuale e, su di un altro
versante, dalla fretta cui la medicina della velocità obbliga il medico, determinano non di rado
degli itinerari diagnostici penosi ed irrazionali» (Ibidem). Itinerari “perversi”, dove il malato
incontra i pareri conflittuali di specialisti diversi, le difficoltà dei ricoveri ospedalieri, la non rara
collocazione impropria nei reparti di degenza, la difficoltà di far incontrare specialisti diversi al
letto del malato come sarebbe richiesto dalla sua polipatologia: sono queste le evenienze più
comuni, aggravate dal fatto che negli ultimi anni si è avuta una riduzione dei posti letto nei
reparti di medicina interna, «per privilegiare quelli di specialità e ciò principalmente a causa del
fatto che i DRG sono più remunerativi!» (Ibidem). Questo, mentre dovrebbe essere chiaro che
«proprio il fenomeno della comorbosità è un forte argomento per il rilancio della medicina
interna» (Ibidem). Di conseguenza, l’internista – ammonisce Cagli – non può essere un
“tuttologo”, dovrebbe piuttosto avere alcuni “punti di forza” in alcuni settori della medicina
interna, coltivati in profondità e insieme possedere competenze in altri campi tali da porlo in
grado di riconoscere quei problemi complessi per i quali è necessario il ricorso agli specialisti.
Sin qui, dunque, le ragioni della “crisi della diagnosi”. “Crisi” o “metamorfosi” della
diagnosi? È questa una ulteriore domanda che vorrei porre a Cagli. Egli, da maestro quale è, non
mette minimamente in dubbio che mai come oggi la medicina è stata in grado di guarire o
almeno di lenire la sofferenza. Quel che, piuttosto, intende sottolineare è che l’atto diagnostico
si trova sempre più dilaniato tra due inconciliabili richieste dei pazienti: «da un lato, infatti, si
invoca la “velocità” – diagnosi rapide, cure subito efficaci. Dall’altro lato, però, si vorrebbe la
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“lentezza”, un medico non frettoloso, la possibilità di raccontare la propria storia e la propria
sofferenza, il sollievo delle parole che chiariscono e consolano» (Op. cit., pp. 88-99). Richieste
inconciliabili, dice Cagli. Ma davvero e sempre le cose stanno così? È proprio impossibile
conciliare le innovazioni, i potenti strumenti della medicina attuale, con il comportamento dei
saggi e vecchi medici? Cagli non pare credere a simili possibilità. «I pochi medici della
lentezza, egli scrive, sono vecchi, molti sono usciti di scena, altri stanno per farlo. Hanno
percorso un lungo cammino. Si sono trovati alla fine del secondo conflitto mondiale con una
formazione in cui il contatto con il malato era fondamentale: la lunga visita del clinico in corsia,
la discussione al letto del malato, le minuzie dell’esame obiettivo e del ragionamento clinico
come chiave della diagnosi; il laboratorio e gli esami strumentali intesi soltanto come conferma,
mai come mezzo per andare dritti ad una conclusione; la diagnosi differenziale come strumento
per eliminare ciò che può somigliare al vero, ma vero non è; i tempi lunghi del ricovero
ospedaliero per avere lumi dal decorso (“Il maestro di noi tutti”, lo definiva Cesare Frugoni),
per sorvegliare l’effetto della terapia, per osservarne l’esito; il riscontro autoptico (oggi quasi
scomparso, anche perché non remunerativo!), praticato in molti casi, con gli incomparabili
insegnamenti che se ne potevano trarre. Si sono trovati, questi “medici d’altri tempi” con un tale
bagaglio, lo hanno utilizzato con soddisfazione nel corso di molti anni, hanno anche avuto
l’impressione che alla loro soddisfazione corrispondesse quella di molti pazienti. Certo, non
hanno potuto condurre su questo aspetto osservazioni “randomizzate e controllate”, ma si
tengono il loro convincimento, se non altro in segno di gratitudine per l’insegnamento ricevuto
dai loro maestri» (Op. cit., p. 89). Certo, anche per questo, ma, direi, anche e soprattutto perché
l’insegnamento di questi maestri, ad avviso di Cagli, resta valido. Può sembrare strano chiedersi
se si possa essere medici senza passione. Ma non è così, perché – osserva Cagli, «la passione è
quella che ci fa comprendere quando un malato è davvero urgente e ci mette in moto su tutti i
fronti perché quella diagnosi possa essere raggiunta al più presto. La passione ci impedisce di
ricorrere a ciò che più volte abbiamo sentito raccontare dai nostri ammalati, di medici che
dicono “alzo le mani”. La resa può essere saggia se serve ad evitare l’accanimento terapeutico.
Non lo è mai di fronte ad un problema diagnostico che non si sa come affrontare: non bisogna
arrendersi quando non si capisce; dobbiamo cercare ancora; dobbiamo cercare insieme a
qualcun altro; dobbiamo chiedere aiuto; dobbiamo offrire una strada quando non è possibile
offrire una soluzione» (Op. cit., p. 90).
Indubbiamente, la passione – questo umano coinvolgimento nella sofferenza del malato,
questo impegno indomito nel cercare la giusta soluzione e «offrire una strada quando non è
possibile offrire una soluzione – non si può insegnare. E, tuttavia, «si può trasmettere». E qui,
scrive Cagli, tornano i maestri: «torna la necessità di incontrare nella fase formativa personaggi
e non ombre, uomini che vivano di scienza e di passione per la loro scienza e non pallidi
burocrati attenti a timbrare il cartellino all’ora giusta o a cercare il DRG più conveniente. Un
medico senza passione non sente la vita e la morte; forse può scorgere la malattia; non vedrà
mai il malato. Aver sterilizzato la passione, aver trascurato, non di coltivarla per ché non è
possibile, ma di rispettare quelle condizioni che sole possono permetterle di esistere, è stato uno
degli elementi che ha condotto non soltanto alla crisi della diagnosi, ma alla crisi della medicina
o anche se ci guardiamo bene attorno, alla crisi della nostra società. Se visitare un malato
diviene una prestazione, se raggiungere una diagnosi significa soltanto seguire pedissequamente
delle linee-guida, se vogliamo soltanto un rispetto di regole e regolette, siano esse
metodologiche o burocratiche, se dobbiamo farsi imporre ciò che dobbiamo o non dobbiamo
fare da professionisti estranei al mondo medico e legati a logiche estranee e spesso conflittuali
con quelle della medicina, allora la nostra crisi permarrà e si aggraverà» (Op. cit., pp. 90-91).
Ammonimenti più che giusti da parte di un maestro dotto e saggio, la cui amicizia è un dono
prezioso. Di un maestro che spinge a capire, tra altre rilevanti cose, che, se il medico deve agire
con scienza e coscienza, la coscienza (epistemologica) della scienza dovrà essere uno dei primi
27
impegni del medico. Così pensava il marchigiano Augusto Murri, così affermava il marchigiano
Giuseppe Giunchi e così insegna oggi il marchigiano Vito Cagli.
28
WORKING PAPERS
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9. Maria Cristina Sandor, Valore e limiti delle previsioni congiunturali nell’economia moderna, 1995
10. Marina Valensise, François Furet e la storia delle idee nel XX secolo, 1995
11. Roberta Adelaide Modugno, Il positivismo in Italia: Enrico Ferri e il suo tempo, 1995
12. Giuseppina Gianfreda, Informazione, persuasione e mercato: teorie economiche sulla pubblicità,
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13. Albertina Oliverio, Lo «Stato di diritto». Mises, Hayek e Popper: un confronto, 1995
14. Luigi Compagna - Dario Antiseri, Una disputa su liberalismo e liberismo, 1995
15. Luisa Sagripanti, La nuova retorica e la pubblicità, 1995
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17. Katia Bucaioni, La libertà dei culti nella Repubblica Popolare Cinese sotto Deng Xiaoping, 1995
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27. Caterina Galluccio, Una ricerca di psicologia economica, 1996
28. Angela Gatto, La bioetica: problemi etico-giuridici, 1996
29. Pietro Cavara, La pena di morte come esasperazione anticostituzionale della politica rivoluzionaria,
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30. Michela Galzigna, K.R. Popper e L. Wittgenstein e la riforma della Scuola austriaca, 1996
31. Michael Segre, Contro l’empirismo, 1996
32. Luigia Caponi, Augusto Del Noce e il problema della secolarizzazione, 1996
33. Michael Segre, Individualismo non riduzionistico, 1997
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