La cura di sé a fine vita Il lavoro qui descritto vuole essere,oltre che

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La cura di sé a fine vita Il lavoro qui descritto vuole essere,oltre che
La cura di sé a fine vita
Di Laura Campanello: [email protected]
Il lavoro qui descritto vuole essere,oltre che un resoconto, un bilancio di un processo
in atto, di una storia professionale e di vita che consenta di tracciare anche alcune
linee per progetti e prospettive future. Il lavoro concreto, nella forma della
professione, prese l’avvio nel luglio 2006, ma nella mia storia di vita prese l’avvio anni
fa, ancora durante il corso di Laurea Specialistica in Consulenza Pedagogica e Ricerca
Educativa all’Università Bicocca di Milano, e forse anche prima.
Infatti proprio in quel percorso di formazione ho avuto la possibilità di tradurre e
ritessere esperienze professionali già maturate negli anni precedenti l’iscrizione con
nuove prospettive e possibilità professionali e, certamente, esistenziali.
Da sempre mi confrontavo con il pensiero della morte, mia e altrui
“Pensieri intorno alla propria morte come il rombo lontano del tuono a un pic nic”
(W.H. Auden, da Shorts)
Finalmente potevo elaborare e convogliare questi pensieri verso un progetto che
componesse più aspetti della mia esperienza.
La professione che nel tempo siamo andati definendo come Abof1 (Analisi biografica a
orientamento filosofico) è nata prima di tutto dall’incontro e dalla frequentazione tra
persone con esistenze e professioni affini ma non per forza omogenee, accomunate
dalla ricerca e dalla cura di sè, dal tentativo di vivere una vita che trovi un senso,
dalla condivisione di una pratica esistenziale e affettiva che potevamo esprimere
anche nei Seminari Aperti di Pratica Filosofica di Milano e Venezia.
L’analista filosofo è colui/colei che prima di tutto cerca per sé il senso dell’esistenza,
un senso che è prima di tutto biografico, che può essere condiviso con l’altro a partire
dall’universalità della condizione umana; è colui/colei che sta al mondo con “occhi e
cuore aperti”2 che per la mia specificità significa, prioritariamente, cercare di abitare
al meglio il “limite”.
1
Per approfondimenti si veda “Che cos’ è l’analisi biografica a orientamento filosofico” sul sito: www.scuolaphilo.it di
Romano Màdera
2
Dalla prefazione di R.Màdera al testo di Laura Campanello: Non ci lasceremo mai? L’esercizio filosofico della morte
tra filosofia e autobiografia, Unicopli, Milano 2005
I lutti, le separazioni, i cambiamenti, le rinunce…tutto fa parte dell’esistenza “per
quella che è”: la chiave è “collocarsi” in questa vita, nella propria vita e darsi un modo
di vivere che consenta di “darsi pace”.
L’ambito di applicazione professionale di tutto questo è diventato per me,
prevalentemente, il sostegno alla malattia, specie quella oncologica e il sostegno al
lutto in ogni sua forma reale o simbolica, oltre all’ambito educativo ove, come genitore
prima ancora che come analista, filosofa o consulente pedagogica, vedo la questione
del limite fondamentale.
Studiando filosofia, psicologia, pedagogia, ripercorrendo la mia vita, ascoltando amici,
parenti, docenti, guardando la società, le pubblicità ... mi pare evidente che la paura
della morte, la negazione del limite dell’uomo e dell’esistenza, la continua ricerca di
onnipotenza e perfezione, la rimozione della malattia, del lutto,…porti
imprescindibilmente a pensare che la morte, l’horror vacui, la solitudine e l’
abbandono siano le dimensioni più profonde ed ultime contro cui l’uomo si arresta, da
cui scappa, che nega, salvo poi essere timoroso, ansioso,depresso, … senza sapere più
il perché!
Credo infatti che ogni inquietudine umana si declini sempre come timore e inconscio
sapere di un limite. Il limite umano.3
Pensai quindi, tempo fa che, iniziando ad intraprendere la professione della Analista
Filosofa e della consulente Pedagogica, non potevo non confrontarmi con l’unico,
imprescindibile snodo che ognuno sa di dover affrontare: la morte, appunto, biologica
e reale, ma anche nelle sue molteplici forme metaforiche quali, appunto, il limite, la
separazione, il silenzio, l’irreversibilità di alcuni eventi,…la non onnipotenza.
“Non onnipotenza” certo e non “impotenza”: la prima implica che pur non nella
infinita possibilità di scelta si possono utilizzare alcune risorse e contare su alcune
opportunità; la seconda implica in sé la paralisi, l’impossibilità dell’azione e del senso
di ciò che si è e di ciò che si fa, tanto più davanti al dolore ed alla morte reale.
Fu per me imprescindibile, necessario alla vita, iniziare ad attraversare questo tema,
con i suoi corollari, le sue implicazioni, per cercare di vivere meglio ed essere poi
maggiormente in grado di accompagnare le ricerche esistenziali di coloro che avrei
3
Laura Campanello, Non ci lasceremo mai- l’esercizio filosofico della morte tra autobiografia e filosofia- Unicopli,
Milano, 2005 – Collana Laboratori della memoria, diretta da Duccio Demetrio
incontrato nel mio lavoro e nelle relazioni e poter, ancor prima, cercare di vivere io
stessa una vita consapevole, autentica, libera da falsi timori o fallaci speranze.
Questa esperienza prende il nome di esercizio filosofico “della morte” o, per dirlo con
parole meno intollerabile nell’occidente odierno, esercizio filosofico “del tempo
presente”.
Sentivo particolarmente vera e paralizzante per me la frase di Epicuro:
“è con lo stesso timore della morte che ti sei resa impossibile la vita”
4
Questo esercizio invita a posare uno sguardo sulla propria esistenza a partire dalla
prospettiva della morte, della finitezza del nostro tempo esistenziale, invita a
prenderne atto quotidianamente, senza negarla o obliarla, permettendo ed imponendo
di compiere un percorso di ricerca del senso della vita, dell’ ineluttabilità del limite
che caratterizza l’umana esistenza e cercando di vivere di conseguenza.
Quando questo nuovo modo di guardare il mondo e l’esistenza avviene a causa di un
evento reale spesso drammatico e non solo per mezzo di un esercizio quotidiano volto
a “formare” la persona per vivere meglio, inizia la danza dei “Se avessi saputo…” “Se
avessi previsto che finiva così…”, “Se avessi ancora del tempo davanti a me per…”
Questo accade perché realmente pochi vivono sapendo e prevedendo che così sarà,
perché pochi vivono pienamente ogni momento della vita, rimandando invece tutto
ad un futuro dato per certo, scontato e dovuto: quasi preteso.
Ma quando qualcosa che impone una sosta accade è davvero troppo tardi?
O è auspicabile che questo spazio di malattia, di sosta e di rottura si possa vivere
anche nella direzione, non immediata e semplice, del congedo, del perdono, del dono,
della ri-tessitura di un senso esistenziale, …
“La tregua autobiografica non è una forma più alta di spiritualità: è un venire a patti con se stessi, gli altri, la
vita.” 5
“Tutti noi abbiamo bisogno di capire il significato delle nostre vite prima di morire e ne abbiamo bisogno per
accettare amorevolmente ciò che siamo stati” 6
Quindi, per me in particolare, un ruolo importante di un’Abof è quello di aiutare,
affiancare le persone non solo malate ma anche sane, a vivere meglio la vita perché in
4
Epicuro, “Scritti morali” , introduzione e trad. a cura di G.Diano, BUR, Milano, 2004, (Sentenze e frammenti,
104)
5
D.Demetrio, Raccontarsi – L’autobiografia come cura di Sé, R.Cortina, Milano 1996, p.21
6
Perdonare la morte, Livia Crozzoli Aite, Rivista di psicologia Analitica, La perdita – Lutti e trasformazioni, Nuova
serie, n.17, 69/2004, La Biblioteca di Vivarium, p. 173
realtà noi “sappiamo che…” non siamo eterni, le malattie e la morte non toccano solo
agli altri, e la vita va vissuta al meglio qui e ora.
Questo è valido anche per la consulenza pedagogica, anch’essa a orientamento
filosofico nei termini fin ora detti: “darsi pace” significa intraprendere una strada di
accettazione e perdono di chi ci ha preceduti ed educati a sua volta, o verso di noi e
alcune parti poco “nobili e perfette”, che guidi le scelte dell’oggi e del futuro. Significa
accettare i cambiamenti in noi e nei nostri figli, così come nei nostri genitori, i cicli di
vita, dalla simbiosi al distacco,… cercando sempre di trovare la migliore collocazione
nella vita che ci è data di vivere.
Sono approdata all’Hospice dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, diretto dal
Dott. A. Caraceni, nel giugno 2006; qui sono stata accolta con tanta curiosità
relativamente al ruolo di “filosofa” quanta disponibilità, con il desiderio di capire e
sperimentare sia da parte mia che loro se la proposta di una analista biografica ad
orientamento filosofico avrebbero retto la prova con l’ esperienza principe della vita: il
dolore e la morte.
La curiosità relativamente alla pertinenza e al senso del mio ruolo abitava anche in
me: se la mia ricerca, il mio tentativo di dare un senso al morire, di cercare la
consapevolezza e il senso della vita avesse “retto” la prova reale della malattia ad uno
stadio di terminalità avrebbe retto ovunque; se io fossi riuscita a superare la paura e
dare spazio alla pietà e alla compassione per avvicinare e, potendo, aiutare malati e
parenti, allora non stavo farneticando inutilmente di vuote teorie.
Perché la Filosofia come pratica di vita deve reggere il confronto con l’esistenza,
altrimenti si ritorna alla congettura teorica spesso vuota che dell’esistenza non sa
nulla e che alla stessa serve poco.
Così come Abof e quindi come persona, con le mie emozioni, le paure, le storie e le
risorse, i limiti che incontravano altre storie, relazioni, paure e risorse di altre
persone, malati, operatori, parenti dei malati, ho iniziato un importante percorso
esistenziale e spirituale che ha delle indubbie ricadute sul piano professionale.
“Niente più del lavoro con i morenti – sottolinea il maestro buddista Sogyal Rimpoche
– accelera la nostra crescita di esseri umani. Avere cura di chi muore è in sé una
profonda contemplazione e una riflessione sulla nostra morte. Imparare a dare vero
aiuto a chi muore vuol dire cominciare a perdere la paura e assumere la
responsabilità della nostra morte” – aggiungo della nostra vita! – “e a scoprire in noi
stessi le avvisaglie di una compassione infinita e mai sospettata prima”7
L’ambito delle cure palliative è particolarmente vicino alla pratica filosofica intesa da
Sabof8 perché qui ci si prende cura della persona che finalmente viene vista nella sua
interezza: soggetto fisico, psichico, e spirituale.
E’ concesso e richiesto uno sguardo sull’intero che raramente ho sentito possibile in
altri contesti: la persona è prima di tutto un soggetto che sta al mondo e in questo
stare al mondo è stato accolto o rifiutato, educato, ha educato e educa a sua volta
qualcuno probabilmente, è portatore di valori, di pratiche di vita… e questo è vissuto
e ordinato all’interno delle sue strutture psicologiche ed emotive, affettive e corporee,
spirituali. E credo che solo guardare l’intero o la parte nell’intero possa davvero
aiutare gli individui a vivere meglio, la vita, la malattia, la morte.
La persona è qui considerata non incurabile (perché la Cura trova qui il suo senso più
alto) ma inguaribile: la malattia e la persona convivranno fino alla fine, sia questa
fine vicina o lontana nel tempo.
E questa realtà difficile e dura diviene metafora della vita di ciascuno: la morte ci
affianca fin dalla nascita, bisogna farsene “qualcosa” per tutta la vita.
Non solo, infatti, credo si dovrebbe lavorare su questo tema con le persone sane, anche
con i giovani, ma credo soprattutto che un certo tipo di percorso esistenziale andrebbe
svolto fin dai primi momenti della diagnosi: quando una persona scopre la malattia,
specie quella oncologica, si trova smarrita, spaventata, inizia per lei una vita nuova,
diversa da quella che ha preceduto la diagnosi, dove non solo cambiano i ritmi e le
priorità concrete ma tutto si ricolloca nell’esistenza: il presente, ma anche il passato e
il futuro prendono una forma nuova, dei contorni differenti e più sfumati, si propone la
rabbia, il rimpianto, la paura.
Giustamente la priorità d’azione viene posta sul piano medico, scientifico, del farmaco,
della chirurgia,… della guarigione ancora una volta come obiettivo unico e
fondamentale.
Ma nella persona anche il piano spirituale, emotivo, relazionale, valoriale, esistenziale
viene messo fortemente in crisi. Questi piani rischiano di venire accantonati, rimossi,
7
Livia Crozzoli Aite, “Perdonare la Morte”, Rivista di psicologia analitica, “La perdita-Lutti e
trasformazioni”, nuova serie, n. 17, 69/2004, La Biblioteca di Vivarium , pag 71
8
Si veda lo statuto della Società di Analisi biografica ad orientamento filosofico su www.scuolaphilo.it
rimandati a quando la medicina si dichiara impotente e si approda al piano della
palliazione appunto.
La persona però resta inchiodata, paralizzata, non riesce a ricollocarsi nella nuova
esistenza che le viene imposto di vivere, spesso si sente in colpa, non riesce a
comunicare il suo stato, anche per proteggere chi le è vicino dall’angoscia che ormai
permea tutto.
Il tipo di rapporto che si crea intorno alla malattia dipende molto da come si è vissuto
fino a quel momento: solo che il copione che in vita e salute poteva essere funzionale
va spesso modificato in malattia.
Questo tempo difficilissimo dovrebbe essere il tempo dell’accompagnamento, del
sostegno, della rilettura ed eventuale trasformazione o rafforzamento di relazioni nate
nel corso dell’esistenza, che sono chiamate a prendere anch’esse una nuova forma, un
nuovo ruolo, a partire dal nuovo sguardo che è quello della possibilità di un congedo.
Invece il malato è spesso solo, si sente solo, protegge se stesso e gli altri lasciando
anche chi lo ama nella solitudine di questa incomunicabilità del dolore e del terrore.
La sofferenza e il dolore, l’angoscia, prendono significati diversi in ogni persona: forse
dipende non tanto dall’età in cui la malattia colpisce quanto da come hai vissuto la
vita prima della malattia, da come intendi la morte, da chi lasci e se le persone che
lasci sono disposte e capaci di lasciarti andare.
Più tempo si ha e ci si regala, sia da sani che da malati, per costruire il senso e il
disegno della propria vita, insieme a chi con noi questa vita la condivide e l’ha
condivisa, più l’evento della morte diviene meglio tollerabile per tutti coloro che ne
sono coinvolti.
Certo, non si può arrivare ad eludere la sofferenza, sarebbe l’ennesima negazione: ma
si può vivere la sofferenza con maggiore serenità, e in molti casi l’ho visto accadere,
grazie all’intervento e al sostegno di una o più persone implicate nel processo di cura.
In questi momenti è fondamentale anche l’accompagnamento e il sostegno al parente
del malato: per capire cosa fare, come fare, per esprimere paure, dubbi, rabbie,
desideri, fatiche….per sentirsi legittimati e non in colpa o inutili, per capire come
comunicare con il malato o “semplicemente” come ascoltarlo.
A volte arrivano all’Hospice anche persone giovani che hanno figli piccoli e alla
sofferenza della malattia e della eventuale imminente morte si aggiunge la sofferenza
e la fatica di dovere gestire e comunicare, sostenere e permettere il dolore dei bambini,
il congedo da loro, il futuro lutto che vivranno e la sofferenza che ogni genitore
vorrebbe evitare al proprio bambino.
In ogni storia è fondamentale poter lavorare sul congedo migliore possibile, sulle
relazioni vissute con difficoltà che sono da appianare, sul perdono, sui desideri
principali del paziente e la reale sostenibilità della loro realizzazione nei parenti.
Il momento impone bilanci, domande, decisioni fondamentali relative alla propria
qualità di vita.
In Hospice si tengono spesso riunioni tra operatori e parenti allo scopo di svelare i
“non detti”, le rabbie, le attese, i desideri, la paura e per cercare di intrecciare
esigenze/prospettive mediche e di cura con le necessità relazionali, le risorse e limiti
della famiglia, per integrare tutti i piani e permettere una storia possibile e sostenibile
da tutti gli attori coinvolti: malato, parenti, operatori.
I gruppi per i parenti che sono presenti in Hospice, ad esempio, concedono la
condivisione di storie e fatiche, attraverso la narrazione si aiuta il parente a
interiorizzare l’altro che sta morendo, si permette di fare un nuovo posto in un nuovo
modo all’altro e si prepara anche il lavoro del lutto che eventualmente verrà.
Nella consapevolezza che se il parente è supportato può divenire risorsa fondamentale
per il malato.
Imprescindibile poi è che, sia il malato sia i parenti, abbiano un luogo e un tempo ove
esprimere paure e ansie che sono così grosse, a volte, da non poterle condividere con
chi è coinvolto profondamente nella storia di malattia: fondamentale diventa allora il
ruolo di un “terzo”, testimone e custode sensibile, attento e spesso silenzioso.
In alcune occasioni, non raramente ammetto, mi sono trovata a piangere, in Hospice,
in metropolitana, a casa.
Mi sono anche spesso chiesta perché avevo bisogno di fare tutto questo, di toccare con
mano tanta sofferenza, di provare a fare qualcosa per persone che neanche conosco o
che arrivo a conoscere per così breve tempo ma così profondamente e intensamente:
credo davvero che chi opera con la malattia, mentale o fisica che sia, cerchi in qualche
modo anche di curare se stesso, di pensare di poter fare qualcosa per gli altri e per una
parte di sé che aiuti a lenire una sofferenza che è di tutti, che è inevitabile, in parte
incolmabile ma in parte, forse, almeno attenuabile nella compassione, nella vicinanza,
nella condivisione.
Una volta che piangevo in infermerìa, dopo aver salutato una famiglia che il giorno
dopo si sarebbe recata a casa per stare ancor più vicina al proprio caro, ormai prossimo
alla morte, con cui tanto avevamo parlato e condiviso e che sapevo non avrei più
incontrato, una “collega” mi ha detto, quasi stupita:” Allora anche tu piangi?!
Qualcuno dice che non si può fare questo lavoro se si provano emozioni così intense e
non le si sanno gestire! Però mi consolo: anche io spesso piango!”
Mi ha colpito questo commento, sia perché ha lasciato trasparire un immaginario
comune e largamente condiviso che è quello secondo cui chi si occupa del dolore altrui
lo può fare in nome di un livello di distacco o almeno di gestione delle emozioni che non
appartiene all’uomo comune che si occupa professionalmente di altro; sia perché ci si
concede di comunicare in profondità con l’altro solo quando l’altro mostra la sua
fragilità, la sua sensibilità, la sua umanità. Non a caso, credo, mi sono concessa di
piangere in sua presenza: sapevo di essere accolta e non giudicata ma di poter
condividere quel momento con una persona che era stata anche testimone e attore con
me di questa storia di cura.
Io credo che chi sa ancora commuoversi o, come nel mio caso, semplicemente non puà
farne a meno, non abbia più bravura o saggezza di altri, chi sa stare vicino ai malati e
ai loro cari non solo con la sua capacità professionale ma anche con la sua sensibilità e
profonda compassione umana, svolga meglio il proprio lavoro, faccia sentire calore a
chi viene accudito e curato. Certo bisogna saper trovare la giusta distanza che accoglie
chi soffre ma non confonde i ruoli, che sostiene con compassione ma differisce ad altri
luoghi e soggetti il proprio dolore, facendo posto e dando precedenza al dolore altrui e
che consenta di svolgere il lavoro senza approdare altrimenti al burn – out, alla
sovraesposizione emotiva che non consente più di svolgere una professione di relazione
a volte faticosa come questa.
Ogni giorno si viene messi di fronte alla fragilità e precarietà della vita, altrui e
personale.
Ogni paziente, ogni storia famigliare e ogni operatore mette in atto una relazione
nuova, da conoscere, da costruire, da contrattare: c’è chi vuole il silenzio e cerca di far
finta di niente, chi parla molto, chi piange, chi è circondato da molte persone, chi è
solo,… e ogni volta, quasi quotidianamente, l’operatore deve entrare in un mondo
nuovo, fragile, che si trova nel suo momento più difficile di vita e nel fare questo deve
rivedere i propri assunti sulla vita, la malattia, la qualità di esse, la paura, il modo di
vivere le relazioni, la Fede e la spiritualità, in una ri contrattazione delicata e
complessa oltre che continua.
Ci vogliono tempi e luoghi dove rielaborare, raccontare, rileggere alcune emozioni,
alcune esperienze: la supervisione per me è questo spazio, i gruppi di auto formazione
con i colleghi, il confronto con chi, come me, si occupa del piano esistenziale e
spirituale e non prettamente medico, ma anche con medici e operatori sanitari che
spesso cercano confronto e conforto relativamente ai loro interventi e alle loro relazioni
professionali e di cura.
Mi è stata data anche l’opportunità di tenere alcuni interventi laboratoriali diretti agli
operatori che sono attivi nell’ambito delle cure palliative. Per laboratoriali intendo
spazi e tempi in cui, grazie ad una breve introduzione teorica, viene data la possibilità
ai presenti di riflettere, scrivere, dialogare da soli, a coppie, in gruppo, con me e senza
di me relativamente alla loro esperienza professionale ma prima di tutto umana,
andando a tessere e vedere possibilità di vicinanza e fatiche nella scollatura che spesso
si crea tra mondo interno e mondo professionale, tra valori personali e azioni
lavorative, …
Sarebbe quindi auspicabile l’inserimento, all’interno del percorso formativo e
professionale poi degli operatori tutti, , di momenti di riflessione esistenziale a partire
da sé.
Cosa un operatore pensa della vita, del processo del morire, della malattia, incide
fortemente sul suo modo di operare, di intendere la qualità di questi momenti, sulla
possibilità di condividere o meno gli obiettivi, le modalità di perseguimento e
realizzazione degli obiettivi stessi, la mission del luogo di cura in cui opera.
Si parla molto di umanizzazione della cura: quale umanità si ha in mente, con quale
vita e quale morte e come si può contrattare questa qualità tra il malato e l’operatore?
Ho quindi potuto proporre e condividere con infermieri, operatori socio sanitari,
medici, un percorso di riflessione sul possibile senso della malattia e della morte, sul
“cosa ce ne facciamo della morte in vita”, su come possiamo eventualmente
trasformare in risorsa ed esercizio permanente un lavoro che altrimenti rischia di
portare all’annichilimento.
Sono stati incontri spesso apprezzati sia perché si parla di sé, della propria umanità,
della propria difficoltà, ma soprattutto perché viene concesso un tempo di sosta
riflessiva, di confronto, di sfogo, di rielaborazione che cerca di connettere il piano
professionale, quello emotivo personale, la propria storia di vita e di lavoro, le risorse e
i limiti, andando a esplicitare nodi che vengono spesso celati alla ricerca di una
impossibile ma tacita richiesta o di insensibilità che protegge o di vestire i panni del
“super eroe” che tutto sopporta, senza farsi scalfire; questo mette in gioco una specie di
“falso sé” , una maschera esteriore che non manifesta e non decodifica lacerazioni e
fatiche interne non solo normali ma auspicabili, purchè diventino motivo di crescita di
sé, personale e professionale.
Non è possibile non immedesimarsi nelle situazione che si vedono in reparto: il malato
potrei essere io, potrebbe essere mia madre, un mio parente, un amico cui voglio molto
bene,…
Specie quando arrivano ricoverate persone giovani, con genitori disperati, amici che
non si danno pace,… come restare distaccati da un evento del genere? E poi “perché”
restarne distaccati?
Si vorrebbe poter essere umani e sensibili ma schermati, gentili e accoglienti ma non
coinvolti, vicini ma senza provare sentimenti dolorosi,…. forse sono connubi
impossibili?
Ed è proprio in questa fase del processo assistenziale che il modo che un operatore ha
di intendere la relazione, la solitudine, il congedo, la morte, la spiritualità…..entra in
gioco profondamente e diviene risorsa o limite per lui e per i pazienti e i parenti.
Vorrei concludere con una storia di cura, di vita e di morte: forse anche come tributo
ad un incontro importante, uno dei miei primi incontri in Hospice, a una donna con
cui ho lungamente parlato nelle ultime settimane della sua vita.
In molti casi si può davvero agire nella direzione e nell’accompagnamento ad una
buona morte, che resta comunque una morte, drammatica nella sua ineluttabilità e
irreversibilità, ma che può giungere e verificarsi in una situazione relazionale,
spirituale, emotiva migliore di quanto pareva possibile all’inizio della malattia o del
ricovero.
Questa donna mi è stata presentata come “dura”, autoritaria, capace di decidere per
grosse organizzazioni e grandi numeri di persone, caparbia, autonoma…sola e
incapace di “mollare” il controllo sulla vita, di farne un bilancio positivo,…
C. aveva iniziato a ricevere alcuni trattamenti shiatsu volti a rilassarla e alleviarle il
dolore prima che io la incontrassi; durante il trattamento, iniziò presto a lasciarsi
andare al pianto, a “mollare” come mai era riuscita a fare, a lasciar emergere la
consapevolezza e la paura della fine. “lavorando su di lei sta emergendo la
consapevolezza, si sta lasciando andare …” mi disse l’operatore Shiatsu e insieme ci
chiedemmo: cosa ce ne facciamo poi di questa consapevolezza che comunque apre
anche all’angoscia?
Mi sono quindi affiancata, in tempi differenti ai suoi, al collega shiatzuka: entrambi
eravamo aperti all’ascolto e alla vicinanza. Lui permetteva alle istanze più profonde di
emergere attraverso il corpo, attraverso il tocco, grazie ad una vicinanza che invitava
all’abbandono di sé all’atro, all’interno di una situazione di accudimento profonda. Lei
iniziò a rilassarsi, ad addormentarsi durante o dopo il trattamento, a piangere, a
verbalizzare emozioni prima a lei stessa inammissibili.
Il collega, attraverso il corpo, permetteva l’emergere di un nuovo stato emotivo,
psichico e spirituale.
Io raccoglievo questa sua faticosa e ricca consapevolezza sul piano verbale, mi rendevo
testimone e orecchio per quelle emozioni, quelle riflessioni, quei racconti di vita che
attraverso il corpo riuscivano ad emergere e che, forse, sul piano verbale, sarebbero
emerse in tempi lunghi…di cui non potevamo disporre, purtroppo.
C. parlava molto, raccontava di sé, a volte gli occhi le si inumidivano ma si scusava per
questo, poi quando era stanca la lasciavo riposare. Mi ha detto molte cose della sua
vita, di come stava pensando di sistemare le attività, di come rivedeva la sua esistenza
da quel letto.
Siamo riuscite a incontrarci non molte volte ma, anche grazie alle riunioni d’Equipe
dove ogni operatore, in qualsiasi ruolo fosse coinvolto nella cura di C., poteva
condividere con gli altri riflessioni e piani di intervento, abbiamo agito insieme nella
stessa direzione.
C. riuscì a breve a dare disposizioni dei suoi beni, a dare le consegne del suo enorme e
importante lavoro, a essere maggiormente dolce e accogliente nelle relazioni, a morire
serena: o almeno molto più serena di quello che avremmo immaginato quando approdò
all’Hospice.
Questo per me è stato non solo l’inizio di una bella e importante collaborazione con
G.Cislaghi, operatore shiatsu, ma anche la verifica del fatto che un Abof non può
prescindere dal corpo e chi lavora con il corpo non può non cercare opportunità di
ascolto e rielaborazione attraverso la parola.
A lui quindi, la conclusione di queste pagine:
Shiatsu: arte dell'ascolto, arte per la salute.
Corpo. Fisico, materico; equilibrio di carne, sangue e respiro. Corpo che
consegna l'esistere stesso a noi; con confini fisici precisi: la pelle; con pensieri ed
emozioni che accompagnano ogni istante della vita. Corpo come mappa “interattiva”,
mezzo di comunicazione per ciò che è esterno a noi e per ciò che è interno a noi; corpo
che invia e riceve messaggi. Corpo che si “rinnova”, che muore e nasce continuamente
seguendo leggi della natura meravigliosamente insondabili per la nostra mente. Corpo
che respira, atto primordiale e atto finale. Corpo che nasce dall'unione di due anime,
ricevendo da entrambe l'energia per tutto il processo vitale, “Vita-Morte-Vita” come
sottolinea Clarissa Pinkola Estès.
Corpo come massa, e perciò energia in movimento e trasformazione
Aver cura
del corpo, “prendersi cura” di esso, è una responsabilità, un compito che il rispetto e la
gratitudine per la vita ci raccomandano
Lo shiatsu nasce in Giappone, agli inizi del '900, Si risale fino a circa 3000 anni
a.C. per trovare i primi Testi Classici, dai quali, immutata, è stata tramandata la
conoscenza della Medicina Tradizionale; testi dai quali si evince un filo conduttore che
lega la buona salute ed il suo ripristino allo stile di vita, alla pratica della “buona
condotta”, fisica, mentale e spirituale. Riflessioni che invitano a una continua
preparazione alla consapevolezza piena della ricchezza dell'esistenza e dell'esistere,
della vita e del vivere, della morte e del morire. Letture che suggeriscono le modalità
“molto pratiche” per avviare un processo di presenza attiva nella recita della vita;
laddove proprio il nostro amato/trascurato corpo, e solo lui, ci accompagna.
Sono diverse centinaia, le pressioni che l'operatore esegue durante una seduta, e per
ognuna di esse il ricevente è rimandato alla percezione delle sensazioni evocate;
l'attenzione mentale viene richiamata in maniera naturale al corpo, in un susseguirsi
continuo, e senza interruzioni di contatto, di pressioni specifiche. La mente elabora
perciò gli impulsi nervosi che recano messaggi e ne invia a sua volta; un lavoro di fine
comunicazione energetica tra tutti i distretti corporei, con un effetto di riequilibrio
anche del sistema nervoso. Ecco che si evince un chiaro collegamento tra corpo e
mente; si assiste al corpo-mente come unica entità energetica.
Si parte da un assunto tanto semplice quanto intenso: un “tocco” amorevole
rappresenta il gesto più antico che il genere animale mette in atto per lenire dolore e
sofferenza, per comunicare accoglienza e accettazione, per trasmettere calore e
compassione. Di fatto accade che un profondo sentimento di accettazione e di
accudimento può, non come regola, ma di frequente, sostenere il nascere di riflessioni,
pensieri, “fare il punto della situazione”; adesso, proprio quando è tanto oscuro, e
misterioso, e pauroso, iniziare a prendere coscienza, iniziare a responsabilizzarsi sugli
eventi presenti
Non so come e a quale livello di condivisione si possa comprendere il pensiero della
morte imminente, non so se sia possibile, non so se siamo stati “inventati” con questa
capacità di comprensione.
Tuttavia la vita mise C. e mette molte persone faccia a faccia con la morte, e con le
emozioni che evoca.
Le sedute di shiatsu con C., come ha scritto Laura Campanello, proseguirono
per diverso tempo; la persona iniziò a parlare delle sensazioni provate durante e dopo
il trattamento; immagini, emozioni che riconducono immediatamente al corpo, (al
corpo-mente?) allentando, per pochi attimi, la tensione inconscia, spesso rimossa
attraverso i suoi personali schemi:
“...proprio dove sta premendo sento piacere...”
“...mi sento rilassata...credo che continuerò a riposare...il mio corpo ne ha
bisogno...”
“...li mi fa più male...è questa malattia che va avanti...”
“...è la prima volta che mi rilasso così profondamente...sento il mio corpo...”
Momenti nei quali la consapevolezza del corpo è piena, assoluta e totale; attimi nei
quali non ci sono distrazioni attuate dalle nostre difese. Condivise il pianto, la rabbia;
prima non vi riusciva. Che cosa è accaduto? Che cosa fare ora? Ora che la persona ha
sfiorato la consapevolezza, ora che ha aperto il suo cuore, ora che chiede aiuto.
Le sedute di shiatsu le hanno suscitato una cura e un'attenzione rivolte a se
stessa come mai era accaduto prima; ha iniziato a parlare di sé, del suo vissuto, del
suo tormento. Ebbe forse la sensazione di essere accettata, compresa; si sentì
accompagnata e alcune barriere del “recinto” di protezione dell'interiorità si aprirono,
in un varco che permise una comunicazione sincera. Lo shiatsu fece da ponte tra una
mente sempre più mente ed un corpo sempre meno corpo.
Esperienza che invita alla collaborazione con chi può e sa provare a canalizzare,
in un processo di elaborazione, le energie che vengono richiamate a coscienza. L'errore,
se così possiamo chiamarlo, sarebbe lasciare in balia dei pensieri una persona senza
cercare di fornirle gli adeguati strumenti per comunicare con le sue risorse. In
quest'ottica è davvero auspicabile una stimolante collaborazione tra lo shiatsu e la
pratica filosofica; uno studio al quale si aggiungono ogni giorno nuovi elementi, con un
fulcro comune: il lavoro sul corpo e sulla mente, sul corpo-mente attorno al quale
ruotano le nostre percezioni, sulla vita intera.
Gian Luigi Cislaghi: [email protected]