IL COMMENTO di Consiglia Botta
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IL COMMENTO di Consiglia Botta
NOTARIATO•ANNO XV SOMMARIO EDITORIALE LA FUNZIONE NOTARILE E LA COSTITUZIONE ITALIANA di Antonio Baldassarre 129 GIURISPRUDENZA OSSERVATORIO a cura di Ernesto Briganti 132 Legittimità GARANZIE AUTONOME E DISCIPLINA DELLE ECCEZIONI OPPONIBILI Cass., sez. III, 12 dicembre 2008, n. 29215 il commento di Consiglia Botta 137 139 IL RISCATTO AGRARIO E LA COMUNIONE LEGALE TRA CONIUGI Cass., sez. III, 14 marzo 2008, n. 6879 il commento di Benedetto Ronchi 148 150 I VINCOLI PUBBLICISTICI DI DESTINAZIONE DELLE AREE A PARCHEGGIO Cass., sez. II, 16 gennaio 2008, n. 730 il commento di Loredana Napolitano 152 154 TECNICHE CONTRATTUALI CLAUSOLE STATUTARIE DI COVENDITA E TRASCINAMENTO a cura di Paolo Divizia 157 ARGOMENTI LA RECUPERABILITÀ DEL CONTRATTO NULLO di Salvatore Monticelli 174 VIOLAZIONI TRIBUTARIE E VALIDITÀ DEL CONTRATTO di Vincenzo Pappa Monteforte 189 FUNZIONE DI ADEGUAMENTO E CONTRATTO DI MANTENIMENTO di Roberta Greco 196 LA MULTIPROPRIETÀ AZIONARIA ALLA LUCE DELLA RIFORMA DELLE SOCIETÀ DI CAPITALI di Biagio Caliendo 207 NORMATIVA NOVITÀ NORMATIVE 2008 (2° SEMESTRE 2008 - PRIMA PARTE) a cura di Gaetano Petrelli 220 INDICI INDICE DEGLI AUTORI 238 INDICE CRONOLOGICO 238 INDICE ANALITICO 238 NOTARIATO N. 2/2009 127 NOTARIATO•ANNO XV REDAZIONE Per informazioni in merito a contributi, articoli ed argomenti trattati scrivere o telefonare a: IPSOA Redazione BIMESTRALE DI DOTTRINA E GIURISPRUDENZA EDITRICE Wolters Kluwer Italia S.r.l. 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Se, infatti, si tiene conto che le funzioni che il notaio esercita, quale «ufficio pubblico» affidato a un professionista non incardinato nell’amministrazione pubblica, sono essenzialmente dirette ad assicurare a determinate posizioni soggettive e a determinati rapporti di diritto privato certezza giuridica, nonché a garantire che determinati rapporti giuridici si costituiscano in condizioni di piena legalità e senza lesioni di diritti altrui, allora appare evidente la rilevanza costituzionale della funzione notarile. Innanzitutto, va ricordato che in più di una sentenza la Corte costituzionale ha sottolineato la rilevanza costituzionale del principio della certezza del diritto e della sicurezza dei traffici giuridici, riconoscendone il fondamento ultimo nel generale principio di eguaglianza e di ragionevolezza sancito dall’art. 3 Cost. Infatti, in un ordinamento di democrazia pluralista, qual è il nostro, che affida ai privati, in quanto portatori di originarie posizioni giuridiche di libertà, il perseguimento di interessi individuali e sociali attraverso la negoziazione giuridica e mediante lo strumento contrattuale, la garanzia pubblica (nel caso, notarile) che in tali attività i privati osservino le leggi e conformino i loro atti e i loro comportamenti a una ragionevole interpretazione (in quanto asseverata da un pubblico ufficiale) delle stesse leggi, rappresenta indubbiamente un potente strumento al servizio della legalità, della certezza e della efficienza degli atti e degli scambi giuridici. In conseguenza di ciò si manifestano profili più specifici di rilevanza costituzionale riguardo alla funzione notarile. Rappresentando un ausilio professionale della legalità e della certezza del diritto, espletato in posizione di esercente pubbliche funzioni, il notaio concorre al più efficiente e corretto svolgimento di tutte le funzioni pubbliche fondamentali istituite a garanzia della legalità e della certezza del diritto. Intendo riferirmi, prima di tutto, alla funzione giurisdizionale (artt. 101-102 Cost.), ma anche alle funzioni amministrative, il cui esercizio, a norma dell’art. 97 Cost., deve effettuarsi nel rispetto della legalità e in modo da assicurare il «buon andamento» degli uffici pubblici. Tuttavia, oltre a costituire un valido ausilio per lo svolgimento di altre, fondamentali, funzioni pubbliche, l’attività notarile rileva, sotto il profilo costituzionale, anche in relazione al più efficace ed effettivo godimento di taluni diritti costituzionali della persona umana e del cittadino. Infatti, in quanto soggetto documentante nella forma dell’«atto pubblico» o, comunque, quale fornitore di certezza notiziale ad atti privati, il notaio interviene nei traffici giuridici conferendo un certo grado di comprovabilità agli atti stessi, di cui si giova indiscutibilmente il «diritto inviolabile» alla difesa spettante a ogni soggetto giuridico (art. 24 Cost.). Sotto l’aspetto dell’ausilio per un più effettivo ed efficace godimento dei diritti costituzionali dei privati, i profili di rilevanza della funzione notarile sono, peraltro, molteplici. Si pensi, ad esempio, al ruolo del notaio svolto allo scopo di conferire certezza ai rapporti successori e, quindi, all’«unità familiare» (art. 29 Cost.), un’unità rispetto alla quale non sono certo indifferenti tanto la funzione documentante del notaio in chiave di certezza legale o notiziale, quanto il rispetto delle norme sulla successione legittima da lui assicurato. Tuttavia, sussiste un profilo più generale che attiene alla libertà negoziale e, in particolare, a quella contrattuale. È vero che in giurisprudenza e in dottrina si discute se gli artt. 41 (libertà d’iniziativa economica privata) e 42 (proprietà privata) della Costituzione racchiudano, o no, anche la garanzia della libertà negoziale e, in specie, di quella contrattuale. Mi sembra che l’interpretazione attestata sulla negativa sia legata alla tradizionale, e ormai superata (non solo in Italia), teoria dei diritti di libertà come «diritti pubblici soggettivi», vale a dire come diritti dell’uomo o del cittadino garantiti nei soli confronti dello Stato e dei poteri pubblici. In realtà, questa teoria, almeno a partire dagli anni ‘60, non ha più alcun suffragio in tutti i saggi e, persino, in tutti i testi manualistici di diritto costituzionale. Ed in effetti, quando l’art. 2 Cost. afferma che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, non solo come singolo (= verso lo Stato), ma anche NOTARIATO N. 2/2009 129 EDITORIALE•NOTAI «nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità» (= verso i suoi consociati), suppone, senza ombra di dubbio, che i diritti costituzionali debbono essere garantiti anche all’interno dei rapporti giuridici. In altri termini, la nostra Costituzione afferma chiaramente che essa, nell’assicurare i diritti di libertà, garantisce tanto la libertà da interferenze statali o pubbliche, (= libertà - indipendenza), quanto la libertà di, cioè la libertà - autonomia, e, quindi, anche la libertà negoziale e contrattuale. 130 NOTARIATO N. 2/2009 Se così è, come appare difficile dubitare, allora un ulteriore profilo di rilevanza costituzionale, di carattere tendenzialmente generale, va colto anche nell’art. 41 Cost., dove si dispone che la libertà d’iniziativa economica privata non può svolgersi in contrasto con la sicurezza (anche giuridica) e con l’utilità sociale, nonché nell’art. 42 Cost., laddove si stabilisce che la legge deve regolare gli atti di disposizione e di acquisto della proprietà privata «allo scopo di assicurarne la funzione sociale». GIURISPRUDENZA•SINTESI Osservatorio di giurisprudenza a cura di ERNESTO BRIGANTI Comunione e condominio Cassazione, sez. II, 25 settembre 2008, n. 24055 Comunione e condominio - Vendita di posto macchina in area condominiale con uso esclusivo - Divieto di parcheggio - Previsione del regolamento fatta valere prima del rogito da condomini dissenzienti - Evizione - Esclusione - Responsabilità ex art. 1489 c. c. - Sussistenza Non si ha evizione ma ipotesi di responsabilità ex art. 1489 c.c., ove alla vendita di un posto macchina in area condominiale con uso esclusivo faccia seguito il divieto di parcheggio, in forza di preesistente divieto del regolamento condominiale fatto valere da condomini dissenzienti con azione proposta prima della stipula del rogito. Donazione Cassazione, sez. II, 12 novembre 2008, n. 26983 Donazione - Donazione indiretta - Rilievo dell’animus donandi - Fattispecie Costituisce donazione indiretta l’atto di cointestazione, con firma e disponibilità disgiunte, di una somma di denaro depositata presso un istituto di credito - qualora la predetta somma, all’atto della cointestazione, risulti essere appartenuta ad uno solo dei cointestatari - è legata all’apprezzamento dell’esistenza dell’animus donandi, consistente nell’accertamento che il proprietario del denaro non aveva, nel momento della cointestazione, altro scopo che quello della liberalità. Impresa familiare Cassazione, sez. lav., 19 novembre 2008, n. 27475 Lavoro - Partecipe dell’impresa familiare - Diritto di prelazione - Art. 732 c.c. - Ammissibilità Si applica al partecipe dell’impresa familiare la disciplina del riscatto di cui all’art. 732 c.c. nei limiti di compatibilità. Il rinvio enunciato, nell’art. 230 bis c.c., all’art. 732 c.c. attiene al diritto di prelazione tout-court e al possibile sviluppo dell’istituto nella direzione del riscatto presso terzi acquirenti, attesa la ratio, perseguita dal legislatore, di predisporre una più intensa protezione al lavoro familiare, favorendo, nell’acquisto dell’azienda, chi abbia contribuito attivamente all’impresa nell’ambito della comu- 132 NOTARIATO N. 2/2009 nità familiare e rinvenendo, a fondamento dell’istituto, giustificazioni ispirate alla tutela del lavoro cui partecipa la comunità familiare, con particolare occhio di riguardo, non esplicitato, ma evidente, dato il momento storico di riferimento, al lavoro femminile. Con l’istituto in esame (art. 732 c.c.) il legislatore ha inteso predisporre una più intensa protezione per il lavoro familiare, favorendo l’acquisto dell’azienda a coloro che hanno dato un contributo attivo all’impresa nell’ambito della comunità familiare. Notai Cassazione, sez. III, 28 novembre 2008, n. 28419 Notai - Professioni e professionisti - Notaio - Concorrenza sleale - Risarcimento danni - Liquidazione equitativa - Onere probatorio In un comune ove sia prevista una sola sede notarile, la presenza costante di altro studio notarile è fatto idoneo a incidere negativamente sull’attività professionale e sui risultati economici del professionista, unico titolare della sede; ha, inoltre, precisato che in materia non è configurabile il danno in re ipsa e che, per la quantificazione del danno, ben può farsi ricorso alla liquidazione equitativa ex art. 1226 c.c., norma questa che non esonera il danneggiato dall’onere probatorio, gravandolo, anzi, dell’esigenza di offrire al giudice elementi idonei allo scopo. Cassazione, sez. II, 3 dicembre 2008, n. 28753 Notai - Esonero dall’espletamento delle visure ipotecarie e catastali - Rinuncia all’azione di responsabilità del notaio Nell’ipotesi di contratto con se stesso, laddove l’acquirente è anche venditore del bene (per effetto di procura volta ad autorizzare a vendere a terzi o a se stesso), la dichiarazione di libertà da pesi fatta dal rappresentante, nell’ipotesi di dichiarazione inveritiera, non libera il rappresentato dalla propria responsabilità verso l’acquirente. La dichiarazione rilasciata al notaio con cui le parti lo esonerano dall’espletamento delle visure ipotecarie e catastali può valere come rinuncia all’azione di responsabilità verso il professionista oppure come dispensa preventiva all’attività di ispezione dei registri immobiliari, in quanto è necessario interpretare le clausole negoziali nel senso che possano spiegare effetto, ex art. 1367 c.c. GIURISPRUDENZA•SINTESI Obbligazioni e contratti Cassazione, sez. III, 30 settembre 2008, n. 24325 Art. 1988 c.c. - Assegno incompleto - Promessa di pagamento - Insussistenza All’assegno non può attribuirsi il valore di promessa di pagamento valida - e quindi avente gli effetti di cui all’art. 1988 c.c. - a causa delle incertezze in ordine ai tempi ed alle modalità di consegna che lo caratterizzano. Nel caso in esame, il ricorso di un ex marito contro il verdetto d’appello che gli aveva revocato il decreto ingiuntivo, per l’inesistenza del credito azionato, ottenuto verso la moglie per la restituzione di una somma prestatale a titolo di mutuo. L’ex coniuge, a dimostrazione dell’esistenza dell’obbligo di pagamento della debitrice, aveva solo un assegno sottoscritto dalla stessa in suo favore, ma non incassato perché il conto corrente era da tempo estinto. la frequenza e data del suo accesso alla cassetta, ed anche con il ricorso alla prova testimoniale di persone legate al danneggiato da vincoli familiari, aspetti questi idonei anche ad ammettere il giuramento suppletorio. Cassazione, sez. II, 20 novembre 2008, n. 27599 Contratto in generale - Simulazione - Limiti legali - Sussistenza dei requisiti formali e sostanziali - Atto simulato - Controdichiarazione La dimostrazione della volontà delle parti di concludere un contratto diverso da quello apparente incontra non solo le normali limitazioni legali ma anche quella di provare la sussistenza dei requisiti di sostanza e forma del contratto diverso da quello apparentemente voluto e l’inesistenza, quindi, di una controdichiarazione contestuale alla stipula del contratto. Cassazione, sez. III, 28 novembre 2008, n. 28420 Cassazione, sez. III, 10 novembre 2008, n. 26863 Obbligazioni - Espromissione - Presupposti - Facoltà di recesso dell’espromittente Il presupposto giuridico imprescindibile dell’espromissione è costituito dalla sussistenza di un’obbligazione altrui precedente l’assunzione da parte dell’espromittente; tale presupposto distingue l’istituto dall’obbligazione di garanzia per futuri possibili debiti dell’obbligato, sebbene, in entrambe le fattispecie (che riguardano rapporti di durata), all’assuntore o garante dell’obbligo altrui compete la facoltà di recesso. Obbligazioni - Somma determinata in valuta estera - Sopravvenuta svalutazione Il debitore di somma determinata in valuta estera, se inadempiente, nel caso di sopravvenuta svalutazione della moneta italiana rispetto a quella estera, deve la differenza tra il cambio della data di scadenza e quello della data di pagamento, giacché, diversamente, trarrebbe ingiusta locupletazione dalla sua mora, ove pagasse in moneta legale al corso del cambio del giorno della scadenza, secondo la facoltà accordatagli dall’art. 1278 c.c. Cassazione, sez. I, 10 dicembre 2008, n. 28977 Cassazione, sez. III, 25 novembre 2008, n. 28067 Contratti - Deposito in cassette di sicurezza - Responsabilità della banca - Limiti - Prova dei danni In tema di responsabilità per danni relativi a beni depositati in cassette di sicurezza ed oggetto di furto, spetta al giudice ordinario accertare il contenuto specifico delle pattuizioni delle parti, con particolare riferimento all’esistenza della possibilità di scelta, in sede di conclusione del contratto, tra diverse formule contrattuali, nelle quali il canone dovuto dal cliente (e la correlativa responsabilità della banca) variano in funzione dei diversi livelli di copertura assicurativa associata alla cassetta di sicurezza, e che, in difetto di tali pattuizioni, la clausola limitativa di responsabilità della banca è nulla, in quanto avente la funzione di trasferire indebitamente sul cliente gli effetti della negligente custodia della cassetta di sicurezza. Ai fini della prova del danno è ammessa la possibilità di ricorrere a presunzioni basate, oltre che sulla circostanziata denuncia del fatto e sulla prova della proprietà degli oggetti depositati, anche sulla compatibilità delle rivendicazioni con le condizioni economiche del danneggiato, con Clausola penale - Accertamento equitativo - Interesse del creditore - Adempimento parziale La riduzione della clausola penale impone un accertamento equitativo che tenga in evidente considerazione l’interesse del creditore. Non può altrimenti realizzarsi sull’assunto della presenza di adempimenti parziali o di valutazioni non chiaramente motivate. Cassazione, sez. III, 12 dicembre 2008, n. 29216 Fideiussione - Surrogazione del fideiussore - Oggetto e contenuto Il fideiussore il quale, adempiuta la propria obbligazione nei confronti del creditore principale, manifesti la volontà di surrogarsi a quest’ultimo nei diritti vantati verso il debitore, subentra anche nelle garanzie del credito concesse da terzi in favore del creditore originario, ma solo a condizione che queste ultime fossero accessorie e dipendenti rispetto all’obbligazione principale adempiuta dal fideiussore. NOTARIATO N. 2/2009 133 GIURISPRUDENZA•SINTESI Pertanto, se il debitore aveva ceduto al creditore originario, a scopo di ulteriore garanzia, un proprio credito verso terzi, il pagamento dell’obbligazione non fa acquistare al fideiussore la titolarità del credito ceduto, ed il medesimo fideiussore non può di conseguenza pretenderne l’adempimento da parte del terzo. Cassazione, sez. II, 15 dicembre 2008, n. 29344 Immobili - Posto auto - Parcheggio - Pertinenze - Accessori Proprietà L’instaurazione del vincolo pertinenziale tra due cose richiede la titolarità della proprietà, o di altro diritto reale, sulle stesse in capo al medesimo soggetto, tuttavia tale comune appartenenza (o comunque il potere di disporre della cosa accessoria) costituisce una condizione necessaria, ma da sola non sufficiente all’instaurazione del rapporto in questione, occorrendo anche il concorso di altri elementi dai quali sia possibile desumere che, in concreto, un bene sia stato durevolmente destinato a servizio o ad ornamento dell’altro. Il relativo accertamento, vertente sotto il profilo oggettivo sulla suddetta relazione e, sul versante soggettivo sulla effettiva volontà del proprietario (o titolare di altro diritto reale) del bene di dar luogo a siffatto rapporto costituisce un giudizio di fatto, riservato al giudice di merito che, se espresso con adeguata motivazione, esente da vizi logici, si sottrae ad ogni sindacato in sede di legittimità. azione di recesso nel corso del giudizio lascerebbe in astratto aperta la strada (da ritenersi, invece, ormai preclusa) ad una eventuale, successiva pretesa (stragiudiziale) di ritenzione della caparra o di conseguimento del suo doppio (con evidente quanto inammissibile rischio di ulteriore proliferazione del contenzioso giudiziale. Rapporti patrimoniali tra coniugi Cassazione, sez. I, 30 dicembre 2008, n. 30416, ord. Rapporti patrimoniali tra coniugi - Atto di disposizione compiuti da un solo coniuge - Rifiuto del coaquisto ex lege In base all’indirizzo non uniforme sull’ammissibilità del rifiuto del coaquisto ex lege di un bene immobile e della questione degli effetti derivativi dell’accertamento della comunione legale sui successivi atti di disposizione degli immobili compiuti da parte dell’unico coniuge intestatario, si ritiene opportuno rimettere gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione della causa alle sezioni unite. Società Cassazione, sez. I, 7 novembre 2008, n. 26842 Società - Assemblea dei soci - Deliberazioni - Lesione del diritto di opzione spettante ai soci - Impugnazione - Annullabilità Configuribilità. Cassazione, sez. unite, 14 gennaio 2009, n. 553 Caparra - Risoluzione e risarcimento integrale dei danni Azione di recesso e di ritenzione della caparra - Disomogeneità morfologiche e funzionali I rapporti tra azione di risoluzione e di risarcimento integrale da una parte, e azione di recesso e di ritenzione della caparra dall’altro si pongono in termini di assoluta incompatibilità strutturale e funzionale: proposta la domanda di risoluzione volta al riconoscimento del diritto al risarcimento integrale dei danni asseritamente subiti, non può ritenersene consentita la trasformazione in domanda di recesso con ritenzione di caparra perché (a prescindere da quanto già detto e ancora si dirà di qui a breve in ordine ai rapporti tra la sola azione di risoluzione e la singola azione di recesso non connesse alle relative azioni “risarcitorie”) verrebbe così a vanificarsi la stessa funzione della caparra, quella cioè di consentire una liquidazione anticipata e convenzionale del danno volta ad evitare l’instaurazione di un giudizio contenzioso, consentendosi inammissibilmente alla parte non inadempiente di “scommettere” puramente e semplicemente sul processo, senza rischi di sorta; l’azione di risoluzione avente natura costitutiva e l’azione di recesso si caratterizzano per evidenti disomogeneità morfologiche e funzionali: sotto quest’ultimo aspetto, la trasformazione dell’azione risolutoria in 134 NOTARIATO N. 2/2009 La violazione delle norme in tema di diritto di opzione determina l’annullabilità e non la nullità del deliberato assembleare, non avendo tale violazione alcuna valenza di ordine generale, ma essendo, invece, funzionale all’interesse del singolo socio a mantenere inalterata la sua partecipazione proporzionale al capitale sociale anche in caso di aumento del capitale medesimo. Non può, conseguentemente, configurarsi la nullità (per illiceità dell’oggetto) di una deliberazione che sacrifichi il diritto di opzione al solo scopo di azzerare fraudolentemente la partecipazione del socio alla società, atteso, peraltro, che l’intento di piegare la deliberazione a finalità di prevaricazione della minoranza è da tempo ricondotto dalla giurisprudenza alla figura dell’eccesso di potere, inteso come violazione del canone di buona fede nell’esecuzione dei rapporti contrattuali, dal quale deriva l’annullabilità della deliberazione. Cassazione, sez. II, 15 ottobre 2008, n. 25192 Società - Cancellazione dal Registro delle Imprese - Effetti In tema d’interpretazione del nuovo diritto societario, la modifica dell’art. 2495 c.c., ex art. 4, D.Lgs. n. 6/2003, per cui la cancellazione dal registro delle imprese determina, contrariamente al passato, l’estinzione della so- GIURISPRUDENZA•SINTESI cietà, si applica anche alle società di persone, nonostante la prescrizione normativa indichi esclusivamente quelle di capitali e quelle cooperative. La norma, per la sua funzione ricognitiva, è retroattiva e trova applicazione anche in ordine alle cancellazioni intervenute anteriormente all’1/1/2004, data di entrata in vigore delle modifiche introdotte dal citato D.Lgs. n. 6/2003, con la sola esclusione dei rapporti esauriti e degli effetti già irreversibilmente verificatisi. Cassazione, sez. I, 12 novembre 2008, n. 27013 Società - Fallimento - Società di capitali - Estensione a soci illimitatamente responsabili - Esclusione La formulazione dell’art. 147 legge fall. non consente l’estensione del fallimento a soci illimitatamente responsabili di società di capitali, essendo l’estensione del fallimento prevista solo con riferimento alle società il cui modello preveda soci a responsabilità illimitata. consenta di estendere al direttore generale il regime di responsabilità, di per sé già eccezionale e speciale, riguardante gli amministratori. Tribunale di Treviso 14 novembre 2008 Redazione del bilancio - Violazione dei principi di chiarezza e precisione - Effettiva incidenza delle violazioni denunciate La violazione dei principi di chiarezza e precisione nella redazione del bilancio ne determina l’illiceità, ma ciò soltanto nei casi in cui, dal bilancio stesso e dai relativi allegati, non sia possibile desumere l’intera gamma delle informazioni che la legge vuole siano fornite per ciascuna delle poste scritte. Bisogna comunque valutare l’effettiva incidenza delle violazioni denunciate sulla intelligibilità della rappresentazione della situazione economico-patrimoniale della società, sì da evitare impugnazioni di natura meramente strumentale o pretestuosa. Successioni Cassazione, sez. I, 3 dicembre 2008, n. 28748 Cassazione, sez. II, 3 novembre 2008, n. 26406 Società - Delibera assembleare di s.r.l. attributiva di compenso “sproporzionato” agli amministratori - Attuazione di transazione fra i soci - Voto determinante del socio - amministratore Annullamento - Pregiudizio dell’interesse sociale - Necessità La delibera determinativa del compenso degli amministratori è annullabile, ai sensi dell’art. 2373 c.c., quando essa persegue il soddisfacimento di interessi extrasociali, senza che risulti condizionante in sé - ai fini del conflitto di interessi ovvero anche dell’eccesso di potere - la decisività del voto da parte dell’amministratore che sia anche socio; così, l’attuazione con essa di una transazione dunque di un patto parasociale - fra i soci, compresi gli impugnanti soci di minoranza, può rivelare la contrarietà all’interesse sociale del successivo voto, in termini di pregiudizio al patrimonio della società, ciò solo giustificando la legittimazione all’impugnazione dei soci dissenzienti in quanto tali. Successioni - Successione testamentario - Testamento olografo - Alterazione da parte dei terzi - Annullamento della disposizione testamentaria Il testamento olografo alterato da terzi può conservare il suo valore quando l’alterazione non sia tale da impedire la individuazione della originaria, genuina volontà che il testatore intese manifestare nella relativa scheda, mentre l’effetto di annullamento per carenza di olografia è conseguenza di interventi di terzi, anche di una sola parola, ma a condizione che l’azione del terzo si sia svolta durante la confezione del testamento. Cassazione, sez. II, 11 novembre 2008, n. 26955 Successione necessaria - Diritti riservati ai legittimari - Legittimari - Legato in sostituzione di legittima - Azione di riduzione Rapporti Cass., sez. I, 5 dicembre 2008, n. 28819 Società - Società per azioni - Amministratori - Direttore generale - Estensibilità della responsabilità prevista per gli amministratori - Condizioni All’interno della società per azioni, al direttore generale (nella specie di s.p.a. in liquidazione coatta amministrativa) può essere estesa la stessa disciplina prevista per la responsabilità degli amministratori qualora la sua nomina sia stata prevista nell’atto costitutivo oppure sia stata deliberata dall’assemblea o dal consiglio di amministrazione, entrando in questi casi la sua figura, in posizione apicale, a far parte della struttura tipica della società. Al di fuori di tali ipotesi non esiste alcuna previsione normativa che In caso di azione di riduzione proposta da un figlio che aveva in precedenza accettato un legato in sostituzione di legittima, rinunciando al legato solo dopo la proposizione del giudizio, ha enunciato il principio per cui, in materia di diritti riservati ai legittimari, poiché il legato si acquista senza bisogno di accettazione, la semplice acquisizione, da parte del legittimario, dell’oggetto del legato in sostituzione della legittima non implica automatica manifestazione della sua preferenza per il legato, con conseguente perdita della facoltà di conseguire la legittima; allo stesso modo, la proposizione dell’azione di riduzione non costituisce manifestazione chiara ed inequivoca della volontà di rinunciare al legato, essendo ipotizzabile un residuo duplice intento di conservare il legato e di NOTARIATO N. 2/2009 135 GIURISPRUDENZA•SINTESI conseguire la legittima. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva dichiarato legittimamente proposta l’azione di riduzione da parte di un legittimario che aveva accettato un legato in sostituzione della legittima, vi aveva poi rinunciato con atto successivo alla proposizione della domanda giudiziale di riduzione e non aveva provveduto alla restituzione della somma legata). Cassazione, sez. II, 20 gennaio 2009, n. 1373 Successioni ereditarie - Successione necessaria - Determinazione della quota disponibile - Criteri - Rinuncia all’azione di riduzione - Comportamento concludente - Necessità Usucapione In materia di successione necessaria, ai fini della determinazione della porzione disponibile e delle quote riservate ai legittimari, occorre avere riguardo alla massa costituita da tutti i beni che appartenevano al de cuius al momento della morte - al netto dei debiti - maggiorata del valore dei beni donati in vita dal defunto, senza che possa distinguersi tra donazioni anteriori o posteriori al sorgere del rapporto da cui deriva la qualità di legittimario. In materia di successione necessaria, il diritto, patrimoniale (e perciò disponibile) e potestativo, del legittimario di agire per la riduzione delle disposizioni testamentarie lesive della sua quota di riserva, dopo l’apertura della successione, è rinunciabile anche tacitamente, sempre che detta rinuncia sia inequivocabile, occorrendo a tal fine un comportamento concludente del soggetto interessato che sia incompatibile con la volontà di far valere il diritto alla reintegrazione (nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che, in relazione a donazioni compiute da una madre in favore del proprio figlio, aveva ritenuto che il padre, passato a nuove nozze dopo la morte della prima moglie, avesse rinunciato tacitamente al proprio diritto di agire in riduzione di tali donazioni per il solo fatto che egli in vita non aveva agito in tal senso, mentre l’azione di riduzione era stata poi promossa dalla seconda moglie, dopo la morte del medesimo). Usucapione - Detenzione - Insussistenza - Possesso - Ammissibilità Tributi Cassazione, sez trib., 18 novembre 2008, n. 27349 Tributi - Società di persone - Assegnazione di un bene immobile sociale al socio superstite - Liquidazione conseguita allo scioglimento di società - Aliquota agevolata dell’1% - Inammissibilità - All’aliquota dell’8% - Ammissibilità Le società di persone, ancorché prive di personalità giuridica, sono caratterizzate da una propria autonomia patrimoniale che - rendendole centro d’imputazione di rapporti, distinto da quello riferibile ai relativi soci - determina la netta separazione del patrimonio della società rispetto a quello dei soci. Sulla base di tale premessa, non vi è dubbio che, l’assegnazione di un bene immobile sociale al socio superstite, in sede di liquidazione conse- 136 guita allo scioglimento di società di persona per mancata ricostituzione della pluralità di soci nel termine prescritto, è atto che rientra perfettamente nel paradigma del trasferimento. Sotto il profilo fiscale, ciò comporta che, non verificatasi la condizione per il godimento dell’aliquota agevolata dell’1%, l’Ufficio, nell’assoggettare l’atto all’aliquota dell’8%, ha fatto corretta applicazione delle disposizioni di legge. NOTARIATO N. 2/2009 Cassazione, sez. III, 6 novembre 2008, n. 26610 Non determina l’acquisto per usucapione il compimento di atti di esercizio del diritto di proprietà da parte di chi ha la detenzione e non il possesso dell’immobile. Se alcuno ha cominciato ad avere la detenzione non può acquistare il possesso finché il titolo non venga ad essere mutato per causa proveniente da un terzo o in forza di opposizione da lui fatta contro il possessore; principio questo che appunto esclude la rilevanza giuridica delle attività che, anche ove volessero ritenersi indicative di un animus rem sibi habendi, non potrebbero comunque modificare in possesso l’originario rapporto del fratello con la cosa». In caso di occupazione senza titolo di un cespite immobiliare altrui, il danno subito dal proprietario è in re ipsa, discendendo dalla perdita della disponibilità del bene e dall’impossibilità di conseguire l’utilità ricavabile dal bene medesimo in relazione alla natura normalmente fruttifera di esso. La determinazione del risarcimento del danno ben può essere, in tal caso, operata dal giudice sulla base di elementi presuntivi semplici, con riferimento al c.d. danno figurativo e, quindi, con riguardo al valore locativo del bene usurpato”. GIURISPRUDENZA•LEGITTIMITA’ Polizze fideiussorie Garanzie autonome e disciplina delle eccezioni opponibili CASSAZIONE, sez. III, 12 dicembre 2008, n. 29215 - Pres. Varrone - Est. Urban - P.M. Iannelli - Ina Assitalia s.p.a. c. Ministero dell’economia e delle finanze Polizza fidejussoria a garanzia degli obblighi del concessionario del servizio riscossione tributi - Natura - Contratto autonomo di garanzia La speciale “cauzione” prestata, ai sensi dell’art. 47, D.P.R. 28 gennaio 1988, n. 43, per le obbligazioni del Concessionario del Servizio di Riscossione dei Tributi ed in favore dell’Amministrazione finanziaria, costituisce un contratto autonomo di garanzia, la cui caratteristica distintiva rispetto alla fidejussione è l’assenza dell’elemento dell’accessorietà; ne consegue che il garante è tenuto a pagare il creditore senza possibilità di opporre le eccezioni spettanti al debitore principale e nemmeno è necessario il previo accertamento dell’inadempimento, attenendo esso al rapporto principale e salva, per il garante, la sola exceptio doli ove egli riesca a provare in modo certo ed incontestato la parziale inesistenza del credito che ha dato luogo all’escussione. Svolgimento del processo Con atto notificato in data 5 giugno 1996 l’Assitalia deduceva di aver emesso una polizza fidejussoria con la quale aveva garantito gli obblighi assunti, nei confronti del Ministero delle Finanze, dalla GE.CAP. s.p.a., Concessionaria del Servizio Riscossione Tributi per la provincia di Foggia e di aver ricevuto, in data 23 febbraio 1996, missiva con la quale la Direzione Generale per le Entrate l’aveva informata che alcuni creditori avevano lamentato il mancato versamento delle rate con scadenza nell’anno 1995; poiché già in precedenza la Concessionaria (con missiva a lei non comunicata) era stata invitata al versamento e la Direzione Generale delle Entrate per la Puglia aveva chiesto di emettere decreto di espropriazione della cauzione, conveniva dinanzi al Tribunale di Roma il Ministero delle Finanze e la GE.CAP. s.p.a. per sentire dichiarare l’inoperatività della polizza con conseguente caducazione della garanzia sia - comunque - per gli inadempimenti della Concessionaria successivi al febbraio 1995, essendo in tale data cessato il rapporto concessorio, sia per la violazione del disposto dell’art. 5 delle Condizioni Generali di polizza. Il Ministero delle Finanze chiedeva il rigetto della domanda, mentre la GE.CAP. si associava alla richiesta attrice e chiedeva, comunque, accertarsi la mancanza dei presupposti per l’emissione del decreto di esproprio della cauzione. Con sentenza in data 3 febbraio 2000 il Tribunale rigettava le domande della parte attrice. La Corte d’appello di Roma con sentenza del 21 luglio 2003 rigettava l’appello proposto da Assitalia e condannava la stessa al pagamento delle spese. Propone ricorso per cassazione Assitalia s.p.a. con due motivi. Resiste con controricorso il Ministero delle Finanze. Motivi della decisione Con il primo motivo di ricorso si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 99, 100 e 112 c.p.c.; dell’art. 2697 c.c., e art. 116 c.p.c.; art. 1936 c.c. ss., art. 1362 c.c. ss.; art. 1325 c.c.; omessa insufficiente e contraddittoria pronuncia su un punto decisivo della controversia. Si rileva che la Corte d’appello aveva erroneamente interpretato la domanda, nel senso che essa era finalizzata al mero accertamento di una questione controversa, se cioè il credito vantato da alcuni creditori nei confronti della GE.CAP., maturati prima del 28 febbraio 1995 (data di cessazione della garanzia) ammontasse ad oltre 15 miliardi, come sostiene l’Amministrazione finanziaria, ovvero a circa 2,5 miliardi, come invece emergerebbe dalla documentazione prodotta in atti. Erronea sarebbe quindi la tesi sostenuta dalla sentenza impugnata, che sarebbe spettato all’Assitalia di fornire la prova “dell’inesistenza del credito per rate scadute prima del 28 febbraio 1995”, mentre in realtà spettava all’Amministrazione finanziaria dimostrare l’esistenza dell’intera pretesa creditoria e che la stessa fosse oggetto di garanzia. Come è stato correttamente ritenuto nei precedenti gradi di merito, si tratta nella specie di contratto autonomo di garanzia, come si evince dalla norma in base alla quale la polizza in questione venne rilasciata da Assitalia: il D.P.R. 28 gennaio 1988, n. 43, art. 47, comma NOTARIATO N. 2/2009 137 GIURISPRUDENZA•LEGITTIMITA’ 2, (Istituzione del servizio di riscossione dei tributi e di altre entrate dello Stato e di altri enti pubblici, ai sensi della L. 4 ottobre 1986, n. 657, art. 1, comma 1) prevede infatti che da tale polizza deve espressamente risultare “che la cauzione è prestata nell’interesse dello stato e degli altri enti interessati e che la stessa garantisce tutte le obbligazioni del concessionario derivanti dalla legge e dallo atto di concessione e, per le ipotesi di cui agli artt. 18, 19 e 20, conseguenti all’evento interruttivo della gestione”. Nella disciplina legale della fideiussione, il fideiussore ha l’onere di preavvisare il debitore principale che intende procedere al pagamento (art. 1952 c.c., comma 2) e tale preavviso ha lo scopo di mettere il debitore principale in condizione di fare tempestiva opposizione al pagamento ove sussistano idonee ragioni da eccepire al creditore (ragioni poi opponibili al fideiussore che abbia pagato senza osservare l’onere del preavviso). Secondo le pattuizioni in esame, invece, il debitore principale, pur avvisato della richiesta di pagamento formulata dal creditore garantito, non può opporre alcuna contestazione in ordine a tale pagamento, poiché il garante non ha bisogno del suo consenso per effettuarlo e per poi pretendere da lui, “a semplice richiesta”, il rimborso delle somme pagate. Correttamente, quindi, la Corte di appello ha ravvisato nella polizza esaminata la pattuizione atipica di un contratto autonomo di garanzia, la cui caratteristica fondamentale che lo distingue dalla fideiussione è l’assenza dell’elemento dell’accessorietà della garanzia, onde il garante si impegna a pagare al creditore senza possibilità di opporre le eccezioni che spettano al debitore principale, in deroga alla regola essenziale della fideiussione posta dall’art. 1945 c.c. Tale contratto atipico viene ritenuto ammissibile nel nostro ordinamento (si veda Cass. 21 aprile 1999, n. 3964, Cass. 6 aprile 1998, n. 3552; 11 febbraio 1998, n. 1420), con orientamento giurisprudenziale peraltro non contestato dalla parte ricorrente. La clausola di pagamento per effetto della sola richiesta rivolta dal creditore al soggetto che ha prestato la garanzia autonoma comporta che, una volta formulata detta richiesta (fondata, come nel caso di specie, sul dedotto inadempimento dell’obbligato principale), non debba essere previamente accertato tale inadempimento. Questo attiene, infatti, al rapporto principale e la citata clausola contiene una rinuncia del garante a sollevare le eccezioni che traggono la loro origine dal rapporto principale. Come è stato già precisato da questa Corte (v. Cass. 6 aprile 1998, n. 3552), al garante autonomo è consentito opporre - delle eccezioni spettanti al debitore principale - soltanto l’exceptio doli del creditore, nel caso in cui la richiesta di pagamento immediato risulti prima facie abusiva o fraudolenta. Questa affermazione, con riferimento alla ipotesi di richiesta fondata sull’inadempimento dell’obbligazione principale, comporta che il garante possa fornire una prova certa ed incontestata dell’esatto adempimento, la cui esistenza di- 138 NOTARIATO N. 2/2009 mostrerebbe che la detta richiesta è abusiva, perché farebbe conseguire al creditore un’attribuzione patrimoniale priva di giustificazione, avendo la garanzia, per effetto dell’adempimento, esaurito la sua funzione. La sentenza impugnata ha quindi correttamente ritenuto che fosse onere della Assitalia di dimostrare la parziale inesistenza del credito che ha dato luogo alla escussione della garanzia prestata da Assitalia. Con il secondo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione di legge (art. 342 c.p.c.) e del principio dell’onere si specificità dell’impugnazione; dell’art. 1955 c.c., e art. 5, delle condizioni generali di polizza in relazione al combinato disposto degli artt. 72 e 73, del D.P.R. nonché dell’art. 1362 c.c. ss.: omessa insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia. Il ritardo nella comunicazione all’istituto assicuratore dell’ammontare dei crediti rimasti insoluti aveva comportato la impossibilità di far valere i rilievi e le eccezioni inerenti al rapporto di fideiussione; erronea sarebbe quindi la valutazione contenuta nella sentenza impugnata, per la quale si afferma che l’eccezione proposta dall’Assitalia sul punto mancherebbe del requisito della specificità. Si deve osservare che l’art. 1957 c.c., rientra, secondo la dottrina prevalente, tra le disposizioni su cui si fonda l’accessorietà dell’obbligazione fideiussoria in quanto stabilisce un collegamento tra la scadenza dell’obbligazione di garanzia e quella dell’obbligazione principale. Tale disposizione, quindi, se è coerente con il carattere accessorio della fideiussione, non si applica in linea di principio, all’obbligazione autonoma di garanzia (che, come si è detto, non presenta detto carattere), salvo che sia contrattualmente richiamata dai contraenti. Nella specie, il richiamo è contenuto all’art. 5 delle condizioni generali di polizza, nel senso che dell’inadempimento deve essere data “immediata comunicazione a mezzo di lettera raccomandata”; il che è stato escluso dai giudici del merito, nel senso che la comunicazione fu effettuata una volta accertata l’effettiva entità delle somme non versate dal concessionario. La ricorrente si è limitata a contestare la valutazione della Corte d’appello, senza precisare né il numero, né l’entità dei pretesi ritardi, venendo meno all’esigenza di autosufficienza del ricorso, in violazione dell’art. 366 c.p.c. Il ricorso merita quindi il rigetto; segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate come in dispositivo. P.Q.M. La Corte Suprema di Cassazione, terza sezione civile, rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 3.100,00, di cui Euro 3.000,00, per onorari, oltre spese generali e accessori come per legge. GIURISPRUDENZA•LEGITTIMITA’ IL COMMENTO di Consiglia Botta La sentenza si pone nel solco di quell’orientamento secondo il quale la previsione, nelle polizze fideiussorie, di una clausola di pagamento “a prima richiesta” e “senza eccezioni”, elidendo il nesso di accessorietà tra la prestazione di garanzia e l’obbligazione dedotta nel rapporto di base, impedisce di inquadrare il negozio nel paradigma normativo della fideiussione, determinando la legittimità dell’escussione della garanzia da parte del beneficiario, che non deve fornire prova del fondamento della sua pretesa. La decisione della Cassazione Con la sentenza in commento la Suprema Corte riconduce la polizza fideiussoria prestata in favore dell’Amministrazione Finanziaria, per le obbligazioni del Concessionario del Servizio di Riscossione dei tributi, nell’alveo del contratto autonomo di garanzia, chiarendo che al garante autonomo “è consentito opporre delle eccezioni spettanti al debitore principale - soltanto l’exceptio doli del creditore, nel caso in cui la richiesta di pagamento immediato risulti prima facie abusiva o fraudolenta” (1). La qualificazione della fattispecie in termini di contratto autonomo comporta, cioè, quel distacco dell’obbligazione del garante dal rapporto principale che determina la tendenziale inopponibilità al creditore delle eccezioni fondate sul rapporto garantito, e trasforma la prestazione del garante in un’obbligazione incondizionata di pagare a semplice richiesta del beneficiario, che non è tenuto a provare la fondatezza del proprio diritto. La decisione si pone nel solco di quell’orientamento giurisprudenziale, condiviso dalla prevalente dottrina (2), secondo il quale la previsione di una clausola di pagamento “a prima richiesta” e “senza eccezioni”, elidendo il nesso di accessorietà tra la prestazione di garanzia e l’obbligazione dedotta nel rapporto di base, impedisce di inquadrare il negozio nel paradigma normativo della fideiussione, determinando la legittimità dell’escussione della garanzia da parte del beneficiario, senza il previo accertamento dell’inadempimento del debitore. In questa prospettiva, il garante può rifiutare il pagamento solo se è in grado di fornire una “prova certa ed incontestata dell’esatto adempimento” che, configurando una richiesta abusiva o fraudolenta (exceptio doli), “farebbe conseguire al beneficiario un’attribuzione patrimoniale priva di giustificazione, avendo la garanzia, per effetto dell’adempimento, esaurito la sua funzione” (3). La sentenza, resa in relazione ad una peculiare fattispecie di polizza fideiussoria, rilasciata a garanzia di obbligazioni tributarie, consente alcune riflessioni utili per la ricostruzione di una figura negoziale assai complessa, caratterizzata da una fenomenologia varia ed articolata in ragione della molteplicità dei modelli contrattuali diffusi nella prassi (4), ai quali spesso corrispondono significative differenze in termini di copertura del “rischio” assicurato e di modalità di attuazione del rapporto (5). Nonostante, infatti, l’ampia diffusione, nella prassi di emissione delle polizze, di clausole che impediscono al garante di sollevare eccezioni relative al rapporto principale, non è sempre presente in tutte le fattispecie una funzione cauzionale così spiccata da subordinare il pagamento alla semplice richiesta del beneficiario, per cui, in concreto, è possibile riscontrare diversi “gradi” di intensità della garanzia. Discussa, inoltre, è l’effettiva portata della clausola di pagamento a prima richiesta ed il significato attribuiNote: (1) Come nell’ipotesi dell’esatto adempimento del debitore che “farebbe conseguire al creditore un’attribuzione patrimoniale priva di giustificazione, avendo la garanzia, per effetto dell’adempimento, esaurito la sua funzione”: così Cass. 12 dicembre 2008, n. 29215. (2) Cfr. G.B. Portale, Fideiussione e Garantievertrag nella prassi bancaria, in Le operazioni bancarie a cura di G.B. Portale, II, Milano, 1978, 1043 ss.; Id., Nuovi sviluppi del contratto autonomo di garanzia, in Banca, borsa e tit. cred., 1985, I, 169 ss.; M. Sesta, Le garanzie atipiche, in I grandi orientamenti della giurisprudenza civile e commerciale, Padova, 1988; Id., Pagamento a prima richiesta, in Contr. e impr., 1985, 939; F. Mastropaolo, I contratti autonomi di garanzia, Torino, 1989; G. Bozzi, L’autonomia negoziale nel sistema delle garanzie personali, Napoli, 1990; M. Viale, I contratti autonomi di garanzia, in Giur. sist. dir. civ. comm., fondata da W. Bigiavi, I contratti in generale, diretto da G. Alpa e M. Bessone, II, Torino, 1991, 627 ss.; F. Bonelli, Le garanzie bancarie a prima domanda nel commercio internazionale, Milano, 1991, 27 ss.; L. Ruggeri, Interesse del garante e strutture negoziali, Napoli, 1995. In giurisprudenza, per tutte, Cass. 25 febbraio 1994, n. 1933, in Banca, borsa e tit. cred., 1995, II, 422. (3) Cfr. Cass. 12 dicembre 2008, n. 29215; nello stesso senso, Cass. 16 novembre 2007, n. 23786, in Giur. it., 2008, I, 1671, con nota di G. Renna, Pagamento a prima richiesta ed arbitrarietà della domanda del creditore garantito, e in Giust. civ., 2008, 100; Cass., sez. un., 15 aprile 1994, n. 3519, in Giur. it., 1995, I, 1096. (4) Sulla rilevanza del fenomeno, e per un inquadramento delle differenti tipologie di cauzioni fideiussorie diffuse nella prassi, cfr., ampiamente, C. Botta, Le polizze fideiussorie, Milano, 1999. (5) È sufficiente pensare, ad esempio, alle differenze effettuali della polizza di garanzia dei diritti doganali, rispetto a quella, più propriamente sostitutiva di cauzione, che garantisce l’ente appaltante di opere pubbliche. Nella prima il garante è obbligato, in via sussidiaria, ad effettuare la stessa prestazione cui è tenuto il debitore principale; nella seconda il c.d. garante è in realtà un debitore in via principale, tenuto ad una prestazione sostitutiva di cauzione. Cfr. F. Nappi, La garanzia autonoma. Profili sistematici, Napoli, 1992, 217, nota 256; G. Volpe Putzolu, Le assicurazioni. Produzione e distribuzione, Bologna,1992, 165. NOTARIATO N. 2/2009 139 GIURISPRUDENZA•LEGITTIMITA’ to all’“autonomia” del rapporto di garanzia che essa produce, traendosi, dal riconoscimento “di un nesso inscindibile tra la causa del debito di garanzia e la sorte del debito principale” (6), conseguenze non sempre univoche. Polizza fideiussoria e cauzione Le polizze fideiussorie (denominate anche cauzioni fideiussorie, assicurazioni fideiussorie, assicurazioni cauzionali, polizze cauzionali) sono figure negoziali che trovano ampia applicazione nella prassi dei rapporti economici, come strumento alternativo alle cauzioni reali. Con la stipulazione di tale contratto, una banca, o più frequentemente un istituto assicurativo, dietro versamento di un corrispettivo pecuniario denominato premio, garantisce al creditore il pagamento di una determinata somma dovutagli dal debitore, in relazione all’inadempimento di obbligazioni da questi già assunte o che potrebbero sorgere nei confronti del garantito (7). L’origine della figura si ricollega alla normativa speciale in tema di garanzie a favore della P.A.; le polizze, infatti, sono state introdotte nell’ordinamento da leggi speciali - che si limitano a menzionarle, senza, tuttavia, dettarne una compiuta disciplina - dapprima in riferimento a fattispecie tassativamente previste, quindi in ambito sempre più generalizzato, in settori diversi - da quello doganale e tributario a quello degli appalti pubblici - come forme sostitutive della cauzione reale che il contraente con la P.A. è tenuto a costituire a garanzia dell’adempimento delle proprie obbligazioni; tanto che nelle “condizioni generali di assicurazione” è contenuta l’esplicita dichiarazione che la polizza sostituisce la cauzione reale dovuta ai sensi di legge. Si assiste, così, progressivamente, ad un ampliamento dei modi di costituire cauzione, attraverso la legittimazione all’utilizzo di istituti che, pur eterogenei sul piano della struttura e degli effetti, vengono equiparati sotto il profilo dell’operatività funzionale (8): tappa fondamentale di questo processo evolutivo, che ha sancito, in via generale, la piena fungibilità tra cauzione reale, fideiussione bancaria e assicurazione fideiussoria, è la L. n. 348/1982, Costituzione di cauzioni con polizze fideiussorie a garanzia di obbligazioni verso lo Stato od altri enti pubblici, con la quale l’ambito di applicazione delle polizze assicurative viene esteso a “tutti i casi in cui è prevista la costituzione di una cauzione a favore dello Stato o di altro ente pubblico”, in alternativa alla cauzione reale e alla fideiussione bancaria (art. 1). Il provvedimento stabilisce inoltre, espressamente, il trasferimento in surrogazione al garante, dei diritti e delle azioni di cui godeva il creditore beneficiario della prestazione garantita, a seguito dell’incameramento della cauzione per inadempienza del debitore principale (art. 2). 140 NOTARIATO N. 2/2009 Gli innegabili vantaggi che le garanzie fideiussorie presentano rispetto al deposito cauzionale hanno comportato una progressiva marginalizzazione del ruolo assolto dalle cauzioni reali, il cui ambito di operatività appare ormai secondario e residuale (9). Consentono, infatti, di evitare lunghi ed improduttivi immobilizzi di capitale, realizzando una vera e propria operazione di credito a favore del debitore, il quale viene liberato dall’obbligo di prestare cauzione (10) e, laddove prevista una clausola che obbliga il garante ad un pagamento “a prima richiesta” e “senza eccezioni”, attribuiscono al beneficiario una sicurezza sostanzialmente equivalente a quella propria del deposito cauzionale” (11). Si giustifica, così, l’assimilazione, sotto il profilo economico-funzionale, che dottrina e giurisprudenza operano tra cauzione reale e polizza fideiussoria (12), ed il successo di quest’ultima in un contesto, come quello attuale, caratterizzato dalla celerità delle transazioni e dall’accentuata internazionalizzazione delle attività commerciali e finanziarie. L’eccessiva rigidità ed onerosità delle garanzie reali e della cauzioni, e le limitazioni imposte dalla disciplina del modello fideiussorio, connotato dal vincolo dell’accessorietà e da un marcato favor per il garante, hanno, infatti, sollecitato la ricerca di modelli alternativi di garanzia, in grado di assicurare al beneficiario la solidità propria delle garanzie reali, conNote: (6) Così Cass. 16 novembre 2007, n. 23786, cit. (7) Cfr. C.M. Mazzoni e C. Brugliere, La polizza fideiussoria, in Nuova giur. civ. comm., 1986, 378; M. Sesta, voce Polizze fideiussorie e cauzionali, in Dig. disc. priv., sez. comm., XI, Torino, 1995, 174; Cass. 14 marzo 1978, n. 1292, in Banca, borsa e tit. cred., 1979, II, 413. (8) Le similitudini tra la fideiussione e la cauzione si limitano al dato economico - funzionale, poiché le due figure divergono riguardo alla struttura, al meccanismo operativo ed agli effetti. Come autorevole dottrina ha avuto modo di sottolineare, “il termine cauzione non può riferirsi - se non del tutto impropriamente - alle garanzie personali”. Così A. Dalmartello, Il pegno irregolare (o cauzione in senso stretto), in Banca, borsa e tit. cred., 1950, I, 318, nota 4. (9) Cfr. G. Tucci, voce Cauzione, in Dig. disc. priv., sez. civ., II, Torino, 1988, 264. Emblematica la recente disciplina in tema di tutela dell’acquirente di immobili da costruire, introdotta dal D.Lgs. 22 giugno 2005, n. 122, che prevede la costituzione di una garanzia a prima richiesta. (10) In dottrina, sul rapporto tra cauzione e garanzie con pagamento a prima richiesta, F. Mastropaolo, I contratti autonomi di garanzia, cit., 131 ss.; G. Bozzi, L’autonomia negoziale nel sistema delle garanzie personali, cit., 265; M. Lobuono, I contratti di garanzia, in Trattato di diritto civile del Consiglio Nazionale del Notariato, Napoli, 2007, 110 ss. In giurisprudenza, per tutte, Cass. 4 aprile 1995, n. 3940, in Banca, borsa e tit. cred., 1997, II, 41. (11) Cfr. Cass. 25 febbraio 1994, n. 1933, in Banca, borsa e tit. cred., 1995, II, 422; Cass. 24 ottobre 1985, n. 5228, in Dir. Giur., 1987, 238. (12) Cfr. G. Volpe Putzolu, Assicurazioni fideiussorie, fideiussioni omnibus e attività assicurativa, in Banca, borsa e tit. cred., 1982, II, 249; M. Sesta, Le garanzie atipiche, cit.; A. Ravazzoni, Le c.d. cauzioni fideiussorie o polizze fideiussorie, in Le operazioni bancarie, a cura di G.B. Portale, cit., 1032; A. Calderale, Fideiussione e contratto autonomo di garanzia, Bari, 1989, 211 ss.; Cass. 15 ottobre 2002, n. 14656, in Ass., 2003, II, 73; Cass. 17 maggio 2001, n. 6757, in Giust. civ., 2002, I, 729. GIURISPRUDENZA•LEGITTIMITA’ servando, nel contempo, la duttilità di quelle personali (13). Il fenomeno è legato al processo di profonda revisione che ha caratterizzato, in questi anni, l’intero settore delle obbligazioni di garanzia e che, mettendo in discussione la centralità degli schemi negoziali tipici e, segnatamente, il ruolo della fideiussione codicistica quale “archetipo delle garanzie personali” (14), si è arricchito di figure diverse e peculiari, come la fideiussione omnibus, le lettere di patronage, i contratti autonomi di garanzia e, appunto, le polizze cauzionali. La loro diffusione ha determinato la costituzione di un autonomo ramo assicurativo, soggetto a specifica autorizzazione, denominato “cauzione”, al quale appartengono numerose tipologie di polizze che gli operatori, schematicamente, sono soliti suddividere in relazione alla natura e alle caratteristiche dell’evento che determina la nascita dell’obbligazione cauzionale. Questa classificazione pratica ha, tuttavia, un valore meramente descrittivo, poiché all’interno delle singole categorie si rilevano significative differenze, sia funzionali che disciplinari. Basta pensare, ad esempio, all’importanza assunta dalla natura del soggetto garantito nell’ambito delle cauzioni per appalti (o subappalti) di opere, forniture e servizi dove, nell’ipotesi di committente pubblico opera la clausola di pagamento a prima richiesta, mentre, nel caso di commessa privata, la garanzia viene generalmente prestata a “perdita definitiva”, cioè soltanto dopo l’escussione dell’impresa obbligata. Parimenti sterile si rivela ogni altro tentativo, volto ad individuare delle categorie unitarie e, quindi, a delineare una regolamentazione per “tipi” di polizze. La disciplina convenzionale, infatti, è spesso diversa da caso a caso, e non sempre chiara e lineare, perché frutto della necessità di contemperare l’aspirazione del creditore al massimo dell’“astrattezza” e l’esigenza dell’assicuratore di cautelarsi contro il rischio di abusi nell’escussione della garanzia (15). Accanto alle diverse ipotesi previste dal legislatore, inoltre, l’autonomia privata ha elaborato una molteplicità di schemi contrattuali spesso diversi sotto il profilo funzionale; questa disomogeneità rende estremamente arduo il compito dell’interprete, vanificando, nella sostanza, la possibilità di offrire una soluzione aprioristica ed unitaria al problema della qualificazione e della disciplina applicabile all’istituto (16). Polizza fideiussoria e contratto a favore del terzo In relazione alla configurazione dell’assetto negoziale, la polizza si caratterizza per essere prevalentemente modellata sullo schema del contratto a favore del terzo (17), occupando la posizione giuridica di stipulante il debitore principale, quella di promittente l’assicuratore, e quella di terzo beneficiario il creditore garantito (18). Nella realtà delle contrattazioni, l’accordo, infatti, è generalmente stipulato tra la compagnia di assicurazione e il debitore, che destina la garanzia direttamente a favore del creditore (19). L’accettazione del creditore si configura come dichiarazione di voler profittare della stipulazione in suo favore, ex art. 1411 c.c. (20), e non, invece, come elemento costitutivo di un distinto e successivo contratto di fideiussione (21), né l’eventuale consegna al creditoNote: (13) Sull’evoluzione delle garanzie personali tipiche ed atipiche nell’esperienza negoziale la letteratura è vastissima. In argomento cfr., per tutti, E. Briganti, Garanzie personali atipiche, in Banca, borsa e tit. cred., 1988, I, 573 ss.; G. Biscontini, Assunzione di debito e garanzia del credito, Camerino-Napoli, 1993; F. Nappi, Studi sulle garanzie personali. Un percorso transnazionale verso una scienza civilistica europea, Torino, 1997; e, più di recente, L. Ruggeri e S. Monticelli, Garanzie personali, in Trattato di diritto civile del Consiglio Nazionale del Notariato, Napoli, 2005; e, sul requisito della gratuità nelle garanzie personali, A. Sassi, Equità ed interessi fondamentali nel diritto privato, Perugia, 2006, 187 ss. (14) Cfr. E. Briganti, Percorsi di diritto privato, Torino, 1994, 147. (15) Cfr. G. Volpe Putzolu, Le assicurazioni. Produzione e distribuzione, cit., 163. (16) Sul punto, J.I. Font Galan, Natura e disciplina delle polizze fideiussorie rilasciate dalle compagnie di assicurazioni, in Ass., 1976, 216. (17) È questo l’orientamento consolidato della giurisprudenza, conforme all’opinione della dottrina prevalente: cfr. M. Fragali, Fideiussione ed assicurazione, in Banca, borsa e tit. cred., 1955, 140 s.; A. Gambino, Fideiussione, fideiussio indemnitatis e polizze fideiussorie, in Riv. dir. comm., 1960, 60; J.I. Font Galan, Natura e disciplina delle polizze fideiussorie rilasciate dalle compagnie di assicurazioni, cit., 254; C.M. Mazzoni e C. Brugliere, La polizza fideiussoria, cit., 379; R. Giampietraglia, L’assicurazione fideiussoria, in Riv. dir. civ., 1990, 758; C. Russo, Le assicurazioni fideiussorie, Milano, 1997, 19 ss. Sulla compatibilità tra lo schema del contratto a favore di terzi e la polizza fideiussoria con clausola di pagamento a semplice richiesta, cfr. M. Costanza, L’assicurazione fideiussoria non è una fideiussione, in Giust. civ., 1995, 2418 ss. In giurisprudenza, per tutte, cfr. Cass. 20 dicembre 2005, n. 28233, in Obbl. e Contr., 2007, 149, con nota di A. Urso, Sospensione della garanzia e funzione cauzionale nelle polizze fideiussorie. Definitivamente accantonata la risalente ricostruzione che ravvisava nella fattispecie due negozi distinti e collegati: un primo contratto “preparatorio”, stipulato tra assicuratore e debitore principale, ed un secondo contratto, di fideiussione, concluso dalla compagnia assicurativa con il creditore garantito. In questo senso, App. Milano 10 gennaio 1956, in Banca, borsa e tit. cred., 1957, II, 78, con nota di A. Donati; seguito, poi, solo da Trib. Milano 2 maggio 1988, ivi, 1990, II, 255. (18) Cfr., per tutti, J.I. Font Galan, Natura e disciplina delle polizze fideiussorie rilasciate dalle compagnie di assicurazioni, cit., 236; e, in giurisprudenza, già Cass. 9 luglio 1943, in Riv. dir. comm., II, 15, con nota di N. Gasperoni. Negli stessi termini la giurisprudenza successiva: Cass. 24 giugno 1997, n. 5656, in Foro it., 1997, I, 3227; Cass. 2 agosto 1990, n. 7766, in Banca, borsa e tit. cred., 1992, II, 52. (19) Come è stato autorevolmente osservato, “é il debitore attuale od eventuale che conclude il contratto. Lo conclude con chi assume la garanzia che egli è tenuto a dare. Lo destina a favore di chi è già in un rapporto obbligatorio con lui o può divenire suo creditore. Lo schema del contratto a favore del terzo si scorge agevolmente nelle linee descritte”: così, M. Fragali, Fideiussione ed assicurazione, cit., 140. (20) Cfr., per tutte, Cass. 24 dicembre 1992, n. 13661, in Vita not., 1993, 769. In dottrina, cfr. U. Majello, L’interesse dello stipulante nel contratto a favore di terzi, Napoli, 1962. (21) Cfr. C.M. Mazzoni e C. Brugliere, La polizza fideiussoria, cit., 379. D’altronde, nella stipulazione a favore del terzo “é anche ipotizzabile che (segue) NOTARIATO N. 2/2009 141 GIURISPRUDENZA•LEGITTIMITA’ re di un esemplare della polizza modifica lo schema contrattuale così delineato, “assolvendo la mera funzione di atto conoscitivo della perfezione del contratto nei confronti del creditore” (22). Il problema della qualificazione delle polizze fideiussorie Il ruolo della giurisprudenza, nell’opera di sistemazione della fattispecie, assume una valenza particolare, poiché si manifesta in una serie imponente di giudicati, resi soprattutto a partire dagli anni ‘80, anche se il problema della qualificazione delle polizze impegnava gli interpreti già da tempo. Inizialmente, data l’assenza di un quadro di riferimento normativo certo, la giurisprudenza prevalente, tradizionalmente incline ad appiattire nella disciplina del tipo legale ogni fattispecie controversa, ha seguito una linea interpretativa che, partendo dalla contrapposizione tra natura assicurativa e natura fideiussoria, ha finito con il ricondurre la figura nell’alveo di un paradigma nominato (23). In questa prospettiva, l’orientamento dominante tendeva ad assimilare le polizze allo schema della fideiussione piuttosto che a quello dell’assicurazione, poiché “pur avendo come parte un’impresa di assicurazione e formando oggetto, in pratica, di uno specifico ramo di servizio di tali imprese, la loro funzione economico-sociale non è quella tipica dell’assicurazione, e cioè il trasferimento di un rischio a carico dell’assicuratore, bensì quella di garanzia, per essere dirette a garantire, nei confronti del beneficiario, l’adempimento di obblighi assunti dallo stesso contraente” (24). La linea interpretativa adottata, soprattutto inizialmente, dalla giurisprudenza, in un gran numero di giudicati conformi, segue un iter logico pressocché costante: la polizza cauzionale viene prima distinta dal contratto di assicurazione - del quale, nella specie,“mancherebbe l’elemento essenziale ... cioè l’alea del risarcimento di un danno derivante da un sinistro” (25) - quindi ricondotta allo schema della fideiussione, in base ad un’asserita identità causale tra le due fattispecie (26). Alla polizza viene, così, attribuita natura sostanziale di fideiussione, essendo “l’obbligazione che la compagnia assicurativa assume - in conformità allo schema previsto dall’art. 1936 c.c., - un’obbligazione personale che si aggiunge, nello stesso o in diverso grado, a quella del debitore” (27), il cui contenuto consiste in “un adempimento sostitutivo o di regresso, diverso da quello tipico dell’assicuratore, che è invece di carattere indennitario, e quindi non obiettivamente o quantitativamente coincidente con l’obbligo garantito” (28). Note: (segue nota 21) l’acquisto del diritto sia subordinato all’adesione del terzo. In quest’ultimo caso non si snatura la figura del contratto a favore di terzo, quasi che essa finisca con l’identificarsi con l’ipotesi del contratto trilaterale. … Anche 142 NOTARIATO N. 2/2009 quando, per volontà dei contraenti, l’acquisto del diritto fosse condizionato all’adesione del terzo, la dichiarazione di quest’ultimo avrebbe il valore di condizione di efficacia e non di elemento perfezionativo del contratto che rimane pur sempre negozio bilaterale”: così U. Majello, voce Contratto a favore del terzo, in Dig. disc. priv., sez. civ., II, Torino, 1989, 241. (22) Sul punto, R. Giampietraglia, L’assicurazione fideiussoria, cit., 759. In senso contrario, U. Salvestroni, Fideiussioni speciali atipiche o miste e solidarietà “attenuata”, in Banca, borsa e tit. cred., 1982, I, 1086, esprime riserve sulla configurabilità dell’assicurazione cauzionale come contratto a favore di terzi, nell’ipotesi che si riconosca alla fattispecie natura di sottotipo fideiussorio, in base alla considerazione che, in linea di principio, “sembra ... che l’obbligazione fideiussoria tipica non possa nascere da un contratto a favore del terzo, poiché, mentre in genere tale contratto potrebbe riversare i suoi effetti anche sullo stipulante, qualora il terzo non volesse profittare della prestazione del promittente (art. 1411 c.c.), questi non potrebbe certamente garantire l’adempimento dell’obbligazione principale nei confronti dello stesso debitore principale”. Questo rilievo, tuttavia, perde di incisività laddove si consideri che è lo stesso art. 1411, comma 3, c.c. a prevedere che in caso di revoca della stipulazione o di rifiuto del terzo, il diritto attribuito a quest’ultimo rimane a beneficio dello stipulante “salvo che diversamente risulti dalla volontà delle parti o dalla natura del contratto”. Come la dottrina più attenta sottolinea, può infatti risultare che “lo stipulante abbia facoltà di designare altro soggetto come beneficiario o che il diritto si estingua con o senza riduzione dell’eventuale corrispettivo o che l’intero contratto si risolva”. Così U. Majello, voce Contratto a favore del terzo, cit., 245. (23) È interessante notare che, nella maggior parte dei casi sottoposti all’attenzione dei giudici, la controversia appare già impostata dalle parti come un’alternativa tra qualificazioni concorrenti - nella specie assicurazione o fideiussione - mirando, ciascuno dei contraenti, a veder riconosciuto il nomen iuris che comporta l’applicazione della disciplina a sé più favorevole. Così, G. De Nova, Il tipo contrattuale, Padova, 1974, 14. (24) Cfr. Cass. 17 novembre 1982, n. 6155, in Giur. it., 1983, I, 1319; Cass. 11 ottobre 1994, n. 8295, in Foro it., 1995, I, 1911. È significativo che quasi tutte le rare pronunce di merito che, viceversa, riconoscono nell’assicurazione fideiussoria “una forma di contratto assicurativo”, siano state sistematicamente disattese nei gradi successivi di giudizio. Così, ad es., Trib. Milano 31 ottobre 1991, ined., rif. da App. Milano 3 settembre 1996, in Nuova giur. civ. comm., 1997, 175; Trib. Roma 19 dicembre 1980, ined., rif. da Cass. 23 novembre 1983, n. 7028, in Giur. it., 1985, I, 98; Trib. Roma 18 luglio 1979, ined., rif. da App. Roma 15 ottobre 1982, ined., quest’ultimo conf. da Cass. 17 maggio 1988, n. 3443, in Banca, borsa e tit. cred., 1989, II, 429. (25) Cfr. Cass. 23 novembre 1983, n. 7028, cit. (26) L’iter seguito dalla giurisprudenza prevalente per risolvere il problema della qualificazione della fattispecie conduce all’affermazione che la funzione assolta dalle polizze fideiussorie non è “quella tipica dell’assicurazione” (App. Milano 7 febbraio 1989, in Banca, borsa e tit. cred., 1991, II, 402) ma è la stessa del contratto di fideiussione (Cass. 2 agosto 1990, n. 7766, ivi, 1992, II, 50; Cass. 2 aprile 1987, n. 3181, in Arch. civ., 1987, I, 716; Cass. 29 gennaio 1998, n. 907, in Mass. Giur. civ., 1998, 188; App. Milano 30 marzo 1979, in Ass., 1980, II, 99. La dottrina più moderna (M. Costanza, Il contratto atipico, Milano, 1981, 185 ss.) sottolinea i limiti di questo approccio ermeneutico, diffuso in giurisprudenza per distinguere un tipo legale dall’altro, “quale che sia la concezione che si adotti della causa, sia come funzione economico-sociale, sia come sintesi degli elementi essenziali”. Sul punto, cfr. anche G. De Nova, Nuovi contratti, in Il diritto attuale, X, Torino, 1994, 24. (27) Cass. 17 novembre 1982, n. 6156, Giur. it., 1983, I, 1331. (28) Cass. 14 marzo 1978, n. 1292, in Banca, borsa e tit. cred., 1979, II, 413; Cass. 2 aprile 1987, n. 3181, cit. Questa interpretazione, pacifica in giurisprudenza, è condivisa dalla dottrina tradizionale e più risalente, secondo la quale, poiché la polizza è emessa a garanzia del pagamento del debito, non del pagamento del danno, l’obbligo dell’assicuratore non è di risarcimento ma di adempimento; un obbligo cioè “affatto estraneo al contenuto del contratto di assicurazione, che è un contratto di indennità”. Cfr. G. Molle, Fideiussioni bancarie e assicurazioni fideiussorie, in Banca, borsa e tit. cred., 1953, 449; M. Fragali, Fideiussione ed assicurazione, cit., 144. GIURISPRUDENZA•LEGITTIMITA’ In particolare, la natura indennitaria dell’obbligazione verrebbe esclusa sia dalla presenza degli elementi tipicamente costitutivi dell’obbligazione fideiussoria, sia dall’assenza dei connotati tipici del contratto di assicurazione, quali l’onerosità, - almeno a carico del creditore - il rischio e la natura risarcitoria dell’obbligazione assunta dalla compagnia assicurativa (29). La qualificazione in termini di fideiussione non impedisce, tuttavia, di riconoscere che le polizze presentano “innegabili peculiarità inerenti al rapporto assicurativo” (30), che si manifestano sotto il profilo formale (31), tecnico-economico (32) e sostanziale (33). Diretta conseguenza di questa interpretazione, è l’applicazione della disciplina dettata per il tipo fideiussorio (34) a meno che, tuttavia, le parti, nei limiti della loro autonomia contrattuale, non abbiano inteso derogarla. L’applicabilità di norme proprie del contratto di assicurazione, infatti, non viene esclusa radicalmente, attribuendo rilievo all’analisi della effettiva volontà delle parti, e all’esame del contenuto delle clausole che i contraenti hanno stipulato in concreto, “per dare alla fideiussione un assetto corrispondente alle speciali modalità convenute per la gestione della garanzia” (35). In sostanza, poiché l’assicurazione fideiussoria presenta “elementi della fideiussione e dell’assicurazione, dando luogo ad un sottotipo innominato di fideiussione” (36), o ad “un negozio atipico od innominato di natura, pur sempre, prioritariamente fideiussoria” (37), alla fattispecie, qualora la controversia attenga al rapporto tra assicuratore e contraente-debitore, che ha stipulato la polizza, saranno applicabili le disposizioni sull’assicurazione che le parti abbiano richiamato (38), avendo, tuttavia, ben presente la “finalità fideiussoria che il contratto è destinato ad attuare” (39), e tenendo conto, in ogni caso, che “l’eventuale dubbio fra più disposizioni astrattamente applicabili deve essere risolto adottando quella che meglio si adatta alla funzione di garanzia” (40). A conseguenze analoghe, in termini di regolamentazione del negozio, giungono quelle sentenze che qualificano la polizza fideiussoria come contratto “misto”, nel quale la causa fideiussoria è dominante, e poi, in base al criterio della prevalenza o dell’assorbimento, finiscono con l’applicare la disciplina della fideiussione (41). Ad identici esiti, in termini di disciplina, che resta “prioritariamente” quella fideiussoria, approda chi, negando il riferimento al contratto misto del quale, nella specie, mancherebbe “la sussistenza di più cause e di più finalità che si compongono ... ad unità contrattuale”, ritiene che la polizza fideiussoria integri un’ipotesi di negozio indiretto e, in particolare, di fideiussione indiretta (42). La polizza fideiussoria come contratto atipico A conclusioni sostanzialmente simili giungono quelle pronunce che definiscono la polizza fideiussoria un contratto “atipico”, e poi vanificano l’affermazione considerando applicabili al rapporto “le regole del contratto prevalente che è normalmente ... quello di fideiussione” (43). Note: (29) In questo senso, App. Milano 4 marzo 1980, in Banca, borsa e tit. cred., 1981, II, 84. (30) Cfr. App. Milano 7 febbraio 1989, in Banca, borsa e tit. cred., 1991, II, 402; Cass. 23 novembre 1983, n. 7028, in Giur. it., 1985, I, 94. (31) Cfr. Cass. 13 ottobre 1986, n. 5981, in Giur. it., 1988, I, 879. È opinione condivisa, tuttavia, che nessun peso, ai fini della qualificazione del contratto, possa essere attribuito alla circostanza che l’accordo tra debitore e garante presenti i caratteri tecnici del contratto di assicurazione e la nomenclatura sia prettamente assicurativa (cioè che il documento sia denominato “polizza”, il corrispettivo “premio”, l’ammontare della garanzia “somma assicurata” ed il suo versamento al creditore “pagamento del risarcimento” o “dell’indennizzo”). In questo senso, per tutte, Cass. 31 luglio 2006, n. 17460, in Mass. Giur. it., 2006. (32) Cfr. Cass. 17 giugno 1957, n. 2299, in Ass., 1957, I, 163; App. Roma 23 febbraio 1959, in Riv. dir. comm., 1960, II, 57. (33) Così Cass. 22 maggio 1978, n. 2548, in Rep. Foro it., 1978, voce Fideiussione e mandato di credito, 942, n. 7. (34) Cfr. Cass. 11 ottobre 1994, n. 8295, in Foro it., 1995, I, 1911. (35) Cfr. Cass. 9 giugno 1975, n. 2297, in Foro it., 1975, I, 2740; Cass. 4 aprile 1995, n. 3940, cit. Il rinvio alle norme proprie del contratto di assicurazione è frequente soprattutto con riguardo all’onere di dichiarazione del rischio (art. 1892 ss. c.c.) e alle modificazioni obiettive dell’alea durante l’esecuzione del rapporto. L’assicuratore tende, infatti, ad inserire delle clausole che lo cautelino nell’ipotesi di aggravamento del rischio o di dichiarazioni inesatte o reticenti del contraente, allo scopo di riequilibrare il rapporto tra rischio e premio. (36) Cfr. Cass. 9 giugno 1975, n. 2297, cit. (37) Cfr. App. Milano 30 marzo 1979, cit. (38) Cfr. Cass. 15 ottobre 2002, n. 14656, cit.; App. Napoli 16 aprile 2007, in Mass. Giust. civ., 2007. (39) Così Cass. 9 giugno 1975, n. 2297, cit.; App. Roma 23 marzo 1959, in Riv. dir. comm., 1960, II, 74. (40) Cfr. Cass. 17 ottobre 1982, n. 6156, in Giur. it., 1983, I, 1331. (41) In questo senso Cass. 25 ottobre 1984, n. 5450, in Banca, borsa e tit. cred., 1986, II, 15; Cass. 24 novembre 1979, n. 6152, in Rep. Foro it., 1979, voce Fideiussione e mandato di credito, 988, n. 4; Cass. 14 marzo 1978, n. 1292, in Banca, borsa e tit. cred., 1979, I, 411; Trib. Palermo 14 marzo 1991, in Temi Sic., 1991, 75; App. Torino 12 giugno 1981, in Giur. it., 1983, I, 677. Trova conferma così che la “pseudo-categoria” del contratto misto costituisce, nell’applicazione della giurisprudenza, nient’altro che un medio logico per la riconduzione al tipo. Sul punto, U. Majello, Problemi di legittimità e di disciplina nei negozi atipici, in Riv. dir. civ., 1987, 490. (42) Così Cass. 26 gennaio 1985, n. 385, in Nuova giur. civ. comm., 1985, I, 490, con nota di R. Lupi. Poiché “il fine voluto ... è esclusivamente quello della fideiussione, caratteristico e tipico, ma il mezzo usato non è quello previsto dallo schema tipico della fideiussione, bensì un mezzo tipico diverso, cioè ... lo schema tipico dell’assicurazione”: così G. Tamburrino, Appunti sulla natura e sulla disciplina della cosiddetta assicurazione fideiussoria, in Ass., 1970, 532. (43) Cfr. Cass. 24 dicembre 1992, n. 13661, in Vita not., 1993, 772; Cass. 4 aprile 1995, n. 3940, cit. Nello stesso senso si esprime anche la giurisprudenza di merito che qualifica la polizza fideiussoria come “contratto atipico di fideiussione” (Trib. Milano 7 aprile 1986, in Banca, borsa e tit. cred.,1987, II, 653), o come “fideiussione atipica” (Trib. Como 18 febbraio 1971, in Ass., II, 196) per poi applicare la disciplina fideiussoria. NOTARIATO N. 2/2009 143 GIURISPRUDENZA•LEGITTIMITA’ A ben guardare, per giustificare le anomalie che le polizze presentano rispetto al modello codicistico, pur senza rinunziare ad applicare la disciplina del tipo fideiussorio, la giurisprudenza spesso ha adottato una terminologia a dir poco singolare, giungendo a definire la fattispecie un contratto innominato “coincidente con il modello legale tipico di cui agli artt. 1936 ss. c.c.” (44). Il segnale di un cambiamento si coglie solo in quelle decisioni che, traendo dall’analogia funzionale con la cauzione reale argomentazioni per sottolineare l’incompatibilità con lo schema assicurativo, definiscono la polizza “una figura intermedia tra fideiussione e deposito della cauzione” (45), dando vita ad un indirizzo più moderno che ritiene applicabile la disciplina della fideiussione laddove non espressamente derogata dalle parti, mediante la previsione di una clausola di pagamento “a prima richiesta” o “senza eccezioni” (46). Questo orientamento, che attribuisce al garante un obbligo incondizionato di garanzia, svincolato dal rapporto principale, apre la strada all’inquadramento delle polizze nell’alveo del contratto autonomo di garanzia. Garanzie di tipo indennitario e garanzie di tipo satisfattorio La contrapposizione tra funzione assicurativa e funzione fideiussoria e la conseguente riconduzione delle polizze al paradigma normativo della fideiussione, sulla base del rilievo che esse danno luogo ad un adempimento sostitutivo anziché ad una prestazione indennitaria, desta, tuttavia, perplessità (47) soprattutto quando la garanzia assiste un’obbligazione infungibile, come ad esempio accade nell’ipotesi di polizze cauzionali emesse a garanzia di appalti. Secondo un’interpretazione più risalente (48), la polizza, in questo caso, non accederebbe all’obbligo di facere, ma all’obbligazione secondaria di risarcire il danno incombente sull’appaltatore per non aver adempiuto l’obbligazione assunta. L’ipotesi della prestazione infungibile sarebbe, cioè, riconducibile alla fideiussione sotto il profilo della garanzia dell’obbligazione futura ed eventuale di risarcimento del danno. La dottrina più moderna (49), tuttavia, muovendo da una revisione critica della funzione e del contenuto dell’istituto fideiussorio, osserva che, mentre nella fideiussione l’interesse tipico tutelato è quello all’esatto adempimento dell’obbligazione principale, la garanzia prestata per un’obbligazione infungibile non assicura, mediante la prestazione del fideiussore, l’esatta realizzazione degli interessi del creditore. In questa prospettiva, poiché l’obbligazione del fideiussore presenta un contenuto corrispondente a quello dell’obbligazione principale, si avrà garanzia in senso proprio solo nell’ipotesi di obbligazioni a contenuto fungibile. Nell’ipotesi di obbligazione infungibile, infatti, viene meno la funzione di garanzia tipica del negozio fideiussorio, caratterizzata dal rafforzamento del potere 144 NOTARIATO N. 2/2009 del creditore di conseguire il bene dovuto, cioè di realizzare specificamente il proprio diritto. In questo caso, dunque, il creditore, non potendo garantirsi l’adempimento, data la natura (infungibile) della prestazione, potrà semplicemente tutelarsi in vista dell’inadempimento, assicurandosi il risarcimento del danno. Nel solco di quest’interpretazione, che fuoriesce dalla logica tradizionale della causa cavendi (50) per approdare ad una nozione diversa e più ampia del garantire, si viene a delineare un nuovo sistema di garanzie personali tipiche ed atipiche (51), accomunate dal medesimo scopo di offrire al creditore-beneficiario sicurezza circa l’esito positivo di una determinata operazione economica. All’interno di quest’area, si distinguono due diverse categorie, in relazione al tipo di impegno assunto dal garante: da un lato le garanzie cc.dd. di tipo satisfattoNote: (44) Così Cass., sez. un., 15 gennaio 1993, n. 500, in Foro it., 1993, I, 760, con nota di A. Capone; in Riv. dir. comm., 1994, II, 35, con nota di C.F. Giampaolino; in Corr. giur., 1993, 716, con nota di A. Di Majo; in Dir. ec. ass, 1993, 227, con nota di D. Chindemi; in Resp. civ. prev., 1993, 919, con nota di G. Graziano. (45) Per prima, Cass. 7 settembre 1968, n. 2899, in Ass., 1969, II, 123; seguita da Pret. Torino 6 giugno 1987, in Foro Pad., 1989, I, 260, che, qualificando la polizza fideiussoria un contratto assolutamente atipico, giunge a negare del tutto l’applicabilità della disciplina della fideiussione. Da ultimo, Cass. 21 febbraio 2008, n. 4446, in Guida dir., 2008, 62. (46) Cfr. Cass. 27 giugno 2007, n. 14853, in Ass., 2007, 63; Cass. 20 dicembre 2005, n. 28233, cit.; Cass. 6 aprile 1998, n. 3552, in Mass. Foro it., 1998, 377; Cass. 26 giugno 1990, n. 6499, in Giur. it., 1991, I, 452. (47) Poiché entrambe le fattispecie avrebbero una comune connotazione di garanzia, ancorché in senso ampio, e cioè disancorata dalla tradizionale configurazione della causa cavendi, ed entrambe presenterebbero, nel contempo, elementi di rischio: così F. Mastropaolo, I contratti autonomi di garanzia, cit., 163; G. Volpe Putzolu, Garanzie fideiussorie e attività assicurative, in Ass., 1981, 495. (48) In questo senso M. Fragali, voce Fideiussione, (diritto privato), in Enc. dir., XVIII, Milano, 1968, 346 ss.; M. Foschini Assicurazione fideiussoria. Natura giuridica e tipo negoziale, in Riv. dir. comm., 1957, II, 232 ss. (49) Cfr., per tutti, E. Briganti, Fideiussione e promessa del fatto altrui, Napoli, 1981, 192 ss., Id., Percorsi di diritto privato, cit., 148 ss. (50) Sulla distinzione tra causa di garanzia e prestazione di garanzia, cfr. F. Nappi, La garanzia autonoma. Profili sistematici, cit.; Id., La garanzia autonoma ed altre garanzie con clausole di pagamento “a prima richiesta” (con cenni alla prassi negoziale tedesca), in Studi sulle garanzie personali, Torino, 1997. (51) Un vasto e potenzialmente illimitato genus di negozi tipici ed atipici di garanzia personale arricchito di una serie di figure quali, ad esempio, le diverse ipotesi riconducibili alla promessa del fatto del terzo di cui all’art. 1381 c.c.; le lettere di patronage, le garanzie autonome, le polizze fideiussorie. In argomento, A. Mazzoni, Le lettere di patronage, Milano, 1986, 128. In sostanza “il nucleo centrale dell’evoluzione in tema di garanzie personali è rappresentato dalla transizione della considerazione della garanzia personale come semplice addizione di un rapporto collegato funzionalmente ad altro alla configurazione della stessa come trasferimento del rischio economico del credito dal creditore al garante, attraverso l’assunzione della garanzia da parte di un operatore professionale, neutro rispetto al credito garantito”: così L. Barbiera, Le garanzie atipiche ed innominate nel sistema del codice del 1942, in Banca, borsa e tit. cred., 1992, I, 740 ss. GIURISPRUDENZA•LEGITTIMITA’ rio, proprie delle prestazioni fungibili, dall’altro le garanzie cc.dd. di tipo indennitario, in cui il garante si impegna non ad eseguire la prestazione mancata, ma a riparare il danno, indennizzando il creditore insoddisfatto (52). Nelle polizze fideiussorie l’obbligazione assunta dal garante, consistente nel pagamento al beneficiario di una somma di denaro convenuta, a fronte dell’inadempimento del debitore principale, non sempre è coincidente con l’obbligo dedotto nel rapporto sottostante, che potrebbe non avere carattere pecuniario. Diversamente dalla fideiussione, dunque, l’assicurazione fideiussoria non garantisce, in ogni caso, al creditore l’adempimento del rapporto principale con le stesse modalità a cui è tenuto il debitore, potendosi configurare, invece, fattispecie dirette a risarcire il pregiudizio derivante al beneficiario dall’inadempimento del rapporto di base, mediante una prestazione indennitaria. La clausola di pagamento a prima richiesta La presenza, sempre più diffusa, nei modelli contrattuali delle polizze, di clausole di pagamento “a prima richiesta” e “senza eccezioni”, dirette a rendere insensibile la garanzia alle vicende relative al rapporto tra creditore beneficiario e debitore, incidendo significativamente sulla disciplina del rischio, pongono la fattispecie “inequivocabilmente fuori” (53) dallo schema assicurativo, ed orientano oramai l’interprete (54) verso la qualificazione in termini di contratto autonomo (55). Il problema, tuttavia, resta quello di definire l’effettiva portata di tali clausole ed il significato attribuito all’“autonomia” del rapporto di garanzia che esse producono. È necessario, cioè, distinguere le ipotesi in cui le parti hanno inteso soltanto dare al creditore la possibilità di soddisfare immediatamente la sua pretesa, rinviando ad un momento successivo la proponibilità delle eccezioni, dai casi in cui, invece, i contraenti “hanno inteso costituire (in forma obbligatoria) un deposito cauzionale senza che si possa neppure parlare di posticipazione di eccezioni, fondate sul rapporto garantito, che il soggetto tenuto alla prestazione cauzionale potrebbe anche non essere legittimato ad opporre” (56). Inizialmente, l’atteggiamento della giurisprudenza prevalente è stato quello di riconoscere, in linea di principio, la validità di una categoria negoziale costituita da impegni “puri” (57) - con i quali il garante si obbliga ad eseguire la prestazione oggetto della garanzia “a semplice richiesta” del beneficiario, rinunziando ad opporre eccezioni attinenti all’esistenza, validità e coercibilità del rapporto garantito (58) - senza, tuttavia, trarne le opportune conseguenze in sede di ricostruzione dell’“autonomia” tra i due rapporti, che viene “sempre intesa in senso relativo”. Tale relatività, da cui traspare “un’idea del contratto autonomo tutt’altro che affrancata dalla fideiussio- ne” (59), si esprime attraverso il sistema delle rivalse che consente “il riequilibrio delle posizioni in caso di escussione abusiva della garanzia” (60). In questa prospettiva, si comprendono quelle decisioni della Suprema Corte che, da un lato, ritengono corretta la configurazione del negozio come garanzia Note: (52) Recentemente la giurisprudenza, pur ravvisando nella polizza prestata a garanzia dell’obbligazione dell’appaltatore, una garanzia atipica, “perché l’insostituibilità della prestazione fa venir meno la solidarietà dell’obbligazione del garante e comporta che il creditore possa pretendere da lui solo un indennizzo o un risarcimento”, ha finito con ricondurla alla fideiussio indemnitatis. Così Cass. 31 gennaio 2008, n. 2377, in Corr. giur., 2008, 313. In posizione critica, la dottrina sottolinea che tale figura non coincide con la garanzia dell’obbligazione a contenuto infungibile, perché in quest’ultima il fideiussore si obbliga direttamente al risarcimento del danno, data la natura infungibile della prestazione, mentre nella fideiussio indemnitatis il cosiddetto fideiussore, anche quando l’indennità si estende all’integrale reintegrazione dei danni conseguenti all’inadempimento, non è vincolato ab initio al pagamento di una somma di denaro, essendo la sua obbligazione sospensivamente condizionata alla mancata soddisfazione, totale o parziale, sui beni del debitore. Quindi la fideiussione di indennità garantisce genericamente ciò che il creditore non può conseguire dal debitore, prescindendo completamente dalla natura dell’obbligazione rimasta in tutto o in parte insoddisfatta: così E. Briganti, Fideiussione e promessa del fatto altrui, cit., 74 s. (53) “Dato che il divieto di opporre al creditore-beneficiario le eccezioni inerenti al rapporto garantito si risolverebbe nell’impossibilità di sollevare tutte le eccezioni relative al rischio e al sinistro opponibili all’assicurato ex art. 1891, III comma, c.c.”: così G. Volpe Putzolu, Garanzie fideiussorie e attività assicurative, cit., 501. (54) “In maniera peraltro apodittica e spesso sbrigativa”: cfr. F. Nappi, La garanzia autonoma. Profili sistematici, cit., 220. (55) Cfr., per tutte, Cass., sez. un., 15 aprile 1994, n. 3519, cit.; e, più di recente, tra le tante, Cass. 29 ottobre 2008, n. 13078, in CED Cassazione; Cass. 31 gennaio 2008, n. 2377, cit. (56) Così F. Nappi, La garanzia autonoma. Profili sistematici, cit., 223, nota 270. Nella definizione del regolamento negoziale, i contraenti potrebbero aver inteso attribuire alla clausola di pagamento a prima richiesta semplicemente la funzione di solve et repete, allo scopo di rinviare la proponibilità di eventuali eccezioni da parte del garante; in tal caso egli potrà agire in ripetizione nei confronti del beneficiario, facendo valere tutti i diritti spettanti al debitore in base al rapporto principale. Viceversa, se il tenore delle pattuizioni consente di configurare una garanzia autonoma, nell’ipotesi di escussione ingiustificata da parte del beneficiario, l’azione di ripetizione nei suoi confronti dovrà essere esercitata dal debitore. (57) Cfr. L. Ruggeri, Interesse del garante e strutture negoziali, cit., 20. (58) Cfr. Cass. 20 agosto 1998, n. 8248, in Gius, 1998, 2998. (59) Così M. Lobuono, I contratti di garanzia, cit., 135. (60) Essendo evidentemente inammissibile, e non tutelabile dall’ordinamento, che il creditore … possa conseguire due volte la prestazione dovutagli: dal debitore garantito e dal fideiussore: così, Cass., sez. un., 1 ottobre 1987, n. 7341, in Foro it., 1988, I, 123, con note di M. Viale, Sfogliando la margherita: Garantievertrag e fideiussione omnibus in cassazione, e di A. Calderale, La cassazione ed il contratto autonomo di garanzia: il “big sleep” delle sezioni unite; in Banca, borsa e tit. cred.,1988, II, 12 e 167, con note di M. Costanza, Adempimento del debito garantito e clausola di pagamento a vista e senza eccezioni, e di L.G. Radicati di Brozolo, La giurisdizione per connessione con particolare riferimento ai rapporti di garanzia; in Dir. banc. finanz., 1988, I, 504, con nota di G.B. Portale, Le sezioni unite e il contratto autonomo di garanzia (“causalità” e “astrattezza” nel Garantievertrag); in Foro pad., 1988, I, 1, con nota di M. RubinoSammartano, Garanzia bancaria: negozio atipico ma non troppo; in Corr. giur., 1987, 1159, con nota di G. Mariconda. NOTARIATO N. 2/2009 145 GIURISPRUDENZA•LEGITTIMITA’ autonoma (61) e, dall’altro, sottolineano l’inevitabile collegamento fra obbligazione di garanzia ed obbligazione principale, “nel senso che nel c.d. contratto autonomo la prestazione del garante, pur non potendo essere legittimamente differita, diviene operativa solo sul presupposto e con il verificarsi dell’inadempimento del garantito” (62). Progressivamente, in linea con gli orientamenti della dottrina, incline ad accogliere una distinzione tra garanzie con funzione cauzionale e garanzie più propriamente assimilabili alla fideiussione (63), emerge in giurisprudenza il tentativo di distinguere con maggiore consapevolezza tra fattispecie autonome ed accessorie, attribuendo rilievo all’effettiva volontà espressa dalle parti, mediante l’analisi del contenuto delle clausole predisposte dai contraenti. L’indirizzo oramai consolidato (64), riconosce che la previsione della clausola di pagamento a prima richiesta, in sé, non è decisiva ai fini del riconoscimento dell’autonomia della polizza rispetto al rapporto garantito, ma costituisce un indice puramente “presuntivo” (65), acquistando rilievo preminente la relazione in cui i contraenti hanno inteso porre l’obbligazione principale e quella di garanzia, anche attraverso la valutazione del comportamento complessivo tenuto dalle parti, successivamente alla stipulazione del contratto. Più delicata è la problematica della rilevanza, ai fini della qualificazione della garanzia, e dell’individuazione delle effettive eccezioni opponibili dal garante, delle clausole di pagamento c.d.“senza eccezioni” (66). Una prima questione, affrontata anche dai giudici della sentenza in commento, attiene al fenomeno dell’escussione fraudolenta o abusiva della garanzia, da parte del beneficiario. È interessante notare come, nelle polizze fideiussorie prestate a garanzia di obbligazioni tributarie (67) nelle quali, come in tutti i casi in cui il soggetto garantito è la P.A., è sempre presente la clausola di pagamento a semplice richiesta - sia espressamente previsto che l’unica eccezione opponibile dal garante alla domanda dell’Amministrazione Finanziaria, è che il pagamento sia stato già eseguito dal debitore principale prima dell’escussione della garanzia, “incidendo tale fatto sulla genesi causale del rapporto” (68). È da segnalare, tuttavia, che il riconoscimento “della persistente esistenza di un nesso inscindibile tra la causa del debito di garanzia e la sorte del debito principale” (69), ha indotto, più recentemente, la Suprema Corte, pur in presenza del riconoscimento “di una innovativa eliminazione del carattere di accessorietà del rapporto di garanzia” (70), ad ammettere una serie di deroghe alla pretesa di adempimento del creditore nei confronti dell’impresa assicurativa garante, che erodono significativamente il principio dell’autonomia. L’impressione è quella di un’oscillazione che, fissando l’attenzione sulla “causa specifica della fideiussione a prima richiesta … consistente nella copertura 146 NOTARIATO N. 2/2009 del rischio connesso all’oggettivo inadempimento del rapporto di riferimento” (71), segna il ritorno verso posizioni inclini ad un progressivo ridimensionamento dell’effettiva portata dell’autonomia della garanzia prestata. In questa prospettiva, emerge una prima deroga all’inopponibilità di eccezioni da parte del garante, che concerne quella fondata sulla nullità del contratto principale per contrarietà a norme imperative o per illiceità della causa; in tale ipotesi, infatti, quando il contratto Note: (61) Così Cass. 17 gennaio 2008, n. 903, in Guida dir., 2008, 95. (62) Cfr. Cass. 20 agosto 1998, n. 8248, cit. (63) Cfr., per tutti, M. Viale, I contratti autonomi di garanzia, cit., 308; G. Bozzi, Le garanzie atipiche. Garanzie personali, I, Milano, 1999, 90 ss. (64) In questo senso, G. Bozzi, Le garanzie atipiche, cit., 74 ss.; F. Bonelli, Le garanzie a prima domanda nel commercio internazionale, Milano, 1991, 41 ss.; R. Cicala, Sul contratto autonomo di garanzia, in AA.VV., Rapporti atipici nell’esperienza negoziale, Milano, 1988, 143 ss.; G. Meo, Funzione professionale e meritevolezza degli interessi nelle garanzie atipiche, Milano, 1991; M. Viale, Le garanzie bancarie, cit., 175 ss.; M. Lobuono, I contratti di garanzia, cit., 137. In giurisprudenza, Cass. 24 aprile 2008, n. 10652, in CED Cassazione; Cass. 17 gennaio 2008, cit.; Cass. 19 giugno 2001, n. 8324, in Banca, borsa e tit. cred., 2002, II, 654; Cass. 21 aprile 1999, n. 3964, in Vita not., 1999, 932; Cass. 14 luglio 1994, n. 6604, in Banca, borsa e tit. cred., 1995, II, 422, la quale esclude che possa ravvisarsi “un nesso di conseguenzialità diretta” tra la stipulazione della clausola e l’improponibilità dell’eccezione di decadenza ex art. 1957 c.c.; Cass. 19 marzo 1993, n. 3291, in Contratti, 1993, 559, con nota di A. Ravazzoni, Fideiussione e rapporti in corso. (65) Ben potendosi “distinguere diverse funzioni cui essa può assolvere con un grado di intensità crescente”. Così G. Meo, Fideiussioni e polizze fideiussorie: la clausola a prima richiesta, in Contr. e imp., 1998, 926. Nello stesso senso, G.B. Portale, Le garanzie bancarie internazionali (questioni), in Banca, borsa e tit. cred., 1988, I, 6, secondo il quale, è oramai opinione condivisa che “la presenza della clausola “a prima richiesta”, da sola non basta, nemmeno nei rapporti transnazionali (come in un passato recente si sosteneva), a rendere autonomo il contratto di garanzia”. Peraltro, non sempre, nei modelli di polizza cauzionale, le clausole - “a prima domanda” e “senza eccezione alcuna” - compaiono entrambe. (66) Sul punto, in relazione al contratto autonomo, ampiamente, M. Lobuono, I contratti di garanzia, cit., 131 ss. (67) Le polizze prestate a garanzia di obbligazioni tributarie sono quelle che, probabilmente, presentato il maggior grado di “autonomia” dal rapporto principale. Una copiosa giurisprudenza della S.C. costantemente le riconduce allo schema del contratto autonomo: Cass. 15 marzo 2004, n. 5239, in Gius, 2004, 3038; Cass., sez. un., 28 luglio 1998, n. 7395, in Mass. Giust. civ., 1998, 1067; Cass., sez. un., 1 ottobre 1996, n. 8592, in Fisco, 1996, 11428; Cass. 12 ottobre 1994, n. 8333, in Giur. it., 1995, I, 1530; Cass., sez. un., 15 aprile 1994, n. 3519, cit.; Cass., sez. un., 9 febbraio 1993, n. 1616, in Fisco, 1993, 3844; Cass., sez. un., 1 giugno 1992, n. 6607, in Corr. Giur., 1992, 867; e Fisco, 1992, 6799; Cass., sez. un., 24 aprile 1992, n. 4966, in Giust. civ., 1992, I, 2369; e Fisco, 1992, 6394; Cass., sez. un., 19 marzo 1992, n. 3465, ivi, 1992, 4398; Cass. 7 giugno 1991, n. 6496, in Banca, borsa e tit. cred., 1992, II, 514; e Fisco, 1991, 5007; Cass. 10 aprile 1991, n. 3739, in Mass. Giust. civ., 1991, 486. (68) Cfr. Cass., sez. un., 15 aprile 1994, n. 3519, cit. (69) Così Cass. 12 gennaio 2007, n. 412, in Contratti, 2007, 845, con nota di M. Cuccovillo, Garanzie personali atipiche e giurisdizione per connessione. (70) Cfr. Cass. 16 novembre 2007, n. 23786, cit. (71) Cfr. Cass. 16 novembre 2007, n. 23786, cit. GIURISPRUDENZA•LEGITTIMITA’ stipulato dal garante è diretto ad assicurare il risultato che l’ordinamento vieta, “l’invalidità del contratto ‘presupposto’, si comunica al contratto di garanzia, rendendo la sua causa illecita” (72). Nella medesima logica, una ulteriore, incisiva, deroga riconosce al garante la proponibilità dell’eccezione fondata sull’inesistenza del rapporto garantito, “trattandosi pur sempre di un contratto (di garanzia) la cui essenziale - quindi inderogabile funzione - è quella di garantire un determinato adempimento” (73). Ne consegue che il contratto autonomo di garanzia è valido ed efficace indipendentemente dalla validità ed efficacia del rapporto principale, ma non può prescindere dalla sua esistenza. Nel caso in esame, invece, il riconoscimento dell’autonomia della posizione del garante dal rapporto principale, che allontana la fattispecie dal modello fideiussorio, derogando al requisito dell’accessorietà, ha indotto i giudici a riconoscere la legittimità della richiesta del creditore, senza il previo accertamento dell’inadempimento del debitore principale, e ad escludere la proponibilità di qualsiasi eccezione relativa al rapporto garantito da parte della compagnia assicurativa, tranne quella dell’exceptio doli (74), essendo il garante obbligato al pagamento a semplice richiesta, “ma solo quando ne sussista il relativo presupposto causale e cioè l’esistenza dell’inadempimento del debitore principale” (75). Ai fini dell’inibitoria, che il garante è tenuto a proporre anche a tutela del debitore-garantito, è necessario che egli fornisca “la prova certa ed incontestata”, del carattere doloso o fraudolento del comportamento del beneficiario, sul quale non grava l’onere di fornire prova del fondamento della sua pretesa. Note: (72) Così Cass. 14 dicembre 2007, n. 26262, in Guida dir., 2008, 29, e in Mass. Giust. civ., 2007, 12; Cass. 7 marzo 2002, n. 3326, in Giur. it., 2002, I, 1205, con nota di F. Iozzo, secondo il quale si avrà nullità di entrambi i contratti solo nell’ipotesi in cui “il primo è nullo per contrarietà a norme imperative ed illiceità della causa, ed attraverso il secondo si tende ad assicurare il risultato che l’ordinamento vieta”. In posizione critica, M. Sesta, Pagamento a prima richiesta, in Contr. e imp., 1985, 956, che ritiene essenziale alla configurazione del contratto autonomo, l’esclusione delle eccezioni derivanti dal contratto di base. (73) Cfr. Cass. 24 aprile 2008, n. 10652, cit. (74) Cfr. Cass. 12 dicembre 2008, n. 29215; Cass. 17 maggio 2001, n. 6757, in Arch. civ., 2002, 368, e in Urb. App., 2001, 862; Cass. 1 ottobre 1999, n. 10864, in Arch. civ., 2000, 921, e in Contratti, 2000, 139, con nota di A.A. Lamanuzzi. (75) Così Cass. 16 novembre 2007, n. 23786, cit. NOTARIATO N. 2/2009 147 GIURISPRUDENZA•LEGITTIMITA’ Comunione legale Il riscatto agrario e la comunione legale tra coniugi CASSAZIONE, sez. III, 14 marzo 2008, n. 6879 - Pres. Petti - Est. Calabrese - P.M. Iannelli - P.A. c. C.A. Contratti agrari - Diritto di prelazione e di riscatto - In genere - Esercizio dell’azione di riscatto - Necessità del suo esperimento anche nei confronti del coniuge dell’acquirente in regime di comunione legale - Sussistenza - Esercizio tempestivo dell’azione nei confronti del solo acquirente - Interruzione della decadenza - Esclusione - Integrazione del contraddittorio nei confronti del predetto coniuge nel termine assegnato - Ininfluenza sulla decadenza - Omessa menzione del coniuge dell’acquirente e del regime patrimoniale nell’atto di trasferimento e nella nota di trascrizione - Irrilevanza - Accertamento dello stato civile dell’acquirente e del regime patrimoniale con l’eventuale coniuge - Onere a carico del conduttore - Sussistenza Il conduttore di un fondo rustico deve esercitare, nel termine di decadenza, il riscatto del predetto fondo anche nei confronti del coniuge dell’acquirente, in regime di comunione legale dei beni, litisconsorte necessario in quanto ne diviene automaticamente comproprietario, pur se nell’atto di trasferimento (e, conseguentemente, nella nota di trascrizione) non è menzionato; a tal fine egli ha l’onere di verificare tempestivamente i registri immobiliari e dello stato civile per accertare se l’acquirente sia coniugato e con quale regime patrimoniale, atteso che la decadenza non è interrotta né dall’esercizio dell’azione nei confronti di un solo coniuge, essendo la normativa della prescrizione applicabile soltanto dopo l’impedimento della decadenza, né dalla tempestiva esecuzione dell’ordinanza di integrazione del contraddittorio nei confronti dell’altro coniuge, necessaria per l’ammissibilità dell’azione di riscatto ma ininfluente sul termine di decadenza spirato. Svolgimento del processo Con citazione del 19.6.1997 P.A., premesso che con atto per Notaio De Tullio del 23.4.1997 F.R.M. aveva venduto a C.A. il fondo rustico in agro di Martina Franca, che lei conduceva in affitto da oltre sei anni, e la parte di fabbricato rurale esistente, e che la vendita era avvenuta in violazione del diritto di prelazione che le spettava ai sensi della L. n. 590/1965, art. 8 e L. n. 817/1971, art. 7, nella duplice veste di affittuaria e di confinante, conveniva il C. dinanzi al Tribunale di Taranto per sentir dichiarare il riscatto del detto immobile. Il convenuto si costituiva in giudizio, contestando la domanda in quanto oggetto del rogito era il fabbricato, rispetto al quale il terreno circostante era mera pertinenza; denunciava comunque la mancanza in capo all’attrice dei requisiti necessari per l’esercizio dell’azione di riscatto agrario. Veniva ordinata l’integrazione del contraddittorio nei confronti di M.I., moglie del convenuto in comunione legale. Il Tribunale con sentenza del 10.9.2001 rigettava la domanda in quanto l’azione di riscatto non era stata proposta anche nei confronti del coniuge M. nel prescritto termine di decadenza di un anno dalla trascrizione dell’atto di compravendita. 148 NOTARIATO N. 2/2009 L’appello proposto dalla P. era rigettato dalla Sezione distaccata di Taranto della Corte d’appello di Lecce con sentenza dell’11.3.2004. Per la cassazione della stessa ha proposto P.A. ricorso in base a tre motivi. Hanno resistito C.A. e M.I. con controricorso. Motivi della decisione La ricorrente P. censura la sentenza impugnata, denunciando con il primo motivo la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 4, per omessa pronuncia su un capo della domanda rilevante ai fini della decisione. Ovvero deduce che la Corte d’appello di Lecce ha omesso di pronunciarsi sulla domanda riguardante la validità ed efficacia - anche nei confronti dell’altro coniuge - dell’azione di riscatto esercitata nei confronti del coniuge acquirente. Con il secondo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 2695 c.c., L. n. 590/1965, art. 8, come int. dalla L. n. 817/1971, art. 7, artt. 102 e 354 c.p.c.) e l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione. Rileva che, secondo trascrizione, acquirente risultava solo C.A., e, quindi, l’azione di riscatto andava esercitata nei confronti dello stesso e non anche della moglie M.I., della qua- GIURISPRUDENZA•LEGITTIMITA’ le doveva essere unicamente integrato il contraddittorio. I due motivi, di cui si unifica l’esame essendo logicamente connessi, non sono suscettibili di accoglimento. Come infatti da statuizione di questa Corte, in tema di prelazione urbana di cui alla L. n. 392/1978, art. 38, ma è evidente l’identità di problematica, il conduttore deve esercitare, nel termine di decadenza, il riscatto di un immobile ad uso diverso dall’abitazione anche nei confronti del coniuge dell’acquirente, in regime di comunione legale dei beni, litisconsorte necessario in quanto ne diviene automaticamente comproprietario, pur se nell’atto di trasferimento non è menzionato; a tal fine egli ha l’onere di verificare tempestivamente non solo i registri immobiliari, ma anche quelli dello stato civile per accertare se l’acquirente è coniugato e con quale regime patrimoniale, perché la decadenza del riscatto non è interrotta dall’esercizio dell’azione nei confronti di un solo coniuge, essendo la normativa della prescrizione applicabile soltanto dopo l’impedimento della decadenza, né dalla tempestiva esecuzione dell’ordinanza di integrazione del contraddittorio nei confronti dell’altro coniuge, necessaria per l’ammissibilità dell’azione di riscatto, ma ininfluente sul termine di decadenza spirato (sent. n. 5340/1998). Tale sentenza costituisce un pò l’esplicazione supplementare di altre pronunce (in particolare Cass., S.U., n. 5895/1997), secondo cui nel regime di comunione legale tra coniugi il coniuge partecipa ope legis alla comunione, abbia o non abbia partecipato al contratto, acquistando pro indiviso il bene, specificandosi in proposito che la comunione legale dei beni tra i coniugi, a differenza di quella ordinaria, è una comunione senza quote, nella quale i coniugi sono solidalmente titolari di un diritto avente per oggetto i beni di essa e rispetto alla quale non è ammessa la partecipazione di estranei, così che l’acquisto a favore del coniuge si verifica ipso iure sin dal momento della stipula, determinando una situazione unitaria sulla quale tende ad incidere l’esercizio del riscatto, e allora ne consegue che, allorché un bene sia stato acquistato da uno dei coniugi in regime di comunione legale, l’azione di riscatto dev’essere esercitata nei confronti di entrambi i coniugi in quanto l’azione esercitata incide direttamente ed immediatamente sul diritto. Ciò implica, naturalmente, che il riscatto deve essere esercitato nel termine di legge anche contro il coniuge dell’acquirente, a pena di decadenza dal diritto, quale ritenuta nel caso che occupa dal giudice a quo. La salvezza della decadenza non poteva, d’altro canto, derivare dalla riconosciuta posizione di litisconsorte della M. (moglie del C.), attraverso l’integrazione del contraddittorio, trattandosi, come accennato, di integrazione del contraddittorio necessaria per l’ammissibilità dell’azione di riscatto, ma ininfluente sull’esercizio del diritto oltre il termine dell’anno, che è profilo sostanziale. Né la necessità di esercitare l’azione di riscatto nei soli confronti del C. poteva derivare dall’essere la trascrizione dell’atto di acquisto stata effettuata esclusivamente a favore di questi, sussistendo, come pure accennato, l’onere del riscattante di verificare tempestivamente non solo i registri immobiliari ma anche quelli dello stato civile, per accertare se l’acquirente è coniugato e con quale regime patrimoniale, altrimenti operando anche nei suoi confronti la decadenza per il mancato tempestivo esercitato del diritto di riscatto, pur se nell’atto di trasferimento (e quindi, conseguentemente, nella nota di trascrizione) non è menzionato. Con il terzo motivo, poi, denunciando omessa motivazione, la ricorrente si duole del mancato accoglimento della domanda di retratto parziale, cioè della metà indivisa spettante al C., del fondo per cui è causa. Anche questo motivo è da disattendere, avendo la Corte di merito ritenuto trattarsi di domanda nuova. Tale domanda non poteva del resto rappresentare soltanto l’esplicazione e la conseguenza logica dell’esercizio di un diritto, essendo essa connotata da un diverso petitum, per cui il dovere della motivazione si esauriva nel rilievo della sua novità. Rilevasi appena, d’altronde, che vertendosi in situazione di comunione legale tra coniugi non pare nemmeno prospettabile un riscatto solo per quota. In conclusione il ricorso va rigettato. Compensate le spese del presente giudizio per giusti motivi, in relazione cioè della particolarità della fattispecie all’esame. P.Q.M. LA Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di Cassazione. NOTARIATO N. 2/2009 149 GIURISPRUDENZA•LEGITTIMITA’ IL COMMENTO di Benedetto Ronchi Il Supremo Collegio ritiene che il prelazionario deve esercitare, nel termine di decadenza annuale, il riscatto del fondo rustico anche nei confronti del coniuge dell’acquirente, purché si trovi in regime di comunione legale dei beni, ritenendolo soggetto litisconsorte necessario poiché ne diviene automaticamente comproprietario, indipendentemente dalla circostanza che nell’atto di trasferimento non sia in alcun modo menzionato. Da ciò ne discende l’obbligo per il riscattante, di verificare tempestivamente non solo i registri immobiliari, ma anche quelli dello stato civile per accertare se l’acquirente sia coniugato ed, in caso affermativo, con quale regime patrimoniale, poiché il termine di decadenza annuale del riscatto non viene interrotto dall’esercizio dell’azione nei confronti di un solo coniuge. Con la sentenza in epigrafe la Corte di Cassazione ha esteso anche all’istituto della prelazione agraria (1) il principio secondo cui il prelazionario deve esercitare, nel termine di decadenza annuale, il riscatto del fondo rustico anche nei confronti del coniuge dell’acquirente, purché si trovi in regime di comunione legale dei beni, ritenendolo soggetto litisconsorte necessario poiché ne diviene automaticamente comproprietario, indipendentemente dalla circostanza che nell’atto di trasferimento non sia in alcun modo menzionato. Ciò comporta l’onere, in capo al riscattante, di verificare tempestivamente non solo i registri immobiliari, ma anche quelli dello stato civile per accertare se l’acquirente sia coniugato ed, in caso affermativo, con quale regime patrimoniale, poiché il termine di decadenza annuale del riscatto non è interrotto dall’esercizio dell’azione nei confronti di un solo coniuge, né dalla tempestiva esecuzione dell’ordinanza del magistrato di integrazione del contraddittorio nei confronti dell’altro coniuge, necessaria per l’ammissibilità dell’azione di riscatto, ma ininfluente sul termine di decadenza spirato (2). Questo principio è stato mutuato, per identità di problematica, dalla prelazione urbana dove, da circa dieci anni, costituisce uno dei cardini interpretativi dell’istituto. La stesso Supremo Collegio ha tuttavia chiarito che se è pur vero che i coniugi in regime di comunione legale possono compiere autonomamente atti diretti ad accrescere il patrimonio comune, senza necessità che l’altro coniuge partecipi all’atto di acquisto, è altrettanto vero che il coniuge che non ha partecipato al contratto preliminare di acquisto di un bene, avente solo effetti obbligatori e personali, non è legittimato ad agire o a contraddire in eventuali successivi giudizi aventi ad 150 NOTARIATO N. 2/2009 oggetto detto contratto, ivi inclusa l’azione ex art. 2932 c.c., che verta sul trasferimento del diritto di proprietà dell’immobile oggetto del preliminare (3). Come affermato anche dalla Corte Costituzionale, con la sentenza n. 311 del 17 marzo 1988 (4), la comunione legale dei beni tra i coniugi, a differenza di quella ordinaria, è una comunione senza quote, nella quale i coniugi sono solidalmente titolari di un diritto avente per oggetto i beni di essa e rispetto alla quale non è ammessa la partecipazione di estranei (5). All’obiezione sollevata in talune pronunce di merito, secondo cui la L. 19 maggio 1975, n. 151 (la legge riformatrice del diritto di famiglia), non avrebbe modificato l’art. 922 c.c. (6), che determina i modi di acquisto della proprietà (7), la Corte di Cassazione oppone che la stessa norma richiama, oltre a quelli specificatamente elencati, “gli altri modi stabiliti dalla legge” (8). Peraltro, la giurisprudenza ha ritenuto che l’assoggettamento al regime della comunione legale fra coniugi non va limitato soltanto ai beni acquistati con atti negoziali derivativi, ma vanno inclusi anche quelli acquisiti a titolo originario (9). In proposito si rendono necessarie alcune precisazioni. È stato pressoché costantemente rilevato come il termine “acquisti”, adottato dal legislatore nell’art. 177 Note: (1) B. Carpino, Voce Prelazione agraria, in Noviss. Dig. it., V (Appendice), 1152. (2) Cass., sez. III, 29 maggio 1998, n. 5340, in Giur. it., 1999, 931. (3) Cass., sez. II, 7 marzo 2006, n. 4823, in Mass. Giur. it., 2006. (4) Corte Cost. 17 marzo 1988, n. 311, in Giust. civ., 1988, I, 2482, con nota di Natucci. (5) In tal senso cfr. Cass. 14 gennaio 1997, n. 284, in Dir. Famiglia, 1998, 26: “Come affermato dalla Corte cost. n. 311 del 1988, la comunione legale tra coniugi, a differenza di quella ordinaria, è una comunione senza quote, in seno alla quale i coniugi sono solidamente titolari di un diritto avente per oggetto i beni della comunione stessa, alla quale non è ammissibile la partecipazione di terzi estranei. Ne consegue che, nei rapporti con i terzi, ciascun coniuge, mentre non ha diritto di disporre di alcuna quota, può tuttavia disporre dell’intero bene comune, ponendosi il consenso dell’altro coniuge (ex art. 180, comma 2, c.c. come un negozio unilaterale autorizzativo, che rimuove un limite all’esercizio del potere dispositivo del partner e che rappresenta un requisito di regolarità del procedimento di formazione dell’atto di disposizione, la cui mancanza si traduce in un vizio da far valere, ove si tratti di bene immobile o mobile registrato, ai sensi e nei termini di cui all’art. 184 c.c.”. (6) P. Rescigno, Convenzione europea dei diritti dell’uomo e diritto privato (famiglia, proprietà, lavoro), in Riv. Dir. civ., 2002, I, 325. (7) M. C. Bianca, Diritto civile, VI, La proprietà, Milano, 2001, 323 ss.; cfr., inoltre, F. Galgano, Diritto civile e commerciale, I, Le categorie generali - Le persone - La proprietà, Padova, 2008. (8) Cass., sez. unite, 1 luglio 1997, n. 5895, in Dir. e Giur. Agr., 1997, con nota di Cimatti. (9) In giurisprudenza cfr. App. Firenze 4 luglio 1986, in Arch. civ., 1987, 43, con nota di Bronzini. GIURISPRUDENZA•LEGITTIMITA’ c.c. (10), sia di per sé equivoco ed impreciso, involgendo due distinti profili: uno dinamico, costituito dal negozio che ha determinato l’incremento patrimoniale, di cui è parte esclusivamente il coniuge contraente, l’altro statico, costituito dal risultato di quel negozio, dall’effetto legale che ne deriva, e cioè dal rapporto di comproprietà tra i coniugi su un determinato bene. Da ciò consegue che mentre il litisconsorzio può escludersi per quelle azioni che concernono esclusivamente il contratto (simulazione, validità, etc.), la sua esigenza va affermata allorché l’azione esercitata incida direttamente ed immediatamente sul diritto. L’acquisto a favore del coniuge, pertanto, si verifica ipso iure sin dal momento della stipula, determinando una situazione unitaria sulla quale tende ad incidere l’esercizio dell’azione di riscatto. Ne consegue che, allorché un bene sia stato acquistato da uno dei coniugi in regime di comunione legale, l’azione di riscatto dev’essere esercitata nei confronti di entrambi i coniugi con la conseguenza che entrambi debbono ritenersi litisconsorti necessari. È bene ricordare che la L. 27 febbraio 1985, n. 52, modificando l’art. 2659 c.c., ha espressamente imposto che la nota di trascrizione contenga, oltre al cognome, nome, luogo, data di nascita e numero di codice fiscale delle parti, l’indicazione del regime patrimoniale della famiglia, “secondo quanto risulta da loro dichiarazione resa nel titolo o da certificato dell’ufficiale di stato civile”, rendendo agevole, attraverso il controllo della trascrizione, l’individuazione dei soggetti passivamente legittimati (11). Nessuna scusante, pertanto, può essere concessa al riscattante che abbia omesso di citare il coniuge dell’acquirente, nell’ipotesi in cui il fondo rustico sia stato acquistato in regime di comunione dei beni. La Corte di Cassazione, infine, chiarisce come non sia neppure ipotizzabile di reputare valida l’azione di riscatto “pro quota”. Tale tesi deve essere condivisa per due ordini di ragioni: per prima cosa perché la ratio dell’istituto della prelazione agraria si fonda sulla duplice volontà di tutelare il lavoro futuro del coltivatore diretto affittuario, favorendone l’accesso all’acquisto della proprietà rurale, in piena attuazione della funzione sociale della proprietà (12) voluta dalla Costituzione repubblicana (art. 47, comma 2, Cost.) (13) e l’arrotondamento della piccola proprietà contadina in modo da incoraggiare la creazione di imprese agricole più efficienti. Se fosse ammissibile l’acquisto della sola quota indivisa del fondo rustico oggetto dell’azione di riscatto agrario, si immetterebbe il prelazionario in una situazione giuridica di comunione del bene che ne renderebbe difficile la gestione, in pieno contrasto con gli obiettivi che l’istituto della prelazione agraria persegue. Il secondo motivo, invece, si fonda sul già menzionato principio della indisponibilità della quota di un bene immobile nella comunione legale, secondo cui se si consentisse la sostituzione del coniuge, all’interno della comunione legale, con un terzo estraneo al rapporto coniuga- le (il prelazionario nel nostro caso), si andrebbe in pieno contrasto con la natura ed il fondamento giuridico della comunione dei beni. Note: (10) Sul tema cfr. R. Perchinunno, Le obbligazioni nell’“interesse familiare”, Bari, 1981. (11) Cass., sez. III, 8 marzo 2005, n. 5002, in Vita Notar., 2005, 984: “Nel nostro ordinamento la pubblicità immobiliare che si attua con il sistema della trascrizione è imperniata su principi formali, in forza dei quali il terzo che è rimasto estraneo all’atto trascritto, per individuare l’oggetto cui l’atto si riferisce attraverso la notizia che ne dà la pubblicità stessa, deve esclusivamente fare affidamento sul contenuto con cui la notizia dell’intervento dell’atto è riferita nei registri immobiliari; e, rispetto al terzo, l’atto cui la notizia si riferisce e, quindi, il suo oggetto, affinché la pubblicità-notizia possa svolgere effetti nei suoi confronti, risultano individuati esclusivamente da quel contenuto, la cui individuazione è affidata, a sua volta, all’esclusiva responsabilità del soggetto che richiede la trascrizione, sul quale, per quel che interessa gli atti tra vivi, incombe l’onere di procedervi redigendo la nota di trascrizione (art. 2659 c.c.), che, come viene dalla legge dettagliatamente specificato, si sostanzia in una rappresentazione per riassunto dell’atto da trascrivere. Una volta redatta la nota, ed avvenuta la trascrizione sulla sua base, il contenuto della pubblicità notizia è solo quello da essa desumibile e, su chi della notizia si avvale (almeno agli effetti delle conseguenze che la legge ricollega alla trascrizione in punto di circolazione dei beni immobiliari), non incombe alcun onere di controllo ulteriore.”. (12) P. Perlingieri, Proprietà, impresa e funzione sociale, in Riv. Dir. Impresa, 1989, 207. (13) M. Tamponi, Voce Prelazione Agraria, in Digesto (discipline privatistiche) XIV, 178: “Di fronte a questa previsione, inclusa in un corpo di disposizioni dedicate allo sviluppo della proprietà coltivatrice, si deve anzitutto precisare che essa rappresenta un esplicito e concreto riconoscimento del lavoro svolto sul fondo altrui ed una specifica applicazione del principio costituzionale dell’art. 47, comma 2, ove è sancito il favor legislativo verso l’accesso del risparmio popolare alla proprietà diretto coltivatrice.”. NOTARIATO N. 2/2009 151 GIURISPRUDENZA•LEGITTIMITA’ Parcheggi I vincoli pubblicistici di destinazione delle aree a parcheggio CASSAZIONE, sez. II, 16 gennaio 2008, n. 730 - Pres. Corona - Est. Colarusso - P.M. Schiavon - Cond. c. U.C. Beni - Pertinenze - Costituzione del vincolo - In genere - Spazi destinati a parcheggio nelle nuove costruzioni ex art. 41 sexies, L. n. 1150/1942 - Vincolo pubblicistico di destinazione - Obbligo di cessione delle singole aree in proprietà ai titolari delle unità immobiliari, da parte del costruttore - Inesistenza - Verifica dell’espressa riserva di proprietà o di altro riferimento nei titoli di acquisto - Necessità - Fattispecie La speciale normativa urbanistica, dettata dall’art. 41 sexies, L. n. 1150/1942, introdotto dall’art. 18, L. n. 765/1967, si limita a prescrivere, per i fabbricati di nuova costruzione, la destinazione obbligatoria di appositi spazi a parcheggi, in misura proporzionale alla cubatura totale dell’edificio determinando, mediante tale vincolo di carattere pubblicistico, un diritto reale d’uso sugli spazi predetti a favore di tutti i condomini dell’edificio, senza imporre all’originario costruttore alcun obbligo di cessione in proprietà degli spazi in questione. Pertanto, ove manchi un’espressa riserva di proprietà o sia stato omesso qualsiasi riferimento, al riguardo, nei singoli atti di trasferimento delle unità immobiliari, le aree in questione, globalmente considerate, devono essere ritenute parti comuni dell’edificio condominiale, ai sensi dell’art. 1117 c.c. (Nel caso di specie, la Corte ha cassato con rinvio la sentenza del giudice di secondo grado che aveva condannato il condominio al rilascio di un posto macchina in favore di un condomino rilevando che il giudice di merito aveva omesso di accertare sia l’applicabilità del vincolo pubblicistico di destinazione su tutta o solo su una parte delle aree destinate a parcheggio sia, soprattutto, il regime proprietario di tali aree al fine di verificare se vi era stata una riserva di proprietà da parte del costruttore o, in mancanza, se lo spazio era divenuto condominiale). Svolgimento del processo Con atto di citazione del 24.2.1994 coniugi M.L. e U.C. convennero innanzi al Tribunale di Foggia il Condominio detto “Immobiliare (omissis)” di quella città esponendo di aver acquistato dalla società costruttrice (Immobiliare (omissis)) la piena proprietà di un posto macchina col n. (omissis), ubicato nel cortile condominiale; che, nonostante l’avvenuta cessione del possesso, il condominio impediva l’utilizzazione del posto macchina ostacolando l’accesso ad esso, per cui chiesero che il Tribunale ne ordinasse al condominio il rilascio con la rimozione di ogni ostacolo alla sua utilizzazione. La domanda venne accolta dal Tribunale che ordinò il rilascio del posto macchina in favore degli attori. L’appello del Condominio è stato rigettato dalla Corte di appello di Bari con sentenza del 21.9.2002, nella quale la Corte barese ha osservato: – che dal regolamento di condominio si evinceva l’esistenza dei posti macchina all’interno del cortile, negata dal Condominio; 152 NOTARIATO N. 2/2009 – che, sebbene il cortile fosse definito condominiale e nello stesso fosse consentita la sosta per il solo tempo necessario al carico ed allo scarico delle merci, tuttavia nella tabella E del regolamento si chiariva che “oltre a tutti gli immobili che costituiscono l’edificio, sono compresi i posti macchina” ai quali era attribuita anche una numerazione; – che l’esistenza dei posti macchina non era incompatibile con l’uso del cortile; – che “le norme pubblicistiche” prevedono la destinazione di aree a posti macchina “da vendersi agli acquirenti degli appartamenti”, perciò la presenza della numerazione ed i segni lasciati nel cortile erano indicativi dell’obbligo di creare nel complesso tanti posti macchina quanti erano gli appartamenti. La Corte di appello ha respinto anche l’appello incidentale dei coniugi M. - U. che pretendevano i danni. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione il Condominio con due motivi. M.L. e U.C. hanno GIURISPRUDENZA•LEGITTIMITA’ resistito con controricorso e proposto ricorso incidentale con unico motivo. Motivi della decisione 1. Col primo motivo del ricorso principale si denunziano violazione dell’art. 1117 c.c., nonché vizio di motivazione su punto decisivo. Si sostiene che nel regolamento di condominio, apprestato dall’unico proprietario e dallo stesso trascritto, il cortile risulta incluso tra i beni comuni, in conformità dell’art. 1117 c.c., la cui presunzione, peraltro, non era vinta, nella specie, da titolo contrario, non essendo a tal fine sufficienti il frazionamento e l’accatastamento eseguito dal proprietario costruttore, trattandosi di atti unilaterali. Il costruttore non aveva riservato “a proprio nome” i parcheggi né aveva escluso il cortile comune nei successivi atti di cessione, ove era menzionato ed accettato il regolamento di condominio in precedenza trascritto. Non esistendo la riserva di proprietà del posto macchina né la sottrazione di esso alla destinazione comune di tutta l’area cortilizia, esso non poteva essere ceduto in proprietà singola ai coniugi T. - U., con un atto cui il Condominio era rimasto estraneo. La scheda di accatastamento non poteva fungere da titolo contrario alla disposizione del Regolamento che annoverava il cortile tra i beni comuni. I posti macchina ritenuti sussistenti dalla Corte di appello non esistono affatto e i 34 posti macchina, peraltro molto inferiori al numero dei 255 appartamenti di cui si compone il complesso condominiale, esistevano solo nella scheda di accatastamento. La sentenza era anche contraddittoria laddove, da un lato, supponeva esistenti i posti macchina e, dall’altro, ne prevedeva la futura realizzazione. Al posto macchina in contesa non era attribuita una quota millesimale per nessun tipo di spesa, tranne quella relativa alla manutenzione del cortile (Tab. F) e quelli da realizzare sarebbero risultati “totalmente immersi” nella proprietà comune, senza che ai futuri proprietari fosse attribuita alcuna servitù di passaggio per accedervi. Il motivo è fondato, con le precisazioni che si diranno. 1.a. È opportuno premettere brevi cenni sulla elaborazione giurisprudenziale di questa Corte in materia di spazi (o aree) di parcheggi correggendo, intanto e subito, due affermazioni della sentenza impugnata ove si afferma: a) che i posti macchina (rectius: “spazi per parcheggi”, come definiti nella L. n. 1150/1942, art. 41 sexies, inserito dalla L. n. 765/1967, art. 18) devono essere corrispondenti al numero degli appartamenti (“tanti posti quanti erano gli appartamenti del complesso”); b) che i c.d. posti macchina sono “da vendersi” singolarmente agli acquirenti degli appartamenti. 1.b. Ed, invero, la legge (L. n. 1150/1942, art. 41 sexies) si limita ad imporre che, nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle stesse, appositi spazi siano riservati a parcheggio in misura proporzionale alla cubatura totale del fabbricato, fissando non un rapporto numerico ma di volume-superficie, e stabilendo un nesso tra tali spazi e l’edificio, gli uni e gli altri unitariamente considerati, e, da altro lato, non vieta al costruttore di riservare a sé la proprietà degli spazi di parcheggio, per poi cederli a terzi, totalmente o in parte, o ai proprietari degli appartamenti “pro quota” ovvero singolarmente, ed anche globalmente, in modo che costituiscano parte comune dell’edificio ai sensi dell’art. 1117 c.c. (Cass. II, n. 18255/2006). 1.c. Allo stesso modo detti spazi, globalmente considerati, vengono a far parte della proprietà comune, ai sensi dell’art. 1117 c.c., nel caso in cui non vi sia stata alcuna riserva di proprietà da parte del costruttore e, nei singoli atti, sia stato omesso qualunque riferimento ad essi (Cass. II, n. 11261/2003). 1.d. Resta fermo, in ogni caso, il vincolo di destinazione di carattere pubblicistico impresso dalle norme di cui si tratta e che, sul piano privatistico, fa sorgere, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, un diritto reale d’uso sui detti spazi a favore di tutti in condomini del fabbricato, diritto che non può essere compromesso né dalla riserva di proprietà a favore del costruttore né dalla alienazione di detti spazi a terzi. 2. Nel caso di specie i coniugi M. - U. hanno dedotto in giudizio il loro diritto di proprietà (esclusiva) sul posto macchina per averlo acquistato dalla società costruttrice laddove il condomino sostiene che esso è parte del cortile che, a sua volta, rientra tra i beni comuni ai sensi dell’art. 1117 c.c., per non essersene il costruttore riservata la proprietà prima del sorgere del condominio. Ne deriva che, al fine di dirimere la controversia nei termini in cui essa si pone, la Corte di appello, piuttosto che soffermarsi sull’esistenza, intesa come individuazione fisica, di alcuni posti macchina nel cortile comune e sull’(ovvio)obbligo di legge di apprestarli, avrebbe dovuto accertare, conclusivamente, se il costruttore aveva titolo per trasmettere in proprietà singola ed esclusiva ai coniugi M. - U. lo spazio in questione. E, a tal fine, un corretto percorso di indagine motivazionale imponeva di accertare: a) se nell’edificio condominiale e nelle sue pertinenze, esistevano, ed in quale entità, gli spazi di parcheggio, secondo il rapporto non numerico ma di volume-superficie imposto dalla L. n. 1150/1952, art. 41 sexies, e successive modifiche ed integrazioni; b) se esistevano spazi ulteriori, oltre la superficie vincolata; c) se quello venduto ai coniugi attori era una parte dello spazio ulteriore rispetto a quello minimo vincolato per legge al diritto reale d’uso ovvero se rientrava nella superficie di questi; d) quale fosse il regime proprietario degli spazi (vincolati o non) ed a tal fine: d.1.) verificare se essi erano stati riservati o meno in proprietà dal costruttore; d.2.) se, in conseguenza della riserva, erano stati aliena- NOTARIATO N. 2/2009 153 GIURISPRUDENZA•LEGITTIMITA’ ti a terzi (il che, comunque, lasciava fermo il diritto reale d’uso dei condomini); d.3.) in caso negativo, se l’atto di vendita ai coniugi attori era successivo alla formazione del condominio (ad est: al primo atto di vendita di una porzione di fabbricato da parte del costruttore ad un terzo, che segna(va) la nascita del condominio); e) nel caso si trattasse di una entità dello spazio gravato dal diritto reale d’uso, occorreva, comunque, accertarne il regime proprietario e stabilire se era stato riservato a sé dal costruttore o se, invece, era uno spazio diventato condominiale, ai sensi dell’art. 1117 c.c., per mancanza di riserva o di menzione nei titoli di acquisto (come assume il condominio). 3. Questi necessari accertamenti non sono stati compiuti dalla Corte di appello e siffatta carenza di indagine vizia la motivazione. 3. Col secondo motivo si denunzia violazione e falsa applicazione del D.M. 16 maggio 1987, n. 246, sul rilievo che, essendo il complesso edilizio di vaste dimensioni, l’eventuale apprestamento dei posti macchina avrebbe comportato il rispetto delle norme sulla prevenzione degli incendi. Il motivo è inammissibile, poiché introduce una questione nuova (oltre che priva di rilevanza) mai sottoposta ai giudici di merito. 4. La sentenza impugnata va, dunque, cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Bari che dovrà compiere i suindicati accertamenti, attenendosi ai principi sopra enunciati (sub 1.b, 1.c e 1.d.). 5. Il giudice di rinvio provvedere anche sulle spese del presente giudizio (art. 385 c.p.c., u.p.). 6. Il ricorso incidentale - nel quale si lamentano la violazione degli artt. 2043, 2056, 1219, 1223 e 226 c.c., nonché vizio di motivazione, per essere stato negato il risarcimento del danno conseguente alla mancata utilizzazione del posto macchina - resta evidentemente assorbito dall’accoglimento del primo motivo di ricorso. P.Q.M. La Corte di Cassazione accoglie il primo motivo di ricorso e dichiara inammissibile il secondo; assorbito il ricorso incidentale; cassa in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, ad altra sezione delle Corte di appello di Bari. IL COMMENTO di Loredana Napolitano La sentenza in esame affronta la problematica relativa alle aree di parcheggio ed all’applicazione della normativa urbanistica ai parcheggi ad utilizzazione vincolata di cui all’art. 18 l. Ponte. In particolare, la Corte richiama quell’orientamento giurisprudenziale per il quale il vincolo pubblicistico di destinazione non può subire deroga negli atti privati di disposizione degli spazi stessi ed il cui contenuto è limitato all’imposizione che apposite aree siano riservate a parcheggio nelle nuove costruzioni in misura proporzionale alla cubatura totale del fabbricato determinando, mediante tale vincolo, un diritto reale d’uso a favore di tutti i condomini dell’edificio. La disciplina in materia di spazi o locali destinati a parcheggio, dove per area destinata a parcheggio si intende quella porzione di suolo posta sia in superficie, sia nel sottosuolo degli edifici, necessaria alla sosta, alla manovra o all’accesso dei veicoli, è molto varia e un excursus sulla normativa in oggetto si ravvisa necessario per comprendere meglio l’orientamento della Corte. L’art. 18 della L. 6 agosto 1967, n. 765, c.d. legge Ponte (corrispondente all’art. 41 sexies della legge urbanistica) 154 NOTARIATO N. 2/2009 stabiliva che “nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle costruzioni stesse, devono essere riservati appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni venti metri cubi di costruzione” (1). Tale disposizione è stata successivamente integrata dall’art. 26 della L. 28 febbraio 1985, n. 47 (c.d. sul condono edilizio) il quale prevede che “gli spazi di cui all’art. 18 della legge 6 agosto 1967, n. 765 costituiscono pertinenze delle costruzioni, ai sensi e per gli effetti degli artt. 817, 818 e 819 del codice civile”. A questa disciplina se ne è aggiunta un’altra contenuta nell’art. 9 della L. 24 marzo 1989, n. 122 (c.d. legge Tognoli), che contempla due tipi di parcheggi privati: quelli realizzati nel sottosuolo degli immobili e quelli ubicati nei locali siti al piano terreno dei fabbricati, stabilendo per entrambi che “non possono essere ceduti separatamente dall’unità immobiliare alla quale sono legati da vincolo pertinenziale ed i relativi atti di cessione sono nulli” (art. 9, comma 5). Più di recente la L. 28 novembre 2005, n. 246 esclude espressamente l’esistenNota: (1) Il rapporto tra superficie dei parcheggi e volumetria della costruzione è stato modificato ad un metro quadrato per ogni dieci metri cubi, per effetto dell’art. 2 della L. 24 marzo 1989, n. 122, contenente norme in materia di parcheggi pubblici (c.d. legge Tognoli). GIURISPRUDENZA•LEGITTIMITA’ za di vincoli pertinenziali sugli spazi destinati a parcheggio e sancisce la libera trasferibilità degli stessi (2). Dall’entrata in vigore nel nostro ordinamento della legge Ponte si è sviluppato un articolato dibattito dottrinale e giurisprudenziale in materia. La norma, introdotta con il chiaro intento di favorire il decongestionamento delle strade, liberandole dalle vetture posteggiate sul ciglio della carreggiata, è divenuta celebre a causa della netta contrapposizione interpretativa che ne ha caratterizzato la sua esistenza. Infatti, il testo dell’art. 41 sexies ha lasciato irrisolto un problema alquanto rilevante, e cioè se la necessaria riserva di uno spazio a parcheggio comporti un vincolo di natura soggettiva (3), oppure un mero vincolo pubblicistico di natura oggettiva, in quanto impone la destinazione di determinati spazi a parcheggio, senza alcuna indicazione degli utilizzatori (4). Una prima corrente di commentatori si è apertamente schierata per un’interpretazione che è stata definita “liberista” (5): le aree riservate a parcheggio, realizzate in conformità della legge-Ponte, non sono gravate da alcun vincolo soggettivo che imponga l’utilizzazione delle stesse ai soli proprietari delle unità immobiliari, cui le aree di parcheggio accedono (6). In altri termini l’art. 41 sexies sarebbe una norma dettata per introdurre un determinato standard urbanistico, senza alcuna valenza imperativa sulle pattuizioni private, ex art. 1418 c.c. (7). Autorevole dottrina ha precisato che la struttura grammaticale e sintattica dell’articolo in esame non designa tanto la prestazione dovuta, quanto un modo di essere delle cose in quanto la norma imprime allo spazio una specifica finalità con un peculiare regime giuridico ossia un vincolo di destinazione che accompagna e segue la cosa nel suo essere oggettivo (8). Di opposto avviso sono i fautori della teoria “vincolista” (9) per i quali la legge-Ponte ha introdotto nell’ordinamento un vincolo inderogabile di destinazione di tipo soggettivo e, pertanto, gli spazi riservati a parcheggio devono necessariamente essere utilizzati dai proprietari o dai fruitori delle unità immobiliari cui lo spazio accede (10). Sarebbe, così, costituito ex lege un diritto reale di godimento su cosa altrui, un diritto d’uso assimilabile ad una servitù, trattandosi di un peso imposto su un immobile (l’area di parcheggio) per l’utilità di un altro immobile (l’abitazione) appartenente a diverso proprietario (11). I parcheggi Ponte sono posti auto obbligatori, nel senso che ne viene imposta la creazione unitamente alla costruzione autorizzata, escludendosi, in caso di inosservanza, la possibilità di ottenere la concessione a costruire (ora permesso di costruire, come previsto dal D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, c.d. Testo Unico) da parte dell’Amministrazione pubblica, la quale, infatti, “non può autorizzare nuove costruzioni che non siano corredate dalle aree anzidette, costituendo l’osservanza della norma in esame condizione di legittimità della concessione stessa” (12). La Corte di Cassazione a Sezioni Unite è intervenuta con sentenza del 15 giugno 2005, n. 12793, precisando che: “i parcheggi realizzati in eccedenza rispetto allo spazio minimo richiesto dalla L. n. 767/1967 non sono soggetti a vincolo pertinenziale a favore delle unità immobiliari del fabbricato, con la conseguenza che l’originario proprietario - costruttore del fabbricato - può legittimamente riservarsi, o cedere a terzi, la proprietà di tali parcheggi, nel rispetto del vincolo di destinazione nascente da atto d’obbligo” (13). Successivamente, con la disposizione contenuta Note: (2) La L. 28 novembre 2005, n. 246, art. 12, comma 9, ha aggiunto alla L. 17 agosto 1942, n. 1150, art. 41 sexies il seguente comma: “Gli spazi per parcheggi realizzati in forza del primo comma non sono gravati da vincoli pertinenziali di sorta né da diritti d’uso a favore dei proprietari di altre unità immobiliari e sono trasferibili autonomamente da esse”. (3) In tal senso il parcheggio dovrà necessariamente essere utilizzato dal fruitore dell’unità abitativa cui accede. (4) Paternello, Parcheggi, locazione ed equo canone: brevi osservazioni, in Giur. it., 2000, 1580. (5) Magliulo, La disciplina dei parcheggi a trent’anni dalla legge ponte, in questa Rivista, 1996, 564 ss; Alpa, Destinazione delle aree adibite “a parcheggio” e controllo degli atti di disposizione, in Giur. it., 1982, IV, 254; Mariconda, Nullità urbanistiche e disciplina generale del contratto nullo: la pretesa nullità relativa ai parcheggi, in Corr. giur., 1987, 858. (6) Secondo tale corrente interpretativa la norma, dal contenuto precettivo generico, è diretta a regolare esclusivamente i rapporti tra P.A. e privati e non può incidere direttamente sui rapporti interprivatistici. (7) Morello, Il problema dei parcheggi al servizio dei nuovi condomini (un nuovo stile nella giurisprudenza della Cassazione), in Vita Notar., 1985, 509; Maugeri, La commercialità dei posti-auto e delle aree di parcheggio, in Arch. loc., 1986, 586 ss. (8) Irti, Riserva di spazi a parcheggi nelle nuove costruzioni (parere pro-veritate sull’art. 18 l. 6 agosto 1967 n. 765), in Giust. civ., 1983, 44-46. L’Autore precisa che la norma non è attributiva di diritti ad uno o ad altro soggetto, ma norma prescrittiva di un vincolo di scopo: regime di un bene, non disciplina di interessi individuali. Luminoso, Posti-macchina e parcheggi, in I contratti del commercio, dell’industria e del mercato finanziario, trattato diretto da Galgano, III, Torino, 1995, 2281 ss.; Id., Postimacchina e parcheggi tra disciplina pubblicistica e codice civile, in Contr. e impr., 1990, 68 ss. L’Autore dopo aver riportato i diversi filoni interpretativi ritiene che la legge ponte, all’art. 18, impone un vincolo di natura pubblicistica volto unicamente ad assicurare che nella realizzazione di nuove costruzioni siano inderogabilmente previsti appositi spazi (privati) da destinare al parcheggio delle autovetture, senza però introdurre nuovi vincoli o limiti di indole privatistica alla circolazione giuridica di tali spazi. (9) Alianello, Le aree per i parcheggi: l’art. 18 legge del 1967 n. 765 ed autonomia contrattuale secondo la giurisprudenza, in Giur. it., 1985, I, 1, 1057 ss.; Fenucci, Gli spazi a parcheggio nella normativa urbanistica, in Giur. it., 1975, 120 ss.; Magazzù, Il regime giuridico degli spazi a parcheggio fra legge urbanistica e codice civile, in Giust. civ., 185, I, 1394 ss. (10) Si tratterebbe di un vincolo legale di natura reale e inderogabile, che impedisce ai privati di far ricorso alla propria autonomia contrattuale per derogare al principio della necessaria utilizzazione degli spazi a parcheggio da parte dei proprietari e utilizzatori dell’unità immobiliare. Paternello, Parcheggi, locazione ed equo canone: brevi osservazioni, nota a Cass. 14 febbraio 2000, n. 1641, in Giur. it., 2000, 1580 ss. (11) Cass. 17 dicembre 1984, nn. 6600, 6601, 6602, in Foro. it., 1985, I, 710, con nota di Matassa, Circolazione “vincolata” delle aree a parcheggio. (12) Così Cass. 6 dicembre 1996, n. 10883, in Foro it., 1997, I, 468 ss. (13) Cass. 15 giugno 2005, n. 12793, in Foro it., 2005, 3328 ss., con nota di Scoditti, Parcheggi realizzati in eccedenza rispetto alla misura minima: libera utilizzabilità e cedibilità. NOTARIATO N. 2/2009 155 GIURISPRUDENZA•LEGITTIMITA’ nell’art. 12, comma 9, L. n. 246/2005 si è voluto riprendere quello che era l’obiettivo prefissato dalla legge Ponte secondo quella che è la sua formulazione letterale, vale a dire di imporre ai costruttori di unità immobiliari soltanto l’obbligo di realizzare adeguati spazi di parcheggio attraverso una norma legislativa, norma che invece per anni è stata interpretata dalla Cassazione come imposizione di un vincolo soggettivo (14) di destinazione tra le unità immobiliari e gli spazi di parcheggio e che ne impediva la libera circolazione (15). Il legislatore del 2005 ha così manifestato espressamente la volontà di escludere il presunto (dalla giurisprudenza) automatismo tra la riserva obbligatoria di spazi adibiti a parcheggio nelle nuove costruzioni e la necessaria utilizzazione degli stessi da parte dei condomini, allo scopo dichiarato di consentire che detti spazi siano suscettibili di una regolamentazione autonoma rispetto alla costruzione cui accedono, e che possano essere commercializzati liberamente e nel silenzio del contratto, la cessione dell’immobile non comporta il trasferimento automatico in capo all’acquirente del posto auto. Così, a partire dal 16 dicembre 2005 (data di entrata in vigore della normativa) un costruttore può riservarsi la proprietà delle aree destinate a parcheggi, per poi, ferma restando la relativa destinazione urbanistica, cederle eventualmente agli stessi abitanti del fabbricato o a terzi non facenti parte del condominio, il tutto separatamente dall’immobile cui ineriscono; una volta, poi, sciolto definitivamente il legame pertinenziale tra posto auto e appartamento, il proprietario di quest’ultimo - al pari del costruttore-proprietario originario dell’intero edificio può disporne, nei successivi trasferimenti, senza essere obbligato a vendere al suo avente causa anche il primo. La Corte di Cassazione con la sentenza 24 febbraio 2006, n. 4264, precisa e chiarisce, però, che il comma 9 dell’art. 12, L. n. 246/2005 è norma che non avendo portata interpretativa, è da considerare esclusivamente innovativa e, pertanto, di efficacia non retroattiva (16). Pertanto, nella sentenza in commento la Corte sottolinea che l’art. 41 sexies della L. n. 1150/1942, introdotto dall’art. 18 della L. n. 765/1967, si limita a prescrivere, per i fabbricati di nuova costruzione, la destinazione obbligatoria di appositi spazi, a parcheggi, in misura proporzionale alla cubatura totale dell’edificio fissando non un rapporto numerico ma di volume-superficie e non vieta al costruttore di riservare a sé la proprietà degli spazi di parcheggio, per poi cederli a terzi, totalmente o in parte, o ai proprietari degli appartamenti “pro quota” ovvero singolarmente, ed anche globalmente, in modo che costituiscano parte comune dell’edificio ai sensi dell’art. 1117 c.c. La Corte di Cassazione ricorda quanto deciso con sentenza n. 11261/03 precisando che detti spazi, globalmente considerati, vengono a far parte della proprietà comune, ai sensi dell’art. 1117 c.c., nel caso in cui non vi sia stata alcuna riserva di proprietà da parte del costruttore e nei singoli atti sia stato omesso qualunque riferimento ad essi fer- 156 NOTARIATO N. 2/2009 mo restando, in ogni caso, il vincolo di destinazione di carattere pubblicistico, impresso dalle norme di cui si tratta. Tale diritto non può essere compromesso né dalla riserva di proprietà a favore del costruttore né dall’alienazione a terzi delle aree adibite a parcheggi. La Corte nella sentenza in esame riconferma, così, quel filone interpretativo restrittivo antecedente la L. n. 246/05 che vede nella disciplina urbanistica un vincolo pubblicistico di destinazione che non può subire deroga negli atti privati di disposizione degli spazi stessi con conseguente diritto reale d’uso diretto ed esclusivo delle persone che stabilmente occupano le costruzioni o ad esse abitualmente accedono (17). Infatti, la c.d. legge di semplificazione per l’anno 2006, pur non potendo incidere sui diritti esistenti (diritti reali d’uso già sorti automaticamente in base alla disciplina previgente), ha comunque determinato una significativa e importante modifica nel regime giuridico dei parcheggi obbligatori (18). Note: (14) Così Cass. 9 giugno 1987, n. 5036, in Giur. it., 1988, I, 56 ss; Cass. 19 aprile 1994, n. 3717, in Arch. giur. circolaz., 1994, 839 ss.; Cass. 19 ottobre 2000, n. 13827, in Contratti, 2001, 670 ss.; Cass. 14 novembre 2000, n. 14731, in Mass. Foro it., 2000, 1987-2000; Cass. 9 novembre 2001, n. 13857, ivi, 2001, 1987-2001; Cass. 21 maggio 2003, n. 7963, in Giust. civ., 2004, I, 165 ss.; Cass. 22 agosto 2006, n. 18255, in Mass. Foro it., 2006, 1578; Cass. 3 ottobre 2005, n. 19308, ivi, 2006, 1580. (15) La riforma legislativa non ha aggiunto qualcosa che la disposizione precedente non statuiva, ma ne ha soltanto precisato gli effetti. (16) Cass. 24 febbraio 2006, n. 4264, in Foro it., 2006, I, 1391. (17) Cass. 17 dicembre 1984, nn. 6600, 6601, 6602, cit.; Cass. 18 luglio 1989, n. 3363, in Giur. it., 1989, I, 1795 ss.; In dottrina: Casu, I parcheggi nella contrattazione privata, in Riv. not., 1998, 462 ss.; Ieva, Brevi riflessioni sui regimi di circolazione dei parcheggi, in Riv. not., 1998, 21 ss. (18) Bergamo, Gli spazi per parcheggi tra passato e futuro, nota a Cass. 24 febbraio 2006, n. 4264, in Giur. it., 2006, 2050 ss. TECNICHE CONTRATTUALI•SOCIETA’ Clausole statutarie Clausole statutarie di covendita e trascinamento a cura di PAOLO DIVIZIA Il contributo si propone di analizzare nei profili strutturali la complessa tipologia delle clausole tag along, drag along e bring along di recente diffusione nel panorama societario italiano, cercando di offrire altresì un modello redazionale capace ad un tempo di coniugare l’incisività delle scelte di governance societaria e la tutela dei diritti soggettivi del socio. Delicato si profila il compito di adeguamento spettante al notaio, principale operatore giuridico chiamato a dare una lettura coerente con l’ordinamento societario italiano a questo vero e proprio “manifesto futurista” anglosassone in ambito di clausole statutarie (*). 1. Introduzione ed individuazione dell’ambito di indagine Nel campo societario, la clausola di prelazione impone al socio - qualora questi intenda alienare la propria partecipazione - di preferire gli altri soci ai terzi a parità di condizioni. Essa rappresenta la declinazione in ambito commerciale del diritto di prelazione, riconosciuto, in campo contrattuale, dalla legge (c.d. “prelazione legale”) o dalla volontà delle parti (c.d. “prelazione pattizia”) (1). Più in generale, con la clausola di prelazione lo statuto subordina l’iscrizione nel libro dei soci al fatto che l’alienante abbia previamente offerto le azioni ai soggetti indicati (ad esempio, gli altri soci) e che detti prelazionari non abbiano accettato l’offerta, rendendo libera la circolazione dei titoli. A differenza del gradimento, però, la prelazione si contraddistingue per un profilo positivo: la decisione non solo impedisce l’ingresso del terzo non gradito, ma determina l’acquisto da parte del beneficiario. In altre parole, nell’ipotesi di gradimento colui che esercita il diritto di veto si limita a sbarrare l’ingresso in società all’estraneo; nella prelazione, invece, colui che esercita il potere di impedire l’ingresso nella compagine sociale ne sopporta anche il costo, dovendosi sostituire - a parità di condizioni - all’acquirente proposto dal socio alienante e garantendo a quest’ultimo lo stesso corrispettivo percepibile attraverso la libera vendita sul mercato. Come è stato attentamente osservato in dottrina, la differenza in parola diviene meno netta nelle ipotesi di prelazione c.d. impropria, in cui il prezzo al quale il titolare del diritto di prelazione può acquistare non è lo stesso offerto dal terzo, ma è quello che risulta dall’applicazione di criteri diversi, non ultimo da un arbitraggio (2). Sempre in generale, può dirsi che la funzione delle clausole di prelazione - per quanto variamente elaborate dall’autonomia statutaria - sia quella di mantenere omogenea ed inalterata la struttura della compagine, creando un duplice ostacolo sia all’entrata di nuovi soggetti sia alla modificazione degli esistenti rapporti di forza fra i soci, conservando allo stesso tempo all’azionista (intenzionato a vendere) la concreta possibilità di conseguire il valore economico “reale” della propria partecipazione. In tal modo risulta tutelato e protetto un interesse dei soci. La clausola di prelazione tutela, tuttavia, anche l’interesse della società all’omogeneità della compagine sociale e, quindi, in ultima analisi, al buon funzionamento dell’ente. In seno al vasto tema della prelazione in ambito societario, un crescente interesse è recentemente Note (*) Un ringraziamento particolare è rivolto a Francesco Alberini, avvocato in Milano, per aver messo a disposizione dell’autore, nel rispetto della vigente normativa di settore, materiali e bozze di modelli statutari, dal cui esame sono derivate in parte le presenti riflessioni. (1) Fra i più recenti contributi in materia di prelazione si segnala F. Crivellari, La circolazione immobiliare ed il diritto di prelazione, in Notariato, 2008, 447 ss. (2) Cfr. L. Stanghellini, Commento all’art. 2355-bis c.c., in Commentario alla riforma delle società. Azioni (artt. 2346-2362 c.c.), a cura di M. Notari, Milano, 2008, 559 ss. NOTARIATO N. 2/2009 157 TECNICHE CONTRATTUALI•SOCIETA’ mostrato dagli operatori in relazione alle clausole di “covendita” e di “trascinamento” di fonte statutaria. Le clausole in parola sono tradizionalmente collocate all’interno dei patti parasociali delle società per azioni (e con minore frequenza delle società a responsabilità limitata), con l’espressa finalità di disciplinare l’ingresso di nuovi soci di maggioranza nell’assetto proprietario di un ente solitamente a ristretta compagine sociale (3). È stato poi affermato che l’attuale diffusione di dette clausole (definite in base al funzionamento tag along, drag along e bring along) negli statuti societari è riconducibile all’introduzione - dopo la riforma del 2003 di limiti di durata massima anche per i patti parasociali delle società per azioni non quotate e quindi alla loro congenita instabilità temporale (4). Dette clausole si differenziano profondamente per struttura e finalità operative, pur conservando punti di contatto con il genotipo della clausola di prelazione; esse, quindi, meritano una disamina separata, anche nei profili di tecnica redazionale. 2. La clausola tag along La clausola tag along (altrimenti detta, con denominazione meno frequente piggy back) è generalmente posta a tutela dei soci di minoranza. Essa attribuisce, infatti, a questi ultimi il diritto a profittare delle condizioni economiche ottenute dal socio di maggioranza in caso di vendita della relativa partecipazione rilevante. In forza di questa clausola, il soggetto intenzionato a cedere la propria partecipazione potrà farlo a condizione di ottenere dal suo acquirente l’impegno all’acquisto delle residue quote alle medesime condizioni a lui riconosciute; il socio di minoranza ha, quindi, il diritto di “co-vendere” a fronte di una offerta irrevocabile di acquisto proveniente dal terzo acquirente. In questo modo, i soci di minoranza possono avvantaggiarsi della forza contrattuale di cui gode sul mercato il socio di maggioranza, ad esempio nella determinazione del prezzo unitario di vendita, eventualmente comprensivo di un “premio di maggioranza”. Con il patto di covendita si ottiene, altresì, il risultato di aver adeguata certezza della sorte delle diverse partecipazioni, indipendentemente dall’entità di queste o dal fatto di aver partecipato attivamente alle negoziazioni per la cessione (5). La clausola tag along pone, quindi, specularmente in capo al socio di maggioranza (come di seguito spiegato, solitamente il partner industriale), che intende vendere ad un terzo la propria partecipazione, un obbligo consistente nel procurare in favore del socio di minoranza un’offerta di acquisto delle quote partecipative da esso detenute; detta offerta dovrà provenire nei modi e nei tempi pattuiti nello statuto dal terzo acquirente, il quale è obbligato ad acquistare alle medesime condizioni convenute con il socio di maggioranza. Il socio di minoranza, in ogni caso, beneficia del diritto derivante dal tag along, ma resta libero di vendere o meno la propria partecipazione; in altre parole, il socio di minoranza è titolare di un diritto, il socio di maggioranza è gravato da un obbligo (e, indirettamente, lo è anche il terzo acquirente). Nella stesura della clausola, sarà quindi opportuno descrivere con precisione: – il soggetto su cui grava il peso del tag along ed i soggetti a cui vantaggio opera il meccanismo; – il presupposto negoziale che dà luogo al tag along, ossia la vendita (o più in generale, la cessione) a terzi del pacchetto di maggioranza; – la scansione procedimentale della fattispecie, con particolare riguardo ai rapporti fra i soci di minoranza ed il terzo acquirente; Note: (3) In particolare, con accordo pattizio, distinto e separato dallo statuto, ai soci è data la possibilità di disciplinare precise condotte sociali (qui genericamente descritte) quali: a) con il diritto di tag along o di covendita, la tutela della posizione dei soci di minoranza, ai quali è assicurata una way-out in caso di vendita del pacchetto di maggioranza; b) con il diritto di bring along o di trascinamento, si attribuisce ai nuovi soci di controllo il potere di acquisire l’intero pacchetto azionario (o la maggioranza di rilievo), senza essere costretti a subire la presenza di soci di minoranza ostili. (4) Questa è la sintetica posizione espressa nella Massima n. 88 del Consiglio Notarile di Milano, in Massime notarili in materia societaria, Milano, 2008, 255. Con riferimento alla denominazione, il nome è di per sé evocativo della matrice anglosassone delle clausole in esame, le quali - come immaginabile - comportano una serie di conseguenze sul piano interpretativo in caso di acritica importazione delle stesse nel nostro ordinamento societario; oltre a quanto argomentato nel presente contributo, sul più generale tema dei cc.dd. “contratti alieni” si veda G. De Nova, Il contratto alieno, Torino, 2008. Sul tema si veda anche C.F. Giampaolino, Stabilizzazione della compagine sociale e clausole di lock-up sociali e parasociali, in Riv. soc., 2008, 148 ss. ed in particolare 154. (5) In ordine all’ambito di applicazione è stato affermato che “si tratta di una clausola diffusa nelle holding, dove vi sono soci con peso diverso, la cui partecipazione potrebbe risultare irrilevante per il controllo della società, con il conseguente rischio di rimanere congelata e priva di reale valore, in quanto nessuno avrebbe interesse al suo acquisto”, così L. Cappucci, Clausole di covendita: Tag-Along, Piggy Back, Drag-Along, Bring-Along, consultabile sul sito www.newsmercati.it 158 NOTARIATO N. 2/2009 TECNICHE CONTRATTUALI•SOCIETA’ – le condizioni di acquisto da offrirsi ai soci di minoranza e la parte di azioni oggetto della contrattazione (totalità ovvero percentuale di partecipazione proporzionale a quanto trasferito dal socio di maggioranza). 3. La coercibilità delle clausole tag along. La tesi della natura obbligatoria Discusso è il regime di coercibilità della clausola tag along. Una parte della dottrina sostiene che il vincolo derivante da una clausola tag along sia meramente obbligatorio (6). Sotto il profilo strutturale, è possibile ricondurre la clausola tag along nello schema della promessa del fatto del terzo, ai sensi dell’art. 1381 c.c.; in altre parole, il soggetto obbligato al tag along, ossia il socio di maggioranza, è tenuto a procurare la covendita al socio di minoranza e per far ciò, tuttavia, deve assicurare a questi che la cessione del relativo pacchetto azionario avvenga alle condizioni negoziate per la cessione di maggioranza. È quindi evidente che il soggetto obbligato al tag along risponde della condotta del terzo acquirente, assicurando al socio di minoranza che detto terzo procederà ad acquistare la partecipazione alle condizioni pattuite. Ci si trova, quindi, dinanzi ad una obbligazione di garanzia consistente nell’assunzione del rischio della non-esecuzione di ciò che è stato promesso; il promittente è, quindi, obbligato al versamento dell’indennità non in quanto inadempiente per il rifiuto del terzo, ma in quanto garante di un comportamento poi non tenuto (alla stregua di una assicurazione) (7). Coerente è, dunque, il ricorso al termine “indennità” e non “risarcimento”, adoperato dal legislatore per indicare una prestazione avente carattere non già sanzionatorio, bensì assicurativo. In alternativa, potrebbero predisporsi delle clausole penali ovvero si potrebbe ricorrere alla costituzione di un pegno sulle azioni del socio di maggioranza obbligato (8). Va da sé che la presente ricostruzione dogmatica e le forme di tutela aggiuntiva suggerite mostrano ancora la loro utilità qualora dette clausole di covendita siano inserite in un patto parasociale. La prospettiva ricostruttiva, invece, muta ove esse siano collocate in seno allo statuto, circostanza che ne determina una variazione della natura e degli effetti. (segue): la tesi proposta della natura reale ed il superamento del problema a mezzo della tecnica redazionale Come noto, la discussione in ordine all’efficacia obbligatoria o reale delle clausole statutarie limitative della circolazione delle partecipazione sociali è storicamente accesa (9). La diatriba acquisisce rilievo ai fini dell’individuazione dei rimedi esperibili in caso di violazione delle clausole, indicati dai sostenitori della natura obbligatoria, nel risarcimento del danno e, dai sostenitori della natura reale, nell’inopponibilità dell’acquisto alla società ed ai soci aventi diritto alla prelazione e, talvolta, anche nel diritto di riscatto spettante a questi ultimi. L’indirizzo prevalente (10) sembra orientato nel senso di ritenere che le clausole limitative della circolaNote: (6) Netta è la posizione assunta nel breve commento di L. Ponti, P. Pannella, La preferenza nel diritto societario e successorio, Milano, 2003, 221. (7) In dottrina si vedano E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, in Tratt. dir. civ. it., a cura di F. Vassalli, Torino, 1993, 563 e G. Scalfi, La promessa del fatto altrui, Milano, 1955, 45 ss. (8) In dottrina si è avanzata anche la possibilità di inserire a carico dell’obbligato una put option al fine di dare maggiore certezza all’adempimento; peraltro, mentre l’inadempimento di un obbligo di covendita - riconducibile nello schema della promessa del fatto del terzo - comporta l’obbligo di prestare una indennità, l’inadempimento di una put option porta al risarcimento del danno, con effetti più favorevoli per l’avente diritto, cfr. L. Ponti - P. Pannella, op. cit., 221. Gli autori in parola prospettano anche il rischio derivante da un accordo simulato, relativamente al prezzo, fra il socio di maggioranza ed il terzo, cui potrebbe adeguatamente rispondersi in chiave preventiva deferendo ad un terzo la determinazione del valore delle partecipazioni. (9) Per un’esauriente esposizione dei diversi orientamenti, si veda V. Meli, La clausola di prelazione negli statuti della società per azioni, Milano, 1991, 35 ss.; può affermarsi, in estrema sintesi, che la questione è collegata al riconoscimento della natura parasociale o sociale delle clausole in questione, a seconda che siano ritenute espressive del solo interesse dei soci o anche degli interessi della società. (10) In tal senso, per tutti, v. G. F. Campobasso, op. cit., 245-246 e P. Dal Soglio, Commento all’art. 2355-bis, in Il nuovo diritto delle società, a cura di A. Maffei Alberti, Padova, 2005, I, 329 ss., secondo il quale è più corretto parlare di “limiti all’assunzione della legittimazione di socio” piuttosto che di “limiti all’iscrizione nel libro dei soci” (come accadeva prima della Riforma), poiché, ai sensi dell’art. 2355, “il giratario di azioni nominative è legittimato all’esercizio di tutti i diritti sociali anche in assenza dell’iscrizione”. In giurisprudenza, recentemente, v. Cass. 14 gennaio 2005, n. 691, in Le società, 2005, 1520 ss., con nota di A.A. Rinaldi, Validità della clausola di prelazione nella vendita fallimentare di quote di s.r.l. La teoria sostenitrice dell’efficacia reale era prevalente anche prima della riforma: v. S. Vita, La circolazione del titolo azionario, in Trattato teorico pratico delle società - Le società di capitali a cura di G. Schiano Di Pepe, 206 ss. e le sentenze ivi citate. NOTARIATO N. 2/2009 159 TECNICHE CONTRATTUALI•SOCIETA’ zione contenute nello statuto sociale (e risultanti dal titolo ex art. 2355-bis, u.c., c.c.) abbiano efficacia reale e che la loro violazione non incida sulla validità del trasferimento posto in essere, ma (salva una diversa volontà delle parti espressa nello statuto) sulla legittimazione all’esercizio dei diritti sociali, poiché detto trasferimento sarebbe inopponibile alla stessa società. Permane, tuttavia, una certa incertezza sui rimedi esperibili dai prelazionari (11). Particolarmente significativa, a tal proposito, è una non più recente decisione della Corte di Cassazione la quale, dopo aver sottolineato la natura sicuramente parasociale del patto di prelazione tra i soci - in quanto avente ad oggetto un diritto, quello alla partecipazione sociale, compreso nel patrimonio personale di ciascun socio - evidenzia come l’inserimento del patto nello statuto “valga a conferirgli anche una coloritura ulteriore, questa volta di carattere sociale. Se non si vuol negare significato a un comportamento che le parti hanno liberamente scelto di assumere, è giocoforza ritenere che, con l’inserimento della clausola di prelazione nell’atto costitutivo, si sia inteso attribuire a detta clausola, al pari di qualsivoglia altra pattuizione riguardante posizioni soggettive individuali dei soci che venga iscritta nello statuto dell’ente, anche un valore rilevante per la società, la cui organizzazione e il cui funzionamento l’atto costitutivo e lo statuto sono destinati a regolare. Clausole come quelle di prelazione o di gradimento hanno l’effetto di incidere sul rapporto fra l’elemento capitalistico e quello personale della società, accrescendo il peso del secondo elemento rispetto al primo nella misura che i soci ritengano di volta in volta più adatta alle esigenze dell’ente. Non stupisce, dunque, che esse possano assolvere anche ad una funzione specificamente sociale ed è questo il senso più evidente della loro collocazione nello statuto organizzativo della società” (12). Applicando il medesimo criterio di indagine suggerito nella citata decisione appare possibile riconoscere valore sociale ed organizzativo alla clausola tag along, in quanto essa incide pesantemente sull’intero asse societario ogni qualvolta si proceda ad una alienazione della partecipazione di maggioranza, determinando appunto la covendita di tutto o di una quota della restante parte del capitale sociale. Riconosciuta per questa via, dunque, valenza sociale alla clausola tag along, consegue che ad essa vada attribuita efficacia erga omnes. L’inserimento nello statuto della clausola in oggetto eleva la stessa a regola dell’ordinamento societario, conoscibile da parte di tutti per la pubblicità legale cui essa è sottoposta e le attribuisce, così, efficacia reale; in conseguenza, i suoi effetti sono opponibili anche al terzo acquirente, perché si tratta di una regola del gruppo organizzato, alla quale non potrebbe non sottostare chiunque volesse entrare a farvi parte. Sul punto vale anticipare quanto espresso dalla Massima I.I. 25 del Comitato Notarile del Triveneto nella parte in cui afferma espressamente che “dette clausole sono opponibili ai terzi acquirenti in quanto risultanti dal testo di statuto depositato nel registro delle imprese” (13). Nell’ambito della tesi che riconosce efficacia reale alle clausole di prelazione statutaria, non vi è, però, concordia di opinioni sulle conseguenze della violazione del patto. Rinviando ad altra sede la trattazione di questo dedicato profilo (14), giova solo ricordare che pare prevalere in dottrina e in giurisprudenza, la tesi, secondo la quale la violazione della clausola di prelazione societaria comporterebbe soltanto l’inefficacia del negozio di trasferimento. Nell’ambito di quest’unico orientamento si sono formate due principali correnti di pensiero. Una prima opinione ha affermato l’inefficacia del trasferimento solo nei confronti della società, di tal che dinanzi ad una cessione valida ed efficace fra le parti, l’ente sarebbe legittimato a rifiutare l’iscrizione dell’acquirente a libro soci (15). Note: (11) G. F. Campobasso, Diritto commerciale. Diritto delle società, Torino, 2006, 246, ritiene che il trasferimento sia inefficace anche nei confronti dei prelazionari e che ad essi debba essere riconosciuto il diritto di riscatto. Di avviso contrario C. Angelici, La circolazione della partecipazione azionaria, in Trattato delle società per azioni diretto da G. E. Colombo e G. B. Portale, 2, Torino, 1991, 194 ss., il quale distingue due profili di efficacia, l’efficacia reale sul piano dell’organizzazione societaria e l’efficacia obbligatoria relativamente alla tutela degli interessi individuali dei soci prelazionari e, in conseguenza di ciò, ritiene che a detti soci non spetti un diritto di riscatto, ma soltanto il risarcimento dei danni. Per un recente contributo ricostruttivo delle differenti teorie, si veda M. Leocata, L’opzione e la prelazione societaria dopo la riforma: fra nuove figure e vecchie questioni, in Le società, 2008, 684 ss. (12) In questi termini di esprime la significativa Cass. 19 agosto 1996, n. 7614, in Giur. comm., 1997, 520 ss., con nota di E. Scimeni. (13) La massima è consultabile sul sito ufficiale www.trivenetogiur.it.; sottolinea la funzione organizzativa delle clausole in parola (ma con specifico riferimento ad una clausola drag along) il Tribunale di Milano, ordinanza 31 marzo 2008, in Le società, 2008, 1373, con nota di C. Di Bitonto, Clausola statutaria di drag along: chi era costei?, nella parte in cui afferma che “può rispondere ad un interesse sociale nella misura in cui mira anche a disinnescare a priori la conflittualità interna alla società che potrebbe essere alimentata dal peso in concreto della quota di minoranza e da un possibile abuso del potere di controllo, e quindi a garantire l’omogeneità della compagine sociale e la coesione dei soci”. (14) Oltre agli autori segnalati nelle note precedenti, si rinvia a C.A. Busi, Le clausole di prelazione nella s.p.a., in Riv. not., 2005, 453 ss. (15) In questi termini si esprime il Tribunale Catania del 20 novembre 2002, in Le società, 2003, 597, con nota di M. Leocata. 160 NOTARIATO N. 2/2009 TECNICHE CONTRATTUALI•SOCIETA’ Altra opinione ha, invece, sostenuto l’inefficacia assoluta dell’alienazione, nei confronti tanto della società quanto dei soci, i quali, quindi, sarebbero anch’essi legittimati ad agire in giudizio (16). Interessante ricordare, infine, la posizione di recente assunta dalla Corte di Cassazione che sembra affermare la tesi dell’inefficacia del contratto anche tra le parti, sostenendo che “in via di principio, è possibile ammettere che il trasferimento della partecipazione in una società di capitali sia a certi fini efficace ed operante tra le parti indipendentemente dalla sua opponibilità alla società. Tuttavia, quando si tratti di una società a responsabilità limitata, le cui quote non sono naturalmente destinate alla circolazione, una siffatta distinzione è scarsamente plausibile e, comunque, richiederebbe una valutazione in concreto dell’ipotetica volontà in tal senso espressa dai contraenti interessati, non potendosi di sicuro presumere che essi abbiano inteso perfezionare il trasferimento della quota anche a prescindere dalla concreta successiva possibilità, per il cessionario, di esercitare nei confronti della società i diritti inerenti alla qualità di socio. (…) Corretta appare dunque la decisione impugnata laddove afferma che la mancata espressione del consenso degli altri soci, espressamente richiesto dallo statuto della società a responsabilità limitata in caso di trasferimento di quote della società per atto tra vivi, rende il trasferimento della quota inefficace anche tra le parti del contratto di cessione” (17). La tesi ricostruttiva da ultimo esposta appare, ad avviso di chi scrive, la più convincente, modulando l’inefficacia della cessione sia nei rapporti fra le parti, sia nei confronti della società. Al fine di sottrarsi, però, ai rischi derivanti dai mutevoli orientamenti giurisprudenziali (anche di legittimità) sul punto, sembra opportuno intervenire sotto il profilo della tecnica redazionale ed assicurare la realità degli effetti della clausola in due modi: a) ricorrendo al meccanismo condizionale, di seguito descritto; b) precisando che l’iscrizione a libro socio del terzo acquirente è subordinata al rispetto delle modalità di acquisto indicate nello statuto. Analisi di una clausola-tipo e commento DIRITTO DI TAG-ALONG 1. Qualora uno o più soci di maggioranza (‘Socio di maggioranza’) intendano trasferire in tutto o in parte le proprie azioni ordinarie a favore di un terzo (‘Offerente’), di tal che il risultato finale sia la fuoriuscita della maggioranza del capitale sociale, essi dovranno darne comunicazione all’altro socio ovvero a tutti gli altri soci (‘Socio di minoranza’) e all’organo amministrativo, mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento inviata presso la sede della società ed al domicilio di ciascun socio risultante dal libro soci. La comunicazione deve contenere le generalità dell’offerente, il prezzo offerto e le condizioni del trasferimento. Osservazioni Come detto, il presupposto operativo della clausola è la cessione da parte del socio di maggioranza ad un terzo della propria partecipazione, di modo che vi sia una fuoriuscita dalla società della maggior parte del capitale sociale. È evidente che, al fine di evitare manovre elusive, il diritto di tag along può esser fatto valere dal socio di minoranza anche qualora la cessione sia effettuata in più tranches, coordinate fra loro. È poi possibile fissare una percentuale del capitale sociale trasferito, al di sotto della quale il diritto di tag along non sorge. I soci possono altresì stabilire per via statutaria una definizione di “socio di maggioranza”, al fine di prevenire controversie in ordine all’interpretazione del termine (maggioranza assoluta o relativa sul capitale sociale). 2. Ogni socio di minoranza interessato all’esercizio del diritto di tag along deve far pervenire al socio comunicante e all’organo amministrativo la dichiarazione di esercizio del diritto di tag along con lettera raccomandata consegnata alle poste non oltre 10 (dieci) giorni dalla data di spedizione (risultante dal timbro postale) della comunicazione di cui sopra. Note: (16) In questi termini in giurisprudenza si segnalano ex multis Tribunale Milano 23 settembre 1991, in Giur. it., 1992, I, 2, 240; Tribunale Roma 4 maggio 1998, in Riv. dir. comm., 1999, II, 65, ed anche Tribunale Napoli 4 giugno 1993, in Giur. comm., 1994, II, 705, con nota di M. Colucci. In dottrina si veda per tutti la posizione di G. F. Campobasso, op. cit., 246 e per una ampia ricostruzione della problematica G. A. Rescio, La distinzione del sociale dal parasociale (sulle c.d. clausole statutarie parasociali), in Riv. soc., 1991, 596 ss. (17) In questi termini si esprime Cass. 30 settembre 2005, n. 19203, in Vita not., 2006, 1, 145 ss., con nota di S. Miranda. NOTARIATO N. 2/2009 161 TECNICHE CONTRATTUALI•SOCIETA’ Osservazioni È possibile prevedere che tutte le comunicazioni fra le parti necessarie all’espletamento corretto della procedura in esame possano svolgersi ricorrendo a mezzi alternativi, purché essi garantiscano la prova dell’avvenuto ricevimento delle comunicazioni nel rispetto dei termini. 3. Nel caso in cui venga perfezionato l’accordo di trasferimento fra il socio di maggioranza ed il terzo offerente, il socio di maggioranza dovrà far sì che il terzo offerente presenti al socio di minoranza un’offerta di acquisto ai medesimi termini e condizioni. 4. Ogni socio che abbia esercitato il diritto di tag along avrà diritto di trasferire tutte o parte delle proprie azioni possedute alla data di ricevimento della comunicazione medesima, a favore dell’offerente, in aggiunta alle azioni dei soci che hanno effettuato la comunicazione in questione. 5. Tale diritto avrà per oggetto tutte le azioni ovvero un numero massimo di azioni determinato secondo la seguente formula: Osservazioni In questo punto della clausola può essere introdotto anche un sistema matematico di calcolo per determinare il numero massimo di azioni interessate dal tag along. Ad esempio: x = y * (w/z) Dove si precisa che: “x” è il numero di azioni che ciascun socio di minoranza avrà diritto di disporre a favore dell’offerente; “y” è il numero di azioni possedute dal socio di minoranza che intenda esercitare il diritto di tag along; “w” è il numero delle azioni originariamente oggetto dell’offerta; “z” è il numero delle azioni ordinarie possedute dai soci di maggioranza che hanno effettuato la comunicazione di cui sopra. A ben vedere, il rapporto (w/z) altro non è che la frazione del complessivo pacchetto azionario di maggioranza oggetto di cessione. Nel caso in cui “x” non sia un numero intero, la cifra espressa da “x” dovrà essere arrotondata al numero superiore o inferiore più vicino. 6. L’offerta di acquisto proveniente dal terzo deve essere irrevocabile per un periodo di 30 giorni dal ricevimento dell’offerta stessa. Durante il periodo indicato il socio di minoranza resta libero di accettare o meno detta offerta. 7. L’accettazione da parte del socio di minoranza dovrà avvenire nel termine indicato con le modalità sopra indicate. 8. Decorso il termine di 30 giorni senza che vi sia stata accettazione per iscritto da parte del socio di minoranza le relative offerte da parte del terzo si intenderanno decadute senza ulteriori formalità ed il socio di maggioranza potrà dare esecuzione al trasferimento azionario in favore del terzo offerente. 9. L’efficacia del trasferimento della partecipazione dal socio di maggioranza al terzo acquirente dovrà essere, con apposita clausola, sospensivamente condizionata al corretto svolgimento della procedura sopra descritta a tutela del socio di minoranza che abbia esercitato il diritto di tag along. 10. Il socio di maggioranza si asterrà in ogni caso dal vendere o comunque trasferire le proprie azioni a favore dell’offerente ove quest’ultimo non accetti di acquistare le azioni degli altri soci di minoranza che abbiano comunicato la propria intenzione di esercitare il diritto di tag along nelle proporzioni come sopra calcolate. Osservazioni È data alle parti la possibilità di prevedere che, in caso di rifiuto da parte del terzo di acquistare anche le azioni dei soci di minoranza, queste ultime vadano in parte a sostituirsi alle azioni del socio di maggioranza cosicché il terzo vada ad acquistare la medesima quantità di azioni pattuite, distribuendo però l’acquisto in favore di tutti i soci. Con riferimento al comma 9, va detto che la previsione statutaria impone in tal modo al socio di maggioranza di inserire una condizione sospensiva ad hoc nella proposta di vendita indirizzata al terzo. 11. Nell’ipotesi di trasferimento di azioni eseguito senza l’osservanza di quanto sopra prescritto, l’acquirente non avrà diritto di essere iscritto nel libro soci e non sarà legittimato all’esercizio del voto e degli altri diritti amministrativi. Osservazioni In questo modo, come già osservato, si conferisce efficacia reale alla clausola tag along inserita nello statuto. 4. La clausola drag along, ossia il “diritto ad essere trascinati” La clausola drag along presenta profili di forte similitudine con la clausola tag along, differenziandosi, però, principalmente per la struttura ed il funzionamento. 162 NOTARIATO N. 2/2009 TECNICHE CONTRATTUALI•SOCIETA’ Schematicamente può dirsi che in forza di detta clausola il socio venditore (di norma socio di maggioranza) è titolare della facoltà di vendere, insieme alla propria partecipazione, anche le azioni dell’altro socio, solitamente di minoranza, assicurandogli le medesime condizioni contrattuali ed il medesimo prezzo unitario ottenute nella propria contrattazione (18). Il verbo inglese drag (ossia “trascinare”) ben esprime l’essenza operativa della clausola; con il patto di trascinamento, infatti, si consente al socio di minoranza di “essere trascinato” nella negoziazione (e coinvolto ovviamente, al buon esito della trattativa, anche nel medesimo negozio di cessione). Il socio di minoranza ha, dunque, con le precisazioni di cui infra, il diritto di essere trascinato. La clausola in analisi persegue due distinte finalità: 1) da un lato, al pari della clausola tag along, essa mira ad offrire al socio di minoranza una adeguata forma di tutela nelle ipotesi di cessione del pacchetto di maggioranza, consentendogli di spuntare un prezzo migliore rispetto a quello ottenibile con una contrattazione sul mercato. Questa clausola è solitamente intesa ad aumentare il valore della partecipazione sociale venduta, consentendo al titolare del diritto di drag along di fruire dell’eventuale “premio di maggioranza”; 2) dall’altro, essa - pur consentendo al titolare del diritto di drag along di ottenere migliori condizioni nella negoziazione - assicura la possibilità per l’acquirente di acquistare fino al 100% del capitale e di non avere scomodi soci di minoranza; in tal modo, si rende più appetibile sul mercato l’operazione di acquisizione della maggioranza (o della totalità) di una società-bersaglio. (segue) ambito di applicazione economico Le clausole drag along vengono solitamente richieste dalle banche d’affari, dai fondi di investimento o, più in generale, dal c.d. partner finanziario. Detti soggetti, infatti, sono accomunati dall’obiettivo di intendere la partecipazione societaria come forma di investimento finanziario a breve o medio termine; l’acquisto e la detenzione di un pacchetto azionario ha il dichiarato scopo di ottenere una elevata remunerazione del capitale investito, eventualmente raccolto presso terzi (investitori privati). Il partner finanziario (salve ipotesi più complesse in cui esso è rappresentato da un investitore istituzionale, quale il Ministero del Tesoro che opera sulla base di direttive politiche oltre che economiche pure) ha tendenzialmente lo scopo di acquistare una partecipazione per poi rivenderla, ad un dato tempo, per realizzare un congruo rientro dell’investimento di capitale realizzato. È agevole intuire come una clausola drag along, in grado di assicurare a colui che esce dalla compagine sociale un prezzo di realizzo più alto di quello ottenibile sul mercato cedendo una partecipazione non di maggioranza, sia vista di buon grado da coloro che mirano ad un elevato prezzo di realizzo. (segue): clausole drag along e operazioni di venture capital Per le ragioni indicate, la clausola drag along è sovente richiesta nelle operazioni c.d. di venture capital (19). In estrema sintesi, il venture capital può definirsi come una forma di finanziamento, con apporto di capitale di rischio a imprese medie-piccole o che generano utili dopo un periodo di tempo. Il finanziamento viene realizzato attraverso l’acquisto di una partecipazione azionaria, in molti casi effettuato da un fondo chiuso, al cui capitale partecipano intermediari finanziari, investitori privati e fondi pensione. Il contratto tra il venture capitalist e l’impresa prevede normalmente lo staging: i fondi necessari per realizzare il progetto imprenditoriale vengono erogati in fasi successive, a condizione che determinati obiettivi reddituali e di crescita siano stati raggiunti. Al venture capitalist viene attribuita la partecipazione di minoranza della società, unitamente - di norma a significativi poteri di controllo sulla gestione dell’impresa. Il fine ultimo perseguito dal venture capitalist è ovviamente quello speculativo e consiste nella rivendita della partecipazione di minoranza a terzi (cc.dd. partner industriali), interessati alla gestione della società, Note: (18) La clausola in esame può anche essere strutturata in favore di un socio che già detiene la maggioranza del capitale, qualora si ravvisi l’interesse a negoziare una partecipazione molto ampia o addirittura l’intero capitale sociale (si pensi all’ipotesi in cui lo statuto imponga quorum assembleari “rafforzati” su determinate materie, tali da imporre a chi acquista il raggiungimento di una posizione dominante in assemblea ordinaria solo detenendo la quasi totalità del capitale sociale). In dottrina si veda P. Manganelli, Pattuizioni particolari, in U. Draetta - C. Monesi (a cura di), I contratti di acquisizione di società e aziende, Milano, 2007, 591 ss. (19) Sulle operazioni di venture capital e, più in generale, di private equity si rinvia a S. Bruna, Finanziare l’innovazione: il venture capital dopo la riforma del diritto societario, in Riv. dir. comm., 2005, 821 ss. NOTARIATO N. 2/2009 163 TECNICHE CONTRATTUALI•SOCIETA’ dopo che essa ha superato la delicata fase dell’avviamento (in cui è stata supportata dai capitali esterni dei soci finanziatori) ovvero sia stata riqualificata e rilanciata sul mercato (growth capital) (20). Il venture capitalist al momento dell’investimento iniziale negozia l’inserimento nello statuto della società di alcune clausole atte a garantire: a) da un lato, un influsso nella governance societaria per tutto il periodo di permanenza (ad es., con l’attribuzione di azioni con diritti amministrativi particolari, quali la nomina di membri del Consiglio di Amministrazione); b) dall’altro, forme di rimunerazione privilegiata (quali dividendi in misura maggiorata e diritti negli aumenti di capitale successivi); c) infine, modalità di uscita dalla compagine societaria trasparenti e vantaggiose, mirate alla massimizzazione dell’investimento finanziario fatto a medio termine: questa finalità è perseguita proprio dalle clausole tag-along e drag along in commento, le quali saranno strutturate di volta in volta a seconda della richiesta avanzata dal venture capitalist. Diversa è la prospettiva del partner industriale, il quale predilige l’acquisto di rilevanti pacchetti azionari al fine di gestire la società e di dettare stabilmente le linee della governance; in quest’ottica - speculare a quella del partner finanziario - la partecipazione oggetto di acquisizione è tanto più allettante quanto essa è in grado di garantire in seno all’assemblea ordinaria un consistente peso (e, dunque, indirettamente sulla composizione del nuovo organo amministrativo). È quindi evidente l’interesse del partner industriale di acquisire una partecipazione tale da eliminare, o tendenzialmente minimizzare, i condizionamenti negativi dei soci di minoranza. Il partner industriale, tuttavia, beneficia degli effetti della clausola drag along solo in via indiretta, essendo nella sua ottica preferibile una clausola bring along di seguito in commento. (segue): analisi delle differenze fra clausola tag along e drag along Le differenze rispetto alla clausola tag along sono così sintetizzabili: 1) la clausola tag along attribuisce il diritto di covendita al socio di minoranza, garantendogli tutela indennitaria o risarcitoria (qualora la si configuri con efficacia obbligatoria) oppure inibendo il dispiego degli effetti traslativi della cessione di maggioranza ove non sia rispettata la procedura in favore del socio di minoranza (qualora si ricorra al meccanismo condizionale in grado di garantire tutela reale); al contrario, la clausola drag along attribuisce il diritto di trascinamento (o più correttamente “ad essere trascinato”) al socio di minoranza dinanzi ad un socio di maggioranza che intende alienare la propria partecipazione; 2) in entrambi i casi, l’iniziativa economica che costituisce il presupposto applicativo della clausola è riferibile al socio di maggioranza che intende piazzare sul mercato la propria partecipazione; nel meccanismo drag along, tuttavia, il socio di minoranza è direttamente coinvolto nella negoziazione fatta dal socio di maggioranza con il terzo (21) (non limitandosi, cioè, ad accodarsi - dal verbo inglese “tag” - con un separato contratto al primo contratto stipulato fra socio di maggioranza e terzo (22)). A ben vedere, infatti, le azioni del socio di minoranza sono incluse nella proposta di vendita fatta dal socio di maggioranza al terzo acquirente, ossia costituiscono parte dell’oggetto di quella proposta. 3) il socio di minoranza, quindi, con la clausola tag along conserva un margine di discrezionalità, potendo rifiutare l’offerta irrevocabile di acquisto preveniente dal terzo estraneo anche ove detta offerta sia corredata dalle condizioni di acquisto vantaggiose previste dallo statuto; nella clausola drag along, invece, il margine discrezionale scende, atteso che se le condizioni di vendita sono quelle previste per il socio di maggioranza, il socio di minoranza non potrà opporsi al fatto che la propria partecipazione sia conglobata in tutto o in parte nella proposta di vendita fatta nei confronti del terzo acquirente; in altri termini, se Note: (20) Peraltro non è escluso che l’operazioni in sé possa portare alla quotazione della società stessa; significativa sul punto è l’iniziativa del c.d. “Mercato Expandi” pensata per le imprese con bassa capitalizzazione (il capitale minimo previsto è fissato in 1 milione di euro). Il “Mercato Expandi” è un comparto del mercato borsistico italiano nato nel 2003, dalla riorganizzazione e sostituzione del c.d. mercato ristretto. Esso oggi comprende diverse ed importanti società, fra cui Ferrovie Nord Milano s.p.a. e Autostrade Meridionali s.p.a.; per un approfondimento sul punto si rinvia al sito internet www.borsaitaliana.it. (21) Le clausole oltre a prevedere la possibilità di attribuire ad un terzo un mandato a vendere l’intera partecipazione (in questo modo assicurandosi l’impegno del socio minoritario alla cessione della propria quota) possono deferire ad un terzo arbitratore (ad esempio, un dottore commercialista di fiducia) la fissazione di un prezzo di vendita. (22) La soluzione del contratto separato è tuttavia poco diffusa nella pratica per motivi di ordine pratico e fiscale; sovente le azioni del socio di minoranza - anche nel tag along - sono conglobate in una sola transazione. In tal modo si sfuma un elemento differenziale che intercorre fra la struttura - tipo del tag along e del drag along. 164 NOTARIATO N. 2/2009 TECNICHE CONTRATTUALI•SOCIETA’ le condizioni economiche sono rispettate, la posizione del socio di minoranza - seppur titolare in forza della clausola di un “diritto” di drag along - muta di fatto in un “obbligo al trascinamento”, non essendovi quello spatium deliberandi presente invece nella clausola tag along (sfumandosi così i confini con la clausola di bring along). 4) l’efficacia reale della clausola drag along si manifesta in tutta evidenza nella misura in cui - al verificarsi del presupposto contrattuale - il socio di minoranza è tenuto a stipulare un contratto di deposito fiduciario dei titoli ed a conferire ad un terzo (o al socio di maggioranza stesso) una procura a vendere (di seguito in commento). Analisi di una clausola-tipo e commento DIRITTO DI DRAG-ALONG 1. Qualora uno o più soci di maggioranza (‘Socio di maggioranza’) intendano trasferire in tutto o in parte le proprie azioni ordinarie a favore di un terzo (‘cessionario’), di tal che il risultato finale sia la fuoriuscita della maggioranza del capitale sociale, essi dovranno darne comunicazione all’altro socio ovvero a tutti gli altri soci (‘Socio di minoranza’) e all’organo amministrativo, mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento inviata presso la sede della società ed al domicilio di ciascun socio risultante dal libro soci. La comunicazione deve contenere le generalità del cessionario, il prezzo offerto e le condizioni del trasferimento. Osservazioni Come detto, anche in questo caso il presupposto operativo della clausola è la cessione da parte del socio di maggioranza ad un terzo della propria partecipazione, di modo che vi sia una fuoriuscita dalla società della maggior parte del capitale sociale. È evidente che, al fine di evitare manovre elusive, il diritto di drag along può esser fatto valere dal socio di minoranza anche qualora la cessione sia effettuata in più tranches, coordinate fra loro. È poi possibile fissare una percentuale del capitale sociale trasferito, al di sotto della quale il diritto di drag along non sorge. È molto importante che l’offerta fatta dal terzo individui precisamente chi sarà il cessionario reale del pacchetto azionario coinvolto dalla clausola di drag along. Espressamente debbono essere escluse forme di proposta di acquisto per sé o per persona da nominare. Come previsto a chiare lettere dal Tribunale di Milano nella recente ordinanza 31 marzo 2008, in seno al drag along è necessario creare un meccanismo procedimentale volto a proteggere il socio di minoranza dal fatto che dietro il terzo non agisca, in realtà, il socio di maggioranza, che in contrasto con il dovere di buona fede e di salvaguardia dell’altrui interesse negoziale, anziché attivare il diritto di trascinamento per non perdere una condizione di realizzo particolarmente vantaggiosa, si serva dello schermo di un terzo per ottenere l’espulsione del socio di minoranza (23). Con riferimento, poi, alle condizioni di trasferimento è opportuno che la denuntiatio sia completa in tutti i profili contenutistici al fine di consentirne una seria e consapevole valutazione. 2. Al verificarsi del presupposto oggettivo indicato, il socio di maggioranza avrà il diritto di richiedere agli altri soci di minoranza di vendere la medesima percentuale di azioni (proporzionale alla percentuale di azioni negoziata dal socio di maggioranza) al medesimo terzo cessionario alle stesse condizioni pattuite per sé. 3. Ogni socio di minoranza è obbligato a cooperare con il socio di maggioranza e ad assumere ogni iniziativa e/o comportamento che risulterà necessario per il perfezionamento della cessione al terzo acquirente. All’uopo, a semplice richiesta proveniente dal socio di maggioranza, il socio di minoranza sarà tenuto a sottoscrivere un contratto di deposito fiduciario ed una procura a vendere, nei termini e con la forma degli atti di seguito allegati alle lettere “A” e “B” al fine di perfezionare la procedura di drag along. Nota: (23) Cfr. Tribunale Milano, ordinanza 31 marzo 2008, cit., 1377; nel corpo dell’ordinanza è dato leggere a riguardo che “Pertanto certamente risulta in contrasto con la ratio e con la finalità di tutela anche di esigenze organizzative della società che una siffatta clausola persegue, la possibilità che il terzo offerente non sia «nominato», che cioè non possa stabilirsi immediatamente che il meccanismo della co-vendita è attivato in presenza di una effettiva e reale possibilità per il socio di maggioranza di dismissione della partecipazione”. Questo accorgimento non è, ad avviso di chi scrive, necessario nella formulazione della clausola di tag along, in cui il socio di minoranza non è in posizione di soggezione e conserva un margine di discrezionalità, potendo rifiutare l’offerta irrevocabile di acquisto proveniente dal terzo estraneo ove detta offerta sia corredata dalle condizioni di acquisto ritenute non convenienti ovvero il reale cessionario del pacchetto azionario non sia ex ante conoscibile. NOTARIATO N. 2/2009 165 TECNICHE CONTRATTUALI•SOCIETA’ Osservazioni Come detto, lo strumento del deposito fiduciario e della procura a vendere (conferibile anche al socio di maggioranza) consentono di includere le azioni soggette al trascinamento in una sola proposta di vendita, al fine di concludere una sola transazione complessiva. In tal modo, il titolare del diritto di drag along partecipa direttamente alla negoziazione con il terzo, non riducendosi ad un mero “accodamento”. Lo statuto fa, dunque, sorgere un obbligo di stipula in capo al socio di minoranza di un separato contratto di deposito fiduciario e di una procura a vendere. 4. Le azioni soggette al drag along saranno quindi incluse nell’unica proposta di vendita agli stessi termini e condizioni già concordate fra il socio di maggioranza ed il terzo cessionario. Osservazioni Come osservato, l’inclusione in una sola proposta contrattuale è elemento differenziale rispetto alla clausola tag along pura (salvo quanto osservato alla nota 22). 4-bis. In ogni caso il valore di cessione del pacchetto azionario detenuto dal socio di minoranza e soggetto al drag along non potrà essere inferiore al valore di liquidazione dello stesso, calcolato in base ai criteri legali previsti per il recesso, cui espressamente si rimanda. Osservazioni Come più ampiamente analizzato nell’ultimo paragrafo del presente contributo, è importante che lo statuto fissi a protezione del socio di minoranza un valore minimo per la dismissione del pacchetto azionario di spettanza; il richiamo alla disciplina del recesso fa sì che si garantisca l’equa valorizzazione dei titoli azionari detenuti e soggetti al drag along, come espressamente previsto sia dalla Massima n. 88 del Consiglio Notarile di Milano sia dal Tribunale di Milano 31 marzo 2008 in commento (che sanziona con la nullità una clausola di drag along priva di questo correttivo). La scelta redazionale in parola è dunque ispirata ad un criterio di prudenza, quanto meno in una fase - come quella attuale - di iniziale diffusione delle clausole in analisi ed in mancanza di un orientamento giurisprudenziale consolidato sul punto; non può, dunque, aprioristicamente escludersi l’inserimento di correttivi differenti voluti dalle parti, espressione del principio di autonomia statutaria, fermi restando i limiti inderogabili di legge. 5. Nell’ipotesi di trasferimento di azioni eseguito senza l’osservanza di quanto sopra prescritto, l’acquirente non avrà diritto di essere iscritto nel libro soci e non sarà legittimato all’esercizio del voto e degli altri diritti amministrativi. Osservazioni In questo modo, come già osservato, si conferisce efficacia reale alla clausola drag along inserita nello statuto. 5. La clausola bring along, ossia il “diritto a trascinare” La clausola bring along costituisce una variante della clausola drag along; essa disciplina, infatti, il diritto “di trascinare” nella negoziazione, avente ad oggetto la partecipazione di maggioranza al capitale sociale, anche le partecipazioni di altri soci. Al contrario, la clausola drag along pura attribuisce il diritto “ad essere trascinati”, ossia ad essere coinvolti in una negoziazione di trasferimento di rilevanti quote del capitale sociale (24). Più semplicemente, il beneficiario diretto di una clausola drag along è di norma il socio di minoranza, cui viene assicurata la possibilità di essere coinvolto direttamente in un cambiamento di titolarità della partecipazione rilevante; per contro, il beneficiario diretto di una clausola bring along è il socio di maggioranza, che in caso di cessione del proprio pacchetto azionario avrà la facoltà di obbligare anche il socio di minoranza (o più soci, costituenti la minoranza assembleare) a cedere il proprio. Le differenze fra le due clausole sono molto sfumate e, come sopra indicato, si evidenziano nel modo di formulazione del testo e della individuazione del soggetto titolare del diritto; non può negarsi, infatti, che la contrapposizione più frequentemente rinvenibile negli statuti (in cui spesso si utilizzano i termini drag e bring indistintamente) è quella fra diritto di tag e di bring along. Nota: (24) Nella scarna letteratura scientifica dedicata a queste clausole, va segnalato che spesso i termini drag along e bring along sono utilizzati senza riconoscere la differenza qui effettuata a fini accademici, ossia non operandosi il distinguo fra diritto attribuito alla minoranza o alla maggioranza; non si opera la distinzione nella breve nota esplicativa a firma di L. Cappucci, Clausole di covendita: Tag-Along, Piggy Back, Drag-Along, Bring-Along, consultabile sul sito www.newsmercati.it 166 NOTARIATO N. 2/2009 TECNICHE CONTRATTUALI•SOCIETA’ Tecnicamente, fra gli effetti derivanti dalla clausola di bring along vi è quello di creare in capo al socio di minoranza uno stato di soggezione. Come accennato, questa tipologia di clausola è vista con grande interesse dall’aspirante partner industriale, il quale di norma punta all’acquisto di partecipazioni rilevanti, costituenti un investimento stabile nel tempo e finalizzato alla gestione della società, con modifiche strutturali della governance. È poi evidente che l’inserimento di una clausola bring along può risultare utile nella prospettiva di una terzo acquirente che intende investire stabilmente nella società in tutte quelle situazioni in cui il socio di minoranza abbia un peso rilevante, anche a prescindere dalla misura della partecipazione al capitale. Si pensi, nell’ambito della nuova società a responsabilità limitata, il caso in cui ad un socio di minoranza sia stato attribuito, in ragione delle comprovate qualità tecnico-manageriali, un diritto di veto sulle nomine dei membri dell’organo amministrativo ovvero una facoltà di nomina rilevante. In queste ipotesi la clausola bring along rappresenta la risposta più efficace per chi intende acquistare il controllo della società-bersaglio; è stato osservato che “caso tipico è la promessa dell’acquisto di una partecipazione societaria condizionata al raggiungimento della disponibilità di un determinato quorum: in queste circostanze diviene indispensabile l’adesione degli altri partner, per cui è opportuno dotarsi preventivamente di un adeguato regolamento contrattuale” (25) ovvero di una clausola bring along, in difetto della quale si rischia di rimaner intrappolati nella società-bersaglio, senza averne di fatto il controllo. Può essere avanzata una ricostruzione dogmatica della clausola in parola. Come detto, la clausola bring along determina la nascita in capo al socio di maggioranza del diritto di trascinare il socio di minoranza nella trattativa, con beneficio indiretto del terzo acquirente (ancora) estraneo alla compagine sociale. La clausola può essere ricondotta nello schema del patto di opzione di vendita a favore del terzo condizionato. In essa si distinguono così i ruoli: il socio di minoranza, assume la veste di promittens, il socio di maggioranza quella di stipulans, mentre l’acquirente esterno ricopre il ruolo di terzo. Il patto di opzione racchiude in sé una proposta irrevocabile di vendita avente ad oggetto parte o l’intera partecipazione del socio di minoranza-promittens. L’interesse giuridicamente rilevante in capo allo stipulans è rappresentato dal far acquistare al terzo un pacchetto azionario “maggiorato”, quantitativamente sufficiente ad assicurargli la direzione della governance societaria. Detto patto di opzione a favore del terzo è però sospensivamente condizionato ad un duplice evento: – che venga ceduto il pacchetto di maggioranza (nella misura percentuale superiore alla soglia minima indicata dallo statuto) e ciò integra una condizione sospensiva casuale; – che il socio di maggioranza manifesti la volontà di vendere al terzo, dismettendo la propria partecipazione (ipotesi riconducibile nell’alveo della condizione sospensiva potestativa lecita) (26). Analisi di una clausola-tipo e commento DIRITTO DI BRING-ALONG 1. Qualora il socio di maggioranza intenda trasferire in tutto o in parte le proprie azioni ad un terzo cessionario, che abbia formulato un’offerta di acquisto di dette azioni, il socio di maggioranza ha il diritto di offrire in vendita al terzo cessionario anche un numero di azioni possedute dal socio di minoranza, nelle proporzioni calcolate secondo … [richiamo ad un sistema di calcolo come quello visto per la clausola tag along], ai medesimi termini e condizioni previsti per la vendita delle proprie azioni. Osservazioni Il diritto di bring along pone il socio di minoranza in uno stato di soggezione; detto diritto è attribuito al socio di maggioranza che può dunque trascinare il socio di minoranza nella trattativa. Note: (25) In questi termini si esprime L. Cappucci, op. cit. (26) Sul punto merita di essere riportato l’inquadramento dogmatico offerto dal citato Tribunale di Milano ordinanza 31 marzo 2008 con riferimento ad una clausola drag along (ma che, ad avviso di chi scrive, è qualificabile come bring along nella classificazione qui offerta) nella parte in cui afferma “il meccanismo statutario predetto può essere ricostruito come prevedente la concessione da parte del socio di minoranza (promittente) al socio di maggioranza (stipulante) di «un’opzione call a favore di terzo» (beneficiario determinabile in ragione della disponibilità ad acquisire con proposta irrevocabile l’intero capitale) sulla partecipazione di minoranza, sospensivamente condizionata dal fatto che lo stipulante riceva un’offerta di acquisto dell’intero capitale sociale e che il promittente non intenda esercitare il diritto di prelazione sulla quota di maggioranza”; nella nota a commento di C. Di Bitonto, cit., 1382, si analizza e confuta altresì una ricostruzione della clausola nello schema del contratto per persona da nominare (opinione ricondotta altresì ad altro autore, cfr. D. Proverbio, I patti parasociali, Milano, 2004, 72). NOTARIATO N. 2/2009 167 TECNICHE CONTRATTUALI•SOCIETA’ Lo statuto può prevedere che tutte le azioni del socio di minoranza siano suscettibili di bring along oppure può fissare una percentuale massima, da calcolarsi con un metodo matematico prestabilito (come quello sopra ipotizzato nella clausola tag along). 2. I soci di minoranza avranno l’obbligo di vendere la relativa percentuale di azioni ai medesimi termini e condizioni previsti per la vendita delle azioni del socio di maggioranza. 3. Nel caso in cui il cessionario intenda acquistare azioni che rappresentino meno del …% (… percento) dell’intero capitale sociale, al socio di maggioranza non spetterà alcun diritto di bring along. Osservazioni Il diritto di bring along sorge solo in occasione del trasferimento a terzi del pacchetto di maggioranza e garantisce di fatto al terzo acquirente la possibilità di acquistare il controllo della società, riducendo o azzerando l’influsso dei soci di minoranza. Sarebbe opportuno altresì modulare l’operatività del diritto di bring along anche per le ipotesi in cui due o più soci di minoranza si accordino per vendere congiuntamente le rispettive partecipazioni, ottenendo di tal fatta in via convenzionale una maggioranza sul capitale sociale. 4. [indicazione delle forme di comunicazione (e dei mezzi alternativi che comunque assicurino la prova dell’avvenuta ricezione) da utilizzarsi fra le parti in detta procedura, come per la clausola tag along]. Osservazioni Anche nella clausola bring along, è molto importante che l’offerta fatta dal terzo individui precisamente chi sarà il cessionario reale del pacchetto azionario coinvolto. Espressamente debbono essere escluse forme di proposta di acquisto per sé o per persona da nominare. Come previsto a chiare lettere dal Tribunale di Milano nella recente ordinanza 31 marzo 2008, è necessario creare un meccanismo procedimentale volto a proteggere il socio di minoranza dal fatto che dietro il terzo non agisca, in realtà, il socio di maggioranza, che in contrasto con il dovere di buona fede e di salvaguardia dell’altrui interesse negoziale, anziché attivare il diritto di trascinamento per non perdere una condizione di realizzo particolarmente vantaggiosa, si serva dello schermo di un terzo per ottenere l’espulsione del socio di minoranza. Con riferimento, poi, alle condizioni di trasferimento è opportuno che la denuntiatio sia completa in tutti i profili contenutistici al fine di consentirne una seria e consapevole valutazione. 4-bis. In ogni caso il valore di cessione del pacchetto azionario detenuto dal socio di minoranza e soggetto al bring along non potrà essere inferiore al valore di liquidazione dello stesso, calcolato in base ai criteri legali previsti per il recesso, cui espressamente si rimanda. Osservazioni Come più ampiamente analizzato nell’ultimo paragrafo del presente contributo, è importante che lo statuto fissi a protezione del socio di minoranza un valore minimo per la dismissione del pacchetto azionario di spettanza; il richiamo alla disciplina del recesso fa sì che si garantisca l’equa valorizzazione dei titoli azionari detenuti e soggetti al bring along, come espressamente previsto sia dalla Massima n. 88 del Consiglio Notarile di Milano sia dal Tribunale di Milano 31 marzo 2008 in commento (che sanziona con la nullità una clausola priva di questo correttivo). Anche in questo caso, come sopra indicato, la scelta redazionale è ispirata ad un criterio di prudenza, quanto meno in una fase - come quella attuale - di iniziale diffusione delle clausole in analisi ed in mancanza di un orientamento giurisprudenziale consolidato sul punto; non può, dunque, aprioristicamente escludersi l’inserimento di correttivi differenti voluti dalle parti, espressione del principio di autonomia statutaria, fermi restando i limiti inderogabili di legge. 5. L’acquisto di tutte le azioni ordinarie, possedute dal socio di maggioranza e dal socio di minoranza, offerte in vendita ai sensi del presente articolo dovrà essere contestuale. 6. Nell’ipotesi di trasferimento senza l’osservanza di quanto sopra prescritto, l’acquirente non avrà diritto di essere iscritto nel libro soci e non sarà legittimato all’esercizio del voto e degli altri diritti amministrativi. Osservazioni In questo modo, come già osservato, si conferisce efficacia reale alla clausola bring along inserita nello statuto. 6. Clausole di covendita e di trascinamento e rapporti con l’art. 2355-bis c.c. a) La risultanza delle limitazioni dal titolo azionario Come argomentato in precedenza l’inserimento nello statuto di clausole limitative della circolazione del- 168 NOTARIATO N. 2/2009 TECNICHE CONTRATTUALI•SOCIETA’ le azioni ha l’effetto di dotare le stesse di efficacia reale, rendendole opponibili erga omnes. In altri termini, il regime di circolazione “aggravato” delle azioni (o più in generale delle partecipazioni) diviene opponibile ai terzi acquirenti e consente alla società di rifiutare l’iscrizione nel libro soci del possessore ad legitimationem nell’ipotesi in cui la sua modalità di acquisto contrasti con il tenore delle clausole statutarie limitative. Questo effetto è consequenziale alla natura giuridica del titolo azionario, il quale è riconducibile nel più ampio genus del titolo di credito a letteralità attenuata, il cui contenuto è fissato in parte da fonti estranee al documento, le quali - in quanto soggette a regime di pubblicità legale - sono accessibili e conoscibili dal possessore per relationem (27). Nel caso di specie l’azione incorpora la partecipazione alla società, il cui contenuto è dato dalle clausole dell’atto costitutivo e dello statuto; nel momento in cui si inseriscono delle condizioni limitative alla circolazione delle azioni, però, la semplice pubblicità rappresentata dall’inserimento delle clausole nello statuto non è sufficiente, dovendo dette limitazioni risultare dal titolo secondo quanto dispone l’art. 2355bis, ultimo comma, del codice civile. In ragione di quanto detto, appare coerente ritenere che la nuova configurazione statutaria (e non più di mero contenuto di patto parasociale) delle clausole di covendita o di trascinamento determini anche per esse l’obbligo di adozione della formalità pubblicitaria di cui all’art. 2355-bis, ultimo comma, del codice civile (28). L’obbligo di menzione è preordinato ad impedire affidamenti incolpevoli e, dunque, può consentire a chi intende acquistare un pacchetto azionario di valutare bene i termini dell’operazione e le sue conseguenze sotto il piano giuridico ed economico; nelle ipotesi in commento, detta finalità di informazione preventiva giova astrattamente al terzo acquirente su cui si riversano le conseguenze finanziarie dell’applicazione delle clausole di covendita e di trascinamento. Non può tuttavia non sottolinearsi come l’ipotesi abbia scarso rilievo pratico, atteso che ogni operazione di acquisto di pacchetti azionari “di peso” (come quelle che costituiscono il presupposto operativo delle clausole in commento) passa necessariamente attraverso una due diligence societaria, fra cui ovviamente vi è l’analisi dello statuto e dei patti parasociali (29). b) inserimento e modifica delle clausole statutarie di covendita e trascinamento. La tesi preferibile della regola unanimistica in ragione della incidenza sui diritti soggettivi dei soci Le clausole statutarie di covendita e trascinamento possono essere introdotte in occasione della costituzione della società ovvero nel corso della vita sociale. Nulla quaestio in sede di costituzione in cui la struttura contrattuale garantisce l’esistenza di una volontà comune di tutti i soci fondatori a che siano presenti dette clausole. Più complessa è, invece, l’ipotesi di modifica dello statuto sociale, con inserimento ex novo di clausole di covendita o trascinamento. La questione, ricondotta nel più ampio alveo dell’introduzione di limiti o condizioni alla circolazione delle azioni, registra una contrapposizione storica fra giurisprudenza e dottrina. In sintesi può osservarsi che la giurisprudenza di legittimità ha tradizionalmente assunto un atteggiamento rigoroso ed ha preteso l’unanimità dei consensi a riguardo, osservando che si tratterebbe di una tipologia di clausole destinate ad incidere su diritti individuali del socio (ossia, sul suo diritto di alienare liberamente la propria partecipazione) (30); al contrario, la dottrina prevalente ed alcune isolate decisioni di Note: (27) Si veda sul punto le ampie trattazioni offerte da F. Martorano, Lineamenti generali dei titoli di credito e titoli cambiari, Napoli, 1979, 27 ss. e G. L. Pellizzi, Principi di diritto cartolare, Bologna, 1967, 154. (28) Il ragionamento è dato per assunto e costituisce il presupposto logico-giuridico della Massima n. 88 del Consiglio Notarile di Milano, nella cui motivazione è dato leggere che “il giudizio nei confronti della clausola di covendita merita nuova riflessione allorché la stessa, nelle sue varie configurazioni contenutistiche, assurga a regola statutaria. Le conseguenze che ne derivano in termini di opponibilità alla generalità dei soci, (attuali ma soprattutto futuri) ed ai terzi, esigono infatti che essa si conformi alle regole che l’ordinamento fissa per la validità delle clausole statutarie limitative alla circolazione delle partecipazioni”. (29) L’espressione due diligence è stata coniata in ambito bancario per indicare la “dovuta diligenza” che doveva contrassegnare ogni valutazione prima dell’apertura di linee di fido alle imprese. Oggi nel campo societario detta espressione inglese identifica un processo investigativo che viene messo in atto per analizzare valore e condizioni di un’azienda, o di un ramo di essa, per la quale vi siano intenzioni di acquisizione o investimento. In particolare, essa indica quell’insieme di attività svolte dall’investitore, necessarie per giungere ad una valutazione finale, analizzando lo stato dell’azienda nei suoi profili giuridici ed economici, compresi i rischi di eventuale fallimento dell’operazione e delle sue potenzialità future; la due diligence consiste nell’analisi di tutte le informazioni relative all’impresa oggetto dell’acquisizione, con particolare riferimento alla struttura societaria e organizzativa, al business e al mercato, ai fattori critici di successo, alle strategie commerciali, alle procedure gestionali e amministrative, ai dati economico-finanziari, agli aspetti fiscali e non ultimi a quelli legali. (30) Cfr. Cass. 15 luglio 1993, n. 7859, in Giur. comm., 1994, II, 644; Cass. 9 novembre 1993, n. 11057, in Foro it., 1994, I,1456; Cass. 19 agosto 1996, n. 7614, in Giur. comm., 1997, II, 580 e Cass.26 novembre 1998, n. 12012, in Giust. civ., 1999, I, 414. NOTARIATO N. 2/2009 169 TECNICHE CONTRATTUALI•SOCIETA’ merito hanno ritenuto sufficiente una introduzione a maggioranza, atteso che non potrebbe sottrarsi alla dialettica maggioritaria una materia, quale il regime di circolazione dei titoli azionari, che rappresenta sostanzialmente un profilo organizzativo della società (31). La riforma del 2003 pare aver condiviso l’orientamento espresso dalla dottrina prevalente. L’art. 2437, comma 2, lett. b), c.c. nel testo novellato attribuisce ai soci, che non abbiano concorso alla deliberazione, il diritto di recedere dalla società nel caso di approvazione di deliberazioni riguardanti l’introduzione o la rimozione di vincoli alla circolazione dei titoli azionari. Da tale disposizione emerge, dunque, che l’introduzione o la soppressione nello statuto di una clausola limitativa della circolazione delle azioni, qual è la clausola di gradimento, è adottabile con una deliberazione presa dall’assemblea straordinaria secondo le maggioranze previste per le modificazioni dell’atto costitutivo (art. 2365 c.c.) e con il rispetto delle ulteriori necessarie formalità (art. 2436 c.c.). In tale modo viene data preminenza all’interesse organizzativo posto a fondamento dell’adozione di clausole limitative della circolazione delle azioni, rispetto all’interesse del singolo socio alla libera trasferibilità delle azioni (32). A ben vedere, dunque, potrebbe conseguentemente ritenersi che anche per l’introduzione o la modifica di clausole statutarie di covendita e trascinamento (anche in ragione di quanto illustrato nel paragrafo 3 del presente lavoro) sia sufficiente la decisione adottata a maggioranza, al pari di ogni altra modifica statutaria. La soluzione dell’introduzione a maggioranza appare prima facie coerente con il sistema e dunque in armonia con i principi ispiratori della riforma, successivamente alla quale le ipotesi di richiesta di “unanimità” risultano essere circoscritte a fattispecie precise. Detta conclusione, ad avviso di chi scrive, non convince in ragione della tipologia strutturale della clausole in commento. Pertanto si cercherà di dar conto delle differenti ragioni di ordine sistematico in base alle quali pare preferibile propendere comunque per la regola unanimistica, ferma restando la consapevolezza dell’assenza di un orientamento giurisprudenziale consolidato sul punto e del livello “embrionale” di diffusione delle presenti clausole nel panorama societario italiano. (segue): l’apodittica soluzione prospettata dalla Massima I.I. 25 del Comitato Notarile del Triveneto e la motivazione quivi proposta Il Comitato Notarile del Triveneto dedica alla questione uno specifico intervento. È, infatti, dato leggere nella Massima I.I. 25 del 2006 (Limiti di validità delle clausole statutarie che obbligano determinati soci a cedere le proprie partecipazioni nel caso in cui altri soci decidano di alienare le loro) che “le clausole statutarie che impongono a determinati soci, ad esempio i soci di minoranza, l’obbligo di cedere ad un giusto prezzo (comunque non inferiore al valore determinato ai sensi dell’art. 2473 c.c.) le loro partecipazioni nel caso in cui altri soci, nell’esempio quelli di maggioranza, decidano di alienare le loro sono legittime a condizione che siano adottate con il consenso di tutti i soci” (33). La massima è sicuramente condivisibile ma non è provvista di motivazione e richiede l’unanimità dei consensi senza addurre - neanche in maniera sintetica - argomentazioni di sorta. Ad avviso di chi scrive, la regola unanimistica può essere sostenuta alla luce di alcune considerazioni di ordine sistematico. In primo luogo, le clausole tag along, drag along e bring along non esauriscono la loro funzione nel dettare una regola di tipo strutturale per la società, ma attribuiscono ora al socio di minoranza, ora al socio di maggioranza (34) dei diritti soggettivi nuovi ed ultronei rispetto alla organizzazione sociale. Esse determinano, infatti, la nascita di diritti e facoltà in capo ai singoli soggetti nella fase di contrattazione della cessione dei pacchetti azionari (o più in generale delle partecipazioni), condizionando l’esito della stessa. In altri termini, esse mutano la veste giuridica dei soggetti non in un “momento partecipatiNote: (31) In dottrina si veda in particolare G. F. Campobasso, op. cit., 246 s.; V. Meli, op. cit., 209 ss.; C. Angelici, La circolazione della partecipazione azionaria, op. cit., 203 ss. e D. U. Santosuosso, Il principio di libera trasferibilità delle azioni, Milano, 1993, 256. Per qualche pronuncia giurisprudenziale conforme si vedano Trib. Milano 22 giugno 2001, in Giur. it., 2002, 1898 e App. Milano 1° luglio 1998, in Giur. comm., 1999, II, 645. (32) A ciò si aggiunga che dalla previsione dell’art. 2437, comma 2, lett. b) e dalla formulazione dell’art. 2355-bis (in particolare, con la previsione dell’ammissibilità dell’imposizione del divieto di trasferimento delle azioni) emerge con sufficiente chiarezza l’assenza di un vero e proprio diritto individuale del socio alla trasferibilità delle proprie partecipazioni azionarie e il rilievo pressoché esclusivo dato dal legislatore alle esigenze della compagine sociale complessivamente intesa, cfr. in questi termini L. Stanghellini, op. cit., 559 ss. (33) La massima è consultabile sul sito ufficiale www.trivenetogiur.it. (34) E ciò può riconoscersi lato sensu anche in capo al terzo acquirente. 170 NOTARIATO N. 2/2009 TECNICHE CONTRATTUALI•SOCIETA’ vo e sociale”, bensì in un momento “di uscita” dalla compagine sociale. Per questo motivo, pare coerente ritenere che l’introduzione, la modifica e la soppressione di dette clausole incidano su diritti individuali e necessitino, dunque, del consenso di tutti i soci. In secondo luogo, la regola unanimistica si giustifica anche in chiave economico-finanziaria. Sarebbe, infatti, impensabile che in una operazione di venture capital in cui il socio finanziatore entra a far parte del capitale sociale di una società che intende sostenere nella fase di start-up (acquisendone con nuovi capitali una quota rilevante, ancorché di minoranza), dopo essersi assicurato - in fase di acquisizione - l’introduzione di apposite clausole tag along e drag along a protezione della sua successiva uscita dalla compagine societaria, possa subire medio tempore l’eliminazione di dette clausole con decisione assunta dalla maggioranza (ossia proprio dal partner industriale in difficoltà che il venture capitalist ha supportato finanziariamente). Ad avviso di chi scrive, l’unanimità dei consensi appare, dunque, indispensabile e si configura come elemento differenziale fra questa tipologia di clausole ed il più ampio genus delle clausole limitative della circolazione dei titoli azionari. c) il riconoscimento del giusto valore della partecipazione e la Massima n. 88 del Consiglio Notarile di Milano Per dovere di completezza va ricordato che la citata Massima n. 88 del Consiglio Notarile di Milano analizza un differente profilo che caratterizza le clausole di covendita e trascinamento, ossia la necessità di un’equa valorizzazione della partecipazione societaria obbligatoriamente dismessa. Secondo quanto affermato nella Massima (e nella motivazione) le clausole in esame, affinché possano ritenersi valide ed efficaci, devono subire un adeguato controllo caso per caso in ordine alla esatta soddisfazione patrimoniale del cedente obbligato, atteso che esse hanno come conseguenza ultima la perdita dello status di socio. Nessun problema si pone con riferimento alle clausole tag along, che - come visto nella ricostruzione dogmatica offerta - lasciano nella sostanza libero il socio di minoranza di decidere se aderire alla proposta di acquisto oppure no. Più complessa è l’ipotesi delle clausole drag along (al verificarsi delle condizioni economiche dell’offerta sopra indicate) e bring along in cui il socio di minoranza versa in uno stato di soggezione. La cartina di tornasole da utilizzarsi per effettuare detta valutazione (che in buona sostanza spetta al Notaio nell’ambito del controllo di legalità attribuitogli) risiede nel rispetto del principio della equa valorizzazione della partecipazione societaria, il quale trova chiari riferimenti testuali: – sia nell’ambito della s.p.a. in materia di azioni riscattabili, con riferimento all’art. 2437-sexies c.c. nella misura in cui si afferma che il valore di riscatto - stante il richiamo alle norme sul recesso - dovrà tener conto della consistenza patrimoniale della società e delle sue prospettive reddituali; – sia nell’ambito della s.r.l. in materia di esclusione, con riferimento all’art. 2473-bis c.c. ove si effettua il medesimo rinvio alle norme di liquidazione della partecipazione del socio in caso di recesso. La Massima (o, più precisamente, la motivazione di accompagnamento) si spinge ad effettuare una esemplificazione, riconoscendo sicura validità a quelle clausole che: a) prevedano l’obbligo di vendere i titoli azionari ad un prezzo non inferiore a quello spettante in caso di recesso; b) prevedano l’obbligo di vendere i titoli azionari (ovvero la quota di partecipazione nella s.r.l.) senza predeterminazione di un prezzo minimo, purché sia statutariamente previsto il diritto di recesso nel caso in cui il prezzo risulti, nel caso concreto, significativamente inferiore a quello che sarebbe dovuto in caso di recesso. Dovrà dunque tenersi conto anche di queste direttive nella formulazione del contenuto di una clausola di trascinamento. (segue): la posizione assunta dal Tribunale di Milano con l’ordinanza 31 marzo 2008 ed il rischio della nullità della clausola Il Tribunale di Milano con la recente ordinanza 31 marzo 2008 analizza i rapporti fra la clausola statutaria di drag along (ma le conclusioni possono essere estese anche alla clausola bring along) e le forme di tutela del socio di minoranza che debbono essere approntate a livello redazionale nella carta statutaria. I risvolti di interesse notarile sono molti e meritano di essere analizzati partitamente. In primo luogo, il Tribunale sottolinea come il diritto di trascinamento, determinato dalla clausola drag NOTARIATO N. 2/2009 171 TECNICHE CONTRATTUALI•SOCIETA’ along, assicura al socio di maggioranza un diritto di uscita dalla compagine sociale che si realizza attraverso l’imposizione al socio di minoranza della dismissione totale o parziale della propria partecipazione; in altri termini, la clausola in esame, seppur volta a perseguire i meritevoli fini sopra indicati in chiave economico-finanziaria, importa una radicale limitazione dell’autonomia negoziale e del diritto di proprietà del socio di minoranza, cosa che “nel quadro del nostro ordinamento anche costituzionale, può essere legittima solo a certe condizioni, idonee ad evitare il rischio che l’esercizio di un siffatto diritto si traduca nell’ingiustificata espropriazione del socio di minoranza, o nell’abusiva estromissione dello stesso da parte del socio di maggioranza”. Volendo chiarire meglio il concetto espresso dal giudice di merito, quand’anche l’introduzione di una clausola di drag along (o di bring along, si ripete, nella classificazione operata in questa sede) sia frutto dell’unanime decisione dei soci e, quindi, sia espressione di una libertà negoziale del singolo che si traduce anche nella possibilità di ammettere una auto-limitazione del proprio diritto di proprietà, ciò nonostante “l’obbligo di co-vendita deve trovare un congruo contrappeso negoziale in un’equa valorizzazione della partecipazione che è previsto sia obbligatoriamente dismessa” (35). Con due evidenti conseguenze operative in ordine ai profili di validità della clausola: a) da un lato, la clausola non deve rappresentare un larvato strumento giuridico che possa consentire forme di esclusione ad nutum del socio di minoranza, ad opera di quello di maggioranza; b) dall’altro, in accordo a quanto espresso dalla citata Massima n. 88 del Consiglio Notarile di Milano, la clausola deve essere strutturata in modo tale da evitare che la co-vendita determini in concreto una espropriazione a danno del socio di minoranza (che economicamente “subisce” gli effetti della clausola di drag along) della differenza fra il valore effettivo delle azioni alienande ed il valore convenzionalmente fissato dal socio di maggioranza per il trasferimento delle stesse. Il pericolo per il socio di minoranza è evidente, nella misura si comprende come la fissazione del prezzo di vendita sia fatta ad opera del socio di maggioranza e rispetto alla quale il socio di minoranza non ha margine di intervento (la clausola di drag along rischia di divenire così “una clausola di vendita forzata” ad un prezzo stabilito da un soggetto diverso dal titolare delle azioni stesse (36)). La soluzione di queste problematiche può essere individuata a livello redazionale, atteso che è nello statuto stesso che possono essere individuati quegli appositi correttivi volti a garantire validità alla clausola, coniugando ad un tempo l’esigenza economico-finanziaria racchiusa nel meccanismo del drag along (e del bring along) con il rispetto dei principi cardine del nostro sistema societario, non ultimo quello della tutela patrimoniale della partecipazione del socio e della non arbitraria attribuzione del valore dei titoli azionari. Sotto il profilo indicato sub a), ad avviso di chi scrive, la risposta statutaria più adeguata pare risiedere come già accennato nella nota di commento alla clausola-tipo di drag along - nell’individuazione precisa del cessionario reale del pacchetto azionario coinvolto dalla clausola di co-vendita, di modo che il socio di minoranza sia protetto dal rischio che dietro il terzo non agisca, in realtà, il socio di maggioranza, che in contrasto con il dovere di buona fede e di salvaguardia dell’altrui interesse negoziale, anziché attivare il diritto di trascinamento per non perdere una condizione di realizzo particolarmente vantaggiosa, si serva dello schermo di un terzo per ottenere l’espulsione del socio di minoranza. Sotto il profilo indicato sub b), lo statuto può intervenire inserendo un adeguato criterio di valutazione del pacchetto azionario che il socio di minoranza è “costretto” a dismettere. In particolare, in adesione a quanto affermato dal giudice milanese, può esser prevista nella clausola in commento una soglia minima di prezzo di acquisto della partecipazione del socio di minoranza, da calcolarsi per relationem con i criteri Note: (35) In questi termini si esprime ancora il Tribunale di Milano con ordinanza 31 marzo 2008, cit., 1376; con particolare riferimento alla fattispecie statutaria analizzata in concreto, il giudice di merito precisa altresì che l’attribuzione al socio di minoranza del diritto di prelazione sul pacchetto di maggioranza oggetto di cessione verso il terzo, quale alternativa all’obbligo di co-vendita, non possa costituire adeguata forma di tutela atteso che questo correttivo non può garantire “la congruità del prezzo di dismissione che resta ancorata a valutazioni soggettive ed arbitrarie del socio di maggioranza”, senza considerare che un diritto di prelazione così strutturato si profila “come una costrizione della libertà negoziale del socio di minoranza, obbligato ad acquistare la quota di maggioranza - e dunque ad un notevole impiego di risorse finanziarie - tutte le volte che non ritenga conveniente la cessione della sua partecipazione al prezzo offerto”. (36) La paternità di questa efficace definizione è di M. Bernardi, Gli aspetti legali, in A. Gervasoni - F. Sattin (a cura di); Private equità e venture capital, Manuale di investimento nel capitale di rischio, Milano, 2008, 437. Nello schema anglosassone della clausola in commento (ed oggetto di censura da parte del Tribunale di Milano) il prezzo di acquisto del pacchetto azionario del socio di minoranza è, infatti, pari a quello contenuto nella proposta di acquisto formulata dal terzo con il socio di maggioranza; il socio di minoranza subirebbe quindi una sorta di “arbitraggio di parte” su un elemento essenziale del contratto, qual è il prezzo (ipotesi discussa anche sotto il profilo civilistico puro, cfr. E. Gabrielli, Il contenuto e l’oggetto, in E. Gabrielli (a cura di), I contratti in generale, I, Torino, 2006, 861-864). 172 NOTARIATO N. 2/2009 TECNICHE CONTRATTUALI•SOCIETA’ utilizzabili in ipotesi di recesso (artt. 2437-ter e quater c.c.) (37). In tal modo, si garantisce ad un tempo la protezione del socio da abusi della maggioranza e l’equa valorizzazione della partecipazione da questi detenuta (e ciò si traduce nell’apposizione di una formula finale di salvaguardia sul prezzo di cessione, per cui si rinvia alle note di commento alla clausola-tipo di drag along). La scelta redazionale così proposta è quindi ispirata ad un criterio di prudenza, quanto meno in una fase come quella attuale - di iniziale diffusione delle clausole in analisi ed in mancanza di un orientamento giurisprudenziale consolidato sul punto; non può, dunque, aprioristicamente escludersi l’inserimento di correttivi differenti voluti dalle parti, espressione del principio di autonomia statutaria, fermi restando i limiti inderogabili di legge. Sia consentita una riflessione finale. Allo stato dell’arte, può dirsi che l’equa valorizzazione della partecipazione sociale venga consacrata come principio cardine insito nel nostro ordinamento societario, cui tutte le clausole “aliene” di matrice anglossassone - sovente importate acriticamente negli statuti societari - devono sottostare. Questo principio, quindi, non solo può essere ritrovato in numerose e distinte norme codicistiche (38), ma essendo diretta conseguenza dei principi costituzionali contenuti negli artt. 24 e 42 Cost. sembra esprimere una linea direttiva che dovrà essere rispettata, non solo nelle ipotesi espressamente previste dal codice civile e dalle leggi speciali, ma ogni qualvolta un membro della compagine sociale si trovi nello stato di soggezione di subire la fuoriuscita dal consesso societario per iniziativa altrui, siano essi soci ovvero terzi (proprio come può avvenire nei meccanismi di drag along e bring along). Note: (37) In ordine ai profili problematici del calcolo del valore di liquidazione in caso di recesso, si vedano le considerazioni svolte nel corposo contributo di P. M. Iovenitti, Il nuovo diritto di recesso: aspetti valutativi, in Riv. soc., 2005, 459 ss. (38) A mero titolo esemplificativo si indicano per le società di persone, l’art. 2289 c.c. in relazione agli artt. 2284 c.c. (morte) e 2285 c.c. (esclusione); per le società azionarie (s.p.a. e s.a.p.a.) l’art. 2357 c.c. (acquisto di azioni proprie), nonché l’art. 2437 ter c.c. in relazione all’art. 2437 sexies c.c. (riscatto); per la società a responsabilità a limitata, l’art. 2473 c.c. correlato all’art. 2473 bis c.c. (esclusione); per le società quotate in mercati regolamentati, l’art. 111, D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58. In dottrina si veda V. Salafia, Squeeze out statutario, in Le società, 2007, 1450 ss.). NOTARIATO N. 2/2009 173 ARGOMENTI•OBBLIGAZIONI E CONTRATTI Nullità del contratto La recuperabilità del contratto nullo di SALVATORE MONTICELLI Le nullità cd. di protezione hanno riaperto il dibattito sul recupero del contratto nullo e sulla tenuta del divieto di convalida contenuto nell’art. 1423 c.c. Esse, poste prioritariamente in funzione di tutela della parte debole, sono meno distruttive delle nullità di diritto comune poiché il mantenimento del contratto, deprivato delle clausole vessatorie, è funzionale all’obiettivo di protezione. In quest’ottica e con questa consapevolezza vanno conformate le regole di comportamento degli operatori del diritto e riconsiderato, senza apriorismi, il regime delle responsabilità. (*) I. Il recupero del contratto: il problema nel divenire del quadro normativo di riferimento Il termine “recupero”, come si sottolineava da Pietro Rescigno nella presentazione al libro di Alba Negri dal titolo “Il recupero dell’atto nullo mediante esecuzione” (1), evoca immagini di navi in pericolo e di vaganti relitti; se riferito al contratto nullo il termine, benché atecnico, generico e polisenso, senz’altro induce, sul piano descrittivo, l’idea del superamento di una condizione di negatività dell’atto di autonomia privata. In altre parole, se si vuole rimanere nell’ambito della suggestiva metafora, il termine recupero suggerisce un approdo del contratto nullo nel sistema giuridico e, così, il superamento delle acque infide e delle nebbie dell’irrilevanza giuridica. Senonché la disciplina civilistica della nullità consegnataci dal codice civile esclude, in ragione dell’interesse pubblico da essa tutelato e, dunque, del diverso fondamento sostanziale rispetto all’annullabilità, la convalida del contratto nullo, benché, nella seconda parte dell’articolo 1423 c.c., introduce una clausola di salvezza: “se la legge non dispone diversamente”. A tal riguardo è noto l’orientamento assolutamente prevalente che riduce l’inciso ad una mera formula di rinvio, priva di un reale contenuto normativo, pur non negando che una serie di norme e comportamenti della prassi aprono brecce significative verso il recupero del contratto nullo nel sistema giuridico. Con argomentazioni convincenti e condivisibili si afferma anche, però, che il recupero non necessariamente si traduce in una eccezione al divieto di convalida del contratto viziato da nullità, trovando piuttosto migliore collocazione tra le eccezioni alla regola non scritta della assoluta improduttività di effetti di esso (2). Le recenti profonde modifiche al nostro sistema giuridico e, tra esse, la progressiva destrutturazione della categoria della nullità realizzatasi negli ultimi quindici anni a seguito delle incursioni della legislazione di derivazione comunitaria, sono state innesco fecondo di un rinnovato interesse per lo studio della nullità del contratto: in particolare di quelle forme di nullità, relativa e parziale, che 174 NOTARIATO N. 2/2009 non erano certo al centro dell’impianto codicistico, imperniato, piuttosto, sulla nullità assoluta. In tale contesto si è riaperto il dibattito sul recupero del contratto nullo e sulla tenuta del divieto di convalida contenuto nell’art. 1423 c.c. (3). Significativamente si è rilevato che le nuove nullità di derivazione comunitaria se “si presentano più frequenti e pervasive delle invalidità di diritto comune, per altro verso risultano meno drammatiche ed irreversibili” (4), e può aggiungersi ulteriormente che le nuove nullità non sono più tanto del contratto, quanto nel contratto. Le ragioni di tali affermazioni risiedono nella constatazione che nella legislazione di protezione, il legislatore comunitario prima, quello nazionale poi tendono a far sì che alla declaratoria di nullità del patto o della clausola pregiudizievole per il soggetto destinatario della normativa di protezione, non debba necessariamente fare seguito la invalidazione dell’intero contratto; il fine è quello di evitare che questi sia stretto tra due alternative comunque pregiudizievoli date o dall’esecuzione della fattispecie viziata, con abdicazione implicita, dunque, a fare valere la nullità pur di assicurarsi i beni od i servizi oggetto del contratto di cui ha necessità, o dalla rinuncia in toto al negozio, a seguito della declaratoria di nullità, con consequenziale rinuncia alla prestazione, al bene, al servizio oggetto dello scambio. Il legislatore, per sottrarre il soggetto protetto dalla rifeNote: (*) Lo scritto riproduce, con l’aggiunta di talune integrazioni e delle note, la relazione tenuta al Convegno di Studi, tenutosi in Napoli nei giorni 24-25 ottobre 2008, sul tema: “Il notaio tra regole di comportamento e regole di validità”. (1) Monografia edita in Napoli, per i tipi della Jovene, nel 1981. (2) Mantovani, Le nullità e il contratto nullo, in Trattato del contratto diretto da V. Roppo, a cura di Aurelio Gentili, Milano, 2006, 139. (3) In particolare si segnala la monografia di Pagliantini, Autonomia privata e divieto di convalida del contratto nullo, Torino, 2007; ma vedi, anche, Polidori, Nullità relativa e potere di convalida, in Rass. dir. civ., 2003, 4, 931 ss. (4) Roppo, Il contratto del 2000, Torino, 2002. ARGOMENTI•OBBLIGAZIONI E CONTRATTI rita rigida alternativa tra due scelte che, in ogni caso, si sarebbero rilevate negatorie dell’obiettivo di protezione, propende, dunque, per conformare la nullità, modificandone in due punti salienti la disciplina relativa: ciò avviene da un lato negando (anche se non sempre espressamente) l’applicazione alle nullità di protezione della regola dettata dall’art. 1419, comma 1, c.c., di modo che la sanzione civilistica non impedisca la conservazione del valore impegnativo dell’atto a prescindere dallo stralcio che debba farsi di una parte del suo contenuto (5), dall’altro circoscrivendo la legittimazione all’azione di nullità al solo contraente destinatario della normativa di protezione. Quanto al primo profilo d’innovazione lo strumento utilizzato è l’introduzione nel nostro ordinamento della nullità parziale cd. necessaria: essa, nel sancire che il contratto rimane valido per il resto, diviene negatoria del potenziale distruttivo dell’intero contratto che potrebbe conseguire all’applicazione del comma 1 dell’art. 1419 c.c. e, nel contempo, appare estranea anche al comma 2 dell’articolo citato considerato che la esclusione della nullità totale è sancita benché non vi sia sostituzione automatica della clausola nulla con una norma imperativa che disciplina positivamente la stessa materia presa in considerazione dalla clausola viziata. Quanto al secondo profilo, coerentemente con la finalità conservativa del contratto e, dunque, con l’esigenza di dare prioritaria attuazione agli interessi di protezione sottesi alla prevista nullità, vi è la previsione della legittimazione relativa, circoscritta al solo destinatario della normativa di protezione, a far valere la sanzione civilistica. Si salda, così, un binomio che, per lo più (6), connota le nullità di protezione ove la nullità parziale necessaria si coniuga con la legittimazione relativa a farla valere, nell’obiettivo della conservazione del contratto perché la sua cancellazione non sarebbe funzionale all’attuazione dell’interesse prioritariamente protetto. In questo contesto, profondamente diverso rispetto a quello che connota le finalità e, di conseguenza, la disciplina della nullità tradizionale, anche la prevista rilevabilità d’ufficio, pure contemplata per le nullità di protezione, deve, qualora si accompagni alla previsione della legittimazione relativa a fare valere la nullità, conformarsi agli obiettivi di tutela tenuti presenti prioritariamente dal legislatore, e, dunque, alle esigenze di diritto sostanziale desumibili dalla ratio delle nullità in questione. Il giudicante dovrà, pertanto, limitare l’esercizio dei suoi poteri officiosi laddove la declaratoria di nullità della clausola appaia in concreto pregiudizievole per il destinatario della normativa in questione o, addirittura, sia da questi non voluta. In tali casi il giudice non dovrà rilevare d’ufficio la nullità perché altrimenti tradirebbe lo spirito della legge sacrificando i preminenti e concreti profili di protezione dell’interesse del consumatore all’astratta tutela dell’interesse pubblico, obiettivo quest’ultimo che, seppure è sotteso a qualsiasi previ- sione di nullità (tradizionale od anomala), appare in quelle cd. di protezione in posizione subordinata rispetto alla finalità di tutela in concreto dell’interesse del soggetto destinatario della protezione (7). Il cambio di prospettiva rispetto alle nullità tradizionali del codice civile, congegnate anche sotto il profilo della relativa disciplina in modo tale da risultare neutrali rispetto agli interessi particolari dei contraenti, è, dunque, netto e radicale e sottende una chiara scelta di politica legislativa in funzione di una graduatoria degli interessi tutelati, ove l’interesse pubblico non si pone sempre e comunque al vertice di essa. Tale graduatoria Note: (5) Passagnoli, Le nullità speciali, Milano, 1995, 217 e 229. (6) Il binomio cui si fa cenno nel testo trova, ad esempio, una rilevante eccezione, sotto il profilo della previsione della nullità totale del contratto, nella norma (art. 23, comma 1) contenuta nel T.U.F. secondo la quale l’inosservanza della forma scritta per i contratti relativi alla prestazione dei servizi di investimento e accessori comporta la nullità dell’intero contratto, benché essa possa essere fatta valere dal solo cliente (art. 23, comma 3). Analogamente ai sensi dell’art. 30, comma 7, del T.U.F., l’omessa indicazione della facoltà di recesso nei moduli o formulari comporta la nullità dei relativi contratti che può essere fatta valere solo dal cliente. La ratio della norma, com’è noto, è chiaramente volta alla tutela degli investitori nei loro rapporti con gli intermediari finanziari ed a garantire la trasparenza e correttezza dei comportamenti e la sana e prudente gestione dei soggetti abilitati. Il termine collocamento utilizzato dall’art. 30 deve essere interpretato in senso ampio (vedi, tra le altre, Trib. Bologna 3 maggio 2007, in Corr. merito, 2007, 8-9, 998 ss.), riguardando ogni forma di vendita di titoli mobiliari, atteso che tale norma disciplina il collocamento presso il pubblico di servizi di investimento la cui nozione si desume dall’art. 1, comma 5, T.U.F. che comprende, fra l’altro, la negoziazione, il collocamento nonché la ricezione e la trasmissione di ordini (cfr. Trib. Parma 17 gennaio 2006, in Nuovo dir., 2006, 823 s.s.). Giova evidenziare che, a differenza di quanto può accadere per i contratti di finanziamento, nelle ipotesi di cui innanzi facilmente la caducazione dell’intero contratto sarà funzionale all’interesse dell’aderente, il quale vedrà aumentate le possibilità di recupero (immediato) del capitale. Ulteriore ipotesi in cui la legittimazione relativa all’azione di nullità non si sposa con una nullità parziale, bensì con una nullità totale del contratto, si rinviene nell’art. 67 septies decies C.d.c., in materia di commercializzazione a distanza di servizi finanziari. La norma così stabilisce: “Il contratto è nullo, nel caso in cui il fornitore ostacola l’esercizio del diritto di recesso da parte del contraente ovvero non rimborsa le somme da questi eventualmente pagate, ovvero viola gli obblighi di informativa precontrattuale in modo da alterare in modo significativo la rappresentazione delle sue caratteristiche. La nullità può essere fatta valere solo dal consumatore e obbliga le parti alla restituzione di quanto ricevuto”. Il richiamato binomio trova invece, sotto il diverso profilo della legittimazione assoluta a fare valere nullità parziali di protezione, eccezioni nella novellata disciplina del contratto usurario, ove la nullità parziale contemplata dall’art. 1815, comma 2, c.c., non esclude la legittimazione assoluta a fare valere detta nullità nonché la rilevabilità d’ufficio di essa senza i limiti conformativi del potere del giudicante all’interesse del contraente debole. Analogamente, più di recente, gli artt. 7 e 8 del D.L. 31.01.2007, n. 7, convertito, con modificazioni, nella L. n. 40/2007, contemplano ipotesi di nullità parziale necessaria senza specificare se la legittimazione a fare valere tali nullità sia assoluta o, invece, sia da riconoscersi al solo cliente della banca, come, invero, dovrebbe desumersi da un’interpretazione in chiave teleologica delle norme in oggetto. (7) Sul punto, per maggiori approfondimenti, si rinvia a quanto dallo scrivente già esposto nei saggi dal titolo: Nullità, legittimazione relativa e rilevabilità d’ufficio, in Riv. dir. priv., 2002, 4, 685 ss.; Limiti sostanziali e processuali al potere del giudicante ex art. 1421 c.c. e le nullità contrattuali, in Giust. civ., 2003, II, 95 ss. NOTARIATO N. 2/2009 175 ARGOMENTI•OBBLIGAZIONI E CONTRATTI è, come si è detto, rispecchiata da una mutata disciplina ove, se da un lato il mantenimento del contratto emendato dalle clausole nulle è funzionale alla salvaguardia del preminente interesse tutelato dalle nullità di protezione, dall’altro la legittimazione relativa all’azione ed i limiti conseguenti alla rilevabilità d’ufficio, che tale circoscritta legittimazione impone, sembrerebbero aprire la via ad un pieno recupero dell’intero contratto nullo, quale atto di autonomia privata, nel sistema. Quanto ciò consenta di affermare un progressivo tramonto del principio d’insanabilità del contratto nullo, caparbiamente sostenuto anche dal sottoscritto per le nullità codicistiche (8), in favore, piuttosto, di un approdo graduale verso un’inedita tendenziale convalidabilità del contratto e/o del patto negoziale nullo qualora la nullità possa ascriversi tra quelle di protezione, è questione che si svilupperà nelle prossime pagine. Parimenti si affronterà il diverso profilo problematico della recuperabilità nel sistema del contratto nullo laddove la nullità che lo connota rientri tra quelle cd. tradizionali, avendo fin d’ora cura di evidenziare che i termini recupero e convalida non solo non devono affatto considerarsi sinonimi, costituendo peraltro l’uno un termine polisenso ed atecnico l’altro un termine tecnico, ma indicano vicende relative al contratto nullo che nel primo caso ne consente sì un’utilizzazione nel sistema ma senza che ciò ne comporti una sanatoria, nel secondo caso, viceversa, realizza una piena funzione stabilizzatrice del programma negoziale voluto dalle parti. Infine, si darà conto, sia pure solo con qualche esempio, del recupero da parte della giurisprudenza di taluni effetti del contratto nullo benché tale favor contractus mal si concilia con una lettura rigorosa delle norme. II. I limiti al recupero del contratto viziato da nullità assoluta Il cd. dogma dell’insanabilità del contratto nullo, pervicacemente sostenuto in dottrina quantomeno fino all’epifania dello scorso millennio, dunque prima della destrutturazione della categoria della nullità, traeva coerente fondamento, nonostante la citata apertura normativa contenuta nella riserva “se la legge non dispone diversamente” di cui all’art. 1423 c.c., nella circostanza che le nullità assolute costituiscono rimedi posti a presidio di interessi generali, meglio direi pubblici e, dunque, sottratti alla disponibilità delle parti. Indisponibilità che trova riscontro nel legame forte tra la regola generale dell’inconvalidabilità del contratto nullo, della legittimazione diffusa a fare valere il rimedio e quella della rilevabilità di ufficio della nullità; è evidente, infatti, che se nella ricorrenza del contratto annullabile la titolarità del potere di consolidare l’efficacia dell’atto va di pari passo con la natura individuale dell’interesse protetto e, di conseguenza, con la legittimazione riservata che connota l’azione di annullamento, laddove, invece, si prospetti una causa di nullità assoluta del contratto la natura pubblica dell’interesse tu- 176 NOTARIATO N. 2/2009 telato giustifica appieno il divieto di consolidamento dell’efficacia dell’atto pregiudizievole per l’ordinamento e, dunque, la legittimazione allargata a far valere la nullità a chiunque vi abbia interesse nonché l’attribuzione al giudice del potere officioso di rilevarla. In questa prospettiva, riferibile a tutte le ipotesi di nullità assoluta, indipendentemente se codicistiche o contenute nelle leggi speciali anche se di protezione, si spiega come neppure l’esecuzione spontanea del contratto nullo importi convalida e parimenti sia esclusa l’ammissibilità di una rinuncia all’azione di nullità, altrimenti elusiva del divieto di convalida previsto nella prima parte dell’art. 1423 c.c. (9). La stessa previsione della transigibilità relativa ad un titolo nullo non può perciò leggersi in chiave di sanatoria di esso, ciò nella considerazione della natura necessariamente novativa della transazione contemplata dall’art. 1972 c.c. ove l’accordo transattivo si sostituisce appieno, accantonandolo, al contratto originario viziato da nullità relativamente al quale è sorta la controversia (10). È ben vero, però, che se, dalla dottrina meno recente, tali considerazioni venivano spinte alle più estreme conseguenze per cui si affermava che la nullità relegava l’atto nullo al di fuori di ogni ambito giuridico, in ciò che è irrilevante per il diritto, quid facti privo di conseguenze giuridiche, sintesi di determinazioni tutte negative (11), nei più recenti contributi ci si discosta significativamente da conclusioni così radicali. Infatti, se è innegabile che il contratto nullo è rifiutato dalla norma che prescrive i requisiti per la validità dell’atto ciò non significa che esso non possa essere preso in considerazione da norme diverse (12), che gli attribuiscano una posizione nel sistema, altra certamente da quella dell’atto valido, idonea a determinare, sia pure con il concorso di ulteriori elementi, una serie di conseguenze giuridiche (13). Note: (8) Monticelli, Contratto nullo e fattispecie giuridica, Padova, 1995, passim. (9) Mantovani, Il recupero del contratto nullo, cit., 137-138. (10) Sul punto sia dato ancora rinviare a Monticelli, Contratto nullo e fattispecie giuridica, cit., 108-109, ove si evidenzia che, relativamente al contratto nullo, non può che ipotizzarsi il sopravvenire di una transazione appieno innovativa altrimenti, nel caso di transazione non novativa, l’accordo transattivo finirebbe per fondersi con il contenuto dettato dalla fonte preesistente la cui invalidità renderebbe inutile la transazione, postasi, appunto, come fonte complementare. (11) Cfr., tra gli altri, Fedele, La invalidità del negozio giuridico di diritto privato, Torino, 1943, 31 ss.; Pugliatti, Abuso di rappresentanza e conflitto di interessi, in Riv. dir. comm., 1936, I, 17; Ferrari, Inesistenza e nullità del negozio giuridico, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1958, I, 514 ss., che, nell’impostare il ragionamento in termini di “validità - nullità” del contratto, non sfuggono all’alternativa “essere - non essere” dell’atto di autonomia, e, pertanto, negano anche la ragione d’essere di ogni distinzione tra inesistenza e nullità. (12) Cfr. le interessanti riflessioni di Irti, Concetto giuridico di “comportamento” e invalidità dell’atto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2005, 1055. (13) Cfr. Monticelli, Contratto nullo e fattispecie giuridica, cit., 47 ss. e passim. ARGOMENTI•OBBLIGAZIONI E CONTRATTI In questa diversa ottica si accredita la possibilità non della sanatoria del contratto nullo bensì del recupero di esso al sistema in una prospettiva di superamento non già della regola generale dell’insanabilità della nullità di cui all’art. 1423 c.c. quanto, piuttosto, della regola non scritta di una pretesa radicale ed assoluta inefficacia del contratto nullo che lo relegherebbe nell’ambito angusto dell’irrilevanza giuridica. A tal riguardo gli artt. 2126, 2652, n. 6 e 799 c.c., per limitarsi al contratto, sono norme emblematiche che contemplano il contratto nullo quale elemento essenziale di più complesse figure juris, come frammento necessario di fattispecie complesse, nelle quali svolge un ruolo precipuo per la produzione degli effetti da esse originati (14). Non può essere questa la sede per dare conto, sia pure solo per punti salienti, delle approfondite e spesso tormentate riflessioni della dottrina circa la riconducibilità delle ipotesi in questione nel fenomeno della sanatoria del contratto nullo o, piuttosto, come non solo chi scrive ritiene, nell’ambito sostanzialmente diverso del recupero di taluni effetti del contratto nullo nell’ambito di una dinamica effettuale che trae origine da fattispecie complesse. Sembra piuttosto sufficiente rilevare che in nessuna delle ipotesi normative menzionate il contratto nullo appare da solo idoneo a produrre anche solo parte degli effetti programmatici voluti dai contraenti; perché ciò si verifichi è necessario che esso sia inserito in un ciclo formativo irregolare di cui diviene presupposto e pietra d’angolo. D’altra parte se ci si sofferma sulla funzione della convalida riferita al contratto annullabile si dovrà convenire che essa, indipendentemente dalla forma espressa o tacita attraverso la quale viene attuata, è essenzialmente conservativa del vincolo: rende cioè il contratto inattaccabile, pienamente e stabilmente produttivo di tutti gli effetti che dalla sua stipulazione era già idoneo a produrre. In realtà più che sanare essa, riferendosi ad una fattispecie già produttiva di effetti (in realtà valida), ha funzione stabilizzatrice degli stessi e del programma negoziale voluto dalle parti. Se si vuole essa sana l’instabilità. Ebbene, è di tutta evidenza che l’anzidetta funzione, propria della convalida, non è riferibile al contratto viziato da nullità assoluta, neppure se esso sia inserito come frammento di una fattispecie complessa. Ad esempio, per rimanere alle ipotesi normative sopra citate, è agevole osservare che nella fattispecie disciplinata dall’art. 2126 c.c., cui di recente è stata avvicinata l’ipotesi contemplata dall’art. 2, comma 2, L. n. 192/98, il recupero della giuridicità del rapporto di lavoro, malgrado la nullità del relativo contratto, è circoscritto al periodo in cui detto rapporto abbia avuto esecuzione; il che significa che il contratto, in quanto nullo, resta inidoneo a fondare obbligazioni a carico delle parti per il futuro (15); dunque, non v’è alcuna convalida e, neppure, una sanatoria, al più un recupero parziale degli effetti del contratto nullo. Pari considerazioni valgono per la citata norma in mate- ria di subfornitura che, anzi, ha portata ancora più circoscritta; essa dispone che, in caso di nullità per carenza di forma scritta del contratto, il subfornitore ha comunque diritto al pagamento delle prestazioni già effettuate ed al risarcimento delle spese sostenute in buona fede ai fini dell’esecuzione del contratto. Com’è evidente la disposizione, nel salvaguardare esclusivamente il diritto del subfornitore al pagamento delle prestazioni già effettuate, non determina, a differenza dell’art. 2126 c.c., un più ampio recupero anche degli altri effetti negoziali relativi al rapporto comunque eseguito (16). È appena da sottolineare che, anche in tal caso, il contratto di subfornitura, carente di forma scritta, rimane nullo ed è, perciò, inidoneo a costituire obbligazioni tra le parti per il futuro. Pure in detta ipotesi, dunque, non può ravvisarsi un’eccezione al divieto di convalida di cui all’art. 1423 c.c. Ad analoghe conclusioni si perviene a proposito di un’altra disposizione in tema di nullità di protezione: ci si riferisce all’art. 67 septies decies C.d.c., in tema di commercializzazione a distanza di servizi finanziari ai consumatori. La norma prevede che la nullità del contratto non escluda, qualora esso sia un contratto di assicurazione, l’obbligo per la Compagnia, benché tenuta alla restituzione dei premi pagati, “di adempiere alle obbligazioni concernenti il periodo in cui il contratto ha avuto esecuzione” nonché l’irripetibilità degli indennizzi e delle somme “eventualmente corrisposte dall’impresa agli assicurati e agli altri aventi diritto a prestazioni assicurative”. Anche in tale ipotesi il recupero di taluni effetti del contratto di assicurazione nullo, per il periodo in cui esso abbia comunque avuto esecuzione, non ne determina certo la sanatoria né, tantomeno, la convalida. Quanto alla fattispecie contemplata dall’art. 2652, n. 6, c.c., nonostante comunemente ma impropriamente si discorra al riguardo di pubblicità sanante, non può sfuggire che tale previsione, con la finalità di tutelare la sicurezza del traffico giuridico nonché l’acquisto in buona fede del terzo, si limita a fare salvi alcuni atti derivati dal contratto nullo purché ricorrano determinate condizioni (17); resta però comunque escluso che il conNote: (14) A. ed op. ult. cit., 51. (15) Sul punto, per maggiori approfondimenti ed indicazioni bibliografiche, si rinvia a Monticelli, Contratto nullo e fattispecie giuridica, cit., 152 ss. (16) L’art. 2, comma 2, L. n. 192/1998 circoscrive al diritto al pagamento delle prestazioni effettuate dal subfornitore gli effetti fatti salvi dall’esecuzione del contratto nullo perché carente di forma scritta; verranno, pertanto, travolte dalla nullità le pattuizioni accessorie al contratto, quali, ad esempio, quelle relative agli obblighi di esclusiva od a licenze di diritti di proprietà industriale. (17) Si privilegia la posizione del terzo che, in buona fede, ha fatto affidamento sulla validità dell’atto da cui deriva il suo ulteriore acquisto; affidamento pienamente giustificato sia dal titolo viziato o difettoso trascritto sia dall’inerzia che si protrae nel tempo del titolare delle azioni volte ad invalidare il contratto. NOTARIATO N. 2/2009 177 ARGOMENTI•OBBLIGAZIONI E CONTRATTI tratto nullo acquisti validità ed efficacia tra le parti (ad esempio non obbliga al pagamento del prezzo) o nei confronti di terzi diversi dall’avente causa in buona fede di colui che abbia acquistato diritti reali sui beni immobili in base ad un contratto nullo. D’altra parte, benché non possa essere questa la sede neppure per riferire i termini dell’articolato dibattito, è quantomeno dubitabile che l’acquisto del diritto da parte del terzo in buona fede costituisca un effetto prodotto dall’atto negoziale compiuto dal non dominus con la conseguenza che la vicenda traslativa relativa al bene debba ritenersi realizzata al momento in cui il negozio dispositivo si è perfezionato, potendosi, invece, diversamente ritenere che il titulus adquirendi rilevi solo quale elemento (18) di una fattispecie complessa al cui completamento (trascorsi, dunque, cinque anni senza che sia stata trascritta la domanda di nullità) è subordinato l’effetto traslativo. Considerazioni analoghe a quelle fin qui svolte circa l’insussistenza di eccezioni al divieto di convalida del contratto viziato da nullità assoluta si traggono anche dalla disciplina dettata dall’art. 799 c.c., in tema di conferma di donazioni nulle. Basterà al riguardo evidenziare che la conferma effettuata da uno dei legittimati all’azione di nullità potrebbe essere del tutto vanificata dalla successiva impugnativa dell’atto effettuata da un altro soggetto comunque interessato alla caducazione dell’attribuzione liberale (19). Detto pericolo non sussiste in ipotesi di convalida del contratto annullabile per l’evidente coincidenza tra l’unico soggetto titolare del potere di impugnativa dell’atto ed il soggetto che realizza la convalida. In definitiva tali ipotesi, nel sancire il recupero del contratto nullo al sistema, più che costituire un’eccezione alla regola generale dell’art. 1423 c.c., sotto il profilo della convalidabilità dell’atto, rappresentano il superamento delle regole non scritte dell’irrilevanza per il diritto del contratto nullo e dell’assoluta inidoneità dello stesso a produrre effetti. In altri termini il recupero al sistema del contratto viziato da nullità assoluta, laddove possibile, non realizza affatto la convalida di esso. 178 tema di formazione giudiziale del documento relativo ad un contratto per il quale il legislatore prescriva la forma scritta ad substantiam. Secondo un diffuso, e pressocché consolidato, orientamento giurisprudenziale “con riferimento ai contratti per i quali è prevista la forma scritta ad substantiam, il contraente che non abbia sottoscritto l’atto può perfezionare il negozio con la produzione in giudizio del documento al fine di farne valere gli effetti contro l’altro contraente sottoscrittore, o manifestando a questi con un proprio atto scritto la volontà di avvalersi del contratto. In tal caso, la domanda giudiziale o il successivo scritto assumono valore equipollente della firma mancante, sempreché, medio tempore, l’altra parte non abbia revocato il proprio assenso o non sia decaduta, con la conseguente impossibilità della formazione del consenso nella forma richiesta dalla legge” (20). La massima induce subito il rilievo che in realtà, nell’ipotesi de qua, non vi è alcun recupero del contratto nullo né, tampoco, una sanatoria di esso in quanto la formazione del contratto si realizzerebbe nel giudizio, sede in cui si incontrano i consensi delle parti, sempre che la conferma del contraente non sottoscrittore non sopraggiunga successivamente alla revoca del consenso dell’altra parte. Ciò chiuderebbe il discorso, per quel che interessa il tema d’indagine esplorato in questo scritto, se non dovesse registrarsi che in altre sentenze si legge che la formazione giudiziale del contratto solenne “non soffre deroga per il fatto che la nullità del negozio sia stata dedotta dalla controparte prima della produzione” (21), il che, a tacer d’altro, pone in evidenza non solo, come si è condivisibilmente rilevato (22), l’assenza di ogni preliminare verifica da parte dei giudici circa l’attualità della volontà delle parti, ma, il che è assai peggio, la tendenza di taluna giurisprudenza a negare l’operatività della nullità del contratto, benché invocata nel giudizio (segnatamente dalla parte che chiedendo la declaratoria di nullità ha implicitamente revocato il proprio antecedente consenso alla conclusione del contratto), ritenendo concluso un contratto in realtà mai perfezionatosi in quanto nullo. Sotto questo profilo, considerato che l’invocata nullità III. Il recupero del contratto nullo nella prassi giurisprudenziale: limiti e conseguenze Note: Se si scorre la casistica giurisprudenziale ci si accorge che nella prassi si accreditano, con l’avallo delle Corti, ipotesi recuperatorie del contratto nullo, conseguenti al comportamento tenuto dalle parti in sede processuale, benché sia quantomeno dubbio il fondamento normativo posto a sostegno del preteso recupero dell’efficacia del contratto viziato. Ovviamente le ragioni di perplessità si amplificano laddove da tali vicende si volesse far conseguire, addirittura, una sorta di sanatoria della nullità, come, invero, inducono a credere talune decisioni in materia. Il pensiero immediatamente corre alla vasta casistica in (19) In proposito, con molta chiarezza, Cass. 11.08.1980, n. 4923, in Foro it., 1981, 435, che ricostruisce la conferma come una rinuncia all’azione di nullità idonea a consolidare la realtà di fatto favorevole al confermato se e nella misura in cui altri soggetti legittimati all’impugnativa non invochino la nullità dell’attribuzione liberale. NOTARIATO N. 2/2009 (18) Il ruolo giocato dal contratto nullo nell’ambito della complessa fattispecie disciplinata dall’articolo 2652, n. 6, c.c., è tuttavia di particolare rilievo: ed infatti, è proprio il contratto nullo a determinare l’oggetto rispetto al quale opera il meccanismo acquisitivo predisposto dalla citata norma. (20) Cfr., da ultimo, Cass. 17.10.2006, n. 22223, in Mass. Giust. civ., 2006. (21) Cass. 7.08.1992, n. 9374, in Giust. civ., 1993, I, 2197. (22) Modica, Vincoli di forma e disciplina del contratto, Milano, 2008, 71. ARGOMENTI•OBBLIGAZIONI E CONTRATTI è antecedente alla produzione in giudizio del documento e, dunque, al supposto perfezionamento del contratto, dovrà convenirsi che si realizza in tal caso non solo un recupero del contratto nullo quanto una vera e propria sanatoria dello stesso ope iudicis (23). Valenza recuperatoria ma non sanante ha, invece, l’ulteriore prevalente orientamento giurisprudenziale secondo cui, in virtù dei limiti imposti all’esercizio dei poteri officiosi del giudice dagli artt. 99 e 112 c.p.c., questi non potrà dichiarare la nullità del contratto laddove, con la domanda giudiziale, non ne sia chiesta l’esecuzione bensì la risoluzione o la rescissione (24). L’opinione, indotta dall’esigenza del rispetto del principio della domanda e del contraddittorio, comporta, però, l’innegabile ingenerarsi di affidamenti precari fondati sul contratto nullo non solo nell’ipotesi in cui di esso sia domandata l’esecuzione. Ed infatti, basterà considerare il caso in cui oggetto della domanda sia la risoluzione del contratto (nullo): ebbene, nell’ipotesi della risoluzione per inadempimento è probabile che l’attore chieda, altresì, la condanna al risarcimento dei danni. La pretesa, laddove si segua l’orientamento che esclude la rilevabilità d’ufficio della nullità, dovrebbe accogliersi, con la inevitabile e paradossale condanna del convenuto per il danno conseguente al mancato adempimento di un obbligo mai sorto a suo carico (25). Analogamente potrebbe accadere qualora sia proposta una domanda di risoluzione, per eccessiva onerosità; il convenuto, sussistendo sempre i presunti impedimenti all’esercizio del potere del giudice ex art. 1421 c.c., potrebbe evitare la risoluzione offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto. Esso, pertanto, nel caso sia nullo e tale nullità non sia rilevata, sarà considerato, sia pure a torto, produttivo di effetti e sarà idoneo, conseguentemente, a creare ulteriori precari affidamenti. Per rimanere sempre nell’ambito della risoluzione si pensi anche al caso in cui la domanda di risoluzione riguardi un contratto ad esecuzione continuata o periodica nullo: ebbene, laddove il giudice accolga la domanda, ritenendo di non poter rilevare la nullità, ne seguirà che la risoluzione, in applicazione dell’art. 1458 c.c., non potrà operare retroattivamente per le prestazioni eseguite, che, di conseguenza, dovranno classificarsi non altrimenti che quali effetti del contratto. Si rileva dunque, preliminarmente, che in tale ipotesi la pronuncia di risoluzione non si risolve in un fatto completamente impeditivo dell’efficacia del contratto; bisogna, però, considerare che si tratterà pur sempre di una efficacia precaria, in quanto non può escludersi che rispetto a quel medesimo contratto oggetto della pronuncia di risoluzione sia successivamente, o da una delle parti o da un terzo che vi abbia comunque interesse, proposta domanda di nullità; in tal caso, laddove essa sia accolta, verranno travolti anche i successivi negozi stipulati sulla base della efficacia (caduca) del primo contratto (26). Nelle ipotesi riportate, dunque, pare evidente che il mancato esercizio d’ufficio del potere del giudice di rilevare la nullità non solo abbia conseguenze valutabili nei termini di una errata applicazione delle regole di diritto sostanziale (27) ma comporti, anche, notevoli disfunzioni nello svolgimento ordinato del traffico giuridico, contribuendo a creare situazioni di apparente titoNote: (23) Si è anche rilevato, Barbero, Sulla produzione in giudizio, cit., 1253, riguardo al sopradetto orientamento della giurisprudenza, che “se il contratto, com’è logico, s’invoca in quanto esiste, deve esistere prima che la contestazione venga trasportata in giudizio; e naturalmente non può esistere se non mediante la sottoscrizione di entrambi i contraenti”. (24) Cfr., tra le altre, Cass. 21.01.2008, n. 1218, in Guida al Diritto, 2008, 12, 66; Cass. 17.05.2007, n. 11550, in Mass. Giust. civ., 2007; Cass. 14.12.2004, n. 23292, ivi, 2005 novembre 1985, n. 5957; ma vedi, in senso contrario, Cass. 22.03.2005, n. 6171, in Resp. civ. e prev., 2006, 10, 1667, che sancisce: “A norma dell’art. 1421 c.c., il giudice deve rilevare d’ufficio le nullità negoziali, non solo se sia stata proposta azione di esatto adempimento, ma anche se sia stata proposta azione di risoluzione o di annullamento o di rescissione, procedendo ad un accertamento incidentale relativo ad una pregiudiziale in senso logico - giuridico, idoneo a divenire giudicato”; su questa linea: Trib. Bari 4.11.2004, in Giurisprudenzabarese.it, 2005, ove si legge: “Quanto alle conseguenze della stipula di un contratto di locazione a uso abitativo nullo per difetto di forma, secondo i principi generali in materia, resta preclusa alle parti la possibilità di invocare in giudizio pretese fondate su quest’ultimo, spettando al giudice il rilievo del vizio, pure in mancanza di eccezione di parte, in ragione del disposto di cui all’art. 1421 c.c.”; analogamente Trib. Trani 26.05.2007, in Giurisprudenzabarese.it, 2007; App. Napoli 15.01.2002, in Nuovo Dir., 2002, 974. Per una rassegna ragionata ed esaustiva delle pronunce giurisprudenziali sul tema della rilevabilità d’ufficio della nullità vedi Di Marzio, La nullità del contratto, cit., 1025 ss. (25) Per maggiori approfondimenti si rinvia a Monticelli, Fondamento e funzione della rilevabilità d’ufficio della nullità negoziale, in Riv. dir. civ., 1990, I, 698 ss. (26) Le medesime considerazioni possono, infine, valere nel caso in cui sia accolta la domanda di annullamento del contratto, di cui, invece, andava rilevata la nullità; infatti, la pronuncia diretta ad eliminare gli effetti medio tempore prodotti dall’atto impugnato, non può, come è noto, pregiudicare i diritti acquistati a titolo oneroso dai terzi in buona fede. Questi ultimi, di conseguenza, nella supposta validità degli acquisti compiuti, potranno impegnarsi in successive negoziazioni, che, a loro volta, finiranno per venire travolte dalla eventuale successiva pronuncia di nullità del precedente contratto. Questa potrà essere provocata, ad esempio, da quello dei contraenti (già parte dell’azione di annullamento) che, in mancanza della validità della pattuizione conclusa, aveva interesse al ripristino della medesima situazione di fatto che precedeva la negoziazione annullata; ripristino che, invece, in conseguenza dell’applicazione della regola dettata dall’art. 1445 c.c., è irrimediabilmente preclusa. Considerazioni parimenti pregnanti soccorrono per il caso in cui sia domandata la rescissione di un contratto nullo: è possibile, infatti, che, in difetto della rilevazione della nullità, il convenuto in rescissione, offrendo una modificazione del contratto sufficiente per ricondurlo ad equità ai sensi dell’art. 1450 c.c., non solo eviti la rescissione, ma concorra a determinare la erronea convinzione della validità del contratto e della sua efficacia, con il conseguente possibile prodursi, ancora una volta, dei rischi più volte denunciati. In proposito vedi, anche, Vidiri, Sulla rilevabilità d’ufficio della nullità del contratto, in Giust. civ., 1997, I, 2469 ss. (27) Sulla possibilità di conciliare, attraverso l’applicazione dell’art. 183, comma 4, c.p.c., l’esercizio dei poteri officiosi del giudice nel rilevare la nullità del contratto con le esigenze del rispetto del principio del contraddittorio e della domanda anche laddove di tale contratto sia stata richiesta la risoluzione, la rescissione o l’annullamento sia dato rinviare a Monticelli, Limiti sostanziali e processuali al potere del giudicante ex art. 1421 c.c. e le nullità contrattuali, cit., 297 ss. NOTARIATO N. 2/2009 179 ARGOMENTI•OBBLIGAZIONI E CONTRATTI larità ed affidamenti precari ogniqualvolta la pronuncia resa dai giudici non cancelli appieno l’efficacia del contratto. Se i descritti limiti, costruiti dalla giurisprudenza, all’esercizio dei poteri d’ufficio del giudicante nel rilevare la nullità lasciano più di qualche perplessità per le disfunzioni conseguenti nell’ordinato svolgimento del traffico giuridico, si resta ancor più perplessi di fronte ad un ulteriore indirizzo giurisprudenziale consolidatosi con riferimento alla materia delle locazioni; questa la massima: “In tema di locazione di immobili urbani ad uso abitativo, la cosiddetta autoriduzione del canone cioè il suo pagamento in misura inferiore a quella convenzionalmente stabilita, in relazione all’esorbitanza di tale misura rispetto all’importo inderogabilmente fissato dalla legge, costituisce un fatto arbitrario ed illegittimo del conduttore che provoca il venir meno dell’equilibrio sinallagmatico convenzionale, restando nei poteri del giudice, ai fini dell’accertamento di un inadempimento tanto grave da giustificare la risoluzione del rapporto, la valutazione dell’importanza dello squilibrio sinallagmatico avuto riguardo all’interesse del locatore in relazione al suo diritto di ricevere il canone in misura legale” (28). Non poche deroghe ai principi del diritto civile conseguono dall’orientamento giurisprudenziale in questione, ove il regime di nullità del patto relativo al canone locatizio trova una tutela, addirittura, inferiore a quella che deriverebbe dall’applicazione ad esso del regime dell’annullabilità; ed infatti, si è giustamente rilevato al riguardo che colui che abbia concluso un contratto annullabile “non può dirsi tenuto ad adempiere, se la causa di annullabilità è prevista a tutela di un suo interesse, dal momento che tale causa può sempre ‘essere opposta dalla parte convenuta per l’esecuzione del contratto’ (art. 1442, ultimo comma, c.c.)” (29). Inoltre, ai fini che qui maggiormente interessano, appare evidente la pesante deroga che da siffatto orientamento consegue al principio di inefficacia del contratto o del patto nullo e, dunque, la valenza recuperatoria di esso, considerato che secondo i giudici andrebbe salvaguardato “l’equilibrio sinallagmatico” di un contratto formulato in violazione di una nullità testuale, ritenendosi addirittura colpevole di inadempimento il conduttore che, rifiutandosi di eseguire il patto, si autoriduca il canone in conformità al dettato normativo. In altri termini il patto, fintanto che non ne venga accertata la nullità, sarebbe vincolante e produttivo di effetti, di conseguenza l’eccezione stragiudiziale di nullità sollevata dal conduttore ed il comportamento autoriduttivo conseguente sarebbe illegittimo e perfino idoneo a fondare una risoluzione per inadempimento del contratto. È appena da sottolineare quali effetti aberranti conseguirebbero per il sistema se il riferito orientamento, circoscritto a quanto consta alla materia locatizia, venisse esteso ad ogni clausola contrattuale viziata da nullità parziale e relativamente al quale sia prevista un’integrazione eteronoma del contratto mediante sostituzione 180 NOTARIATO N. 2/2009 automatica della clausola nulla con una norma imperativa che disciplina positivamente la stessa materia presa in considerazione dalla clausola viziata. Più problematico si prospetta, invece, il rapporto con la regola dell’inammissibilità della convalida nel caso in cui i soggetti legittimati all’azione di nullità rinunzino alla domanda giudiziale. La giurisprudenza si è occupata della questione, sottolineando da un lato l’indisponibilità per il privato delle ragioni di nullità ma dall’altro evidenziando, invece, la disponibilità della domanda giudiziale attraverso la rinunzia alle situazioni soggettive cui si ricollegano l’interesse e la legittimazione all’azione di nullità proposta, determinando, così, la cessazione della materia del contendere (30). Secondo tale opinione la ritenuta disponibilità della domanda giudiziale comporterebbe, anche, il venir meno del potere officioso del giudicante alla declaratoria di nullità in presenza di una causa che determina la cessazione della materia del contendere. Ciò induce a riflettere su quelle ipotesi, sulle quali si dirà appresso, in cui la legittimazione all’azione di nullità sia circoscritta al soggetto destinatario della norma di protezione laddove questi rinunzi all’azione o non abbia, di fatto, più interesse a promuoverla in quanto l’interesse protetto dalla norma si è pienamente realizzato. IV. Il recupero ex lege del contratto nullo: la cd. validità sopravvenuta L’art. 12, comma 9, L. 28 novembre 2005, n. 246, adoperando una tecnica legislativa assai discutibile e da molti criticata, ha inserito nell’art. 41 sexies, L. 17.08.1942, n. 1150 (introdotto dall’art. 18 della L. 6.08.1967, n. 765, c.d. legge ponte, e successivamente modificato dall’art. 2, L. n. 122/1989) un secondo comma nel quale si prevede che “gli spazi per parcheggi realizzati in forza del primo comma non sono gravati da vincoli pertinenziali di sorta né da diritti d’uso a favore dei proprietari di altre unità immobiliari e sono trasferibili autonomamente da esse” (31). Note: (28) Cass. 14.12.2007, n. 26291, in Guida al Diritto, 2008, 10, 71. (29) G. Gabrielli, Una singolare nullità, inopponibile in via d’eccezione: la conferma legislativa di un consolidato indirizzo giurisprudenziale, in Riv. dir. civ., 2001, I, 31. (30) Cass. 9.8.1973, n. 2280, Mass. Giur. it., 1973, 799; Cass. 8.9.1977, n. 3925, in Giust. civ., 1978, I, 110, che sancisce: “Se è vero che il negozio nullo non è convalidabile è però anche vero che la parte interessata può rinunciare all’azione di nullità, dovendosi configurare queste rinunce come atti di disposizione della situazione soggettiva sostanziale legittimante l’azione di nullità. Esse rinunce comportano indirettamente l’impossibilità di divenire titolari di diritti che eventualmente deriverebbero dalla suddetta situazione sostanziale, ma non possono configurarsi come rinunce a diritti futuri”. (31) Il primo comma dell’art. 41 sexies, così prevede: “Nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle costruzioni stesse, debbono essere riservati appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni 10 metri cubi di costruzione”. ARGOMENTI•OBBLIGAZIONI E CONTRATTI L’introduzione di tale disposizione pone fine ad una lunga querelle interpretativa che divideva la dottrina maggioritaria dalla prevalente giurisprudenza circa il regime della circolazione giuridica degli spazi di parcheggio che potremmo definire obbligatori, sussistendo un obbligo di natura pubblicistica del costruttore (32) alla loro realizzazione e del proprietario di non modificarne la destinazione d’uso una volta realizzato l’edificio. La Giurisprudenza dominante riteneva, infatti, che la legge urbanistica prevedesse un vincolo di servizio necessario tra l’area di parcheggio e la costruzione, vincolo che non si esauriva al momento del rilascio della concessione ma permaneva anche successivamente alla costruzione dell’edificio, quando esso veniva alienato dal costruttore. Sicché, laddove, in sede di vendita delle unità immobiliari, quest’ultimo si fosse riservato la proprietà dei posti auto oppure li avesse ceduti a soggetti terzi rispetto ai proprietari degli immobili del fabbricato, tale clausola o cessione separata sarebbe stata affetta da nullità (33). Si tratterebbe, nell’ipotesi di riserva della proprietà a favore del costruttore, di una nullità parziale che comporterebbe l’integrazione del contratto ex art. 1374 e 1419, comma 2, c.c. con il riconoscimento ex lege in favore dei proprietari-condomini di un diritto reale di uso sullo spazio a parcheggio, salvo l’obbligo di corrispondere al proprietario venditore un’integrazione del prezzo di acquisto ai fini del riequilibrio del sinallagma contrattuale (34). La prevalente dottrina riteneva, viceversa, che il vincolo previsto dall’art 41 sexies avesse natura eminentemente pubblicistica, ma non incidesse sullo statuto privatistico dei beni, sicché, salvo l’obbligo al rispetto della destinazione d’uso, il proprietario costruttore mantenesse la facoltà di alienare i posti auto a persone diverse dai condomini o anche ad alcuni soltanto di essi. Sulla base delle esposte considerazioni la dottrina prevalente denunziava la creazione giurisprudenziale di una norma imperativa virtuale, insinuandone l’estraneità al nostro ordinamento (35) e, di conseguenza, l’insussistenza del predetto limite all’autonomia privata e, dunque, della nullità. Non è questa la sede per prendere posizione e neppure per riferire sul complesso ed articolato dibattito in questione (36), peraltro oramai, sotto molti profili, superato, sta di fatto, però, che, a seguito della modifica legislativa introdotta con l’art. 12, comma 9, della L. 28 novembre 2005, n. 246, ogni limite (37) all’autonomo trasferimento degli spazi a parcheggio (realizzati in forza del primo comma dell’art. 41 sexies della legge ponte) rispetto alle unità immobiliari non è più esistente; di conseguenza sorge legittimamente il dubbio se l’abrogazione della supposta norma imperativa, configgente con la regolamentazione data dai privati al proprio assetto di interessi, dovrebbe comportarne la sopravvenuta validità, specie per i rapporti pendenti, essendo oramai venuta meno, nella valutazione del legislatore, la preminenza dell’interesse pubblico sotteso alla sanzione di nullità. Se così fosse ci troveremmo di fronte ad un’ipotesi di sanatoria ex lege del contratto nullo. Invero, un argomento a sostegno di tale tesi potrebbe rinvenirsi nell’art. 1347 c.c. che statuisce che “Il contratto sottoposto a condizione sospensiva o a termine è valido se la prestazione inizialmente impossibile diviene possibile prima dell’avveramento della condizione o della scadenza del termine”. Tale validità sopravvenuta incontrerebbe, tuttavia, un limite temporale di efficacia coincidente con quello dell’eventuale proposizione di un’azione giudiziale di nullità. In sostanza la proposizione dell’azione fisserebbe il momento in cui, sottoponendosi l’accordo privato al giudizio di rilevanza e di conformità all’ordinamento statuale, lo ius superveniens rimarrebbe irrilevante (38). Al contrario, ove l’accordo venga sottoposto al vaglio Note: (32) Il comma 1 dell’art. 41 sexies fissa un presupposto per il rilascio della concessione edilizia relativa al fabbricato da costruire, vincolando, di conseguenza, la p.a. competente ed il richiedente (cfr. Cons. St. 11.07.1972, n. 697, in Foro Amm., 1972, I, 2, 905, per la dottrina, Di Marzio, La nullità del contratto, Padova, 2008, 776). (33) L’estensione del vincolo di destinazione, di indubbia natura pubblicistica, anche ai rapporti tra privati si giustificava, secondo l’argomentare della giurisprudenza, in considerazione del fatto che il consentire ai privati di derogare, in ragione della propria autonomia negoziale, al principio della necessaria utilizzazione degli spazi a parcheggio da parte dei proprietari e\o degli utilizzatori del fabbricato, avrebbe, in definitiva vanificato la realizzazione dell’interesse pubblico sotteso alla norma (liberare piazze e strade nell’immediata adiacenza dello stabile dall’invasione di auto in sosta, per il che Cass., sez. un., 17.12.1984, n. 6600, in Giust. civ., 1985, I, 1385, testualmente sancisce che gli spazi a parcheggio in questione “sono destinati all’uso diretto delle persone che le costruzioni stesse stabilmente occupano”). Di qui la duplice valenza operativa del vincolo, sia tra costruttore e p.a. che, successivamente, nei rapporti interprivati. (34) In tal senso Cass., sez. un., 17.12.1984, n. 6600, cit., secondo cui: “È radicalmente nullo ogni patto diretto comunque a sottrarre ai condomini l’uso del parcheggio ad essi inderogabilmente riservato. Nel particolare caso in cui il costruttore-alienante si riservi, oltre alla proprietà, l’uso esclusivo del parcheggio, la relativa clausola contrattuale è in quest’ultima parte nulla per contrarietà a norma imperativa che, in sostituzione della clausola nulla, viene ad integrare il contenuto del contratto ai sensi dell’art. 1419, comma 2, c.c.; all’acquirente dell’unità immobiliare deve perciò riconoscersi anche la titolarità dell’accessorio diritto reale di uso dello spazio di parcheggio e correlativamente l’alienante che se ne riservi la proprietà esclusiva deve subirne il relativo peso. Per una imprescindibile esigenza di equità, oltre che di logica giuridica, al riconoscimento del predetto diritto di uso esclusivo spettante al proprietario dell’unità immobiliare, in dipendenza della declaratoria di nullità della predetta clausola, deve seguire il versamento all’alienante di una integrazione del prezzo di vendita, che porti a ripristinare l’equilibrio del sinallagma contrattuale”. (35) In questi termini, Di Marzio, Forme della nullità nel nuovo diritto dei contratti. Appunti sulla legislazione, sulla dottrina e sulla giurisprudenza dell’ultimo decennio, in Giust. civ., 2000, 477. (36) Per un’accurata ricognizione dell’evoluzione degli orientamenti della giurisprudenza vedi Di Marzio, La nullità del contratto, cit., 776 ss. (37) Vedi, però, Cass. 24.02.2006, n. 4264, in Riv. giur. edilizia, 2007, I, 92; App. Salerno 1.03.2006, in Giust. civ., 2007, 4, 957. (38) F. Ferro-Luzzi, Prolegomeni in tema di “validità sopravvenuta”(considerazioni a margine delle modifiche al testo unico bancario in tema di anatocismo), in Riv. dir. comm., 1999, I, 878 ss. NOTARIATO N. 2/2009 181 ARGOMENTI•OBBLIGAZIONI E CONTRATTI del Giudice successivamente all’abrogazione della norma imperativa, nulla dovrebbe opporsi al riconoscimento della tutela giuridica dell’accordo medesimo. Non poche ricadute pratiche evidentemente conseguono dalla riferita impostazione, che sembra da accogliersi soprattutto nella pendenza dell’effetto traslativo della proprietà dell’area a parcheggio. Si pensi, ad esempio, al caso di un contratto preliminare di compravendita del posto auto stipulato dal costruttore, anteriormente alla modifica legislativa, con uno soltanto dei condomini, ovvero con un terzo del tutto estraneo al condominio, o ancora si pensi all’ipotesi opposta di preliminare di vendita di un appartamento con espressa riserva della proprietà delle aree di parcheggio in capo al costruttore. Si ipotizza che in entrambe le fattispecie sia casualmente (giacché la norma ancora non esisteva al momento della conclusione del preliminare) fissata la data della stipula del contratto definitivo successivamente all’entrata in vigore della norma in esame. Pur con le dovute cautele, può ritenersi in questo caso maggiormente sostenibile la tesi della vincolatività dell’atto alla luce dello ius superveniens, non essendosi ancora perfezionato l’effetto traslativo, che potrebbe giustificare una reazione da parte del soggetto che lamenti la lesione di un proprio diritto. D’altro canto l’atto definitivo che le parti si determinassero spontaneamente a concludere nel vigore della norma novellata, sarebbe da ritenersi certamente valido. Il problema si porrebbe, dunque, soltanto nel caso in cui uno dei contraenti intendesse sottrarsi alla esecuzione del preliminare. Non appare tuttavia coerente né convincente l’idea di negare la validità di un accordo con il quale ci si è vincolati alla conclusione di un futuro contratto che, al momento previsto per la sua stipulazione, sarà, in ogni caso, pienamente valido per essere venuto meno ogni limite all’autonomia dei privati in relazione al contratto a stipularsi. In altri termini se il legislatore, mutando la propria valutazione circa la graduatoria degli interessi tutelati, abbia ritenuto non più rispondente ad un interesse pubblico il supposto limite all’autonomia dei privati di disporre come credono dei propri interessi, sembra che solo in ossequio ad uno sterile formalismo, peraltro idoneo a causare non poche speculazioni contrarie a buona fede, possa accreditarsi l’opinione che, in fattispecie come quelle indicate a titolo di esempio, permanga il giudizio di grave disvalore da parte dell’ordinamento in base al principio, di tradizione processualistica, tempus regit actum. È l’assenza dell’attualità dell’interesse pubblico ostativo all’esecuzione del contratto preliminare che suggerisce, invece, l’opportunità di restituire a quest’ultimo piena valenza regolamentare degli interessi in gioco e, pertanto, l’idoneità ad essere stato fondamento di valide obbligazioni tra le parti fin dal momento della stipulazione. 182 NOTARIATO N. 2/2009 Se si condivide tale conclusione, rispondente ad una lettura in chiave assiologica delle norme oltre che al buon senso, dovrà conseguentemente ritenersi che il giudice possa, se richiesto, pronunciare l’esecuzione in forma specifica del preliminare o dichiararlo risolto per inadempimento. Analogamente riterrei sopravvenuta la validità e, dunque, l’idoneità a fondare valide obbligazioni per le parti nonché l’effetto traslativo il contratto di vendita del solo spazio a parcheggio a persona diversa da uno dei condomini del fabbricato, stipulato, prima dell’intervento legislativo in oggetto ma sottoposto (ancora una volta del tutto casualmente), circa l’intera dinamica effettuale, a termine iniziale successivo a quello dell’entrata in vigore della L. 28.11.2006, n. 246, o a condizione sospensiva non ancora verificatasi a quella data. Ad accreditare tale conclusione, oltre i rilievi di ordine generale già esposti, contribuisce, peraltro, come già si è fatto cenno, anche il disposto dell’art. 1347 c.c. (39). L’accogliere la tesi dell’idoneità dello ius superveniens a sanare taluni contratti stipulati nella vigenza della norma proibitiva comporta anche dei riflessi in ordine alla responsabilità del notaio rogante ex art. 28 L.N. Ed infatti, benché ad escludere tale responsabilità possa anche invocarsi la tesi (40) che, argomentando dall’avverbio “espressamente” contenuto nella norma, nega l’ambito di applicazione di essa per le ipotesi in cui ricorra una nullità cd. virtuale (tanto più, dunque, nella fattispecie in oggetto ove, come si è detto, potrebbe a Note: (39) Si segnala in proposito Cass. 1.12.1972, n. 3477, ove si legge: “Nulla vieta che le parti condizionino l’efficacia di un contratto all’avvento di una nuova disciplina che comporti l’abolizione di un divieto vigente al momento della stipulazione; divieto che, di regola, non può estendersi agli atti la cui efficacia le parti intendano rinviare al momento in cui essi non risulteranno più in contrasto con norme imperative, e la cui funzione non deve quindi esplicarsi sotto il suo impero”. È proprio tale ultima considerazione ad essere assorbente di ogni altra valutazione; e riterrei che non possa costituire ostacolo all’opzione interpretativa prospettata la sussistenza della previsione o meno nel contratto della condizione espressa che ne subordini l’efficacia all’avvento della nuova disciplina, essendo sufficiente che esso non abbia prodotto gli effetti nella vigenza del preteso divieto normativo. (40) Cfr. Di Fabio, voce Notaio (dir. vig.), in Enc. dir., XXVIII, Milano, 1978, 575, secondo il quale l’utilizzazione da parte del legislatore dell’avverbio “espressamente” non sia meramente causale rappresentando, piuttosto, l’esito di una precisa scelta terminologica atta a delimitare la portata del relativo divieto. Sul punto vedi, anche, Gallo Orsi-Girino, Notariato e archivi notarili, in Noviss. Dig. it., XI, 375, che rilevano, significativamente, soprattutto se si considera la fattispecie oggetto di queste riflessioni, che “per atto espressamente proibito dalla legge deve intendersi l’atto passibile di nullità assoluta e vietato in sé e per sé, accedendo alla contraria opinione, si abbandonerebbe il notaio in balia degli incostanti orientamenti giurisprudenziali”. In definitiva dovrà escludersi l’operatività dell’art. 28 L.N. per quei casi in cui, a fronte di una norma proibitiva imperfetta, sussistano radicati contrasti interpretativi circa l’idoneità della stessa a determinare la nullità del contratto, dovendo ritenersi che l’irricevibilità dell’atto da parte del notaio si giustifichi solo quando il divieto, e la conseguente sanzione civilistica, possa desumersi in via del tutto pacifica ed incontrastata da un orientamento interpretativo consolidato. ARGOMENTI•OBBLIGAZIONI E CONTRATTI buon diritto parlarsi di nullità di creazione giurisprudenziale) va aggiunto che, se si ritengono condivisibili le argomentazioni esposte innanzi e, dunque, si accrediti la sopravvenuta validità di taluni contratti, sembra difficile ritenere possa permanere una responsabilità del notaio ex art. 28 L.N. (41). V. Il recupero del patto viziato da nullità relativa di protezione ed il possibile approdo alla convalida di esso: cronaca di un salvataggio Nel paragrafo introduttivo di questo scritto si è riferito, sia pure in estrema sintesi, dei connotati che, per lo più caratterizzano, le nullità di protezione differenziandole dalle nullità di diritto comune. Detti connotati, si è detto, rispondono all’esigenza, ad essi comune, della conservazione del contratto, sia pure se mondato di talune clausole, perché la sua totale invalidazione non sarebbe funzionale all’attuazione dell’interesse prioritariamente protetto, quello della parte debole del contratto. Di conseguenza, si è detto, tali nullità, a differenza di quelle di diritto comune, sono congegnate, anche sotto il profilo della disciplina, in modo direi “partigiano” riservando la legittimazione all’azione di nullità al contraente destinatario della norma di protezione. La rilevabilità d’ufficio della nullità non contraddice tale obiettivo prioritario, ma lo rafforza, atteso che se è pure vero che il ruolo attribuito al giudice nelle nullità di protezione è di supplenza ad una difesa, quella della parte debole del contratto, che potrebbe essere carente anche nel processo, nel contempo egli dovrà conformare i propri poteri officiosi al rispetto della graduatoria degli interessi prioritariamente sottesi alla previsione di nullità. Il giudice, pertanto, dovrà limitare il suo intervento d’ufficio qualora la declaratoria della nullità appaia in concreto pregiudizievole per il contraente debole o, addirittura, sia da questi non voluta. Le considerazioni di cui sopra, per lo più oramai condivise dagli interpreti, aprono, però, lo spazio per riflettere circa la convalidabilità del contratto viziato da nullità relativa di protezione ad opera del contraente cui è riservata la legittimazione all’azione. Ed infatti, è agevole rilevare a sostegno di tale possibilità che se il divieto di convalida del contratto viziato da nullità assoluta appare in piena sintonia con la natura pubblicistica dell’interesse protetto, viceversa per le nullità relative di protezione l’interesse pubblico alla tutela del mercato è posposto alla tutela dell’interesse del contraente destinatario della normativa di protezione. Inoltre, se la legittimazione allargata a far valere la nullità, sia pure temperata dal filtro dell’interesse, rappresenta un insormontabile ostacolo operativo alla convalida di un contratto viziato da nullità assoluta (esso, infatti, pur sempre è esposto al potere di impugnativa dell’altra parte nonché del terzo che possa, comunque, subire pregiudizio dalla presenza nella realtà fattuale dell’atto nullo), per le nul- lità relative di protezione tale problema sembra superato. In definitiva, sembrerebbe legittimo sostenere che il contraente, nel cui interesse è prioritariamente prevista la nullità ed al cui interesse è subordinata la relativa declaratoria, così come potrebbe impedire tale declaratoria (o non esercitando l’azione o limitando, per quanto si è già detto, il dispiegarsi dei poteri d’ufficio del giudice) ben sarebbe legittimato a convalidare il contratto o il patto viziato da nullità relativa. Si accredita, dunque, un legame forte tra le due riserve contenute negli artt. 1421 e 1423 c.c., sicché, laddove sussista una legittimazione relativa all’azione di nullità, il potere del giudice di dichiararla d’ufficio andrebbe conformato a tale legittimazione relativa e, di conseguenza, il soggetto legittimato all’azione potrebbe anche convalidare il patto: in definitiva, analogamente a quanto accade per il contratto annullabile. Alle anzidette considerazioni possono però muoversi varie obiezioni: si è sostenuto, ad esempio, che nelle ipotesi di nullità relativa la ratio sottesa alla previsione della nullità e, dunque, non dell’annullabilità, è proprio nel senso preclusivo del potere di convalida e ciò al fine di “lasciare sempre possibile la contestazione del negozio, anche ad evitare che la stessa debolezza contrattuale che ha indotto a concluderlo non porti, dietro pressione della controparte, a convalidarlo, frustrando così definitivamente lo scopo legislativo” (42). È si aggiunge che ammettendo la convalida della nullità non residuerebbe che il nomen “ma più nulla del suo meccanismo operativo; che finirebbe per coincidere in tutto con quello dell’annullabilità” (43). Ulteriormente si è rilevato che l’inammissibilità della convalida, si trarrebbe a contrario anche dalla previsione in tema di transazione su titolo nullo, purché non illecito. Norma che nel prescrivere una struttura bilaterale, conseguenza del carattere necessariamente commutativo della transazione, implicitamente escluderebbe l’inammissibilità di qualsiasi forma di sanatoria della nullità per iniziativa unilaterale di una delle parti, come avviene, invece, nell’ipotesi della convalida (44). Note: (41) Sotto il profilo degli atti complessi, piuttosto che dei contratti, è la disciplina societaria a fornire un esempio ulteriore di vera e propria sanatoria ex lege dell’atto nullo; si fa riferimento all’ipotesi prevista dall’art. 2504 quater c.c. dettato in tema di invalidità della fusione. Norma che è espressione della tendenza del diritto societario all’arretramento della tutela riconosciuta ai soci dal piano reale dell’invalidità degli atti a quello obbligatorio del risarcimento del danno. La riferita disposizione prevede al primo comma che, una volta eseguita l’iscrizione dell’atto di fusione nel registro delle imprese, l’invalidità dell’atto stesso non può più essere pronunciata. Il secondo comma, invece, fa salvo il diritto al risarcimento del danno eventualmente patito dai soci e dai terzi dalla realizzazione di una fusione viziata, divenuta ormai “inattaccabile” per effetto dell’iscrizione. (42) Gentili, Le invalidità, in I contratti in generale, II, in Trattato dei contratti diretto da Rescigno, Torino, 1999, 1373. (43) A. ed op. ult. cit., 1373. (44) Passagnoli, op. cit., 198 ss. NOTARIATO N. 2/2009 183 ARGOMENTI•OBBLIGAZIONI E CONTRATTI L’obiezione più consistente all’ammissibilità della convalida consegue, infine, alla recente previsione normativa introdotta con l’art. 143 C.d.c. che espressamente sancisce la irrinunciabilità dei diritti del consumatore; poiché tra tali diritti vi è anche quello di invocare le nullità, sia pure relative, contemplate nel C.d.c. ne seguirebbe che ogni atto abdicativo (rinuncia) del diritto a fare valere la nullità o, comunque, idoneo a rimuovere la condizione di instabilità dell’atto (convalida) sarebbe illegittimo ed esso stesso nullo ponendosi in irrimediabile contrasto con l’art. 143 cit., da considerarsi indiscutibilmente come una norma imperativa. In definitiva l’indisponibilità che connota la nullità assoluta verrebbe riaffermata in virtù della citata norma in tema di nullità relativa di protezione, escludendosi, così, ogni possibilità di sanatoria del patto o della clausola viziata da nullità, sicché troverebbe ulteriore conferma, anche riguardo le nullità relative di protezione, l’opinione assolutamente prevalente dell’assenza di contenuti relativamente alla clausola di salvezza di cui all’art. 1423 c.c. L’argomento da ultimo riferito sembrerebbe di difficile confutazione nonostante appaia di tutta evidenza la contraddizione stridente tra la previsione di nullità relativa ed una indisponibilità, per lo stesso soggetto cui è in via esclusiva attribuita la legittimazione all’azione di nullità, a rinunciare o, comunque, a disporre del diritto (a fare valere la nullità) del quale è l’unico titolare; d’altra parte chi scrive ha già in altra sede rilevato (45) che se si interpretasse l’irrinunciabilità, e dunque l’indisponibilità, dei diritti del consumatore come riguardante non solo i diritti non ancora acquisiti nella sfera giuridica di quest’ultimo bensì anche quelli già maturati, dovrebbe coerentemente ritenersi che essi siano anche assolutamente insuscettibili di transazione. Conclusioni così radicali, però, mal si conciliano con la disciplina generale e con la filosofia del codice del consumo. Infatti, le incongruenze della pretesa indisponibilità dei diritti patrimoniali del consumatore, sempre e comunque, emergono in tutta evidenza se si considerano molteplici altri aspetti della disciplina del C.d.c.: basti pensare alla previsione, contenuta nell’art. 141 C.d.c., che contempla la possibilità che le controversie insorte nell’ambito dei rapporti tra consumatore e professionista trovino risoluzione attraverso il ricorso a procedure di composizione extragiudiziale. È evidente, infatti, che tale sistema paragiurisdizionale di composizione della controversia può trovare concreta attuazione solo se le parti, e in concreto il consumatore, sono libere di transigere, rinunciare o, comunque, disporre dei propri reciproci diritti, quantomeno di quelli già acquisiti. Inoltre, norme quali gli artt. 134, comma 1 e 124 C.d.c., pur prevedendo nullità parziali necessarie ed a legittimazione relativa, circoscrivono la loro portata ai patti dispositivi dei diritti patrimoniali del consumatore solo se preventivi alla nascita dei diritti in questione. 184 NOTARIATO N. 2/2009 La individuazione da parte del legislatore di un ambito temporale, preciso e circoscritto, in cui opera la nullità deve, di conseguenza, far ritenere che, una volta che detti diritti siamo entrati nella titolarità del consumatore, questi sarà libero di disporne con rinunzie e transazioni. Ritenere diversamente sarebbe non solo irragionevole ma non rispondente all’interesse dello stesso consumatore che da un atto dispositivo del diritto acquisito potrebbe trarre evidenti vantaggi contrattando, questa volta, in una posizione di forza con il professionista. È appena da dire, inoltre, che la sola esistenza di tale possibilità è esaustiva anche, sia pure ex post, della finalità regolativa del mercato che costituisce l’interesse pubblico pure sotteso al C.d.c. ed alle previsioni di nullità in esso contemplate. Se tutto quanto innanzi appare convincente dovrà, allora, convenirsi anzitutto con la conclusione che l’irrinunciabilità dei diritti attribuiti al consumatore, tra i quali vi è il diritto a fare valere le nullità relative di protezione contemplate nel C.d.c., è circoscritta alla sola fase antecedente all’insorgere del diritto, giacché la finalità perseguita dal legislatore è quella di garantire l’effettiva attribuzione dei diritti al consumatore nonché la possibilità che egli sia libero di esercitarli o meno. Detta composita finalità si esaurisce, per lo più, con la stipulazione del contratto di consumo che, se contiene clausole affette da nullità relativa di protezione, sarà suscettibile di impugnativa da parte del consumatore esclusivamente legittimato a ciò. Nella fase successiva all’insorgere del diritto il consumatore potrà scegliere se esercitarlo o rinunciarvi, magari verso una contropartita: tale rinuncia, se riferita al diritto a far valere la nullità, in taluni casi equivale ad una vera e propria convalida, in altri solo ad un recupero del patto nullo circoscritto alle sole conseguenze patrimoniali già presenti al momento della rinuncia non potendosi, invece, attribuire ad esso una portata più generale, abdicativa del diritto anche per il futuro e, dunque, pienamente stabilizzatrice degli effetti del patto. Il distinguo prospettato si coglie, particolarmente, in tema di prescrizioni formali, ove, va condivisa l’opinione (46) che esclude nel nostro sistema “l’idea di un modello rigido ed univoco di formalismo” nonché “la natura necessariamente strutturale della forma o, ciò che è lo stesso, l’insuscettività del negozio solenne privo di vestimentum di acquisire cittadinanza giuridica”. Tentando di semplificare, si facciano le seguenti ipotesi: l’art. 127, comma 2 del TUB, generalizzando un principio già sancito dall’art. 111 della L. n. 154/1992, dispone che il difetto della forma vincolata determina la nullità dei conNote: (45) Monticelli, L’indisponibilità dei diritti attribuiti al consumatore dal codice del consumo e la nullità dei patti, in Contratti, 2007, 697 ss. (46) Modica, Vincoli di forma e disciplina del contratto, cit., 83. ARGOMENTI•OBBLIGAZIONI E CONTRATTI tratti bancari e di credito al consumo, azionabile solo dal cliente; analoga prescrizione vi è nel TUF per i contratti relativi alla prestazione dei servizi di investimento e accessori (art. 23, comma 3, D.Lgs. n. 58/1998). In tali ipotesi, come si è rilevato (47), laddove il cliente, pur consapevole della causa di nullità, sia comunque soddisfatto delle condizioni contrattuali, non si vede perché non possa convalidare il contratto. In altri termini, se il soggetto legittimato all’impugnativa del contratto non ravvisa in esso alcun squilibrio abusivo, la ragione del divieto di convalida viene meno (48). Non è un caso che in materia di rescissione, ove analogamente è esclusa l’ammissibilità della convalida (art. 1451 c.c.), si preveda, però, all’art. 1450 c.c., il recupero del contratto attraverso un’offerta di modificazione che lo riconduca ad equità: è evidente, dunque, che la ratio del divieto di convalida del contratto rescindibile consegue dall’inidoneità della convalida a modificare l’iniquo rapporto tra le prestazioni operando, all’opposto, una stabilizzazione di esso. Ebbene, nel ritornare alle ipotesi indicate, se il cliente non ravvisa uno squilibrio tra le prestazioni nel contratto bancario o avente ad oggetto servizi finanziari, la nullità di protezione, conseguente alla carenza della forma prescritta, non sembra preclusiva di una legittima rinuncia a fare valere la nullità o di una valida dichiarazione di convalida del contratto, che rappresentano delle tecniche negoziali di tipo sostitutivo pienamente legittime in quanto compatibili con la finalità per la quale è prescritto l’onere formale. Considerazioni analoghe possono riproporsi per la nullità relativa contemplata dall’art. 30, comma 7, D.Lgs. n. 58/1998, concernente l’offerta fuori sede dei servizi di investimento, e conseguente all’omessa indicazione nei moduli o formulari della facoltà di recesso del cliente. Si è giustamente evidenziato che, nella fattispecie citata, “non si richiede, ai fini della nullità, che le condizioni contrattuali siano pregiudizievoli per l’aderente, in quanto il diritto di recesso di cui si è omessa la menzione opera a prescindere dall’iniquità del regolamento e la mancata informativa è di per sé abuso che determina la non vincolatività ex uno latere” (49). Anche in questa ipotesi, in cui il neoformalismo contrattuale espleta una funzione essenzialmente informativa, non si vede perché debba escludersi l’ammissibilità di una rinuncia al diritto a fare valere la nullità del contratto da parte del cliente o, in alternativa, di una convalida, qualora questi, nella piena consapevolezza della titolarità del diritto a fare valere la nullità in conseguenza dell’omissione del predisponente, consideri comunque vantaggioso l’affare e, con una dichiarazione postuma, affermi di considerare il contratto pienamente vincolante o di rinunciare ad impugnarlo (50). La possibilità di un recupero o, meglio, di una vera e propria sanatoria del contratto nullo si riscontra con riferimento anche ad un’altra ipotesi di nullità relativa di protezione, questa volta, però, non conseguente alla mancata osservanza di prescrizioni formali: si fa riferimento all’art. 2, D.Lgs. n. 122/2005, in tema di acquisti di immobili da costruire. L’articolo citato prevede che il mancato adempimento da parte del costruttore dell’obbligo di rilascio, al momento della stipula del preliminare od antecedentemente ad essa, di una fidejussione bancaria o assicurativa, a garanzia della restituzione degli acconti ricevuti, è sanzionato con la nullità del contratto, che può essere fatta valere soltanto dall’acquirente. L’interrogativo che al riguardo si pone per l’interprete concerne la possibilità che la nullità sia sanata o, comunque, impedita qualora il costruttore rilasci tardivamente la garanzia in questione. Detta vicenda può, però, sottendere due scenari prospettabili: a) quello in cui il promittente acquirente non abbia ancora esperito l’azione di nullità ed intenda, ad esempio, disporre dei suoi diritti in favore di un terzo, di conseguenza richieda al costruttore il rilascio della garanzia e questi acconsenta; b) quello in cui il costruttore rilasci la garanzia successivamente, senza un preventivo accordo con il promittente acquirente, ma, comunque, prima che questi abbia proposto l’azione di nullità. Ebbene, nella ricorrenza della prima ipotesi sembra difficile negare che l’accordo sul rilascio postumo della garanzia non integri una sostanziale sanatoria del contratto nullo che potrebbe conseguire o da un patto espresso in tal senso (51) o da una espressa dichiarazione di convalida del promittente acquirente o da una rinunzia a fare valere la nullità o, comunque, dal venir meno dell’interesse del contraente protetto all’esercizio dell’azione. Più proNote: (47) Polidori, Nullità relativa e potere di convalida, cit., 950. (48) Condivisibilmente si è pure rilevato (Nuzzo, Nullità speciali e responsabilità del notaio, in corso di pubblicazione) che, nella ricorrenza di una nullità relativa derivante da una carenza della forma prescritta per il contratto, “dovrà riconoscersi alla parte legittimata all’esercizio dell’azione anche il potere di provare con ogni mezzo l’esistenza e il contenuto del contratto o della clausola di cui eventualmente chiede l’esecuzione”, di qui l’opportunità di conformare la regola del divieto di prova con mezzi diversi dal documento“in relazione ai diversi modelli di nullità oggi esistenti nel nostro ordinamento e alla natura degli interessi sottesi a ciascuno di essi”. (49) Polidori, op. cit., 951. (50) D’altra parte si è condivisibilmente rilevato, Pagliantini, Autonomia privata e divieto di convalida del contratto nullo, cit., 86, che nel dare un contenuto all’eccezione legale di convalida del contratto nullo “non c’è bisogno di norme ad hoc: nel senso che l’inconvalidabilità del contratto nullo si può pure escludere ex interpretazione. Ogni qual volta il recupero dell’atto si giustifichi in base alla ratio del divieto: o, il che è lo stesso, allorquando, sulla scorta di una previa valutazione di congruità, s’appuri l’esistenza di una spiccata sintonia tra la convalida e lo scopo della disposizione violata, giusta la natura dell’interesse protetto”. (51) Come giustamente rileva Lenzi, Regole di condotta e regole di validità nella contrattazione di immobili da costruire, relazione al Convegno del 2425.10.2008, in Napoli, sul tema “Il notaio tra regole di comportamento e regole di validità”, sarebbe assurdo ritenere l’accordo integrativo, in quanto patto aggiunto ad un contratto nullo, a sua volta viziato da nullità ed obbligare di conseguenza le parti a rinnovare il contratto prevedendo questa volta il contestuale rilascio della garanzia. NOTARIATO N. 2/2009 185 ARGOMENTI•OBBLIGAZIONI E CONTRATTI blematica si prospetta la seconda ipotesi; ebbene, riterrei che la consegna della garanzia prima della proposizione dell’azione di nullità faccia, in definitiva, venire meno l’interesse all’azione da parte del promittente acquirente unico legittimato, ciò anche nella considerazione che la nullità in questione consegue da un comportamento inadempiente del soggetto obbligato ex lege, di qui la contaminazione tra regole di comportamento e regole di validità (52). Ad analoghe conclusioni non si può, invece, pervenire nei diversi casi ove il patto o la clausola viziati da nullità siano idonei a determinare un iniquo rapporto tra le prestazioni, tale da ripercuotersi per l’intera durata del rapporto (si pensi, ad esempio, alla clausola che impone per le controversie il foro del professionista). In queste ipotesi una dichiarazione del consumatore di rinuncia a fare valere la nullità potrebbe considerarsi legittima solo se essa non abbia portata generale ma sia riferita ad un contenzioso specifico, già esistente anche se non ancora formalmente incardinato, e dunque non estenda la sua efficacia dismissiva del diritto ad invocare la nullità anche con riferimento a futuri, eventuali ulteriori contenziosi. Una rinuncia di carattere generale, infatti, in quanto abdicativa anche per il futuro dell’esercizio del diritto da parte del contraente debole, sarebbe, da un lato, idonea a radicalizzare lo squilibrio del contratto e, dunque, si porrebbe in radicale contrasto con le finalità della norma prescrittiva dell’effetto dirimente, dall’altro sarebbe dismissiva di diritti non ancora sorti e, perciò, indisponibili ai sensi dell’art. 143 C.d.c. (53). In conseguenza di quanto innanzi non potrà attribuirsi alla dichiarazione del consumatore di non volersi avvalere della nullità portata sanante dell’invalidità sebbene, limitatamente all’ambito specifico cui è riferita, potrà ben dirsi che essa abbia comunque una valenza recuperatoria del patto nullo. VI. Considerazioni conclusive: nullità di protezione, conservazione del contratto e regole di comportamento del notaio In queste pagine, senza nessuna pretesa di completezza, si è tentato di tratteggiare un “bozzetto” dell’evoluzione nel nostro sistema giuridico delle vicende recuperatorie del contratto nullo. L’approdo, come si è tentato di dimostrare, non è univoco in quanto le varie vicende che conducono al recupero, se senz’altro possono dirsi idonee ad incrinare l’assioma dell’irrilevanza ed inefficacia del contratto nullo, legittimano, invece, solo in casi assai circoscritti, il superamento della regola dell’insanabilità di esso. Anche tale ultimo dato è però assai significativo di una progressiva evoluzione del sistema verso una minore rigidità delle categorie e dell’apparato rimediale. In questo contesto, in continua evoluzione, vanno probabilmente anche considerate le ricadute che dalla previsione di nullità parziale cd. necessaria e relativa con- 186 NOTARIATO N. 2/2009 seguono per il notaio sia sotto il profilo delle regole di comportamento che della responsabilità alla luce dell’art. 28 L.N. Sotto il primo profilo, infatti, i rilievi svolti in ordine alla valenza conservativa del contratto nel suo complesso delle previsioni di nullità parziale necessaria che, al fine di non privare il consumatore del bene o del servizio resogli disponibile in virtù del contratto, escludono aprioristicamente che l’effetto dirimente si comunichi all’intera fattispecie negoziale sebbene deprivata di talune pattuizioni, inducono quantomeno a porre nel dubbio che il notaio sia legittimato a rifiutare il suo magistero qualora le parti, ed in particolare il contraente debole, insistano nel voler stipulare il contratto nonostante che in esso siano presenti clausole affette da siffatte ipotesi di nullità. Ebbene, si è condivisibilmente rilevato che “l’obiettivo del consumatore a mantenere in essere il contratto implica, innanzitutto, quello di pervenire alla sua conclusione: entrambi gli obiettivi sono espressione dell’interesse del consumatore ad appropriarsi delle opportunità conseguibili con il contratto” (54); se il mantenimento del contratto è assicurato dalla parziarietà necessaria della nullità e dalla legittimazione relativa a farla valere, nella fase antecedente alla conclusione del contratto la nullità non ha spazio operativo se non per il tramite del controllo del notaio che potrebbe impedirne il perfezionamento. Appare evidente, però, che se ciò accadesse comporterebbe, con ogni probabilità, un evidente pregiudizio per il consumatore che si vedrebbe privare a monte di quelle utilità (beni e servizi) che, laddove il contratto fosse stato stipulato, gli sarebbero state comunque assicurate. Si determinerebbe, così, un assurdo giuridico perché il notaio, nell’impedire la stipulazione del contratto trasformerebbe, di fatto, la nullità necessariamente parziale e relativa, così connotata nell’interesse del contraente destinatario della disciplina di protezione, in una nullità totale ed assoluta. Ed allora, se è Note: (52) Sul punto, con molta chiarezza, Lenzi, Regole di condotta e regole di validità nella contrattazione di immobili da costruire, cit., che evidenzia come solo una lettura formalista della disciplina della nullità, intesa come vizio insuscettibile di sanatoria, legittimerebbe il contraente protetto a rifiutare la prestazione. (53) Se si concorda con quanto esposto nel testo dovrà convenirsi che una dichiarazione di rinuncia, effettuata nel processo dal consumatore, a fare valere la nullità relativa di un patto o clausola non potrà considerarsi un atto dispositivo del diritto bensì esclusivamente dell’azionabilità dello stesso nel processo, in quel processo. E, pertanto, laddove il suddetto processo si estingua sarà sempre possibile per il consumatore fare valere quel diritto alla nullità della clausola in un altro nuovo giudizio, ove intenda scegliere una differente linea di difesa. In conclusione la dichiarazione resa in sede processuale dal consumatore di non intendere avvalersi della nullità della clausola vessatoria resta circoscritta all’ambito processuale in cui è resa, non è un atto dispositivo del diritto e non determina, pertanto, alcuna valenza di sanatoria, in senso sostanziale, della nullità della clausola. (54) Caccavale, La “nullità di protezione” delle clausole abusive e l’art. 28 della legge notarile, in questa Rivista, 2007, 1, 56. ARGOMENTI•OBBLIGAZIONI E CONTRATTI pur vero che il ruolo del notaio è quello di prevenire la litigiosità e di evitare possibili cause di nullità degli atti è anche vero che egli, nell’espletamento del proprio magistero, è tenuto, come il giudice, ad interpretare la ratio delle norme onde assicurarne l’effettività; denegare la stipula del contratto nelle ipotesi delineate tradirebbe, invece, per quanto detto, le finalità della previsione di nullità e sarebbe, paradossalmente, causa di danno proprio per la parte destinataria della protezione, precludendole l’acquisizione delle utilità conseguenti dal contratto. È proprio sulla base di quest’ultima considerazione che forse può accreditarsi un argomentazione forte per sostenere che il notaio non incorra nella responsabilità ex art. 28 L.N. né venga meno al ruolo di garante della legalità neppure qualora stipuli un contratto contenente clausole viziate da nullità di protezione necessariamente parziale, benché a legittimazione assoluta (55). Ed infatti, se, come si è tentato di dimostrare, la necessaria parziarietà di siffatte nullità trae fondamento dall’intento del legislatore di conservare il contratto perché fonte di utilitas per la parte debole, potrebbe con certo fondamento sostenersi che, nella graduatoria degli interessi tutelati dal legislatore, il conseguimento dell’utilitas per il contraente debole è il presupposto per l’accesso al sistema rimediale: in altri termini, la comminatoria della nullità, indipendentemente se assoluta o relativa, qualora contempli il necessario mantenimento in vita del contratto, è esplicativa di una precisa scelta del legislatore a che il conseguimento del bene o del servizio oggetto del contratto sia comunque assicurato al contraente debole. La denegata stipula del contratto da parte del notaio sarebbe ostativa a tale prioritaria finalità in quanto radicalmente preclusiva per la parte debole dell’accesso al mercato: ciò comporterebbe una grave distorsione delle finalità sottese alla normativa di protezione che, nel prevedere la necessaria parziarietà della nullità, ha confezionato un apparato rimediale a valenza “conservativa” del contratto che presuppone l’interesse primario alla sua conclusione (56). Spingere il controllo di legalità del notaio fino a precludere la stipula del contratto significherebbe, dunque, trasformare la nullità necessariamente parziale in una nullità totale, con un possibile danno, talvolta molto grave, proprio per il destinatario della normativa di protezione (57). Se si condividono le esposte considerazioni sembra allora più rispondente alle finalità delle nullità di protezione in oggetto che il notaio, piuttosto che denegare il proprio magistero (58), si accerti, in applicazione delNote: (55) In tal senso, invece, com’è noto, la giurisprudenza (cfr. Cass. 7.11.2005, n. 21493, in Giust. civ., 2006, 7-8, 1494), ove si legge: “In tema di responsabilità disciplinare dei notai, il divieto imposto dall’art. 28 comma primo n. 1 della legge 16 febbraio 1913, n. 89 - sanzionato con la sospensione a norma dell’art. 138, comma secondo - di ricevere atti espressamente proibiti dalla legge, attiene ad ogni vizio che dia luogo ad una nullità assoluta dell’atto, con esclusione, quindi, dei vizi che com- portano l’annullabilità o l’inefficacia dell’atto, ovvero la stessa nullità relativa”. Nella stessa massima si precisa, con riferimento alle ipotesi di nullità parziale assoluta, che “il divieto (imposto dall’art. 28, comma 1, n. 1, L. 16 febbraio 1913, n. 89 e sanzionato con la sospensione a norma dell’art. 138, comma 2) di ricevere atti espressamente proibiti dalla legge, è violato nel momento stesso della redazione della clausola nulla, inserita in un atto rogato dal professionista, in quanto la redazione della clausola segna il momento di consumazione istantanea dell’illecito, sul quale non possono spiegare efficacia sanante o estintiva della punibilità eventuali rimedi predisposti dal legislatore per conservare ai fini privatistici l’atto (quali la sostituzione di diritto della clausola nulla con norma imperativa)”. (56) Sono pienamente condivisibili, in proposito, i rilievi di Caccavale, op. cit., 56, che evidenzia: “l’esigenza di ricevere l’erogazione del finanziamento ben potrebbe sovrastare, come di norma si riscontra, l’interesse a concludere il contratto scevro da clausole abusive, che pur sempre possono essere rese inerti in un momento successivo”. In proposito vedi anche i rilievi di Celeste, La responsabilità civile del notaio, Napoli, 2007, 140, che, sia pure con riferimento alle clausole vessatorie, sottolinea che il meccanismo attraverso il quale la sanzione della nullità viene comminata dall’ordinamento “è quello di un controllo contenutistico ex post delle clausole” il che porterebbe ad escludere la legittimità di un accertamento a priori della vessatorietà della clausola da parte del notaio, con conseguente rifiuto di ricevimento dell’atto che la contiene. (57) Alle argomentazioni riferite nel testo che, a parere di chi scrive, sono rispettose del dettato normativo e della peculiare ratio che connota le nullità di protezione necessariamente parziali, anche se a legittimazione assoluta, si può aggiungere un’ulteriore considerazione: l’art. 28 L.N., nel sancire che il notaio non può ricevere gli atti che “sono espressamente proibiti dalla legge…”, allude a contratti o negoziazioni vietate nel loro complesso; ebbene, nella ricorrenza di contratti contenenti clausole affette da nullità parziale necessaria non vi è alcuna proibizione riferita alla intera negoziazione ed in ogni caso, per espressa previsione legislativa, la nullità della singola clausola non potrà comportare la nullità dell’intero negozio, salvo il caso, invero assolutamente marginale nella prassi, in cui la porzione di contratto elisa dalla nullità sia essenziale a garantire la consistenza strutturale al regolamento residuo (vedi ultra nota 58). In definitiva si potrebbe sostenere che il contratto, mondato dalla clausola nulla, non è proibito dalla legge bensì rimane efficace e valido per il resto. Dunque, sembra ragionevole dubitare che il pubblico ufficiale rogante potrà ritenersi responsabile dell’illecito di cui all’art. 28 L.N. ove, stante l’assenza di un divieto riguardante l’atto nel suo complesso ma riguardante solo singole clausole di esso, stipuli il contratto che, per il resto, è pienamente valido ed efficace. D’altra parte è sempre stata motivo di forti perplessità l’applicazione dell’art. 28 legge notarile anche all’ipotesi in cui la clausola nulla rientri fra quelle disciplinate dal secondo comma dell’art. 1419 c.c., in comb. disp. con l’art. 1339 c.c., ancorché in tal caso essa venga sostituita di diritto dalla norma imperativa che ne disciplina il contenuto. La sostituzione automatica della clausola viziata con altra prevista dall’ordinamento comporta che il contratto è come se sorgesse sin dall’inizio con la clausola imperativa imposta dalla legge e, quindi, non vi sarebbe alcun motivo, per il notaio, di rifiutarne l’accoglimento. (58) Significativamente si sottolinea da Celeste, op. cit., 141, che l’escludere le nullità di protezione dall’ambito del controllo notarile di legalità appare “aderente agli interessi in gioco e, al tempo stesso, (…) coerente con le caratteristiche peculiari delle nullità di protezione, del tutto irriducibili alla categoria tradizionale delle nullità”. Dovrà, però, ritenersi che il notaio debba rifiutare la stipula del contratto nell’ipotesi, invero piuttosto rara nei contratti dei consumatori, in cui la clausola vessatoria non sia una pattuizione secondaria del contratto e, di conseguenza, la sua caducazione ne faccia venire meno la consistenza strutturale; nella ricorrenza di questa, sia pure remota, eventualità, nonostante il disposto del comma 1 dell’art. 36 C.d.c., la nullità non potrà rimanere circoscritta alla clausola e da parziale diventerà totale, cfr., in proposito, per maggiori approfondimenti, Monticelli, Dalla inefficacia della clausola vessatoria alla nullità del contratto, in Rass. dir. civ., 1997, 565 ss.; ma vedi anche, in una diversa prospettiva, Castronovo, Profili della disciplina nuova delle cl. vessatorie cioè abusive, in Europa dir. priv., 1998, 38; da ultimo, D’Adda, Nullità parziale e tecniche di adattamento del contratto, Padova, 2008, 9 ss. e 231 ss. NOTARIATO N. 2/2009 187 ARGOMENTI•OBBLIGAZIONI E CONTRATTI l’art. 47 L.N. e del ruolo di terzietà rispetto alle parti, nell’indagare la volontà di esse, della intenzione effettiva del contraente debole di stipulare il contratto malgrado che in esso vi siano determinate clausole viziate da nullità parziale necessaria (a legittimazione relativa o, per quanto detto, anche a legittimazione assoluta) rendendolo altresì edotto dei diritti, anche a fare valere la nullità di quelle clausole, che gli derivano dalla normativa di protezione (59). Peraltro, da tale attività del notaio potrà, magari, risultare che determinati patti, benché contenuti nell’elenco in odore di abusività di cui all’art. 33 C.d.c., siano stati, invece, oggetto di trattativa individuale, all’esito della quale il consumatore abbia deciso di mantenere inalterata una determinata clausola avendo, però, ricevuto un vantaggio relativamente ad altre pattuizioni del contratto o relativamente alle condizioni economiche che lo connotano. È appena da ricordare che nella ricorrenza della negoziazione individuale si esclude in radice l’accesso al giudizio di vessatorietà della clausola, per l’assenza del presupposto oggettivo di applicazione della disciplina di cui agli artt. 33 ss. C.d.c. Le esposte considerazioni se forse possono a taluni ap- 188 NOTARIATO N. 2/2009 parire eversive del ruolo del notaio di garante della legalità, come tradizionalmente inteso, mirano, invece, a riconsiderare e, quindi, ridisegnare tale ruolo alla luce dell’evoluzione del diritto dei contratti; e, pertanto, sembra opportuno che la funzione di adeguamento si svolga secondo modalità e finalità differenziate a seconda dello status dei soggetti che stipulano il contratto, della graduazione degli interessi sottesi al precetto normativo e delle concrete esigenze delle parti; concorra, in definitiva, alla modernizzazione del sistema senza che, dietro il paravento dell’art. 28 L.N., vengano sostanzialmente frustrate se non disattese le potenzialità dei nuovi istituti (60). Note: (59) D’altra parte, va anche considerato il carattere eccezionale della previsione contenuta nell’articolo 28 L.N. rispetto all’obbligo per il notaio di prestare la propria attività stabilito dall’art. 27 della stessa legge. (60) Sul punto le acute osservazioni di Lenzi, Funzione e responsabilità del notaio nell’età dell’inquietudine, in Diritto civile tra principi e regole, I, Milano, 2008, 607 ss. ARGOMENTI•OBBLIGAZIONI E CONTRATTI Violazioni tributarie Violazioni tributarie e validità del contratto di VINCENZO PAPPA MONTEFORTE Nonostante la lettera dell’art. 10, comma 3, ultima parte, L. 27 luglio 2000, n. 212 preveda che la violazione di norme tributarie non possa determinare la nullità del contratto, appare auspicabile - al fine di assicurare la certezza interpretativa - un intervento del legislatore in tema, attese le antinomie presenti nell’ordinamento giuridico dipese anche da disposizioni speciali esistenti al momento dell’entrata in vigore dello Statuto dei diritti del contribuente e ritenute tuttora vigenti. (*) La scelta tra più operazioni economiche, del tipo negoziale e dello stesso luogo in cui effettuarle si lega anche alla convenienza in ordine al regime tributario applicabile. La valutazione economica di un negozio non può prescindere dall’aspetto tributario. Ma nel contesto dei rapporti (ancora non ben definiti) tra diritto tributario e istituti tipici del diritto civile (1) nasce un interrogativo al quale non è semplice dare risposta: la violazione di norme tributarie può comportare la nullità del contratto o trova la sua sanzione esclusivamente nel diritto tributario? Cominciamo con il definire il campo di indagine. Il tema della nullità tributaria come sanzione può essere sviluppato sotto diversi aspetti. Ad esempio, ponendo l’accento: – sull’invalidità del contratto per inesatto adempimento degli obblighi fiscali ad esso inerenti (è la violazione diretta della legge fiscale); – sugli accordi tra privati diretti a garantire la neutralità fiscale per uno dei contraenti; – sull’elusione fiscale. Le norme di carattere generale sono molteplici: – articolo 1418 c.c.; – articolo 1344 c.c.; – articolo 37 bis, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600; – articolo 8, comma 2, L. 27 luglio 2000, n. 212 (c.d. Statuto dei diritti del contribuente); – articolo 10, comma 3, ultima parte, L. 27 luglio 2000, n. 212. Prima di passare in rassegna le ricordate norme, è opportuna qualche considerazione di politica economica. Nella fiscalità, l’aspetto autoritativo statuale ha sempre rivestito un ruolo di primo piano e anche con l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana lo spazio per le scelte dei privati non si è ampliato: “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività” (art. 53 Cost.). Sull’autoritatività torneremo in seguito quando analizzeremo i c.d. “patti sull’imposta”. Nel discorso generale, invece, di pari passo con il tema dell’autonomia privata deve considerarsi quello della o meglio delle - nullità, che non è possibile trattare senza evidenziarne la c.d. “esplosione (delle nullità)” (2) o la loro ricerca esasperata. Emblematica, in proposito, è l’espressione - molto efficace - di un amico Diomede Falconio che nel definire il contenuto della diligenza richiesta al notaio - parafrasando Dante - disse “nullità va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei l’atto rifiuta” (3). È necessario - adattando al nostro campo di indagine le tesi del più importante economista del XX secolo John Maynard Keynes - un intervento pubblico invasivo per correggere le scelte dei privati (intervento invasivo nel nostro caso rappresentato dalla mannaia della nullità) o è sufficiente lasciare - per dirla alla Joseph Schumpeter - che la trasformazione passi attraverso la “distruzione creativa”, confidando nella “mano invisibile” di Adam Smith? La risposta - secondo me contenuta nello Statuto del Note: (*) Il presente scritto riproduce, con l’aggiunta di alcune note ma conservandone lo stile discorsivo, la relazione presentata il 24 ottobre 2008 nel corso del Convegno di studio “Il notaio tra regole di comportamento e regole di validità”, organizzato dal Consiglio Notarile dei distretti riuniti di Napoli, Torre Annunziata e Nola, svoltosi a Napoli il 24/25 ottobre 2008. (1) Sul punto, ulteriori ragguagli in E. De Mita, Diritto tributario e diritto civile. Profili costituzionali, in Le ragioni del diritto, Scritti in onore di L. Mengoni, III, Milano, 1995, 1834 ss.; S. Cipollina, La legge civile e la legge fiscale, Padova, 1992; M. Allena, Sull’applicabilità dei principi civilistici al diritto tributario, in Dir. Prat. Trib., 1999, I, 1776 ss. (2) U. Breccia, Causa, in Il Contratto in generale, III, in Tratt. dir. priv. diretto da Bessone, Torino, 1999, 76. (3) D. Falconio, Responsabilità notarile ed oggetto sociale, in Oggetto ed attività delle società: ruolo e responsabilità del Notaio, Atti del Convegno tenutosi a Napoli il 21/22 settembre 2007, Milano, 2008, 354. NOTARIATO N. 2/2009 189 ARGOMENTI•OBBLIGAZIONI E CONTRATTI contribuente, le cui disposizioni meritano un’attenzione maggiore di quella sinora loro riservata - trova il proprio filtro nelle previsioni di legge esistenti. Ma prima credo che sia importante prendere le mosse da un’altra notazione generale (la domanda di fondo è sempre - se alla violazione di una norma tributaria può seguire la nullità del contratto). In verità, neanche dalle violazioni penali ed amministrative discende automaticamente la sanzione civile della nullità. Il controllo dell’autonomia privata non viene esercitato dallo Stato solo attraverso norme civilistiche, ma spesso si estrinseca a mezzo di norme penali, amministrative, tributarie. Un medesimo fatto può essere astrattamente contemplato da una pluralità di norme. Mentre nella prospettiva più tradizionale la nullità come limite all’autonomia privata rappresentava un’ipotesi eccezionale, soggetta al limite dell’espressa previsione legislativa, gli orientamenti recenti si allontanano dalla struttura della fattispecie e - indipendentemente dal tenore letterale della norma - attraverso il ricorso alle clausole generali, applicano sempre più di frequente la sanzione della nullità. In una pubblicazione recente (4), rispetto al diritto penale, l’Autrice ha preso le mosse - per giungere a conclusioni diverse, dimostrando che la nullità non è in tutti i casi lo strumento più efficiente per regolare sul piano civilistico le conseguenze del reato, tenuto conto della circostanza che una sua applicazione generalizzata risulta spesso eccessiva in relazione agli interessi in gioco e alle esigenze di stabilità che caratterizzano la disciplina generale dei contratti - dall’opinione tradizionale, fondata su tre passaggi fondamentali: – l’articolo 1418, comma 1, stabilisce che “Il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente”; – le norme di diritto penale (in quanto poste a tutela di una interesse generale, la cui lesione genera una violazione dell’ordine giuridico così grave da determinare oltre alla sanzione penale - anche la nullità del contratto) hanno ex se carattere imperativo; – il contratto posto in essere in violazione della norma penale è perciò necessariamente nullo, salvo il caso in cui la stessa fattispecie prevista dalla legge penale violata sia considerata da una norma di diritto civile che ad essa assegna conseguenze incompatibili con la nullità. Il tema è strettamente connesso a quello di teoria generale della supremazia di talune branche del diritto rispetto ad altre: il diritto penale, in quanto appartenente al diritto pubblico, prevale sul diritto civile, oppure l’ordinamento si caratterizza per una sua visione unitaria, che ostacola lo studio del diritto per “settori precostituiti” (5)? È importante ricordare che, già ad inizio del passato secolo, era stato autorevolmente precisato che quando il divieto è “determinato da un interesse sociale si ha una 190 NOTARIATO N. 2/2009 lex perfetta che genera nullità. Quando invece si tratta solo di uno scopo di polizia, di finanza, di disciplina, allora il divieto che ne scaturisce non tocca all’esistenza o all’efficacia del negozio vietato, ma può produrre secondo i casi delle penalità, delle multe, dei provvedimenti disciplinari e simili” (6). In tempi più recenti, si è preferito applicare - nell’analisi delle conseguenze della contrarietà a norme imperative - il “criterio del minimo mezzo”, in virtù del quale occorre di volta in volta considerare se mediante la specifica sanzione (penale, amministrativa o civile) l’esigenza perseguita dal legislatore sia sufficientemente realizzata, oppure sia necessario far conseguire anche la nullità dell’atto (7). La stessa giurisprudenza ha riconosciuto che “se una norma imperativa prevede, per l’ipotesi della sua violazione, una sanzione penale, e non anche espressamente la nullità del contratto, tale nullità non può senz’altro ritenersi esclusa, perché bisogna distinguere il caso in cui la legge considera valido il negozio, pur prevedendolo come reato, da quello in cui la sanzione della nullità si aggiunge all’incriminazione penale” (8). In sintesi, l’antigiuridicità penale non si riflette necessariamente sulla validità privatistica del negozio ben potendo il negozio punito essere civilisticamente valido ed efficace. Anche la violazione di un precetto penale potrebbe dar luogo alla nullità parziale, alla sostituzione automatica di clausole ex 1339 c.c., al mero risarcimento danni (è il delicato tema dei c.d. vizi incompleti del contratto), tenuto conto della tutela dell’affidamento (sia nei confronti dei terzi, sia nei confronti della parte contrattuale che non ha dato causa al vizio di invalidità), dell’apparenza, delle regole della conversione del negozio nullo, della pubblicità sanante, del principio di conservazione. Esistono, allora, esistono negozi giuridici civilmente validi ed efficaci dai quali può discendere l’applicazione di una sanzione penale. Si pensi alla fattispecie della lottizzazione abusiva di cui all’art. 30, D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380: gli atti di disposizione di terreni abusivamente lottizzati non sono nulli (9). Anzi, nel diritto tributario il legislatore ha fatto un pasNote: (4) M. Rabitti, Contratto illecito e norma penale. Contributo allo studio della nullità, Milano, 2000. (5) Per le due posizioni, G. Guarneri, Diritto penale ed influenze civilistiche, Milano, 1947, 9 ss.; P. Perlingieri, Rapporti costruttivi tra diritto penale e diritto civile, in Rass. Dir. civ., 1997, 104 ss. (6) F. Ferrara Senior, Teoria del negozio illecito, Milano, 1902, 26. (7) G. De Nova, Il contratto contrario a norme imperative, in Riv. crit. dir. priv., 1985, 446. (8) Cass. 15 ottobre 1955, n. 3175, in Giust. civ., 1956, I, 19. (9) Maggiori indicazioni in G. Trapani, La circolazione giuridica dei terreni: analisi delle linee direttrici dello statuto di tali beni, Studio n. 4540 del Consiglio Nazionale del Notariato datato 3 settembre 2003, in Studi e materiali, C.N.N., 2004, 1, 539 ss. ARGOMENTI•OBBLIGAZIONI E CONTRATTI so in avanti statuendo - come vedremo meglio in seguito - che le violazioni di disposizioni di rilievo esclusivamente tributario non possono essere causa di nullità del contratto. Passando in rapida rassegna le norme citate, ai sensi dell’art. 1418, comma 1, c.c. (che dà fondamento alla c.d. nullità virtuale) “il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente”. La contrarietà a norma imperativa, quindi, per espressa indicazione del legislatore, può anche determinare conseguenze diverse dalla nullità. L’indagine andrà fatta caso per caso e dovrà riguardare la ratio del divieto posto dalla norma imperativa: ci potrà essere nullità dell’atto posto in violazione del precetto pur se mancante di espressa previsione, così come potrà ricorrere l’assenza di nullità nonostante la contrarietà a norma imperativa. L’art. 1344 c.c. (“contratto in frode alla legge”) recita: “si reputa altresì illecita la causa quando il contratto costituisce il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa”. Interessante sarebbe chiedersi se anche per la frode alla legge, è possibile che ricorra un’ipotesi di eccezione legale alla nullità, così come letteralmente previsto dal citato art. 1418, comma 1. In estrema sintesi, si può “evitare” - per scelta legislativa - la nullità (anche) se il contratto è in frode alla legge? La dottrina civilistica non ha in proposito una posizione univoca. A coloro che dall’ipotesi di frode ex art. 1344 c.c. fanno conseguire necessariamente la nullità del contratto per illiceità della causa (10), si contrappongono gli Autori che ammettono che gli effetti della frode possano essere anche diversi (11). Solo incidentalmente è opportuno ricordare che nel diritto societario, ad esempio, con una certa apertura, si riconosce quale conseguenza della frode alla legge l’applicazione della norma elusa (e non la nullità del contratto) (12). Sembra preferibile la tesi più liberale, “in quanto consente di evitare l’anomalia ... di considerare il contratto elusivo sempre e comunque più gravemente sanzionato rispetto a quello che direttamente viola la norma imperativa. Se, infatti, il contratto è in frode alla legge quando, pur non realizzando la fattispecie prevista dalla norma imperativa, persegue un risultato economico identico a quello riprovato dalla norma elusa, non v’è ragione per applicare una disciplina differente da quella prevista per le ipotesi di violazione diretta” (13). Si è aggiunto che l’art. 1344 descrive la fattispecie di elusione in termini puramente oggettivi, pur cui la comune intenzione delle parti di frodare la legge (motivo fraudolento) non implica alcunché. “Esigenze di coerenza del sistema impongono ..di applicare al negozio fraudolento la medesima disciplina dettata per la violazione diretta della norma elusa e i rimedi in essa disposti, eventualmente diversi dalla nullità” (14). Qui si inserisce il tema della frode fiscale. Nella frode alla legge fiscale, le parti - attraverso negozi che tendono ad un risultato di per sé lecito - sottraggono al fisco materia imponibile. L’elusione fiscale identifica il comportamento (e non soltanto il negozio) - non vietato dall’ordinamento consistente nell’impiego di un istituto consentito al fine di conseguire un risparmio di imposta, totale o parziale. L’uso di forme negoziali lecite tende, in realtà, ad una diminuzione del presupposto impositivo (c.d. abuso di diritto). La giurisprudenza, in più occasioni, considerata la particolare natura delle norme fiscali, ha sostenuto che “la frode fiscale ... trova soltanto nel sistema delle disposizioni fiscali la sua sanzione, la quale non è sanzione di nullità” (15). La dottrina, invece, con atteggiamento più possibilista, ammette che in alcune ipotesi il contratto elusivo sia nullo ai sensi del 1344 c.c. Ad es., ritiene che la frode alla legge si attui quando lo scopo ulteriore del negozio incide sul tipo negoziale in astratto lecito come fine unico (16). All’elusione fiscale, il legislatore ha dedicato l’art. 37 bis, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 che rende inopponibili (e, quindi, non ne pregiudica gli effetti sul piano civilistico) all’amministrazione finanziaria “gli atti, i fatti e i negozi, anche collegati tra loro, privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti” (17). Note: (10) L. Carraro, Il negozio in frode alla legge, Padova, 1943, 235 ss.; G. Giacobbe, Frode alla legge (voce), in Enc. dir., XVIII, Milano, 1969, 60 ss. (11) Per tutti, G. D’Amico, Libertà di scelta del tipo contrattuale e frode alla legge, Milano, 1993, 186. (12) Cfr. G. A. Rescio, I sindacati di voto, in Trattato delle s.p.a. diretto da G.E. Colombo e G.B. Portale, III, 1, Torino, 1994, 526. Con la riforma del diritto societario, le ipotesi patologiche capaci di determinare la nullità del contratto sociale sono state ancor più circoscritte: prime indicazioni sull’argomento in G.F. Campobasso, Diritto commerciale, II, Diritto delle società, Torino, 2006, VI ed., a cura di M. Campobasso, 175 ss. (13) A. Albanese, Violazione di norme imperative e nullità del contratto, Napoli, 2003, 261. (14) Ancora A. Albanese, cit., 263. (15) Cass. 24 ottobre 1981, n. 5571, in Rep. Foro it., 1981, voce “contratto in genere”, 249; Cass. 19 giugno 1981, n. 4024, ivi, 1981, voce “contratto in genere”, 248; Cass., sez. un., 18 dicembre 1995, n. 6465, in Nuova giur. civ. comm., 1986, I, 585. Per due precedenti recentissimi: Cass. 18 marzo 2008, n. 7282, in Imm. e prop., 2008, 459; Cass. 28 febbraio 2007, n. 4785, in Vita not., 2007, 815. (16) G. Villa, Contratto e violazione di norme imperative, Milano, 1993, 255. (17) Il tema, di particolare attualità, meriterebbe ben altre riflessioni. Si rinvia - per approfondimenti anche alla luce delle ultime pronunce - a M. Beghin, Note critiche a proposito di un recente orientamento giurisprudenziale incentrato sulla diretta applicazione, in campo domestico, del principio comunitario di divieto di abuso del diritto, in Atti del Convegno su “L’elusione fiscale” organizzato da Paradigma a Milano il 26/27 maggio 2008. NOTARIATO N. 2/2009 191 ARGOMENTI•OBBLIGAZIONI E CONTRATTI Sui patti d’imposta, l’art. 8, comma 2, Statuto del contribuente recita: “È ammesso l’accollo del debito d’imposta altrui senza liberazione del contribuente originario”. Quali rapporti esistono con l’articolo 53 Cost.? Se l’art. 53 Cost. esprimesse una regola “tassativa”, già sarebbe difficile giustificare norme quali quella dell’articolo 91 c.p.c. che sancisce per le spese della lite (tra le quali rientrano anche i tributi inerenti il processo) il c.d. principio della soccombenza, o dell’articolo 1475 c.c. in tema di spese della vendita, a tenore del quale le spese - tra le quali sono logicamente compresi anche i tributi - gravano sul compratore, se non è diversamente stabilito (18). In realtà, l’onere del tributo - nei rapporti interni - può essere addossato ad uno solo dei soggetti passivi, senza che l’altro contraente risulti liberato. Tra l’altro, la clausola di accollo delle imposte può assumere la forma (alternativa) di determinazione del corrispettivo, di maggiorazione del prezzo: operando esclusivamente tra le parti contrattuali (e non nei confronti dell’Erario) è rimessa alla loro libera scelta. Importante è, di conseguenza, che il carico fiscale trasferito sia quantificabile al momento della conclusione del contratto, circostanza più facile a realizzarsi se relativa alle imposte “più propriamente” notarili. Tornando all’art. 8, non è questa la sede per analizzare l’accollo quale modificazione del lato soggettivo passivo del rapporto obbligatorio, né per inquadrare la figura in esame - riconducibile a quella codicistica di cui agli artt. 1273 c.c. ma non esclusa, aprioristicamente, dal più vasto fenomeno della ripartizione interna del carico tributario - nella sottospecie dell’accollo meramente interno (senza adesione del creditore, che non acquista alcun diritto nei confronti del terzo) o dell’accollo esterno cumulativo (con adesione del creditore), quest’ultimo capace di assicurare al contribuente - debitore (mai liberato nei confronti del Fisco) la preventiva escussione del terzo assuntore (19). Non possiamo esimerci, però, dall’osservare che la norma contenuta nel ricordato articolo 8 deve tener conto della mancanza di una previsione generale in tema relativamente alle imposte dirette e della presenza di espresse disposizioni quanto alle imposte indirette (diverse dall’IVA). L’art. 62, D.P.R. n. 131/1986 sull’imposta di registro (“i patti contrari alle disposizioni del presente testo unico, compresi quelli che pongono l’imposta e le eventuali sanzioni a carico della parte inadempiente, sono nulli anche tra le parti”), l’art. 23, D.P.R. n. 642/1972 sull’imposta di bollo (“i patti contrari alle disposizioni del presente decreto, compreso quello che pone l’imposta e le eventuali sanzioni a carico della parte inadempiente o di quella che abbia determinato la necessità di far uso degli atti o dei documenti irregolari, sono nulli anche tra le parti”) sono ancora vigenti e, nonostante l’aper- 192 NOTARIATO N. 2/2009 tura contenuta nello Statuto del contribuente, disciplinano - sanzionandole con la più grave delle sanzioni (nullità del patto, però, e non del contratto) - le fattispecie che più da vicino interessano il nostro quotidiano professionale. Eppure il legislatore, decenni or sono, aveva esordito riconoscendo nel codice civile la generale trasmissibilità dell’onere tributario (articolo 1475 c.c.). Nonostante la sovranità statuale, sembra che nei rapporti interni, tra privati, l’autonomia negoziale possa in generale - esplicarsi fino a consentire una differente distribuzione del carico fiscale. “Le singole norme, rinvenibili nella disciplina di numerosi tributi, che vietano, o comunque considerano invalidi od inefficaci, in determinate ipotesi, ‘patti sull’imposta’vengono pertanto configurate come derogatorie rispetto alla regola generale e giustificate da particolari esigenze di contrasto all’evasione, ovvero ad altre possibili conseguenze di un sistematico ricorso alle clausole vietate” (20). Il più recente - ed opposto - orientamento della Corte di Cassazione, restrittivo nella lettura delle norme sui patti d’imposta, non convince chi ritiene inapplicabili in materia tributaria le norme costituzionali (in particolare l’art. 53 Cost.) in assenza di una legge attuativa, vigendo in materia la riserva di legge di cui all’art. 23 Cost. (21). Analogamente a quanto fatto dal Giudice delle leggi (22) che - quando è stato investito della questione di legittimità costituzionale della previsione normativa oggi contenuta nell’art. 57, D.P.R. n. 131/1986 - ha posto l’accento sulla nullità quale rafforzamento degli obblighi di registrazione gravanti su entrambi i contraenti, al fine di “assicurare la prevenzione e la repressione dell’evasione”, così come la solidarietà tributaria passiva si ritiene tenda ad evitare possibili elusioni o evasioni dell’imposta, le ricordate disposizioni speciali potrebbero spingere verso la nullità solo quelle clausole pattizie che - invece di mirare ad una diversa ripartizione (interna) del carico tributario (di per sé non vietata) - puntino in concreto all’elusione o all’evasione. Note: (18) S. Cannizzaro, A. Fedele, V. Mastroiacovo, Autonomia privata e “distribuzione” dell’onere del tributo, Studio del C.N.N. n. 1-2006/S approvato dalla Commissione Scientifica il 12 gennaio 2006, in Studi e materiali, Milano, 2007, I, 429 ss., in part. 435, ove ulteriori ragguagli. (19) Maggiori indicazioni sul punto in F. Batocchi, L’accollo del debito d’imposta altrui, in Statuto dei diritti del contribuente, a cura di A. Fantozzi e A. Fedele, Milano, 2005, 430 ss. (20) Così si sintetizza la posizione tradizionale di dottrina e giurisprudenza in S. Cannizzaro, A. Fedele, V. Mastroiacovo, Autonomia privata e “distribuzione” dell’onere del tributo, cit., 431. (21) Ancora S. Cannizzaro, A. Fedele, V. Mastroiacovo, Autonomia privata e “distribuzione” dell’onere del tributo, cit., 432 ss., cui si rinvia per una disamina articolata. (22) Corte Costituzionale 16 marzo 1990, n. 134, ord., in Gazzetta Ufficiale, Prima serie speciale Corte Costituzionale n. 13 del 28 marzo 1990. ARGOMENTI•OBBLIGAZIONI E CONTRATTI La tematica - ancora una volta - tocca la “valenza” dei precetti contenuti nello statuto del contribuente. Avviandoci alla conclusione, bisogna ripetere che proprio ai sensi dell’ultima norma da trattare, l’art. 10, comma 3, ultima parte, L. 27 luglio 2000, n. 212 - “le violazioni di disposizioni di rilievo esclusivamente tributario non possono essere causa di nullità del contratto”. La risposta alla vexata quaestio dell’applicabilità del sistema delle nullità civilistiche alle regole tributarie sembra, allora, essere (tenuto conto del tenore letterale della norma) negativa. Altra notazione di carattere generale: ogni volta che il legislatore ha fatto ricorso alla nullità del contratto per sanzionare le violazioni tributarie (situazione questa che più volte ha caratterizzato le scelte legislative), le norme hanno avuto vita breve. Un primo tentativo era stato fatto durante la guerra con il R.D.L. 27 settembre 1941, n. 1015 convertito nella L. 29 dicembre 1941, n. 1470 (abrogata dall’art. 1, d.l.l. 20 marzo 1945, n. 212) che prevedeva la nullità di pieno diritto (sopravvenuta) per le scritture private aventi per oggetto trasferimenti immobiliari e per le promesse di vendita non registrate entro il termine di legge. Un’ipotesi di invalidità assoluta del contratto dipesa dalla violazione di un precetto tributario, di nullità per assenza nel titolo di una qualità intrinseca richiesta dalla legge, è stata poi prevista nella norma introdotta con l’art. 3, comma 13 ter, L. 26 giugno 1990, n. 165 - abrogata, con effetto retroattivo, dall’art. 23, L. n. 229/2003 (paradossale è che si sia dovuto aspettare il 2003, quando lo statuto dei diritti del contribuente è entrato in vigore nel 2000) - a tenore della quale “gli atti pubblici tra privati e le scritture private formate o autenticate di trasferimento della proprietà di unità immobiliari urbane ... devono contenere ... la dichiarazione della parte ...dalla quale risulti che il reddito fondiario dell’immobile è stato dichiarato nell’ultima dichiarazione dei redditi ... ovvero l’indicazione del motivo per cui lo stesso non è stato dichiarato ...”. “L’omissione della dichiarazione ... è causa di nullità dell’atto” (comma 13 quater). Eppure che la violazione di norme tributarie non determinasse la nullità del contratto trovando la propria sanzione solo nel sistema tributario era già stato autorevolmente sostenuto (23). Ciò nonostante, lo stesso notariato (24) si è espresso nel senso più “rigoroso”: il comma 13 ter (“gli atti devono contenere”) è norma imperativa, ergo la sua violazione avrebbe comportato la nullità del contratto ex art. 1418 c.c. anche se tale sanzione non fosse stata prevista (come invece è stato fatto) espressamente dal legislatore. E ciò in quanto “la legge in esame non prevede rimedi diversi dalla invalidità del contratto, né ha predisposto un meccanismo idoneo a realizzare gli effetti voluti dalla norma”. Tenuto conto della ratio del precetto legislativo (“interesse dello Stato all’adempimento dei doveri di contribuente da parte dei proprietari di immobili urbani”) e della sua volontà di tutela di interessi pubblici di particolare importanza, prevalente rispetto ai principi dell’affidamento del terzo e della sicurezza della circolazione giuridica, lo studio del C.N.N. concludeva nel senso dell’inammissibilità della convalida (“il contratto nullo non può essere convalidato, se la legge non dispone diversamente”: art. 1423 c.c.) e l’unico rimedio era individuato nel rinnovo dell’atto, quale nuovo contratto, produttivo di effetti ex nunc, con intervento di tutte le parti contraenti e l’aggiunta della dichiarazione richiesta dalla norma. Inapplicabile si riteneva essere la sanatoria di cui al comma 3, art. 40, L. n. 47/85 in quanto norma singolare, insuscettibile di applicazione analogica (art. 14 preleggi: “le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati”). Qui si potrebbe aprire una parentesi di politica del notariato quanto ai rapporti tra singole omissioni e nullità nell’interpretazione “di categoria” dei precetti normativi, forse - troppo spesso - orientata verso la più grave forma patologica del negozio. L’ultimo tentativo per introdurre la nullità (sopravvenuta) per i contratti non registrati risale a qualche anno fa: art. 1, comma 346, L. 30 dicembre 2004, n. 311 (legge finanziaria 2005) che commina la nullità per i contratti di locazione non registrati. Il dato letterale della norma, per la verità, è il seguente: “i contratti di locazione, o che comunque costituiscono diritti relativi di godimento, di unità immobiliari ovvero di loro porzioni, comunque stipulati, sono nulli se, ricorrendone i presupposti, non sono registrati”. Quindi, anche i contratti di comodato, che pagano la fissa di registro, vanno registrati, a pena di nullità. Nella detta ipotesi, addirittura, si tratta di un caso di nullità dipesa non da un vizio intrinseco del contratto ma da un fatto estrinseco a quest’ultimo, logicamente e temporalmente successivo alla sua data di stipula. “Il contratto..., infatti, nasce perfettamente valido ed esplica come tale i suoi effetti, ma diviene nullo se il termine di trenta giorni decorre senza che le parti abbiano provveduto alla registrazione (25). Non può non ricordarsi, al riguardo, che la sanzione tipica per le ipotesi di mancata registrazione del Note: (23) F. Galgano, Il negozio giuridico, Milano, 1988, 235; in giurisprudenza, Cass. 27 ottobre 1984, n. 5515, in Mass. Foro it., 1984, 1080. (24) Studio 478 a firma di G. Metitieri - approvato dal C.N.N. il 18 maggio 1993 - sulla Sanabilità della nullità per mancata dichiarazione prevista dalla L. n. 165/1990, in Studi e materiali, C.N.N., 1992/1995, 443 ss. (25) P. Rossi, Autonomia contrattuale e normativa tributaria: l’inapplicabilità del sistema delle nullità civili alle violazioni di rilievo esclusivamente fiscale, in Statuto dei diritti del contribuente, cit., 609. NOTARIATO N. 2/2009 193 ARGOMENTI•OBBLIGAZIONI E CONTRATTI contratto è quella della sua inefficacia ed ineseguibilità. È sufficiente leggere - in tal senso - il disposto del comma 1 dell’art. 65, D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 (“i pubblici ufficiali non possono menzionare negli atti non soggetti a registrazione in termine fisso da loro formati, né allegare agli stessi, né ricevere in deposito, né assumere a base dei loro provvedimenti, atti soggetti a registrazione in termine fisso non registrati”) e del comma 1 dell’art. 66, stesso provvedimento legislativo (i soggetti indicati nell’art. 10, lett. b - tra i quali rientrano i notai - e c, possono rilasciare originali, copie ed estratti degli atti soggetti a registrazione in termine fisso da loro formati o autenticati solo dopo che gli stessi sono stati registrati ...). È bene considerare, poi, che - sotto il profilo fiscale - la sanzione di nullità del contratto non incide sull’obbligazione tributaria, che continua a gravare sugli interessati. Ai fini delle imposte dirette, ad es., l’art. 41 ter, D.P.R. n. 600/1973 introduce una presunzione che opera proprio nel caso di omessa registrazione del contratto di locazione di immobili; in pratica dal contratto di locazione non registrato scaturisce una pretesa dell’erario (presunzione iuris tantum), aggravata quanto ai periodi d’imposta coinvolti dall’accertamento (cinque anni) ed al reddito assoggettato a tassazione (parametrato, in termini percentuali, al valore dell’immobile). Per quanto concerne l’imposta di registro, ancora, ai sensi dell’art. 38, D.P.R. n. 131/1986, la nullità del contratto non può essere addotta dai soggetti obbligati quale causa che esclude dall’obbligo di registrazione e dal relativo pagamento dell’imposta. Tra l’altro, la natura stessa del contratto di locazione (consegna del bene da parte del locatore ed obbligo per il conduttore di pagare il canone), rende difficile - in concreto - il venir meno degli effetti per una nullità sopravvenuta. Si tratterà, allora, di una nullità “impropria”, atipica, caratterizzata da una possibile “convalida” (anch’essa atipica, perché naturalmente correlata al negozio annullabile, fermo il dettato normativo del 1423 c.c.): basterà, per una sanatoria con effetti quanto meno ex nunc, che i contraenti paghino semplicemente l’imposta e le eventuali sanzioni, così come è previsto - in generale - ad es., dall’art. 15 della legge sull’imposta di registro, in tema di registrazione d’ufficio (26). Certo il discorso si complica quando la norma tributaria prevede il precetto ma non la sanzione. Un esempio in tema, tra l’altro di particolare interesse notarile, vista la frequenza con la quale ricorre nella pratica, si ricava dall’art. 48, comma 2, D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 346 (testo unico sulle successioni e donazioni): “... i pubblici ufficiali ... non possono compiere atti relativi a trasferimenti per causa di morte, se non è stata fornita la prova della presentazione ... della dichiarazione di successione ...”. 194 NOTARIATO N. 2/2009 Premesso che non si è ipotizzata (o almeno non mi risulta come tesi propugnata) la nullità dell’atto in caso di violazione della norma, questa si riferisce alle sole formalità/adempimenti mortis causa (dal de cuius all’erede) o si estende ai rogiti relativi ai trasferimenti inter vivos posti in essere da eredi o legatari a favore di terzi acquirenti dei beni provenienti da una successione non dichiarata? La soluzione preferibile sembra essere quella a tenore della quale, nel caso di successione non “dichiarata”, è sufficiente che il notaio menzioni tale circostanza e - di conseguenza - ponga l’agenzia delle entrate nelle condizioni di riscuotere la relativa imposta (27). Ma qual è, per concludere, la collocazione dello Statuto del contribuente tra le fonti? All’indomani della sua entrata in vigore, i primi commentatori (28) avevano ipotizzato una “supernorma” tenuto conto dell’incipit dell’art. 1: “Le disposizioni della presente legge, in attuazione degli articoli 3, 23, 53 e 97 della Costituzione, costituiscono principi generali dell’ordinamento tributario e possono essere derogate o modificate solo espressamente e mai da leggi speciali”. Quindi, nella gerarchia delle fonti, una legge contenente principi insuscettibili di essere contraddetti da norme ordinarie. Pian piano, però, l’efficacia delle disposizioni dello Statuto si è affievolita. Da criteri di interpretazione adeguatrice della legislazione tributaria anche precedente (29), a norma generale incapace di abrogare norme speciali esistenti. La speranza per gli interpreti, allora, è l’attuazione di una delle ultime norme dello stesso statuto. Ai sensi dell’art. 16, comma 1, L. n. 212/2000, “Il Governo è delegato ad emanare, entro 180 giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, previo parere delle competenti Commissioni parlamentari, uno o più decreti legislativi recanti le disposizioni correttive delle leggi tributarie vigenti strettamente necessarie a garantirne la coerenza con i principi desumibili dalle disposizioni della presente legge”. Viste le tante antinomie, solo in questo modo si potrà Note: (26) La Corte Cost., con ordinanza del 5 dicembre 2007, n. 240, in Nuova giur. civ., 2008, 590, ha ritenuto la manifesta infondatezza della questione di costituzionalità dell’art. 1, comma 346, L. n. 311/2004 per contrasto con l’art. 24 Cost., attesa “l’inconferenza del parametro costituzionale invocato, ….stante il carattere sostanziale della norma denunciata, che non attiene alla materia delle garanzie di tutela giurisdizionale, limitandosi a sancire una nullità non prevista dal codice civile”. (27) M. Cantamessa, Ricevibilità di atto di vendita di un immobile pervenuto per successione mai presentata, Studio n. 49/99/T approvato dal C.N.N. il 17/18 maggio 2001. (28) C. Glendi, Un varco per lo Statuto su tutte le norme tributarie, in Guida normativa, 65/2001, 38. (29) Corte Cost. 6 luglio 2004, n. 216, ord., in Gazz. uff., 14 luglio 2004, n. 63. ARGOMENTI•OBBLIGAZIONI E CONTRATTI assicurare quella certezza interpretativa della quale sempre più - in diritto tributario necessitiamo, se sol si pensa a come l’amministrazione finanziaria motiva i propri “documenti di prassi” (30). Non è secondario che la materia fiscale - a differenza del diritto privato, civile o commerciale - sia caratterizzata dalla riserva di legge di cui all’art. 23 Cost. e che conseguentemente - il facile espediente della nullità contrattuale risulti eccessivo rispetto ai principi che informano l’ordinamento tributario. Nota: (30) Sulla forza interpretativa delle circolari in materia tributaria, cfr. V. Pappa Monteforte, Obbligazioni tributarie, circolari e tutela del contribuente, nota a Cass., sez. un., 2 novembre 2007, n. 23031, in questa Rivista, 2008, 235 ss. NOTARIATO N. 2/2009 195 ARGOMENTI•OBBLIGAZIONI E CONTRATTI Contratto di mantenimento Funzione di adeguamento e contratto di mantenimento di ROBERTA GRECO L’articolo si pone come obiettivo una analisi completa del contratto di mantenimento nell’ottica notarile di redazione di un contratto che sia pienamente rispondente alle esigenze delle parti, che preveda e superi le possibili criticità e sia idoneo a garantire al vitaliziato una efficace tutela per il caso di inadempimento da parte del vitaliziante. È stata esaminata, in particolare, la possibilità di apporre condizioni risolutive di inadempimento, clausole risolutive espresse, clausole che attribuiscano ai vitaliziati stessi la facoltà di vendere uno o più beni per il caso di bisogno o di configurare facoltà alternative di sostituzione dell’obbligazione assunta dal vitaliziante, la possibilità di volgere una o entrambe le prestazioni dedotte in contratto a favore del terzo. 1. Nozione e natura giuridica Il cd. contratto di mantenimento è il contratto con il quale una parte (detta vitaliziante) si obbliga a prestare ogni assistenza morale o materiale nei confronti di un’altra parte (cd. vitaliziato) per tutta la vita di costui, dietro il trasferimento di un bene, mobile o immobile, o dietro la corresponsione di un capitale (1). Non esiste nel codice civile una definizione o una regolamentazione dell’istituto in esame, che pertanto deve annoverarsi tra i contratti atipici del genere do ut facias; peraltro lo stesso appare di indubbia diffusione, come dimostrato dal cospicuo numero di sentenze pronunciate in materia, e la sua diffusione è, a parere di chi scrive, destinata a crescere, venendo lo stesso incontro alle esigenze di una popolazione sempre più anziana e desiderosa di garantirsi una dignitosa assistenza e tenore di vita fino al decesso. Appare quindi di rilevante importanza l’esame approfondito del cd. contratto di mantenimento, delle sue possibili declinazioni e di altri strumenti con finalità affini, atteso che l’operatore giuridico, nella redazione dell’atto, ed ancor prima nella funzione di adeguamento, dovrà avere ben chiaro l’intento perseguito dalle parti, di modo da poter atteggiare lo strumento contrattuale in modo che esso sia pienamente rispondente alla volontà espressa dalle parti. Trattasi, come si è detto, di un contratto atipico (art. 1322 c.c.), che secondo la dottrina e la giurisprudenza che se ne sono occupate, deriva dalla figura tipica della rendita vitalizia (art. 1872 c.c.) (2), con la quale presenta numerosi caratteri in comune, pur discostandosene significativamente sotto il profilo sia del contenuto che dei rimedi relativi agli aspetti patologici. La rendita vitalizia, infatti, come il mantenimento, è un contratto a prestazioni corrispettive in cui un vitaliziato aliena ad un vitaliziante un bene mobile o immobile 196 NOTARIATO N. 2/2009 ovvero un capitale, ma si discosta significativamente dal mantenimento in quanto il vitaliziante si assume l’obbligazione, ben determinata, di corrispondere periodicamente una determinata somma di denaro (3) al vitaliziato per tutta la durata residua della sua vita; il cd. contratto di mantenimento prevede invece, a fronte della medesima prestazione del vitaliziato, un obbligo del vitaliziante che ha natura non meramente patrimoniale, ed in cui anzi l’aspetto patrimoniale è quello che in minor misura viene in rilievo. L’obbligazione del vitaliziante nel contratto di mantenimento, infatti, ha ad oggetto una prestazione continuativa di carattere assistenziale, consistente, come si vedrà meglio in appresso, nel fornire cure di carattere morale, oltre che materiale, al vitaliziato. Nel caso della rendita, quindi, si hanno prestazioni corNote: (1) Cfr. per la definizione E. Calò, Contratto di mantenimento e proprietà temporanea, in Giust. civ., 1991, 1165 ss., nota a Cass. n. 6083/1988; E. Stella Richter, Somministrazione di servizi e di assistenza in corrispettivo della cessione di immobili, nota a commento di Cass. n. 12650/1995, in questa Rivista, 1996, 2, 121 ss.; M. Atelli, La prevalenza del contenuto non patrimoniale rende atipico l’accordo tra le parti, in Guida al Diritto, 1996, 16, 45 ss.; Cass. n. 1401/1992, in Giur. it., 1993, I, 1, 1784; Cass. n. 117/1999, in questa Rivista, 1999, 3, 217. (2) Calò, op. cit., 1166; Stella Richter, op. cit., 125, Trojani, Contratto di mantenimento e vitalizio alimentare, in Vita Notarile, 1992, 5/6, 1436 ss.; Cass. n. 7033/2000, in Corr. giur., 2000, 7, 856; Cass. n. 5342/1997, in in questa Rivista, 1998, 3, 235. Sulla rendita vitalizia si v., per tutti, Marini, La rendita perpetua e la rendita vitalizia, in Trattato di diritto privato diretto da Rescigno, 13, Torino, 1982, 34 ss.; Valsecchi, La rendita perpetua e la rendita vitalizia, in Trattato di diritto civile e commerciale diretto da Cicu e Messineo, Milano, 1961, 193 ss.; Torrente, Della rendita vitalizia, in Commentario Scialoja e Branca, IV, Delle Obbligazioni, Bologna, 1955. (3) Eventualmente soggetta a rivalutazione secondo gli indici ISTAT, cfr. Trojani, op. cit., 1442; Lener, voce Vitalizio, in Noviss. Dig. it., XX, 1022; Cass. n. 6245/1991. ARGOMENTI•OBBLIGAZIONI E CONTRATTI rispettive del tipo do ut des, con la precisazione che la prestazione del vitaliziante ha carattere periodico ed è certa nel suo ammontare, mentre nel secondo caso il contratto è del genere do ut facias, e la prestazione cui si obbliga il vitaliziante è di natura continuativa, oltreché incerta nella sua quantificazione. Così, mentre nella rendita vitalizia il vitaliziante è soggetto all’alea economica derivante dall’impossibilità di prevedere la durata delle sue periodiche prestazioni, nel contratto di mantenimento l’alea cui deve sottostare il vitaliziante è duplice, aggiungendosi a quella derivante dall’incerto prolungarsi nel tempo dei suoi obblighi, quella relativa all’estensione qualitativa e quantitativa della sua prestazione, suscettibile di forti variazioni in dipendenza soprattutto delle mutevoli condizioni di salute del vitaliziato. Secondo la dottrina e la giurisprudenza (4), infatti, come si è detto, nel mantenimento il vitaliziante si obbliga nei confronti del vitaliziato ad offrirgli cura ed assistenza, sia morale che materiale, consistente nell’assicurare al vitaliziato vitto, alloggio e vestiario, compagnia, cure mediche, pulizia della casa e della persona, ed in genere condizioni di vita dignitose, oltre che congrue al tenore di vita già condotto dal soggetto. Trattandosi di definizioni quanto mai ampie, e dunque suscettibili di interpretazioni difformi e foriere di cause e litigi, appare quanto mai opportuno che il notaio chiamato a redigere un contratto di tal fatta sia quanto mai preciso nello specificare il contenuto della prestazione che si richiede all’obbligato al mantenimento. Da un esame della varia casistica si rileva un contenuto fisso o minimo delle obbligazioni assunte dal vitaliziante, e precisamente: – assistenza morale consistente nella compagnia, nelle visite (eventualmente fissando un minimo di giorni alla settimana o al mese), nell’accompagnamento in luoghi dal vitaliziato indicati; – assistenza materiale consistente nella fornitura di vitto, alloggio e vestiario, pulizia della casa e della persona; – assistenza sanitaria, consistente nell’assicurare al vitaliziato cure mediche e forniture di medicinali ed articoli sanitari. Oltre al contenuto minimo o standard delle obbligazioni di mantenimento, vi può essere un contenuto variabile, dipendente anche, in larga misura, dallo status sociale e dal tenore di vita del vitaliziato, e così, a mero titolo esemplificativo e non tassativo, si fa constare che possono essere ricompresi nell’obbligo assunto dal vitaliziante, di volta in volta: – la compagnia anche notturna ed eventualmente la possibilità per il vitaliziante di accudire presso di sé il vitaliziato (5); la costante reperibilità anche telefonica; eventualmente la garanzia di assistenza, accompagnamento e coabitazione notte e giorno con personale appositamente assunto e retribuito; – la fornitura di giornali, riviste, libri ed articoli di intrattenimento in genere; – l’obbligo di trasportare per esigenze mediche il vitaliziato all’estero in caso di malattia e di ospitarne familiari e amici (6); l’obbligo di ospitarlo presso residenze estive o di campagna; – l’accollo, nei soli rapporti interni e comunque nel rispetto del disposto dell’art. 8, L. n. 212/2000 e dell’art. 24, D.P.R. n. 600/1973, di ogni imposta, tassa od onere tributario dipendente dal godimento delle prestazioni di assistenza (7). Prestazioni tutte che, come si è detto, sarà bene esplicitare chiaramente in atto qualora ritenute essenziali dal vitaliziato, in virtù della funzione di adeguamento del Notaio ed anche per tener fede alla sua funzione “deprocessualizzante”, in ossequio al noto brocardo per cui “tanto più notaio, tanto meno giudice”. Riassumendo può concludersi nel senso che il contratto di mantenimento è un contratto bilaterale aleatorio, di durata, ad effetti obbligatori (ed anche reali qualora il vitaliziato trasferisca la proprietà o altro diritto reale di godimento su un bene mobile o immobile), nel quale particolare rilievo assume la prestazione del vitaliziante e che dunque si connota per il forte intuitus personae che caratterizza la figura di costui. 2. Strumenti negoziali affini o alternativi Si analizzeranno ora quali siano, oltre al contratto in esame, i molteplici strumenti utilizzabili quando una persona voglia assicurarsi i mezzi di sostentamento o l’assistenza vita sua natural durante, e sia disposta a spogliarsi in cambio di uno o più dei suoi beni, e come orientarsi nella scelta dell’uno piuttosto che dell’altro per meglio venire incontro alle esigenze del disponente. Naturalmente la disamina viene condotta non tanto per individuare similitudini o differenze, quanto piuttosto per capire se le finalità perseguite dalle parti possono essere meglio soddisfatte attraverso il ricorso al contratto di mantenimento ovvero ad altre figure, tipiche o atipiche. Note: (4) V. per tutti Peirano, Clausole in tema di contratto di mantenimento, in questa Rivista, 1995, 611 ss.; Trojani, op. cit., 1440 ss.; Cass. n. 1401/1992, in Giur. it., 1993, I, 1, 1784; Cass. n. 10332/1998, in Contratti, 1999, 3, 221; Cass. n. 7033/2000, in Corr. giur., 2000, 7, 856 e in Riv. Notar., 1999, 717; Trib. Verona 7 giugno 2001, in Giur. Merito, 2002, 1273. (5) Si badi bene, deve trattarsi di una possibilità, e non di un obbligo. È infatti fortemente discusso se si possa obbligare il vitaliziante a trasferirsi presso il vitaliziato o a prenderlo presso di sé; la clausola è nulla perché lesiva della libertà personale per Calò, op. cit., 1168, si v. anche Peirano, op. cit., 611 ss., secondo il quale garantirebbe la salvezza della clausola la previsione di un’obbligazione con facoltà alternativa di sostituzione della prestazione con altra meno gravosa. Si v. anche Trib. Trani 17 marzo 1961, secondo cui violerebbe l’art. 16 della Costituzione una clausola che imponga la coabitazione. (6) Così nella vicenda di cui alla nota Cass. n. 6083/1988 della (in Giust. civ., 1991, cit.), con la precisazione che l’obbligo di accompagnare l’assistito in automobile oltre confine era ben circoscritto e limitato a determinati paesi confinanti con l’Italia. (7) Per una elencazione completa ed esaustiva si veda Petrelli, Formulario notarile commentato, II, Milano, 2001, 874 ss. NOTARIATO N. 2/2009 197 ARGOMENTI•OBBLIGAZIONI E CONTRATTI Costituzione di rendita vitalizia Colui che aliena un bene (o dispone di un capitale) potrebbe voler ricevere in cambio una prestazione periodica e continuativa in denaro, traendo poi beneficio dalle somme ricevute e reimpiegandole a proprio piacimento per assicurarsi come meglio crede il tenore e lo stile di vita desiderato. L’utilizzo di uno strumento tipizzato dal legislatore, qual è la rendita vitalizia (artt. 1872 ss.) consente di non avere lacune nella disciplina del contratto; d’altro canto si ritiene che (salvo alcuni articoli ritenuti inapplicabili) la normativa dettata in tema di rendita vitalizia sia applicabile anche ai contratti atipici di mantenimento e di vitalizio alimentare, laddove manchi una specifica previsione contrattuale. Venendo a trattare delle similitudini e delle differenze tra i due istituti, nella rendita vitalizia la prestazione, come nel contratto di mantenimento, è svincolata dallo stato di bisogno; essa però può anche avere una durata commisurata alla vita di persona diversa dal beneficiario della rendita (8), mentre ciò è recisamente negato dalla dottrina per quanto riguarda il mantenimento, la cui durata è necessariamente legata alla vita del vitaliziato (9), né del resto avrebbe senso il contrario. Entrambi i contratti sono caratterizzati dall’alea, elemento essenziale ed imprescindibile del contratto; ciò nella rendita trova espressa applicazione nel disposto dell’art. 1876 c.c., secondo il quale la rendita costituita su persone già defunte è nulla. In applicazione di questa norma, la giurisprudenza (ma su questo si tornerà più diffusamente in seguito) è stata costante nel ritenere nullo per difetto di causa il contratto di mantenimento stipulato con un vitaliziato che per età, condizioni di salute o altro, lascia prefigurare con ragionevole certezza il tempo del suo decesso (10). La differenza probabilmente più grande tra la rendita vitalizia ed il contratto atipico di mantenimento è data dai rimedi previsti per l’inadempimento del vitaliziante. Le sue prestazioni nel contratto di rendita sono di dare, prettamente fungibili, per cui assoggettabili alla disciplina relativa agli obblighi alimentari dettata dall’art. 433 c.c. (11), coercibili con lo strumento previsto dall’art. 1878 c.c. (12) che invece espressamente esclude la risoluzione del contratto. Come meglio si vedrà in seguito, invece, dottrina e giurisprudenza sono assolutamente concordi nell’escludere che al contratto atipico di mantenimento siano applicabili l’art. 1878 c.c., come pure l’esecuzione in forma specifica, ritenendo invece lo stesso suscettibile di risoluzione per inadempimento (13). In definitiva, occorrerà indagare la volontà delle parti e cercare di comprendere se l’intenzione prevalente è quella di assicurare al vitaliziato un vantaggio in termini meramente economici, ed allora la soluzione sarà orientata verso la costituzione di rendita vitalizia, o se invece il vitaliziato richiede prestazioni accentuatamente spirituali, nel qual caso andrà preferito il contratto di mantenimento. 198 NOTARIATO N. 2/2009 Costituzione di vitalizio alimentare La figura del vitalizio alimentare, anch’essa atipica, appare chiaramente delineata solo da parte della dottrina (14), mentre la giurisprudenza la sovrappone e la confonde con il contratto di mantenimento, utilizzando i due termini come equivalenti (15). Invece, secondo la dottrina che ha approfondito l’istituto, il vitalizio alimentare è figura autonoma, che prevede, dietro il trasferimento di un bene o di un capitale, che il vitaliziante si obblighi nei confronti del vitaliziato (sempre per tutta la durata della vita di costui) ad una prestazione di carattere alimentare, intendendosi per tale quella avente ad oggetto la fornitura di vitto, alloggio, vestiario, legata stavolta ad una accertata situazione di bisogno. Il contratto in esame pertanto ha anch’esso natura doppiamente aleatoria, sia nella durata che nel quantum delle prestazioni che il vitaliziante sarà tenuto ad effettuare, se non addirittura nell’an, posto che dette prestazioni potranno tanto essere richieste in via continuativa, se lo stato di bisogno perdura, che ad intervalli intermittenti, e talora addirittura mai. Il cd. vitalizio alimentare enucleato dalla dottrina pertanto si distingue tanto dalla rendita vitalizia quanto dal contratto di mantenimento, entrambi del tutto autonomi dallo stato di bisogno del beneficiario, pur riconoscendo la stessa dottrina che trattasi comunque di figure tutte riconducibili allo stesso genus dei contratti aleatori vitalizi che proprio dalla rendita mutuano parte dei caratteri e della disciplina. Vendita della nuda proprietà Se l’esigenza dell’alienante è solo quella di poter disporre a breve di una notevole liquidità, ma senza privarsi della casa in cui vive, allora una soluzione può essere la vendita della nuda proprietà dell’immobile, riservandosi l’usufrutto vitalizio. Questa soluzione è generalmente scelta da persone perfettamente autosufficienti che non hanno parenti ai Note: (8) Cfr. art. 1873 c.c. Ciò naturalmente vuol dire che il beneficiario potrebbe trasmettere il diritto alla rendita ai suoi eredi, in caso di premorienza alla persona alla cui longevità è commisurata la durata della rendita; al contrario, potrebbe anche darsi che il beneficiario della rendita, in caso di sopravvivenza al terzo, debba restare privo di mezzi. (9) Cfr. Peirano, op. cit., 611 ss.; Trojani, op. cit., 1444. (10) Così da ultima Cass. n. 19763/2005, in Contratti, 2006, 4, 388; conf., tra altre, Cass. n. 117/1999, in questa Rivista, 1999, 3, 217. (11) In tal senso espressamente Cass. n. 7033/2000, cit. (12) Che prevede il sequestro e la vendita dei beni del debitore affinché sul ricavato possa soddisfarsi il vitaliziato. (13) Si v. al riguardo il successivo par. 9. (14) Cfr. Trojani, op. cit., 1445; Calò, op. cit., 1167; Stella Richter, op. cit., 129. (15) Chiaramente in tal senso, ad es., Cass. n. 5342/1997, in questa Rivista, 1998, 3, 235 e Cass. n. 1401/1992. ARGOMENTI•OBBLIGAZIONI E CONTRATTI quali lasciare in eredità il proprio patrimonio, né del resto hanno persone di fiducia alle quali affidare la gestione dei propri beni, e che desiderano poter disporre di un capitale da utilizzare (a differenza della rendita, in cui per l’appunto le somme vengono percepite con cadenza generalmente mensile). Invero, la vendita della nuda proprietà con riserva di usufrutto potrebbe essere una soluzione facile e veloce per assicurarsi una disponibilità economica nell’immediato anche in presenza di immobili di modesto valore, giacché la gravosità delle obbligazioni di mantenimento esige quale contropartita un’adeguata ricchezza. Inoltre un contratto di mantenimento, essendo ad esso connaturato il cd. intuitus personae, non può essere stipulato con chiunque ma richiede una certa conoscenza (ed apprezzamento delle qualità personali) del vitaliziante; così come del resto l’alienante può avere timore che nella rendita vitalizia il vitaliziante smetta di eseguire le sue prestazioni costringendolo pertanto ad azioni giudiziali per ottenere il soddisfacimento dei suoi diritti. Per contro, con un simile strumento non v’è previsione alcuna di un’assistenza né di una prestazione periodica in favore dell’alienante. La donazione modale Sono più che frequenti nella pratica i casi in cui una persona, per lo più anziana, decide di donare ad un familiare la nuda proprietà (o più raramente la proprietà piena) di uno o più immobili ponendo espressamente a carico del donatario l’onere di prestare ogni cura ed assistenza sia morale che materiale. La principale differenza tra la figura in esame ed il contratto di mantenimento sta nella natura giuridica: la donazione modale è caratterizzata dallo spirito di liberalità, del tutto assente nel contratto di mantenimento che è oneroso, a prestazioni reciproche e sinallagmatiche. Tuttavia non può negarsi che le due figure vengano spesso utilizzate alternativamente tra loro per raggiungere il medesimo risultato (16). Per meglio capire quale strumento utilizzare si deve allora avere riguardo all’intento del disponente: se appare prevalente l’intento liberale, e solo secondaria l’importanza della prestazione assistenziale che si vuole ricevere, allora dovrà utilizzarsi la donazione modale, mentre qualora l’assistenza sia, nelle intenzioni dell’alienante, strettamente correlata in termini di sinallagmaticità con la disposizione patrimoniale, si avrà un contratto oneroso di mantenimento. Un altro indice per meglio interpretare la volontà delle parti potrebbe essere dato dai loro rapporti di parentela: facilmente l’alienante sarà animato da spirito di liberalità nei confronti di un familiare, mentre è più probabile che voglia concludere un contratto di mantenimento qualora il beneficiario del trasferimento sia un estraneo. Nella scelta dello strumento contrattuale da adottare può avere il suo peso anche la considerazione che la donazione cum onere, oltre che essere risolubile per ina- dempimento, se ciò è espressamente previsto, è anche ordinariamente riducibile (17) ai sensi degli articoli 553 ss. c.c. Disposizione testamentaria con condizione di assistenza fino alla morte Può darsi il caso di una persona che, assistita amorevolmente da un familiare o da un estraneo, voglia prevedere nel proprio testamento una sorta di “ricompensa” per le cure e premure ricevute, ma vincolando la disposizione alla condizione che dette cure ed assistenza si protraggano sino alla sua morte. In tal caso la disposizione sarà del seguente tenore: “Nomino erede nella quota di …, ovvero lascio a titolo di legato il mio bene X a …, a condizione che mi assista (o che mi abbia assistito) amorevolmente sino alla mia morte prestandomi ogni cura di carattere sia morale che materiale”. Trattasi di una istituzione senza dubbio atipica, perché condizionata ad un evento che, paradossalmente, al momento dell’apertura della successione si è ormai definitivamente verificato ovvero è definitivamente mancato. Cionondimeno, secondo la preferibile ricostruzione del fenomeno (18), si tratta pur sempre di una vera e propria condizione, in cui il requisito della “futurità” e dell’incertezza dell’evento dedotto in condizione si realizzano al momento della redazione del testamento (19) piuttosto che nel momento in cui il testamento diviene efficace, e cioè all’apertura della successione. Naturalmente lo strumento in esame non offre nessuna garanzia al disponente perché non vincola in alcun modo il soggetto che dovrebbe effettuare le prestazioni assistenziali, ed anzi costui ben potrebbe essere all’oscuro della disposizione a suo favore; può essere suggerito solo in casi nei quali il disponente abbia comunque manifestato una salda volontà di effettuare un’attribuzione patrimoniale gratuita in favore di quel determinato soggetto. A parte poi la considerazione che, se si dovesse trattare di legittimari (ad esempio un figlio), la condizione, ai sensi dell’articolo 549 c.c., avrebbe valenza solo entro i limiti della disponibile, non essendo tollerati pesi e condizioni apposti alla legittima. Trust ed in genere vincoli di destinazione per fini meritevoli di tutela Va poi esaminata la possibilità di raggiungere finalità Note: (16) L’accertamento a posteriori circa la natura del contratto in termini di donazione o mantenimento è comunque rimesso al giudice di merito ed incensurabile se congruamente motivato, cfr. Cass. n. 13876/2005, in Foro it., 2006, 3, 1, 777. (17) Cfr. art. 793 c.c. (18) Cfr. Cass. n. 1823/1970; Capozzi, Successioni e donazioni, Milano, 463. (19) Momento equivalente a quello della conclusione del contratto secondo Capozzi, op. cit., 463. NOTARIATO N. 2/2009 199 ARGOMENTI•OBBLIGAZIONI E CONTRATTI analoghe a quelle consentite dal contratto di mantenimento attraverso i controversi istituti del trust e/o della costituzione di un vincolo di destinazione ai sensi dell’art. 2645-ter c.c. Si premette, peraltro, che si tratta di istituti fortemente discussi e la cui legittimità è tuttora dubbia (20), e questo già potrebbe dissuadere le parti che vogliano essere quanto più possibile certe circa la non impugnabilità del contratto che andranno a porre in essere. Un ulteriore elemento di dissuasione potrebbe essere dato dall’onerosità fiscale che il ricorso a simili strumenti comporta, almeno nelle ipotesi in cui alla costituzione di vincolo si abbina un trasferimento di ricchezza (21). Ad ogni buon conto, per chi ritenga di potersi avvalere degli strumenti in parola, ed ammesso che l’assicurarsi una vecchiaia tranquilla e senza problemi economici costituisca un interesse meritevole di tutela anche a scapito della garanzia, trasparenza e certezza della circolazione immobiliare (22), ben si potrebbe ipotizzare un trust (o la costituzione di un patrimonio) destinato ad essere amministrato da un soggetto di fiducia del disponente, al fine di assicurare a costui, che rivestirebbe anche la qualifica di beneficiario del trust, una rendita o un’assistenza vitalizia. Al termine del mandato per esaurimento dello scopo i beni, o meglio quel che residua dopo averli utilizzati per assicurare un dato tenore di vita al beneficiario-disponente, sarebbero ritrasferiti all’amministratore. Merita solo notare che in un caso simile si supera il problema circa la liceità di una clausola che, in un contratto di mantenimento, attribuisca all’alienante la facoltà di vendere uno o più dei suoi beni in caso di bisogno, e sulla quale ci si soffermerà in seguito. Il prestito vitalizio ipotecario Da ultimo, va preso in esame un istituto recentissimo, pur se di scarsa applicazione. Il cd. prestito vitalizio ipotecario o “reverse mortgage” è stato introdotto nel nostro ordinamento dall’art. 11-quaterdecies, comma 12, D.L. 30 settembre 2005, n. 203, convertito con modifiche dalla L. 2 dicembre 2005, n. 248 (23). Il contratto di prestito vitalizio ipotecario, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, appare di applicazione ben più limitata rispetto al contratto di mantenimento (può infatti essere acceso solo da ultrasessantacinquenni ed il suo oggetto non può che essere un immobile ad uso abitativo), ma alcune finalità che si vogliono raggiungere con i due istituti possono essere coincidenti. Infatti, con il prestito vitalizio il disponente riceve un prestito immediatamente spendibile ovvero, a sua scelta, un vitalizio, in entrambi i casi senza obbligo di restituzione rateale, che rimborserà integralmente alla scadenza (termine generalmente fissato al decesso del debitore). In tale momento il debitore, o più spesso i suoi eredi, saranno tenuti al rimborso di capitale ed interessi (24), e potranno scegliere se ritenere l’immobile pagando la somma richiesta o se alienare detto immobile per soddi- 200 NOTARIATO N. 2/2009 sfare la banca con il ricavato. Più spesso è lo stesso istituto di credito erogante che richiede al debitore il rilascio di uno speciale mandato irrevocabile, a valersi anche post mortem (25), ad alienare l’immobile per estinguere il debito con il prezzo ricavato. Come si può vedere, dunque, anche con questo strumento una persona anziana può disporre del proprio immobile (concedendolo in ipoteca e perciò senza privarsi del possesso, vita sua natural durante) per ricavarne una somma di denaro da spendere come meglio crede, ed anzi la potenziale solidità economica della controparte potrebbe essere determinante nello scegliere questo istituto; tuttavia esula completamente dal prestito vitalizio una qualsiasi assistenza morale o materiale in favore del vitaliziato, e pertanto sotto questo profilo i due istituti si differenziano nettamente. 3. Rapporti con la comunione legale e con la prelazione agraria Appare di particolare interesse per il notaio soffermarsi, sia pur brevemente, sui riflessi che la stipula di un contratto di mantenimento può avere su determinati istituti di grandissimo rilievo ed incidenza nella contrattazione immobiliare. Per quanto riguarda i rapporti dell’istituto con il regime Note: (20) Il trust secondo molti autori non avrebbe cittadinanza nel nostro ordinamento, se non attraverso il recepimento di normative straniere; sarebbe in altre parole vietata la costituzione di un trust meramente interno. Né a mutare la situazione è intervenuto l’art. 2645-ter c.c. che, lungi dal definire o regolamentare un istituto, si limita a consentirne la trascrivibilità, e non prevede né una tipizzazione delle possibili finalità cui è preordinato il vincolo di destinazione, né alcuna regola per l’amministrazione o la gestione dei beni oggetto del patrimonio segregato, così lasciando aperta per l’interprete la questione circa la liceità del contenuto di un tale atto. (21) Si v. al riguardo la recente Circolare 3/E del 22 gennaio 2008 dell’Agenzia delle Entrate. (22) Il solo interesse ad assicurarsi un futuro dignitoso è di per sé senza dubbio meritevole di tutela, e del resto non è in dubbio la liceità di contratti di mantenimento o vitalizio alimentare che tali interessi perseguono, il punto è piuttosto che questi riguardano solo gli interessi delle parti e non toccano interessi di terzi; con la costituzione di un trust o vincolo di destinazione, invece, si segrega una parte del patrimonio rendendolo insensibile alle vicende patrimoniali del disponente e del beneficiario e, di fatto, difficilmente aggredibile dai creditori. Orbene, a parere di chi scrive, in casi del genere l’analisi della meritevolezza degli interessi deve essere maggiormente approfondita e selettiva per assicurarne la liceità, contrastando con l’interesse, pure tutelato, della garanzia patrimoniale in favore dei creditori e della loro par condicio. (23) Detta norma, estremamente sintetica, dispone che “il prestito vitalizio ipotecario ha per oggetto la concessione da parte di aziende ed istituti di credito (…) di finanziamenti a medio e lungo termine con capitalizzazione annuale di interessi e spese, e rimborso integrale in unica soluzione alla scadenza, assistiti da ipoteca di primo grado su immobili residenziali, riservati a persone fisiche con età superiore ai 65 anni compiuti”. (24) Si segnala che nel contratto in esame è espressamente consentito l’anatocismo, e ciò costituisce un altro fattore di onerosità che ne sconsiglia l’applicazione. (25) Sulla cui liceità vi è comunque qualche dubbio. ARGOMENTI•OBBLIGAZIONI E CONTRATTI legale di comunione dei beni, occorre chiedersi cosa avviene se il vitaliziante sia coniugato in regime di comunione legale dei beni. Posto che in ogni caso l’assunzione del debito di facere, come del resto di tutte le obbligazioni, è personale e non ricade anche sul coniuge - ancorché in comunione legale dei beni - del soggetto vitaliziante che non partecipi all’atto, è piuttosto da chiedersi se invece lo stesso benefici del meccanismo automatico di acquisto di cui all’art. 177, lett. a), c.c. L’alternativa potrebbe essere infatti una riconduzione di detto acquisto alla fattispecie enucleata dall’art. 177, lett. d), c.c. secondo cui costituiscono oggetto della comunione “i proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi se, allo scioglimento della comunione, non siano stati consumati”; orbene, qualificando l’attribuzione ricevuta dal vitaliziante come provento della sua attività separata, la stessa dovrebbe ricadere nel regime della cd. comunione de residuo. Secondo la dottrina che si è occupata della questione (26), però, si può parlare di proventi solo in caso di compenso monetario che il soggetto riceva, ad esempio, in virtù di un normale contratto di lavoro subordinato a carattere assistenziale. In ogni caso in cui il compenso sia invece sostituito da un’attribuzione patrimoniale (un bene mobile, immobile, un capitale) saremmo invece in presenza di una sorta di reinvestimento che il soggetto faccia del compenso ricevuto o a riceversi. Detto reinvestimento, analogamente a quanto avviene nella datio in solutum, si ritiene non sfugga al meccanismo della comunione legale di cui all’art. 177, lett. a), c.c. (27), né del resto sussiste alcuna delle condizioni che legittimano l’applicazione dell’art. 179 c.c. Trattando invece dell’istituto della prelazione agraria, che naturalmente viene in luce solo qualora il corrispettivo delle prestazioni assistenziali sia dato da un fondo rustico, si segnala che, secondo la dottrina e la giurisprudenza che si sono occupate nello specifico della questione (28), essa è inapplicabile al contratto in esame stante l’essenziale infungibilità delle prestazioni assunte dal vitaliziante, pur trattandosi di contratto oneroso ed a prestazioni corrispettive. Estendendo il ragionamento anche ad altre ipotesi, si può agevolmente negare l’applicabilità al contratto in esame anche delle altre prelazioni legali e, perché no, delle prelazioni volontarie. 4. Il contratto di mantenimento a favore del terzo Nella varietà della casistica può facilmente capitare che il vitaliziante che si obbliga nei confronti del vitaliziato non voglia ritenere il bene ricevuto in cambio, quanto piuttosto volgerlo in favore di un altro soggetto estraneo alla vicenda contrattuale (29). Può anche, per converso, accadere che una persona, non potendo (magari per età, salute o impegni di lavoro) occuparsi del mantenimento di un proprio congiun- to, sia disposto a “delegare” tale cura ad un terzo offrendogli in cambio un vantaggio patrimoniale, oppure voglia che ciò accada dopo la sua morte (cfr. art. 1412 c.c.) (30). In entrambi i casi siamo di fronte all’applicazione - del tutto lecita - del noto istituto del contratto a favore del terzo (artt. 1411 ss. c.c.) al contratto di mantenimento. La possibilità di utilizzare lo schema del contratto a favore del terzo discende già dai principi generali, e non è necessario a tal fine richiamare l’applicabilità dell’art. 1875 c.c., dettato in tema di rendita vitalizia, al contratto di mantenimento. Nel primo dei casi sopra esemplificati il vitaliziato assume la veste del promittente, ed il vitaliziato quella dello stipulante; nel secondo, invece, le parti appaiono invertite. Può, anche, stipularsi un contratto di mantenimento solo parzialmente a favore del terzo, ed anzi il caso è più frequente di quanto si creda. Si pensi magari ad una coppia di anziani coniugi, che intendono assicurarsi una vecchiaia serena e senza preoccupazioni economiche, ma dei quali solo uno sia proprietario di immobili. Nulla di più facile che questi sia disposto a trasferire uno o più beni ad un vitaliziante che, in cambio, si prenda cura di entrambi. In questo caso il coniuge non proprietario verrebbe ad essere beneficiario di una delle prestazioni dedotte in contratto per il solo fatto dell’avvenuta stipulazione, senza che sia necessaria la sua partecipazione all’atto e addirittura potendo ciò avvenire anche a sua insaputa. La stipula di un contratto di mantenimento a favore del terzo costituisce senza dubbio una liberalità indiretta, che come tale non necessità delle formalità tipiche della donazione (31), e che, secondo il disposto dell’art. 1411 c.c., come si è detto innanzi, non necessita nemmeno dell’intervento in atto del terzo beneficiario della prestazione, che è per l’appunto terzo e non parte del contratto. In tal caso però, e sino all’avvenuta espressa accettazioNote: (26) Cfr. Catti, Contratto di mantenimento e comunione legale, in Vita Notarile, 1991, 324 ss.; Ruotolo, Contratto di mantenimento e comunione legale, in Studi e Materiali, 1998, 5.2, 703. (27) Così Catti, op. cit., 324 ss.; Ruotolo, op. cit., 704; conf. Cass. n. 4273/1996, in questa Rivista, 1997, 1, 27. (28) Peirano, op. cit., 611 ss.; Trojani, op. cit., 1443; Cass. n. 5855/1980, in Riv. Dir. Agr., 1981, II, 402; Cass. n. 3625/1982 e Cass. n. 7679/1986, in Foro it., 1987, I, 1085, che però espressamente ammette la prelazione in caso di costituzione di rendita vitalizia, argomentando in tal caso dalla fungibilità delle prestazioni. (29) Non è il caso di tornare in questa sede sulla nota questione, ormai risolta in senso positivo, circa l’applicabilità degli artt.1411 ss. c.c. ai contratti ad effetti reali. (30) Cfr. per l’ammissibilità C.N.N. (Est. Leo), Contratto di mantenimento a favore del terzo “post mortem”, Studio n. 4089/2003. (31) Cfr. anche l’art. 1875 c.c. in tema di rendita vitalizia, espressamente nello stesso senso. NOTARIATO N. 2/2009 201 ARGOMENTI•OBBLIGAZIONI E CONTRATTI ne del terzo, la prestazione in favore del terzo è revocabile o modificabile; d’altra parte il terzo ben potrebbe rifiutare il beneficio che in tal caso tornerebbe nel patrimonio dello stipulante (cfr. art. 1411 c.c.). Per tali motivi è quanto mai opportuno, se possibile, che il terzo partecipi all’atto notarile e manifesti espressamente il suo consenso, con ciò rendendo irrevocabile la stipulazione a suo favore a beneficio della certezza dei traffici giuridici. 5. Apposizione di elementi accidentali al contratto di mantenimento Sempre allo scopo di configurare il contenuto contrattuale di modo che si adatti perfettamente alle esigenze delle parti, si passa ora ad esaminare una serie di clausole ed elementi accidentali che possono essere apposti al contratto di mantenimento vitalizio. L’analisi partirà da un caso concreto, reso noto dalla celebre sentenza n. 6083/1988; in esso il vitaliziato cedeva la nuda proprietà di un immobile e dei mobili in esso contenuti dietro corrispettivo del mantenimento. Con separata ma contestuale scrittura privata le parti pattuivano inoltre: a) che la cessione dei beni avrebbe avuto valore solo dopo la morte del vitaliziato (32); b) che costui avrebbe potuto, in caso di bisogno, vendere tutti o parte dei beni oggetto del contratto, in tal caso corrispondendo al vitaliziante un adeguato compenso per le prestazioni effettuate. Tralasciando ogni commento sulla atecnicità e sulle inesattezze di cui alla citata scrittura privata, le domande che si traggono da questo caso sono le seguenti: avrebbe potuto il notaio rogante inserire nell’atto pubblico un termine iniziale per il trasferimento della proprietà, coincidente con la morte del vitaliziato? E ancora: avrebbe potuto lo stesso, nel medesimo atto, attribuire al vitaliziato la facoltà di vendere uno o più dei beni trasferiti in caso di bisogno (33)? Quanto al primo quesito, il problema che balza subito agli occhi è dato dal possibile conflitto con il divieto dei patti successori (artt. 458 ss. c.c.), trattandosi del trasferimento della proprietà cum moriar; l’ipotesi non appare del tutto peregrina e pertanto è da considerare con notevole cautela (34), va peraltro segnalato come la sentenza citata rigetti esplicitamente detta ricostruzione e attribuisca piena liceità alla clausola in esame. Anche in dottrina appare prevalente ed autorevolmente sostenuta la tesi contraria (35), che si basa, fra l’altro, sulla immediata produzione di effetti preliminari e sulla creazione di aspettative giuridiche legalmente tutelate. Quanto al secondo quesito, anche qui si segnala che la Corte, nell’unico caso edito, ha attribuito piena validità alla clausola; sulla sua natura giuridica ci si può richiamare al legato di usufrutto con facoltà di vendere per il caso di bisogno. Questo istituto, invero desueto nella pratica, è stato ricostruito da una sentenza (36) mai contraddetta come una duplice attribuzione condizio- 202 NOTARIATO N. 2/2009 nata: l’una, traslativa della nuda proprietà e risolutivamente condizionata allo stato di bisogno dell’usufruttuario, e l’altra, avente ad oggetto sia, incondizionatamente, il diritto di usufrutto e sia, sotto la condizione sospensiva del ricorrere dello stato di bisogno, la nuda proprietà del bene (37). Naturalmente, come nello specifico caso che si esamina, la facoltà di vendere deve essere correlata ad un dato oggettivo (qual è per l’appunto il ricorrere dello stato di bisogno) e non essere esercitabile ad libitum dal beneficiario. Stante però la natura assai controversa degli istituti presi in esame e la assoluta scarsità di pronunce giurisprudenziali in materia, il ricorso a questo istituto non appare consigliabile. Trattando poi di un altro elemento accidentale, si deve sottolineare come sia costante preoccupazione del vitaliziato restare senza assistenza, dopo essersi spogliato dei suoi beni. A tal proposito, al fine di evitargli di dover affrontare una lunga azione giudiziale per il recupero di quanto alienato, si potrebbe pensare ad una condizione risolutiva di inadempimento (ovvero sospensiva di adempimento, che troverebbe naturalmente efficacia al decesso del vitaliziato). Non è questa la sede per addentrarsi nella disputa dottrinale relativa alla liceità o meno di tale elemento accidentale (38), qui si può solo, brevemente, far rilevare come a fronte di numerose voci contrarie in dottrina (39), si levino convincenti voci favorevoli da parte di alcuni studiosi (40) e soprattutto la giurisprudenza si Note: (32) Cosa di per sé già insita nel trasferimento della sola nuda proprietà, riservandosi il disponente l’usufrutto vita sua natural durante. (33) Entrambi gli argomenti sono approfonditi da Calò, op. cit., 1165 ss., nella nota a commento della sentenza che si esamina. (34) Si segnala al proposito che una isolata sentenza della Cassazione, n. 4053/1987, in Riv. Notar., 1987, 582, ha effettivamente sanzionato con la nullità per violazione dell’art. 458 c.c. un contratto con cui si disponeva di un bene a termine iniziale coincidente con la morte del disponente. (35) Cfr. Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli; Torrente, La donazione, Milano; Capozzi, cit., 33; Azzariti-Martinez-Azzariti, Successioni per causa di morte e donazioni, Padova, 10 ss.; Grosso e Burdese, Le successioni, in Trattato Vassalli, Torino; Ieva, I fenomeni parasuccessori, in Riv. Notariato, 1988, 1190 ss. (36) Cass. n. 2088/1993, in Vita Notar., 1994, 261. (37) Con la precisazione che secondo la prevalente dottrina l’accertamento del verificarsi dello stato di bisogno dovrebbe essere rimesso ad un terzo imparziale, su disposizione dell’alienante, per evitare impugnazioni pretestuose. (38) V. per tutti per la tesi negativa Fusco, L’inadempimento come condizione del contratto, in Vita Notar., 1983, 304 ss.; per la tesi positiva Lenzi, In tema di adempimento come condizione: ammissibilità, qualificazione e disciplina, in Riv. Not., 1986, 87 ss. (39) Ben riportate da Lenzi, op. cit., 87-88. La dottrina contraria si basa sulla considerazione per cui l’evento dedotto in condizione dovrebbe essere, oltre che futuro ed incerto, anche estrinseco rispetto alla fattispecie concreta cui accede. (40) Con la precisazione di usare l’accortezza di subordinare all’avverarsi della condizione non l’efficacia dell’intero contratto ma solo il prodursi di alcuni e ben determinati effetti. ARGOMENTI•OBBLIGAZIONI E CONTRATTI mostri concorde nel ritenere ammissibile la condizione di adempimento (41). La stessa pertanto potrebbe essere apposta, sia pur con le cautele del caso, ad un contratto di mantenimento vitalizio al fine di meglio tutelare la posizione contrattuale del vitaliziato. 6. La patologia del mantenimento: impossibilità sopravvenuta di effettuare la prestazione nei confronti del vitaliziato Occorre ora chiedersi cosa avviene se il vitaliziante divenga impossibilitato ad eseguire la sua prestazione, ad esempio per sopravvenuta inabilità fisica o per premorienza al vitaliziato, e quale sia in questi casi la sorte dell’attribuzione da lui ricevuta. Al riguardo sono state espresse diverse opinioni: secondo alcuni autori l’intuitus personae è elemento talmente essenziale e caratterizzante l’istituto, “con la conseguenza che l’obbligato non potrà farsi sostituire nell’adempimento e la prestazione non potrà essere adempiuta dagli eredi dello stesso estinguendosi alla sua morte, né sarà suscettibile di esecuzione in forma specifica” (42). Secondo altri addirittura in caso di impossibilità sopravvenuta della prestazione in natura la stessa ben potrebbe essere sostituita da una quantificazione in denaro e pertanto eseguita dagli eredi del vitaliziante, in virtù di una applicazione analogica del disposto dell’art. 443 c.c. dettato in tema di alimenti (43). Questa tesi, in passato sostenuta dalla prevalente giurisprudenza (44), sembra attualmente minoritaria. Pur volendo aderire alla tesi che appare dominante, e cioè a quella della risolubilità in tal caso del contratto per impossibilità sopravvenuta, con conseguente retrocessione dell’immobile ricevuto nel patrimonio del vitaliziato (ed eventualmente con la corresponsione di un compenso, determinabile dal magistrato, per i servigi sino ad allora ricevuti), occorre chiedersi se l’intuitus personae, ritenuto unanimemente un elemento caratterizzante l’istituto, sia derogabile contrattualmente. In altri termini, è consentito alle parti attribuire un certo grado di fungibilità alle prestazioni del vitaliziante, eventualmente consentendone la sostituzione? Al riguardo può essere illuminante la massima della Cassazione nella sentenza n. 1503/1998, secondo cui “il contratto con il quale una parte dietro corrispettivo della cessione di un immobile, si obbliga, anche per i propri eredi e aventi causa, a prestare all’altra per tutta la durata della vita una completa assistenza materiale e morale provvedendo ad ogni sua esigenza di vita, integra un contratto atipico qualificabile come vitalizio improprio, alla cui configurabilità non è d’ostacolo la previsione che l’assistenza possa essere fornita anche dagli eredi o aventi causa del contraente, atteso che l’infungibilità della prestazione che caratterizza il detto contratto va riferita alla sua insostituibilità con una prestazione in denaro ed alla correlata incoercibilità: con l’ulteriore conseguenza che al fine di tutelare l’interesse del vitali- ziato nel caso di inadempimento degli indicati obblighi assistenziali, trovano applicazione le regole generali sulla risoluzione per inadempimento anziché la norma speciale di cui all’art. 1878 cod. civ., escludente il rimedio della risoluzione in caso di mancato pagamento delle rate di rendita.” (45). In definitiva, trattandosi di un contratto atipico, è ben possibile che i contraenti ne modellino il contenuto a proprio piacimento prevedendo la possibilità per il vitaliziante di sostituire la propria prestazione con la esplicita previsione che il vitaliziante si obbliga per sé e propri eredi e aventi causa, ovvero con altra obbligazione di diverso contenuto (i cui contorni dovranno però essere delineati con la massima precisione nel contratto di vitalizio, come pure i casi in cui la sostituzione sarà ammessa). Sarà quindi essenziale precisare con estrema chiarezza, sotto il profilo della redazione del contratto, se l’obbligo di prestare assistenza viene assunto dal vitaliziante solo per sé ovvero per sé e successivi aventi causa, e se costoro avranno facoltà, in casi prestabiliti, di liberarsi mediante l’esecuzione di una diversa prestazione, ecc. (46). 7. La patologia del mantenimento: azioni di risoluzione, rescissione e riduzione Si può velocemente dare una risposta circa l’impugnabilità del contratto di mantenimento mediante le azioni di rescissione per lesione (art. 1447 ss. c.c.) e di riduzione (art. 553 ss. c.c.). Trattandosi di un contratto aleatorio, il rimedio della rescissione è senz’altro escluso (47). Né è applicabile ad esso l’istituto della riduzione, trattandosi di contratto oneroso (salvo che si provi l’esistenza della simulazione e di un contratto dissimulato di donazione modale). Resta da trattare dell’applicabilità della risoluzione per inadempimento al mantenimento vitalizio, argomento questo che richiede maggiore approfondimento, vista l’ampia casistica giurisprudenziale. Note: (41) Cfr. Cass. n. 1432/1983; Cass. n. 1181/1983, in Riv. Notar., 1983, 481; Cass. n. 2529/1983; Cass. n. 8051/1990; Cass. n. 10074/1993; Cass. n. 1842/1997, in Corr. giur., 1997, 9, 1102; Cass. n. 3415/1999, in questa Rivista, 1999, 5, 407; contra, peraltro, sebbene isolata, Cass. n. 7007/1993, in Giur. it., 1994, I, 1, 902. (42) Così espressamente Perseo, Risoluzione del contratto di mantenimento, in questa Rivista, 1998, 235; nello stesso senso Peirano, op. cit., 611 ss.; Cass. n. 5342/1997, ivi, 1998, 3, 235. (43) Così Trojani, op. cit., 1450-1451. (44) Cfr. ad es. Cass. n. 3501/69; Cass. n. 1683/1982; Cass. n. 4539/1986, in Stato Civ. It., 1987, 560. (45) Conf. in dottrina anche Petrelli, op. cit., 879 ss. (46) In dottrina conf. Petrelli, op. cit., 874 ss., che offre anche un accuratissimo formulario. (47) Cfr. art. 1448, comma 4, c.c., e del resto ne è applicazione in tema di rendita vitalizia - contratto aleatorio anch’esso - l’art. 1879 c.c., secondo comma. NOTARIATO N. 2/2009 203 ARGOMENTI•OBBLIGAZIONI E CONTRATTI L’indagine può prendere le mosse dall’articolo 1878 c.c. che, in caso di rendita vitalizia, dispone l’inapplicabilità del rimedio risolutorio prevedendo invece che il vitaliziato che non riceva più la sua rendita possa far sequestrare e vendere i beni del debitore onde soddisfarsi sul ricavato. Occorre ricordare che fino a qualche anno fa il contratto di mantenimento era da una cospicua giurisprudenza considerato solo un sottotipo della rendita vitalizia, con conseguente diretta applicabilità allo stesso dell’articolo da ultimo citato (48). Detta giurisprudenza, facendo anche applicazione dell’art. 443 c.c. in tema di alimenti per desumere la possibile trasformazione dell’obbligo di facere in un equivalente in denaro (49), riteneva pertanto impossibile la risoluzione per inadempimento del contratto di mantenimento; la tesi era peraltro criticata da parte della dottrina. Dopo una serie di sentenze contrastanti e l’intervento delle Sezioni Unite della Cassazione (50), finalmente l’indirizzo giurisprudenziale appare uniformarsi a quanto da tempo la dottrina andava sostenendo, e cioè che la natura giuridica del mantenimento vitalizio quale contratto atipico, non sussumibile nella rendita vitalizia, renda inapplicabile, anche per analogia, l’art. 1878 c.c. definito quale norma speciale, con la conseguente applicabilità del normale rimedio di cui agli artt. 1453 ss. c.c. (51). Del resto appare chiaro come sia la ratio ad essere sottesa all’art. 1878 c.c. a non sposarsi affatto con le esigenze vitali che spingono l’assistito a stipulare un contratto di mantenimento. E difatti, il divieto di risolvere il contratto di rendita vitalizia a causa dell’inadempimento del vitaliziante deriva dalla possibilità di ottenere, tramite il sequestro e la vendita dei beni di costui, un importo pari a quello della rendita, mentre una soluzione del genere in nulla potrebbe appagare chi cerca una prestazione che è stata definita addirittura di carattere spirituale, ed in cui, come si è detto, al vitaliziato più che gli aspetti economici interessano quelli morali e sociali. Non avendo perciò la possibilità di ottenere giudizialmente una prestazione che per lui possa dirsi davvero equivalente (52), negargli la possibilità di risolvere il contratto significherebbe privare il vitaliziato di tutela di fronte all’inadempimento, per di più quando egli si è già spogliato dei suoi beni ed è quindi particolarmente debole. In tali casi, il deterioramento del sinallagma contrattuale determinato dall’inadempimento giustifica il rimedio della risoluzione del contratto. È ovvio che bisogna operare una corretta valutazione degli interessi patrimoniali in gioco e di conseguenza saper discernere tra inadempimento lieve e grave, avuto anche riguardo alle esigenze ed aspettative di vita del vitaliziato; a tal proposito la funzione di adeguamento ed una attenta redazione del contratto consentiranno di evitare cause lunghe e dannose. Ad esempio è stato ritenuto possibile prevedere il ricorso ad una diffida ad adempiere, di cui all’art. 1454 204 NOTARIATO N. 2/2009 c.c., o, preferibilmente, apporre al contratto una clausola risolutiva espressa (cfr. art. 1456 c.c.), avendo cura di specificarne il concreto contenuto in termini di ipotesi di inadempimento e gravità del medesimo (53); senza questa specificazione, invero, si perderebbe molta dell’utilità della clausola, volta da un lato a ridurre la discrezionalità della valutazione del giudice e ad evitare i lunghi tempi del processo, e dall’altro ad evitare ricatti e liti pretestuose da parte di vitaliziati “capricciosi”. Per quanto attiene invece alla possibilità di inserire una condizione di adempimento, si fa rinvio a quanto detto al precedente paragrafo 5. 8. Nullità del contratto per difetto di causa Delle varie pronunce di legittimità sinora citate, numerose sono quelle che prendono posizione anche circa la nullità del contratto di mantenimento vitalizio per difetto di alea (54). Chiarissima sul punto è stata la Cassazione nella sentenza n. 117/1999, secondo cui “quando l’entità assicurata sia inferiore o uguale ai frutti o agli utili ricavabili dal cespite ceduto, ovvero quando il beneficiario della rendita sia da ritenere prossimo alla morte per malattia o per l’età particolarmente avanzata, manca l’elemento essenziale del contratto di mantenimento, ossia l’alea, rendendo nullo il negozio per difetto di causa” (55). La Corte pertanto pone l’accento su due diversi elementi: l’uno, oggettivo, relativo all’eccedenza della rendita sui frutti, e l’altro, soggettivo, relativo alle condizioni di salute della persona sulla cui vita si costituisce il Note: (48) Cass. n. 330/1966; Cass. n. 1658/1964; Cass. n. 3553/1977; Cass. n. 4801/1978, in Giust. civ., 1979, I, 492; Cass. n. 1683/1982. (49) Su cui v., oltre quanto detto al paragrafo precedente, Cass. n. 4539/1986, in Giust. civ., 1987, I, 1520; Cass. n. 1683/1982. (50) Cfr. la nota sentenza n. 8432/1990, in Riv. Notar., 1991, 174. (51) Così, tra le altre, Cass. n. 8825/1996, in Contratti, 1997, 2, 173; Cass. n. 5342/1997, in questa Rivista, 1998, 3, 235; Cass. n. 1401/1992; Cass. n. 1503/1998; Cass. n. 7033/2000, in Corr. giur., 2000, 7, 856. (52) Salvo, naturalmente, prevedere già in contratto una equivalenza o fungibilità con altra prestazione. (53) Così espressamente Perseo, op. cit., 235 ss.; conf. Peirano, op. cit., 611 ss. (54) Il difetto di alea, essendo questa un elemento caratterizzante il contratto sotto il profilo causale, comporta che il contratto stesso venga meno in realtà per difetto di causa. (55) Giurisprudenza pacifica: si v., tra le altre, Cass. n. 1516/1997, Cass. n. 4503/1996, in Contratti, 1996, 5, 473; Cass. n. 8287/1995, Cass. n. 9998/1992 (questa sentenza, come tutte le altre, ove non diversamente segnalato, è stata reperita su Banche Dati Giuridiche AURUM DVD, UTET Giuridica, 2008). La Corte è stata talmente chiara nel formulare i requisiti sulla base dei quali può ritenersi esistente l’alea che G. Petrelli, nel suo Formulario Notarile Commentato (op. cit., 874 ss.), li inserisce in una clausola ad hoc nel contratto, del seguente tenore: “entrambe le parti dichiarano che il valore annuo delle prestazioni a carico del vitaliziante è superiore a quello dei frutti e redditi normalmente percepiti dall’immobile come infra trasferito in corrispettivo”. ARGOMENTI•OBBLIGAZIONI E CONTRATTI contratto (56) o alla conoscenza di dette condizioni di salute che ne abbiano le parti contraenti. Ne deriva che occorre prestare molta attenzione nella trasfusione della volontà delle parti in un contratto di mantenimento vitalizio, supportando, se del caso, la scelta del tipo contrattuale con un certificato medico che attesti le condizioni di salute dell’alienante. Naturalmente ciò che si richiede non sono certo le perfette condizioni di salute del beneficiario quanto piuttosto la sua possibilità di sopravvivenza (57): il contratto sarà nullo se era prefigurabile, con ragionevole certezza, il tempo del suo decesso e dunque era possibile calcolare, per entrambe le parti, guadagni e perdite. Molto difficile sarà definire quale possa essere “l’età avanzata” da cui si desuma con elevata probabilità l’imminenza della morte, e quindi quale sia il termine ultimo per poter addivenire alla stipula di un contratto di mantenimento. Ci sono poi due particolari questioni sulle quali è interessante soffermarsi. La prima, esaminata dal Tribunale di Cagliari con sentenza in data 9 aprile 1993, riguarda il caso di due coniugi: il marito aveva trasferito alla moglie la nuda proprietà di un immobile in cambio di assistenza, cure ed ospitalità già prestate e promesse per il futuro. Orbene, la Corte ha ritenuto radicalmente nullo il contratto per difetto di causa, in quanto gli obblighi di coabitazione ed assistenza tra marito e moglie discendono già per legge direttamente dal rapporto di coniugio e dunque non li si può dedurre in contratto quali prestazioni. Ci si potrebbe chiedere a questo punto se il ragionamento possa essere esteso a tutti gli altri soggetti obbligati alla prestazione degli alimenti ex artt.433 e 437 c.c. La questione non è mai stata presa in considerazione dalla giurisprudenza, ma come si è avuto modo di osservare in precedenza le due prestazioni, di alimenti e di mantenimento, differiscono di gran lunga sia per il contenuto quantitativo dell’obbligazione (lo stretto necessario in caso di alimenti, un certo tenore di vita nel caso del mantenimento), sia per l’essere legate o meno al ricorrere di uno stato di bisogno. Pertanto il problema si potrebbe al più porre qualora un soggetto volesse contrarre con il proprio figlio o con un proprio donatario un contratto di vitalizio alimentare, non già un contratto di mantenimento. Anzi, si potrebbe pensare al contratto di mantenimento, pur con tutte le cautele del caso, per consentire ad esempio ad un genitore o ad un nonno di beneficiare solo uno o alcuni dei possibili legittimari, così “pretermettendo”, in maniera del tutto lecita, coloro che si dimostrano poco accorti ed affezionati e si astengono dal prestare ogni cura. La seconda questione su cui merita soffermarsi è pure originata da una sentenza: si trattava del caso in cui, stipulato un contratto di mantenimento tra un vitaliziante ed un vitaliziato, costui, essendo divenuto troppo gravoso l’obbligo di assistenza, consentiva quattro anni dopo alla cessione di un ulteriore immobile in favore del vitaliziante. Orbene, la Corte ha ritenuto nulla per mancanza di causa la seconda alienazione in quanto “il trasferimento di un altro bene (…) quale compenso della maggiore gravosità sopravvenuta dell’assistenza materiale e morale da prestare, è privo di causa perché in tal modo l’ulteriore attribuzione patrimoniale rispetto alla precedente con identico contratto elimina il rischio connaturale a questo di sproporzione tra le due prestazioni” (58). La sentenza prosegue poi osservando che nemmeno l’attribuzione resa poteva qualificarsi quale donazione (dissimulata), giacché in tal caso la stessa sarebbe stata nulla per il difetto della forma solenne di cui all’art. 782 c.c.: “poiché non è giustificata da un diverso corrispettivo, la causa di scambio dissimula quella di liberalità, e il relativo contratto è nullo, se non ha la forma della donazione”. 9. Regime fiscale Per quanto attiene al regime fiscale dell’istituto in esame occorre richiamare gli artt. 43 e 46, D.P.R. n. 131/1986 (Testo Unico dell’Imposta di Registro). Il primo dispone che “la base imponibile, salvo quanto disposto negli articoli seguenti, è costituita: (…) c) per i contratti che importano l’assunzione di una obbligazione di fare in corrispettivo della cessione di un bene o dell’assunzione di altra obbligazione di fare, dal valore del bene ceduto o della prestazione che dà luogo all’applicazione della maggiore imposta, salvo il disposto del comma 2 dell’art. 40”. L’art. 46, che ne è diretta applicazione, stabilisce che “per la costituzione di rendite la base imponibile è costituita dalla somma pagata o dal valore dei beni ceduti dal beneficiario ovvero, se maggiore, dal valore della rendita; per la costituzione di pensioni la base imponibile è costituita dal valore della pensione”, e che “Il valore della rendita o pensione è costituito: (…) c) dall’ammontare che si ottiene moltiplicando l’annualità per il coefficiente indicato nel prospetto allegato al presente testo unico, applicabile in relazione all’età della persona alla cui morte deve cessare, se si tratta di rendita o pensione vitalizia.”. Pertanto sembra doversi ritenere che il contratto in esame debba essere tassato sulla base del valore maggiore, sia esso quello dei beni trasferiti - tassato al 3% se capitale in denaro, al 7, 8 o 15% se immobile, a seconda della sua natura e salva la possibilità di beneficiare di agevolazioni fiscali che riducano l’aliquota) - ovvero quello del valore della rendita o pensione, determinato Note: (56) Così anche Botta, Alea e causa del contratto di mantenimento, in questa Rivista, 1999, 220 ss. (57) Cfr. Cass. n. 19763/2005, in Contratti, 2006, 4, 388. (58) Si tratta di Cass. n. 10332/1998, in Contratti, 1999, 3, 221. NOTARIATO N. 2/2009 205 ARGOMENTI•OBBLIGAZIONI E CONTRATTI sulla base del disposto del citato art. 46 (59), valore che va naturalmente quantificato in atto. Al riguardo è da segnalare che parte della dottrina (60) ritiene che il contratto di mantenimento sia da qualificare in termini di pensione, e non di rendita, con la conseguente determinazione della base imponibile sempre e solo in relazione al valore della prestazione vitalizia e non di quello dell’immobile. Un ulteriore approfondimento merita la questione circa la possibilità di applicare al contratto in esame (61) il cd. sistema del “prezzo-valore” introdotto dall’art. 1, comma 497, L. n. 266/2005, secondo cui “per le sole cessioni nei confronti di persone fisiche che non agiscano nell’esercizio di attività commerciali, artistiche o professionali, aventi ad oggetto immobili ad uso abitativo e relative pertinenze, all’atto della cessione e su richiesta della parte acquirente resa al notaio, la base imponibile ai fini delle imposte di registro, ipotecarie e catastali è costituita dal valore dell’immobile determinato ai sensi dell’articolo 52, commi 4 e 5, del citato testo unico di cui al D.P.R. n. 131/1986, indipendentemente dal corrispettivo pattuito indicato nell’atto”. Sembra non sussistano motivi ostativi all’applicabilità di detta disciplina al contratto di mantenimento vitalizio, trattandosi comunque di un contratto a titolo oneroso che ha, tra l’altro, ad oggetto una cessione immobiliare (62). 206 NOTARIATO N. 2/2009 Ciò del resto appare confermato anche dalla recente posizione assunta dall’Agenzia delle Entrate secondo cui “in ogni caso, rientra (…) nel regime di favore (…) ogni altro negozio assimilato al trasferimento, per il quale, la base imponibile è determinata con riferimento al valore del bene oggetto dell’atto, ai sensi dell’articolo 43 del Testo Unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro, approvato con D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 (…) espressamente richiamato dal comma 497” (63). Si può quindi sostenere senza dubbio l’applicabilità del meccanismo del prezzo-valore anche al contratto di mantenimento, in presenza degli ulteriori requisiti oggettivi e soggettivi. Note: (59) Così Lanzillotti-Magurno, Il Notaio e le imposte indirette, Stamperia Nazionale, 2004, 279. (60) Petrelli, op. cit., 880. (61) Quando, naturalmente, lo stesso abbia per oggetto abitazioni e/o relative pertinenze. (62) Così C.N.N., Commissione Studi Tributari, Finanziaria 2006 - La nuova disciplina tributaria delle cessioni di immobili abitativi ai fini delle imposte indirette (prezzo-valore), Studio n. 116/2005. (63) Risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 121/2007; supportata dalla successiva risoluzione n. 320/2007 specificamente in tema di permuta. ARGOMENTI•SOCIETA’ Società di capitali La multiproprietà azionaria alla luce della riforma delle società di capitali di BIAGIO CALIENDO L’Autore - dopo aver ripercorso ed analizzato il dibattito dottrinale e giurisprudenziale in merito all’ammissibilità della c.d. multiproprietà azionaria - prospetta una lettura dell’istituto alla luce della nuova formulazione degli artt. 2348 e ss. del codice civile. 1. Nozione Con il termine «multiproprietà», lungi dall’individuare una fattispecie unitaria, si descrive un istituto giuridico che si concretizza in figure negoziali diverse tra loro per struttura e per funzione. È possibile ricondurre il fenomeno ad un concetto unitario sul presupposto che tutte le singole fattispecie hanno un minimo comun denominatore consistente nel godimento turnario ed esclusivo di un bene immobile, per periodi determinati e ricorrenti ciclicamente in riferimento all’anno solare, da parte di diversi soggetti. Tale parola, dunque, di significato forse univoco dal punto di vista economico, indica, tuttavia, vicende tra loro così differenti in termini giuridici che deve essere accompagnata di volta in volta da un segno linguistico specificante («immobiliare»; «azionaria») (1). I multiproprietari, infatti, sono organizzati, in alcuni casi, ricalcando lo schema della comunione - istituita tra i turnisti di una medesima unità abitativa - e quello del condominio - istituito sulle parti comuni dell’edificio - (si parla, in tali ipotesi, di multiproprietà immobiliare); in altri casi, facendo riferimento al diritto delle società (si parla allora di multiproprietà azionaria) (2). La multiproprietà azionaria (3), in particolare, si caratterizza per il fatto che il diritto al godimento turnario dell’immobile risulta collegato - direttamente o indirettamente (attraverso una separata convenzione con cui la società lo attribuisce ai suoi soci) - alla titolarità di una o più azioni rappresentative di una quota di capitale sociale o alla titolarità di una quota di partecipazione, non rappresentata da azioni, di una società diversa da una s.p.a. (che resta comunque il modello di riferimento) (4). La differenza tra multiproprietà immobiliare e azionaria appare di effettivo rilievo. Mentre nell’una è connaturale l’acquisto diretto della proprietà o di un diritto reale sull’immobile a favore del socio, nell’altra l’azionista può vantare sul bene un diNote: (1) M. Confortini, La multiproprietà, Padova, 1983, 12. (2) M. Proto, Nuove prospettive in tema di multiproprietà azionaria (in attesa dell’intervento del legislatore), nota a Cass., sez. II, 10 maggio 1997, n. 4088, Storace c. Soc. Cortina Tre Croci, in Giust. civ., 1998, I, 1150. (3) Sull’argomento si vedano, tra monografie e contributi comparsi in riviste ed opere collettanee, oltre agli autori citati nelle note precedenti: A. Biffani, Riflessioni in tema di multiproprietà azionaria, in Banca, borsa e tit. cred., 1988, II, 173 ss.; C.A. Busi, Sulla ammissibilità della multiproprietà azionaria, nota a Cass., sez. II, 10 maggio 1997 n. 4088, in questa Rivista, 1998, I, 131 ss.; E. Calò, La multiproprietà azionaria accolta in Cassazione (nota a Cass., sez. II, 10 maggio 1997, n. 4088), in Giur. it., 1998, 431 ss.; G. Caselli, La multiproprietà, Milano, 1999; M. Confortini, In margine a due sentenze in tema di multiproprietà (nota a Trib. Napoli 21 marzo 1989 e App. Roma 12 maggio 1986), in Dir. giur., 1989, II, 446 ss.; Id., voce Multiproprietà, in Enc. giur Treccani, XX, Roma, Ist. per l’Enciclopedia Italiana, 1990; F. Di Ciommo, La multiproprietà azionaria, nota a Cass., sez. II, 10 maggio 1997, n. 4088, in Foro it., 1998, I, 2255 ss.; M. Ermini - M. Lasciafari - V. Pandolfini, I contratti di multiproprietà, Milano, 2003; M. Klun, Un modello di multiproprietà: la multiproprietà azionaria, in Le società, 1984, 858 ss.; A. Morace Pinelli, Riflessioni in tema di multiproprietà azionaria, nota ad App. Venezia 30 giugno 1994, n. 856, in Rass. dir. civ., 1997, I, 192 ss.; U. Morello, La multiproprietà azionaria, in Il notaro, 1983, 1 ss.; Id., Multiproprietà e autonomia privata, Milano, 1984; D. Pastore - A. Re, La multiproprietà: problemi e prospettive, in Riv. not., 2000, 841 ss.; F. Scaglione, Collegamento negoziale e multiproprietà azionaria, nota a Cass., sez. II, 10 maggio 1997, n. 4088, in Vita not., 1997, I, 1372 ss.; S. Tondo, Multiproprietà e funzione alberghiera, in Riv. not., 1984, 83 ss.; O. Amoruso Battista, La multiproprietà azionaria, in Giur. merito, 1985, 985 ss.; U. Vincenti, In tema di multiproprietà azionaria, nota a Cass., sez. II, 10 maggio 1997, n. 4088, in Foro it., 1998, I, 2262 ss.; G. Viotti, La Cassazione sulla multiproprietà azionaria, nota a Cass., sez. II, 10 maggio 1998, n. 4088, in Nuova giur. civ. comm., 1998, I, 295 ss. (4) F. Di Ciommo, cit., 2255. Secondo U. Morello, Multiproprietà e autonomia privata, cit., 139, il ricorso allo schema della società semplice per la realizzazione di forme di multiproprietà deve essere visto con favore data la compatibilità della struttura e delle logiche di funzionamento della società di persone con la multiproprietà, specialmente quando si tratta di insediamenti di dimensioni ridotte, con un numero limitato di turnisti. NOTARIATO N. 2/2009 207 ARGOMENTI•SOCIETA’ ritto di godimento di natura meramente obbligatoria esposto, conseguentemente, a possibili inadempimenti da parte della società ed al rischio di eventuali azioni da parte dei creditori di quest’ultima (5). Perciò la multiproprietà azionaria non può definirsi una forma di multiproprietà in senso proprio: titolare del complesso immobiliare rimane la società, e il diritto di godimento turnario non è equiparabile ad alcuno dei diritti reali cd. minori; in particolare, il diritto vantato dai soci non è personale né legato alla durata della vita del titolare ed è, infine, esercitabile soltanto in una frazione temporale di ciascun anno. La constatazione che il godimento del multiproprietario azionista si realizza esclusivamente attraverso «l’adempimento da parte della società proprietaria del bene dell’obbligazione di far godere» (6) non consente particolari dubbi sulla ascrivibilità di siffatto rapporto allo schema tipico dei diritti di credito (7). 2. Cenni storici ed evoluzione normativa Notevole è stata l’influenza esercitata dall’esperienza giuridica francese sullo sviluppo della multiproprietà in Italia. Il legislatore francese, con l’art. 1 della L. 8 giugno 1938, dichiarò valide le società, costituite secondo qualsiasi tipo ammesso dalla legge, aventi ad oggetto sia la costruzione o l’acquisizione di immobili in vista della loro divisione in frazioni da attribuire in proprietà ai soci («sociétés d’attribution»), sia l’amministrazione e la conservazione di immobili frazionati («compropriété»). Era espressamente previsto che tale società non avesse scopo di lucro e che rientrasse tra le c.d. imprese civili. Successivamente, con la L. n. 71-579 del 16 luglio 1971, fu abrogata parte della legge del 1938 e furono disciplinate espressamente al titolo II le «sociétés constituées en vue de l’attribution d’immeubles aux associés par franctions divises». Fu sancita, inoltre, la possibilità di attribuzione ai soci di una frazione dei beni sociali in godimento diretto permettendo di considerare il diritto di multiproprietà come un aspetto dello status di socio. Ma è con la L. n. 86-18 del 6 gennaio 1986 «relative aux sociétés d’attribution d’immeubles en jouissance à temps partagé» che il legislatore transalpino ha chiarito la preferenza per il modello multiproprietario c.d. azionario, non basato sui diritti reali, disciplinandolo appositamente: un nuovo tipo di società il cui regime tuttavia si presentava molto simile a quello della precedente società di attribuzione, che già poteva concludere contratti di multiproprietà azionaria a patto che non avesse scopo di lucro. L’assenza nel nostro ordinamento di un corpo di norme del tipo di quello tratteggiato nelle leggi del 1938, del 1971 e soprattutto del 1986, ha fatto sì che il fenomeno si sviluppasse secondo formule e schemi, per alcuni versi più avanzati e raffinati rispetto al modello francese, ma che si sono inevitabilmente scontrati con alcuni principi propri del nostro ordinamento. 208 NOTARIATO N. 2/2009 Ciò che ha richiesto uno sforzo interpretativo maggiore allo scopo di legittimare tale fattispecie, come più approfonditamente, nel prosieguo, evidenziato. In ambito comunitario la Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio del 26 ottobre 1994 n. 94/47/CE (8), concernente la tutela dell’acquirente per taluni aspetti dei contratti relativi all’acquisizione di un diritto di godimento a tempo parziale di beni immobili (G.U.C.E., 29 ottobre 1994, L 280/83), avrebbe dovuto trovare attuazione entro trenta mesi dalla sua pubblicazione. Tuttavia essa è stata recepita nel nostro ordinamento solo con l’entrata in vigore del D.Lgs. 9 novembre 1998, n. 427, successivamente assorbito, senza modificazioni, dal D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206 c.d. Codice del Consumo a norma dell’art. 7 della L. 29 luglio 2003, n. 229 (artt. 69-81). La dottrina (9) ha severamente criticato l’operato del legislatore italiano che avrebbe dovuto evitare di «appiattirsi nella mera ricezione di quella (generica) disciplina europea» e «cogliere l’occasione per far chiarezza in un settore nel quale essa mancava; e manca tuttora, almeno per una sua parte rilevante» (10). In particolare, per ciò che concerne la multiproprietà azionaria, parte della dottrina (11) aveva ritenuto che la previsione dell’art. 1, lett. a), D.Lgs. n. 427/98 (oggi art. 69, lett. a, Codice del Consumo) di un diritto di multiproprietà diverso dal diritto reale («altro diritto avente ad oggetto il godimento di uno o più beni immobili»), avrebbe potuto legittimarla. In realtà da tale disposizione non è possibile trarre più di tanto in quanto si limita a recepire il contenuto della direttiva che, in considerazione della diversità esistente in materia negli ordinamenti dell’Unione Europea, contemplava la multiproprietà genericamente come “diritto di godimento a tempo parziale di uno o più beni immobili”: diritto reale o di altra natura, dunque. Senza tacere del fatto che l’art. 4 del citato D.Lgs. (oggi art. 72 Codice del Consumo) obbliga il venditore ad utilizzare il termine multiproprietà nel documento informativo, nel contratto e nella pubblicità commerNote: (5) Così anche Cass. 4 giugno 1999, n. 5494, in Riv. not., 1999, 1562 ed in Giur. it., 2000, 101, secondo cui la multiproprietà azionaria «si distingue da quella immobiliare tipica per il fatto che non comporta l’attribuzione di un diritto reale in favore dei cosiddetti multiproprietari, i quali acquistano solo una quota del capitale della società proprietaria». (6) M. Confortini, La multiproprietà, cit., 93. (7) Per l’analisi della diversa teoria secondo cui anche i diritti personali di godimento avrebbero efficacia reale, cfr. M. Confortini, op. cit., 95. (8) Per un approfondito esame della quale si rinvia a E. Calò, cit., 435. (9) Per tutti cfr. U. Vincenti, La multiproprietà dopo il D.lgs. 9 novembre 1998, n. 427, in Resp. civ. e prev., 1999, 06, 1386 ss. (10) U. Vincenti, op. loc. cit. (11) U. Morello, Diritti di godimento a tempo parziale su immobili: le linee di una nuova disciplina, in Contratti, 1999, 58 ss. ARGOMENTI•SOCIETA’ ciale relativa al bene immobile, soltanto quando il diritto oggetto del contratto è un diritto reale. In ogni caso il diritto di multiproprietà di cui al D.Lgs. n. 427/98 si è inserito nel sistema normativo vigente, rispetto al quale ne va valutata la compatibilità, per cui i dubbi sull’ammissibilità della multiproprietà azionaria sono, a seguito dell’entrata in vigore, sostanzialmente rimasti quelli di prima (12). 3. Multiproprietà pura ed impura Il principale motivo di perplessità nei confronti delle società di multiproprietà è rappresentato dalla circostanza che, sovente, tali enti non svolgono alcuna attività produttiva di utili da ripartire tra i soci, limitandosi, una volta effettuata la commercializzazione delle azioni, a gestire il complesso immobiliare disciplinando il regolare avvicendarsi dei multiproprietari nel godimento della cosa. Necessaria appare, dunque, una distinzione tra i casi nei quali l’attribuzione in godimento dei beni appartenenti alla società esaurisca l’attività dell’ente (c.d. multiproprietà azionaria «pura») da quelli nei quali la società non si limita a regolare il godimento delle cose da parte dei soci multiproprietari ma gestisce tutti i servizi e gli impianti ricreativi dai quali il complesso immobiliare è dotato (c.d. multiproprietà azionaria «impura») (13). Qualora, infatti, la società costituisca, a favore dei singoli soci, diritti di godimento che coprono esclusivamente un periodo dell’anno (cioè impegnano solo in parte il proprio patrimonio con la formula della multiproprietà) riservandosi la possibilità di disporre del complesso immobiliare nel residuo periodo di tempo, allo scopo di gestirlo per ricavarne utili, nonché nei casi in cui la società, oltre che proprietaria del complesso immobiliare ceduto in godimento ai soci, sia pure proprietaria degli impianti (ricreativi e sportivi) e dei servizi (ristoranti, supermercati, etc.) dalla medesima gestiti, appare chiaro che nessun dubbio possa porsi circa la sussistenza dei caratteri propri della società commerciale. La società, invero, in dette ipotesi, oltre a consentire ai soci il godimento dei beni, svolge un’attività imprenditoriale, suscettibile di produrre utili che andranno ripartiti tra i soci in ragione della loro quota di partecipazione. Qualche perplessità maggiore desta, di contro, la fattispecie in cui la società destina il proprio patrimonio interamente (ovvero in tutti i periodi dell’anno) al godimento dei propri soci. In tal caso non residua un complesso di beni da organizzare per l’esercizio di un’attività economica produttiva di utili essendo il patrimonio interamente votato a soddisfare le esigenze dei soci. Poiché la società, non svolgendo attività imprenditoriale, viene a trovarsi sprovvista di fondi da impiegare per coprire i costi di gestione e di conservazione del patrimonio immobiliare è generalmente previsto l’obbligo da parte dei soci di corrispondere periodicamente prestazioni accessorie in denaro - impropriamente denominate «oneri condominiali» - con annesso meccanismo di espulsione del socio inadempiente. Ed è verso queste forme di multiproprietà azionarie «pure» che più insistentemente si sono appuntati i sospetti della dottrina, sia per quel che attiene all’assenza di uno scopo lucrativo della società, sia con riguardo alla estraneità allo schema causale del contratto di società di un obbligo del socio di corrispondere periodicamente alla società somme di danaro. Da un lato vengono richiamate le norme contenute negli artt. 2247 (dal quale emergerebbe il principio dell’essenzialità dello scopo di lucro nelle società) e 2248 (che quel principio finirebbe con il ribadire, condannando alla disciplina della comunione le cd. «società di godimento») c.c. (14). Dall’altro gli artt. 2348 ss. c.c., dal sistema dei quali si evincerebbe la rigida chiusura del legislatore verso la creazione di titoli azionari forniti di caratteri «non tipici» (15), e l’art. 2345, che esclude la possibilità che il socio possa essere obbligato nei confronti della società ad «eseguire prestazioni accessorie […] consistenti in danaro». 4. Lo scopo di lucro Il dibattito relativo alla essenzialità o meno dello scopo lucrativo nelle società di capitali ha visto impegnati, in una disputa non del tutto ancora risolta, autorevoli giuristi (16). Note: (12) U. Vincenti, op. loc. cit. (13) La distinzione - che è stata accolta dalla prevalente dottrina - si deve a M. Confortini, La Multiproprietà, cit., 101-102. (14) Secondo A. Biffani, cit., 180, la multiproprietà azionaria non può essere assimilata alla «comunione di godimento» di cui all’art. 2248 c.c. Nelle società di capitali, sostiene tale autore, si è in presenza, con l’attribuzione alla società della personalità giuridica, di una completa autonomia della società dalle persone dei soci che si esplica, in particolare, sulla titolarità del patrimonio sociale. Non potrebbe, dunque, a differenza delle società di persone, verificarsi la riduzione del fenomeno a «comunione» in assenza della destinazione dei beni ad uno scopo di lucro, non essendo in presenza di un diritto di comproprietà dei soci sul patrimonio sociale. (15) O. Calliano, La Multiproprietà, in Trattato di diritto privato diretto da P. Rescigno, VII, I, Torino, 1982, 235; P. Capparelli - P. Silvestro, Multiproprietà, in Dizionario del diritto privato, a cura di N. Irti, I, Diritto Civile, Milano, 1980, 578-579; G. Cottino, Diritto Commerciale, I, Padova, 1976, 334 ss.; B. Visentini, Azioni di società, in Enc. Dir., IV, Milano, 1959, 982 ss. (16) Cfr. da un lato, F. Di Sabato, Manuale delle società, V ed., Torino, 1995, 28 ss.; G. Santini, Tramonto dello scopo lucrativo nelle società di capitali, in Riv. dir. civ., 1973, I, 151 ss.; P. Spada, La tipicità delle società, Padova, 1974, 30 ss.; E. Zanelli, La nozione di oggetto sociale, Milano, 1962, 406 ss.; in giurisprudenza Trib. Roma 30 aprile 1981, in Dir. fall., 1982, II, 158; dall’altro, A. Amatucci, Società e comunione, Napoli, 1971, 30 ss.; T. Ascarelli, Riflessioni in tema di consorzi, mutue bancarie, associazioni e società, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1953, 327 ss.; G. F. Campobasso, Diritto commerciale. Diritto delle società, 2, Torino, 1995, 27 ss.; G. B. Ferri, (segue) NOTARIATO N. 2/2009 209 ARGOMENTI•SOCIETA’ Da una parte la teoria c.d. «strutturista» secondo la quale lo scopo di lucro non costituirebbe un elemento caratterizzante la società di capitali essendo divenuta quest’ultima uno schema organizzativo neutro, idoneo a rivestire iniziative economiche di ogni tipo cosicché l’art. 2248 c.c. non porrebbe alcuna preclusione alla costituzione di società aventi ad oggetto il mero godimento di beni (17). Questa opinione trae essenzialmente le mosse dall’esigenza di fornire una giustificazione teorica alla prassi, largamente diffusa, delle società immobiliari c.d. «di comodo» per le quali, secondo il diritto vigente, «resta senz’altro escluso che possa parlarsi di una qualsivoglia attività economica, con tutte le conseguenze che ne derivano (o, meglio, dovrebbero derivarne) in ordine alla loro valida esistenza» (18). Dall’altra la teoria c.d. «causalista» o «funzionalista» secondo la quale la divisione degli utili costituirebbe un carattere essenziale ed insopprimibile del contratto di società, cosicché dovrebbe negarsi la possibilità che la «limitazione della responsabilità» e la «personalità giuridica» siano utilizzabili quando difetti lo scopo di ricavare utili dalla attività economica svolta in comune (19). Questi gli argomenti che maggiormente hanno alimentato la polemica: 1) la constatazione dell’uso anomalo (20) compiuto delle società di capitali, specie della società per azioni e della sua «sorella minore» la società a responsabilità limitata; 2) il riconoscimento legislativo della natura societaria dei consorzi, delle società cooperative e delle mutue assicuratrici (21); 3) le vicende delle società calcistiche (22); 4) il propagarsi del fenomeno della partecipazione delle Stato nelle società di capitali (23); 5) il venir meno di quegli elementi che in qualche misura garantivano una saldatura tra causa del contratto di società e struttura organizzativa (24). Oltrepassa lo scopo della presente indagine una sintesi dell’intenso e tormentato travaglio dottrinale. Val la pena ricordare, comunque, che secondo una parte della dottrina (25) sia la disciplina positiva dettata a proposito della iscrizione delle società nel registro delle imprese che quella prevista in tema di nullità dall’art. 2332 rivelano l’inesistenza, nel nostro ordinamento, di regole che impediscano la creazione di società che non perseguono il fine di realizzare utili da ripartire tra i soci o che sanciscano la nullità di società che, in una certa fase della loro vita, non perseguano più uno scopo lucrativo (26). Da un lato, si è sostenuto, la fattispecie costitutiva della società si perfeziona con l’iscrizione (art. 2200 c.c.) e cioè in un momento nel quale può difettare del tutto lo svolgimento di un’attività economica lucrativa da parte dei soci (arg. ex art. 2331 c.c.); dall’altro, nell’elenco tassativo (27) dei casi di nullità della società (art. 2332 c.c.), non compare il difetto di causa cioè la mancanza dello scopo di lucro. E poiché «secondo l’attuale previsione tassativa di leg- 210 NOTARIATO N. 2/2009 ge, non si può pervenire alla declaratoria di nullità del contratto e della società in ipotesi che un tempo la provocavano, è d’obbligo concludere per la validità di un atto costitutivo e di una società quando lo scopo dichiarato sia diverso da quello enunciato dall’art. 2247» (28). Muovendo in questo ordine di idee non dovrebbero residuare dubbi neppure in merito alla ammissibilità della c.d. multiproprietà azionaria «pura». Con riguardo ad esse, appunto, la struttura della società per azioni verrebbe utilizzata per realizzare uno scopo ulteriore rispetto a quello lucrativo. In tali forme di multiproprietà azionaria, esauritasi la fase di commercializzazione (cioè di vendita dei titoli azionari e di stipulazioni dei negozi attributivi del diritto di godimento per frazioni spazio-temporali), la società resterebbe in vita al solo fine di gestire il complesso immobiliare regolando l’ordinato avvicendarsi dei multiproprietari nel godimento della cosa (29). Autorevole dottrina (30) supera alla radice il problema ritenendo che la frazione spazio-temporale dell’immobile rappresenti un nuovo bene, distinto dall’immobile da cui è tratta, delimitato non solo nello spazio ma anche Note: (segue nota 16) Le società, in Tratt. dir. civ. diretto da G. Vassalli, Torino, 1987, 22 ss.; G. Marasà, Le società senza scopo di lucro, Milano, 1984, 72 ss.; ed, in giurisprudenza, Trib. Milano 29 gennaio 1997, in Le società, 1997, 715; Cass. 6 agosto 1979, n. 4558, in Giust. civ., 1980, I, 2256; Cass. 1 dicembre 1987, n. 8939, in Riv. dir. comm., 1989, II, 159; Cass. 13 dicembre 1993, n. 12260, in Giur. comm., 1998, II, 443. (17) Secondo G. Santini, cit., 163 «le società di capitali […] sono già divenute pura struttura, destinate di volta in volta a servire a scopi diversi […] e […] a corrispondere non solo alla funzione tipica lucrativa, che ne rappresenta l’origine storica, ma ad altre funzioni diverse ed eterogenee tra loro». (18) E. Zanelli, cit., 337. (19) Per tutti cfr. T. Ascarelli, cit., 327. (20) Anche se secondo P. Spada, cit., 87, l’utilizzazione dello schermo societario per realizzare «funzioni non societarie» era già così diffusa e matura a metà degli anni settanta da non poter più essere considerata «un’anomalia applicativa». (21) Cfr. art. 2615-ter c.c., aggiunto dall’art. 4 della L. 10 maggio 1976, n. 377, che sancisce l’accoglimento da parte del legislatore della tesi già proposta da A. Graziani, Diritto delle società, Napoli, 1962, 8. (22) Cfr. G. Minervini, Il nuovo statuto tipo delle società calcistiche, in Riv. soc., 1967, 878 ss. (23) Cfr. M.T. Cirenei, L’impresa pubblica, Milano, 1983. (24) V. Buonocore - G. Castellano - R. Costi, Casi e materiali di diritto commerciale (società di persone), Milano, 1978, 63. (25) Cfr., su tutti, G. Santini, cit., 158. (26) Così G. Santini, op. loc. cit. (27) G. Santini, cit., 159 ss. (28) G. Santini, op. loc. cit. (29) Così, in giurisprudenza, App. Venezia 30 giugno 1994, n. 856, cit. Contra Cass., sez. II, 10 maggio 1997, n. 4088, cit. (30) F. Galgano, Diritto civile e commerciale, Padova, 1999, 557. ARGOMENTI•SOCIETA’ nel tempo e ravvisando, pertanto, nell’attività delle società che acquisiscono, gestiscono e concedono in godimento turnario complessi immobiliari, una vera e propria produzione di nuove utilità. 5. L’uso illegittimo delle cose sociali Obiezione mossa alla configurazione del diritto di multiproprietà come situazione giuridica soggettiva del socio in quanto tale è quello della inconciliabilità delle caratteristiche proprie dell’azione del multiproprietario con il principio in base al quale al socio è inibito l’uso delle cose appartenenti al patrimonio della società (art. 2256 c.c.). Evidenziando argomenti di carattere sia storico che sistematico la dottrina ha assegnato al principio espresso dalla norma un ruolo che appare secondario nel sistema della società e, per lo più, tende a negare che l’art. 2256 contenga regole non altrimenti desumibili già dalla nozione stessa di società (art. 2247) e di società di godimento (art. 2248) (31). Si è osservato, in particolare, che il divieto di uso delle cose sociali, ormai sprovvisto della sanzione originariamente prevista dall’art. 110 cod. comm., assolverebbe all’unica funzione di ribadire che il legislatore concepisce il patrimonio sociale come un «patrimonio collettivo» (32). Ulteriormente, contrapponendo il testo dell’art. 2256 a quello dell’art. 1723 c.c. del 1865 - con il quale espressamente si prevedeva la possibilità per il socio di servirsi della cosa comune, purché ciò facesse rispettandone la destinazione economica, non compromettendo il godimento di altri soci e non ponendosi in contrasto con gli interessi della società - si è fatta discendere l’illiceità dell’uso da parte del socio delle cose appartenenti al patrimonio della società, dal vincolo di destinazione impresso ai beni con il conferimento (33). Il patrimonio sociale, in altri termini, nonostante appartenga in comune ai soci, non potrebbe essere dagli stessi utilizzabile se non rispettando il vincolo di destinazione all’esercizio di un’attività economica lucrativa. Secondo un’interpretazione (34) la norma offrirebbe, in realtà, validi argomenti a sostegno della tesi per cui i beni conferiti in società cessano, per ciò stesso, di appartenere ai soci e cominciano ad appartenere alla società. Analizzato da un opposto angolo visuale l’art. 2256 c.c. può assumere un significato ben diverso da quello che gli viene comunemente attribuito e, secondo tale dottrina, anche più coerente con il tenore letterale della norma: «il socio non può servirsi […] delle cose […] appartenenti al patrimonio sociale» salvo che… Esso costituirebbe, più che un ostacolo alla possibilità per i soci di utilizzare i beni della società, un passaggio essenziale e necessario nel senso della legittimità delle società le quali prevedano la possibilità di attribuire ai soci un diritto di godimento sui beni appartenenti al patrimonio sociale. La ratio della norma risiederebbe, infatti, nel principio secondo cui, anche nelle società di persone, i beni conferiti in società cessano di appartenere ai soci e divengono patrimonio della società e dunque, in via generale, l’uso dei beni sociali da parte del socio è sempre illecito salvo che gli altri soci lo consentano e l’uso non sia estraneo ai fini della società. La funzione assolta dalla norma dal punto di vista sostanziale sarebbe quella di «rendere legittimo un comportamento che altrimenti sarebbe illecito» (35). Il principio di cui all’art. 2256 c.c., pertanto, confermerebbe che «pur in presenza di un uso delle cose sociali da parte dei soci, non si ha trasformazione della società in comunione» (36). Ulteriore argomento a sostegno delle predette conclusioni cui giunge la citata dottrina è stato rinvenuto nella natura della responsabilità che consegue all’uso illecito delle cose appartenenti alla società: poiché, infatti, per pacifica dottrina si verserebbe qui in un’ipotesi di illecito extra-contrattuale, è ravvisabile un chiaro indice del fatto che il divieto deriva dal generico dovere di non ledere l’altrui diritto e non dalla violazione di un obbligo originato dal negozio di conferimento, al quale si accompagnerebbe un vincolo di destinazione convenzionale. L’art. 2256 c.c., quindi, «ad onta della espressione che reca in rubrica («Uso illegittimo delle cose sociali») non descrive ipotesi di usi illeciti delle cose appartenenti alla società, ma contiene l’indicazione dei casi nei quali è lecito servirsi dei beni della società» (37). Il complesso immobiliare appartenente alla società di multiproprietà potrà, di volta in volta, formare oggetto del godimento dei soci secondo un calendario prestabilito e a rendere legittimo l’uso potrà essere lo statuto della società o il consenso tacitamente o espressamente manifestato dagli altri soci. Nei casi di multiproprietà azionaria caratterizzata dal fatto che la società proprietaria esercita effettivamente un’attività imprenditoriale (multiproprietà azionaria c.d. impura) non si avrà violazione dell’art. 2256 c.c. poiché la concessione di parte dei beni sociali in godimento ai soci non pregiudica l’esercizio dell’attività sociale ed il perseguimento della finalità lucrativa, ma anNote: (31) G. Ferri, Delle società, in Commentario al codice civile a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1981, 144; F. Galgano, Contratto di società di persone, Bologna, 1980, 154 ss. (32) V. Buonocore - G. Castellano - R. Costi, cit., 163-164; G. Ferri, op. loc. cit. (33) G. Ferri, op. loc. cit.; F. Galgano, Contratto di società di persone, cit., 23. (34) M. Confortini, La multiproprietà, cit., 107 ss. (35) M. Confortini, op. cit., 108. (36) M. Confortini, op. cit., 106 ss. (37) M. Confortini, op. cit., 109. NOTARIATO N. 2/2009 211 ARGOMENTI•SOCIETA’ zi ne costituisce il presupposto, individuando alcuni soggetti nei confronti dei quali devono essere resi i servizi erogati dall’ente (38). Senza dimenticare che, secondo autorevole dottrina, l’art. 2256 c.c. è dettato con riferimento alle società di persone e, di conseguenza, risulterebbe inapplicabile alle società di capitali (39). 6. La configurazione del diritto di godimento del multiproprietario come profilo della partecipazione sociale La configurazione del diritto di multiproprietà come situazione giuridica soggettiva del socio in quanto tale ha sollevato un ulteriore problema, relativo ai limiti imposti dall’ordinamento all’autonomia dei soci nel determinare il contenuto dell’azione (artt. 2348 ss. c.c.). Come già in precedenza accennato, secondo l’interpretazione di parte della dottrina (40), infatti, dal sistema degli artt. 2348 e ss. c.c., nella loro formulazione ante riforma, avrebbe dovuto evincersi la rigida chiusura del legislatore verso la creazione di titoli azionari forniti di caratteri «non tipici». Si è sostenuto, in particolare, che il titolo giuridico che legittima il multiproprietario socio a godere del bene e lo obbliga a corrispondere alla società somme di danaro nonché a conformare il proprio comportamento ad una serie di precetti a contenuto positivo e negativo in nessun modo è ravvisabile nel contratto di società. Né l’azione può ritenersi rappresentativa di quei diritti e di quegli obblighi. «L’azione (privilegiata od ordinaria che sia) non è “forma” suscettibile di essere riempita di qualsivoglia contenuto» (41). L’analisi delle norme poste nella V sezione del Libro V, avrebbe rilevato, pur non essendo ravvisabili nell’azione «caratteri tipici fissi uniformi», la preclusione per i privati di attribuire ad essa «poteri o diritti diversi da quelli tipici» (42). Secondo l’interpretazione tradizionale della norma in esame, i «diritti diversi» dalla stessa contemplati si identificherebbero esclusivamente in diritti di natura patrimoniale e nei connessi poteri amministrativi. Si è ritenuto, invero, che il contenuto del privilegio potesse consistere soltanto «in una priorità o in una preferenza rispetto alle azioni ordinarie nella distribuzione degli utili e/o nel rimborso delle quote di liquidazione» (43) ovvero in «benefici annuali da prelevarsi sugli utili di esercizio e/o con il diritto di preferenza sul patrimonio sociale netto risultante dalla liquidazione» (44). L’azione, dunque, legittimerebbe il socio a pretendere una parte degli utili risultanti al termine di ogni esercizio finanziario, a partecipare alla vita della società, etc., ma sarebbe del tutto estraneo al suo possibile contenuto l’attribuzione al socio di un diritto di godimento (reale o personale) sui beni appartenenti alla società, così come non potrebbe essere titolo costitutivo di un obbligo 212 NOTARIATO N. 2/2009 periodico di corrispondere somme di danaro stante il tenore letterale dell’art. 2345 c.c. Ulteriore argomento invocato a sostegno di detta tesi (45) sarebbe il disposto dell’art. 2351 c.c. che, disciplinando le azioni privilegiate, prevede semplicemente che esse conferiscano un diritto preferenziale nella ripartizione degli utili e nel rimborso del capitale allo scioglimento della società. Non un diritto di godimento sui beni sociali. Si è, inoltre, evidenziato (46) che il titolo azionario, ordinario o speciale, è, per definizione, l’unità minima di misura della partecipazione al capitale sociale (di cui rappresenta una frazione indivisibile) e dei diritti sociali (patrimoniali e amministrativi) di ciascun socio. Sebbene il legislatore abbia disposto che l’uguaglianza dei predetti diritti sia di natura (oggettiva ma) relativa (art. 2348 c.c.) (il che giustifica la possibilità di creare azioni cd. di categoria), l’interprete non sarebbe autorizzato a ritenere ammissibile l’emissione di azioni fornite di diritti assolutamente estranei alla causa sociale se non addirittura con essa contrastanti. Secondo parte della dottrina (47) un’azione che incorpori un diritto di godimento su un immobile sociale non sarebbe un’azione in senso tecnico, ma, al limite, un titolo di credito atipico, la cui creazione è permessa dal principio di libertà di emissione, implicitamente formulato dall’art. 2004 c.c. Note: (38) Conforme App. Venezia 30 giugno 1994, n. 856, cit., che afferma: «l’ostacolo posto dall’art. 2256 può essere superato in base al rilievo che detta norma vieta ai soci di usare dei beni sociali come se si trattasse di beni propri, ma non vieta alla società di concedere spontaneamente ai soci diritti di godimento dei beni medesimi, qualora ciò sia conforme alle sue finalità». (39) Cfr., in questo senso, su tutti, F. Galgano, Le società di persone, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da A. Cicu - F. Messineo e continuato da L. Mengoni, XXVIII, Milano, 1982, 187 ss., secondo cui la suddetta regola trova la sua ratio nella «struttura proto-capitalista» di queste società, nelle quali l’autonomia imperfetta del patrimonio sociale non impedisce di considerare i beni sociali come appartenenti - sia pure in una forma speciale di comproprietà - ai soci. Occorre ricordare, tuttavia, l’opposta opinione - per la quale cfr., su tutti, G.F. Campobasso, Diritto Commerciale, 2, Diritto delle società, Torino, 1995, 40 ss. - che contesta l’esistenza di una comproprietà sia pure speciale fra i soci della società di persone, sulla base dell’attribuzione a queste ultime della soggettività giuridica (principio confermato dalla giurisprudenza della Suprema Corte, cfr., su tutte, Cass. 7 agosto 1996, n. 7228, in Foro it., 1997, I, 2986). (40) Cfr. autori citati nella nota 12. (41) M. Confortini, La multiproprietà, cit., 104. (42) Così B. Visentini, Azioni di società, cit., 982. (43) F. Di Sabato, Manuale delle società, cit., 306. (44) F. Fré, Categorie di azioni, in Commentario al codice civile a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1965, 162. (45) A. Morace Pinelli, cit., 209. (46) F. Scaglione, cit., 1374-1375. (47) F. Martorano, Titoli di credito, Milano, 1994, 169 ss. ARGOMENTI•SOCIETA’ 7. Gli schemi adottabili A) La multiproprietà indiretta Per verificare, in concreto, la possibilità di superare le suesposte obiezioni, occorre distinguere innanzitutto i due schemi che risultano adottati o adottabili per porre in essere la complessa fattispecie “multiproprietà azionaria”. Il primo di questi, multiproprietà azionaria c.d. indiretta, prevede che la società per azioni, proprietaria di un albergo, venda le proprie azioni ordinarie agli acquirenti, denominati utenti, e contemporaneamente stipuli con questi una convenzione la cui sottoscrizione sia condizione necessaria per la validità della vendita delle azioni. La convenzione costituisce, dunque, l’unico momento di collegamento tra la qualità di socio (titolare di azioni ordinarie) e il diritto alla fruizione periodica dell’unità immobiliare stabilita. All’uopo appare quanto meno opportuno, se non necessario, evidenziare il nesso giuridico esistente tra i due contratti attraverso, ad esempio, lo strumento della condizione, ponendo l’adempimento dell’un contratto come evento futuro ed incerto (ex art. 1353 c.c.) dal quale dipende l’efficacia e la risoluzione dell’altro. Qualora, infatti, le parti non provvedano pattiziamente a collegare i due contratti risulta difficile sia applicare il principio simul stabunt simul cadent sia affermare che uno dei due contratti possa essere regolato secondo i principi e le norme dell’altro. Tale ricostruzione del fenomeno, operata da acuta dottrina (48), muove dalla fondamentale premessa che sia necessario mantenere nettamente separato l’aspetto della partecipazione sociale - intesa come complesso unitario di situazioni giuridiche soggettive delle quali il socio è investito (a titolo originario) per effetto della stipulazione del contratto di società o (a titolo derivativo) per la successione nella posizione di altro socio - da quello dei diritti estranei al vincolo sociale che il socio vanta nei confronti della società. I due «fasci di situazioni giuridiche soggettive» che fanno capo al multiproprietario azionista, si è sostenuto, pur essendo compatibili tra loro non deriverebbero dalla medesima fonte. Il titolo giuridico che legittima il multiproprietario socio a godere del bene e lo obbliga a corrispondere alla società somme di danaro, nonché a conformare il proprio comportamento ad una serie di precetti a contenuto positivo e negativo, in nessun modo sarebbe ravvisabile nel contratto di società. La posizione contrattuale del multiproprietario azionista, dunque, secondo tale teoria, presenta due facce e la formula comunemente impiegata per riassumerle va scomposta nei due elementi che la compongono e cioè: «multiproprietario» e «azionista». «Il primo e fondamentale momento della indagine consiste esattamente nel rilevare che il multiproprietario è anche azionista. Che non si è multiproprietari per- ché azionisti, né azionisti perché multiproprietari, ma multiproprietari e azionisti. Il diritto di godimento per frazioni spazio-temporali è estraneo al vincolo sociale» (49). «L’esistenza di un eventuale collegamento tra le varie situazioni giuridiche soggettive» continua l’Autore «non autorizza comunque a sovrapporre le une con le altre o a risolvere le prime nelle seconde (o viceversa). Il diritto di godimento non è un profilo della partecipazione sociale né la presuppone ontologicamente» (50). Una volta qualificato il diritto di godimento del multiproprietario azionista come un diritto che il socio vanta nei confronti della società, qualunque discorso relativo all’ammissibilità di titoli azionari che pongano a carico del socio l’obbligo di corrispondere periodicamente alla società somme di danaro o alla configurabilità di azioni che incorporino un diritto personale di godimento avente per oggetto beni appartenenti al patrimonio sociale, secondo l’esposta teoria, diviene perfettamente inutile. Ed è a questa ricostruzione che aderisce la Cassazione nella nota sentenza n. 4088 del 1997 (51), affermando che «a differenza dell’opinione […] secondo cui i diritti del multiproprietario azionista deriverebbero direttamente dal suo status di socio, […] nella multiproprietà azionaria si hanno, invece, due distinti rapporti, sia pure tra loro collegati. Un primo rapporto si costituisce tra la società e l’acquirente delle azioni (socio), il quale diviene titolare delle situazioni giuridiche proprie di tale stato, tra le quali è compreso il diritto all’attiva partecipazione alla vita della società e alla percezione degli utili alla chiusura di ogni esercizio finanziario. Un secondo rapporto sorge da un’autonoma e distinta convenzione conclusa dalla società con l’azionista, e, in forza di esso, quest’ultimo acquista il diritto personale al godimento dell’unità immobiliare per il periodo stabilito». Aggiunge la Corte: «questi due rapporti autonomi sono, però, collegati sotto diversi profili. Un primo collegamento è di carattere temporale perché normalmente l’acquisto delle azioni e della qualità di socio avviene nello stesso momento in cui si perfeziona la convenzione, costitutiva del diritto personale di godimento, nella quale sono comprese anche le norme per l’uso dell’unità immobiliare e delle parti e dei servizi comuni (c.d. regolamento condominiale). Un altro legame, di natura oggettiva, è rilevato dal fatto che la firma è apposta alla convenzione dalla stessa persona (socio) che ha comprato le azioni, ed è tanto più evidente se si considera che tale acquisto viene compiuto non tanto per ricevere gli utili, che pure spetNote: (48) M. Confortini, La multiproprietà, cit., 103 ss. (49) M. Confortini, op. cit., 105. (50) M. Confortini, op. loc. cit. (51) Edita in numerose Riviste, cfr. nota 3. NOTARIATO N. 2/2009 213 ARGOMENTI•SOCIETA’ tano in sede di dividendi, quanto allo scopo di divenire titolare del diritto personale di godimento in proporzione al prezzo per esse pagato, che è, per tale motivo, più elevato del valore nominale dei titoli. Ulteriori nessi si riscontrano sia per la durata del rapporto di multiproprietà, che con la convenzione è, in genere, estesa fino al momento di estinzione della società, sia per il controllo svolto dall’assemblea dei soci sulla deliberazione con cui il consiglio di amministrazione della società determina il corrispettivo annuale dovuto agli azionisti». «Quando una società per azioni - prosegue la Sentenza - in base ad un rapporto nascente da convenzione con l’acquirente delle proprie azioni, autonomo dal (seppur collegato al) rapporto sociale cui dà vita tale acquisto, attribuisce al socio, verso un corrispettivo periodico e per un periodo di lunga durata coincidente con quello della società, il diritto personale di godimento dell’immobile e dei servizi comuni per una determinata frazione spazio-temporale (cosiddetta multiproprietà azionaria), tale attribuzione - traendo vita non dallo status sociale, ma dalla separata convenzione fra la società e il socio - non incontra il divieto posto dall’art. 2256 c.c., che impedisce al socio di servirsi del patrimonio sociale per fini estranei a quelli della società, riferendosi il detto divieto all’ipotesi in cui l’utilizzazione di tali cose non trovi titolo diverso dallo status sociale». Mediante la descritta interpretazione la Suprema Corte supera, in un colpo solo, le principali predette obiezioni all’ammissibilità della multiproprietà azionaria nel nostro ordinamento. Non vi è, infatti, contrasto con quanto disposto dall’art. 2256 c.c. dato che il diritto personale di godimento deriva non dallo status di socio ma dall’autonoma e separata convenzione da quest’ultimo conclusa con la società. Nella fattispecie al vaglio, inoltre, non poteva nemmeno invocarsi la contrarietà con l’art. 2247 c.c. in quanto la società convenuta tra i fini previsti dallo statuto, oltre a quello della concessione del godimento delle singole unità abitative, prevedeva altresì quello della gestione di alberghi e di impianti turistici e sportivi per la produzione di utili da ripartire tra i soci. Il ragionamento della Corte, tuttavia, comincia ad indebolirsi nel tentativo di giustificare la durata del diritto personale di godimento. Di fronte all’obiezione che la durata massima prevista per i diritti personali di godimento (nella specie si trattava di diritto su immobile destinato ad uso abitativo) non può eccedere quella fissata dall’art. 1573 c.c. (ovvero il più lungo termine di cui all’art. 1607 c.c.) mentre quella prevista nel contratto esaminato era sostanzialmente perpetua (poiché coincidente con la durata della società), il Giudice delle leggi afferma che il fatto che la durata del diritto personale di godimento ecceda quella massima stabilita per la locazione si spiega poiché si verte in tema di multiproprietà azionaria, nella quale «il rapporto sociale convive con quello personale di godimento». 214 NOTARIATO N. 2/2009 «Quindi», prosegue la Corte, «la durata limitata nel tempo di quest’ultimo, indubbiamente essenziale per la sua configurabilità, non può essere disciplinata dalle norme del contratto di locazione, ma deve determinarsi tenendo conto dei caratteri propri della diversa, complessa fattispecie conclusa dalle parti, le quali, avendo fissato la durata del godimento dell’unità abitativa fino alla data d’estinzione della società, hanno correttamente armonizzato i due rapporti integratori della multiproprietà, prevedendone la cessazione contemporanea e rispettando, nello stesso tempo, il principio del limite temporale del diritto personale attribuito con la convenzione». E come giustifica causalmente il diritto di godimento del multiproprietario? Testualmente affermando che «trova la sua giustificazione causale nella partecipazione sociale, non assimilabile perciò sotto questo profilo (causale) ad alcuno dei negozi tipici produttivi di diritti personali di godimento». L’affermazione sopra riportata stupisce se raffrontata con la precedente «un secondo rapporto sorge da un’autonoma e distinta convenzione conclusa dalla società con l’azionista, e, in forza di esso, quest’ultimo acquista il diritto personale di godimento dell’unità immobiliare per il periodo stabilito». Delle due l’una: o la causa del diritto di godimento risiede in un separato negozio concluso tra società e socio oppure può essere insita nel titolo azionario. Ed è proprio su questo punto che la Corte si discosta dalla dottrina che pure ne aveva ispirato le conclusioni. Il Confortini (52), infatti, identifica il contratto costitutivo del diritto personale di godimento del multiproprietario nel «contratto di multiproprietà». Più precisamente si è evidenziata l’«autonomia ed individualità del contratto di vendita delle azioni (traslativo della partecipazione sociale) rispetto a quello costitutivo del diritto personale di godimento del multiproprietario (contratto di multiproprietà). Nel loro complesso i documenti sottoscritti dalle parti contengono due distinti negozi: l’uno attributivo del diritto di godimento, l’altro traslativo della partecipazione sociale. Il negozio di vendita delle azioni in sé considerato è “qualcosa di più” di un negozio traslativo della partecipazione sociale: in esso si specifica il collegamento (53) tra la titolarità dell’azione ed il diritto di godimento, vi si prevede l’obbligo per l’azionista di corrispondere somme di danaro alla società etc. Il “regolamento di multiproprietà” è “qualcosa di meno” di un negozio costitutivo di un diritto personale di godimento: in esso la esistenza del diritto di godere del bene per frazioni spazio-temporali in capo al socio è data per presupposta e piuttosto si prevedono Note: (52) M. Confortini, La multiproprietà, cit., 125. (53) Che lo stesso autore definisce «volontario funzionale bilaterale», op. cit., 135. ARGOMENTI•SOCIETA’ le modalità con le quali tale diritto potrà essere esercitato dal titolare» (54). La Cassazione, nel tentativo di individuare il collegamento tra i due rapporti, fa riferimento tanto al collegamento temporale quanto a quello oggettivo. Quanto al primo, ossia il fatto che l’acquisto delle azioni ed il perfezionarsi della convenzione costitutiva del diritto personale di godimento siano coevi, dottrina e giurisprudenza hanno avuto modo di definirlo di scarsa utilità al fine di verificare l’esistenza del nesso tra i contratti, qualora non concorra con altre circostanze (55). Il secondo, inoltre, altrettanto non appare decisivo: è vero che in alcune circostanze il criterio obiettivo che caratterizza il collegamento negoziale è dato dalla esistenza di una corrispettività non tra prestazioni dello stesso negozio bensì tra quelle dei diversi negozi collegati tra loro in funzione di interdipendenza ma tale criterio non sembra attagliarsi all’ipotesi di cd. multiproprietà indiretta. Il multiproprietario è chiamato, normalmente, a pagare ogni anno un canone per il godimento dell’unità immobiliare e non può ritenersi che il prezzo delle azioni integri pure il corrispettivo del diritto di godimento (per lo meno nella sua totalità) (56) posto che quest’ultimo è già dato dai canoni al cui pagamento è tenuto il socio multiproprietario in virtù di una separata, anche se collegata, convenzione. Non appare, invero, che l’attribuzione alle azioni di un prezzo superiore al valore nominale unitamente alla fissazione di un canone di godimento dell’unità immobiliare più basso di quello praticato sul mercato possano considerarsi prova dell’esistenza di un collegamento tra i due distinti contratti (57). Ma sposando la tesi del collegamento negoziale (ammesso che se ne riesca a dimostrare l’esistenza) ne consegue che, essendo i due contratti “distinti” ancorché collegati, ciascuno di essi rimane assoggettato alla disciplina del tipo corrispondente. È, quindi, necessario dare una qualifica al contratto di godimento soprattutto in relazione alla vicenda della durata. Esso potrà essere o un contratto di albergo o un contratto di locazione vera e propria oppure altro contratto “atipico” di godimento, ma che comunque non dovrebbe contrastare con l’inderogabile principio di temporaneità dei rapporti obbligatori (58) (sostanzialmente aggirato nell’ipotesi in cui la durata del godimento sia legata alla vita della società, di norma notevolmente protratta - da statuto - in avanti nel tempo). E la stessa Cassazione si “rifugia” nella disciplina societaria in materia di termine finale, parlando, come evidenziato in precedenza, di «complessa fattispecie» in cui il «godimento del multiproprietario trova la sua giustificazione causale nella partecipazione sociale». Ma se «è complessa fattispecie» non ci possono essere due negozi “distinti ma collegati”. Il vero problema sembra dunque essere la causa del diritto di godimento del multiproprietario. Se fosse riscontrabile in uno dei contratti sopra elenca- ti, dovrebbe revocarsi altresì in dubbio l’utilità di far acquistare le azioni per potersi legittimare nei confronti della società. Socio o terzo non farebbe alcuna differenza, posto che si tratterebbe esclusivamente di elevare il canone di godimento a fronte del mancato acquisto delle azioni. Se poi l’operazione viene posta in essere solo ed esclusivamente allo scopo di ottenere un canone di favore sembrerebbe si rientri più nell’ambito delle società cooperative (i soci si avvantaggiano dei beni “prodotti” dalla società a condizioni più favorevoli di quelle di mercato) che di quelle squisitamente lucrative. Il possessore del titolo azionario, va aggiunto, non acquista una vera e propria pretesa all’adempimento della prestazione ben potendo la società rifiutarsi di adempiere ed esigere che l’azionista dimostri con altri mezzi il proprio diritto di godimento. Come, del resto, la perdita o la sottrazione dell’azione non compromettono irrimediabilmente per il multiproprietario l’opportunità di ottenere ugualmente la prestazione potendo egli supplire con gli ordinari mezzi alla legittimazione. Inoltre, la società proprietaria del complesso immobiliare è liberata se adempie in buona fede sulla base di quel mezzo di identificazione del creditore non gravando su di essa l’onere di accertare in base ad elementi diversi la persona del creditore. Dunque, il socio multiproprietario è titolare di un diritto personale di godimento di natura obbligatoria e ha la possibilità di far valere il suo diritto solo nei confronti della società, cosicché esso è qualificabile come diritto di credito. Data questa impostazione, l’eventuale inadempimento della società comporta un diritto al risarcimento del danno da responsabilità contrattuale ma non consente al multiproprietario - nel caso in cui la società abbia, ad esempio, alienato il bene - di vantare diritti nei confronti del terzo acquirente. Allo stesso modo può dirsi che, qualora un comportamento inadempiente del multiproprietario che ha diritto al precedente periodo leda il diritto di credito che il socio vanta nei confronti della società, questi può agire solo nei confronti della società stessa, perché in tale situazione il mancato adempimento del terzo rende impossibile la prestazione dell’obbligato. Note: (54) L’A. conclude affermando «nel loro complesso i due documenti si integrano perfettamente e ciò che “abbonda” nel negozio di vendita delle azioni “completa” quanto “manca” al regolamento di multiproprietà per poter essere considerato un negozio costitutivo di un diritto personale di godimento». (55) In dottrina, cfr., su tutti, F. Di Sabato, Unità e pluralità di negozi, in Riv. dir. civ., 1959, 428; in giurisprudenza, cfr. Cass. 13 febbraio 1992, n. 1751, in Giur. it., 1993, I, 1076. (56) Così A. Morace Pinelli, cit., 198, nota 14. (57) Così C.A. Busi, cit., 135. (58) Affermato, tra le altre, da Cass. 20 settembre 1995, n. 9975, in Giust. civ., 1996, I, 73. NOTARIATO N. 2/2009 215 ARGOMENTI•SOCIETA’ La situazione è tanto più delicata nella fattispecie in esame (multiproprietà indiretta) sol che si consideri che prima della conclusione del cd. contratto di multiproprietà (o comodato (59) o locazione) il socio non potrebbe vantare nei confronti della società alcun diritto ad ottenere il godimento turnario del bene e, d’altro canto, la società non avrebbe alcun obbligo di porre in essere detto contratto. La cessione della partecipazione non consentirebbe, di per sé, la cessione del diritto di godimento, essendo all’uopo necessaria la cessione di tutta la posizione contrattuale derivante dal complesso contratto di multiproprietà, con tutto ciò che ne consegue sul piano fiscale. Un’altra considerazione contribuisce a rendere incerta la posizione dei soci multiproprietari nella fattispecie «indiretta». Quando costoro non abbiano la maggioranza dei voti in assemblea (nella prassi il socio multiproprietario è spesso titolare di una sola azione privilegiata), si ritroveranno in balìa della maggioranza degli azionisti (60), considerato che questi ultimi potrebbero deliberare di recedere dal contratto di multiproprietà o di comodato, di modificare la destinazione economica del bene ovvero i turni di godimento e ciò a scapito della perpetuità e della stabilità del diritto di godimento. B) La multiproprietà diretta Il secondo schema adottabile, multiproprietà azionaria c.d. diretta, prevede che venga costituita una società la quale assume l’intestazione del complesso immobiliare, con un capitale rappresentato in parte da azioni ordinarie e parte in azioni privilegiate. In queste ultime il privilegio consiste nell’attribuzione diretta del diritto di godimento dell’unità immobiliare. Si è già avuto modo di evidenziare quali sono state le critiche mosse a tale fattispecie, ma, a parere di chi scrive, esse meritano di essere rivalutate, soprattutto alla luce della disciplina della s.p.a. come riformata dal D.Lgs. n. 6/2003 e successivi decreti correttivi n. 37 del 6 febbraio 2004 e n. 310 del 28 dicembre 2004. Per ciò che concerne, in particolare, l’inesistenza dello scopo di lucro in capo alla società titolare del complesso immobiliare, al di là delle conclusioni - in precedenza analizzate - cui è pervenuta autorevole dottrina circa la non necessarietà dello stesso nel tipo s.p.a., sarà sufficiente che la società ponga in essere una forma di multiproprietà cd. “impura” ossia persegua l’ulteriore fine di gestire gli impianti sportivi (piscine, campi da tennis, campi di calcio, palestre), ricreativi (discoteche, ludoteche), i servizi (supermercati, parcheggi, ristoranti), etc. presenti nel complesso immobiliare, offrendoli anche a terzi oltre che ai soci multiproprietari, allo scopo di produrre utili da distribuire tra i soci ovvero da reimpiegare nell’attività sociale. Con riferimento, invece, alla violazione del divieto di cui all’art. 2256 c.c., si è già avuto modo di sottolineare come, secondo autorevole dottrina (61), esso non sia 216 NOTARIATO N. 2/2009 applicabile alle società di capitali in quanto dettato esclusivamente per le società di persone. Nondimeno, si è detto, nella fattispecie de quo, pur ritenendolo applicabile, sarebbe disinnescato da una previsione dello statuto della società o dal consenso tacitamente o espressamente manifestato dagli altri soci. Ma l’aspetto su cui vale la pena maggiormente soffermarsi è quello relativo all’impossibilità per il titolo azionario di «incorporare» un diritto di godimento a vantaggio dei propri titolari. Il principale argomento a sostegno della tesi negativa, come visto, è stato rinvenuto nel supposto principio di tipicità delle azioni, desumibile dalla formulazione ante Riforma degli artt. 2348 e ss. In realtà, autorevole dottrina (62) aveva già avuto modo di evidenziare come l’autonomia statutaria non fosse soggetta al limite previsto dall’art. 2351 c.c. (ai sensi del quale le azioni privilegiate conferiscono un diritto preferenziale solo alla ripartizione degli utili ed al rimborso del capitale allo scioglimento della società) essendo quest’ultimo disposto esclusivamente per subordinare al consenso dell’assemblea straordinaria l’attribuzione, ai titolari di azioni privilegiate, di diritti patrimoniali diversi da quelli espressamente fatti salvi dalla norma. E si era ulteriormente sostenuto (63) che non esiste nel nostro ordinamento alcun principio di tipicità delle azioni speciali potendo invece essere create categorie atipiche di azioni, pur nel rispetto dei principi inderogabili dell’ordinamento. Ciò alla luce del disposto degli artt. 2348, comma 2, 2350 e 2354, n. 5, c.c. ante Riforma, i quali disponevano che: «si possono tuttavia creare Note: (59) L’utilizzazione del contratto di comodato quale criterio di collegamento tra la titolarità delle azioni privilegiate e la titolarità del diritto di godimento degli alloggi non sembra idonea a garantire in concreto la perpetuità e stabilità del diritto in capo al socio, data la temporaneità connaturata alla situazione di godimento propria del comodatario e stante comunque l’inopponibilità ai terzi di un’eventuale deroga pattizia alla transitorietà del comodato, il quale non è di per sé sottoposto ad alcuna forma di pubblicità. Inoltre, prima della stipulazione del contratto di comodato il socio non vanta nei confronti della società alcun diritto ad ottenere il godimento turnario del bene, né la società ha alcun obbligo di porre in essere tale contratto (in conseguenza della sua natura reale e dello spirito di liberalità che lo caratterizza). (60) Secondo P. Capparelli - P. Silvestro, voce Multiproprietà, cit., 578, si troverebbero «in una situazione di impotenza nella formazione della volontà sociale e quindi nella impossibilità di influire efficacemente sulla direzione dell’impresa». (61) Cfr. nota 30. (62) M. Bione, Le azioni, in Trattato diretto da Colombo e Portale, Torino, 1991, II, 1, 115; A. Morace Pinelli, cit., 209. (63) M. Bione, cit., 49; G. F. Campobasso, cit., 191; P. Capparelli - P. Silvestro, cit., 577 ss.; G. Caselli, cit., 4 ss.; A. Gambino, Parere «pro veritate», in Giur. comm., 1979, I, 379; M. Klun, cit., 862; A. Morace Pinelli, op. loc. cit.; U. Morello, La multiproprietà azionaria, cit., 1, ha ritenuto possibile la creazione di un titolo azionario capace di incorporare diritti diversi da quelli tradizionali, come un diritto d’uso a tempo parziale; A. C. Pelosi, La multiproprietà tra comunione e proprietà temporanea, in Riv. dir. civ., II, 1983, 465. ARGOMENTI•SOCIETA’ categorie di azioni fornite di diritti diversi», «ogni azione […], salvi i diritti stabiliti a favore di speciali categorie di azioni a norma degli articoli precedenti», «le azioni debbono indicare i diritti e gli obblighi particolari ad esse inerenti» (64). La dottrina aveva ritenuto particolarmente significativo l’art. 2354, n. 5, c.c., il quale faceva (e fa riferimento) «anche ai diritti e ai doveri particolari che spettano ai soci: dunque ci possono essere diritti e doveri particolari» (65). Anche la Suprema Corte di Cassazione (66), oltre alla giurisprudenza di merito (67), aveva avuto occasione di pronunciarsi sul punto, stabilendo che «ai sensi dell’art. 2348 c.c. si possono creare azioni fornite di diritti diversi con l’atto costitutivo o con successive modificazioni di esso» e giungendo all’importantissima conclusione che «la causa del godimento turnario dell’immobile non si identifica né nel trasferimento di un diritto reale né nella stipula di un autonomo negozio a titolo oneroso di prestazioni di servizi bensì risiede nella stessa partecipazione sociale». A seguito dell’entrata in vigore della Riforma delle società di capitali, il testo dell’art. 2348 c.c. è stato ampliato, specificandosi nella seconda parte del secondo comma che «la società, nei limiti imposti dalla legge, può liberamente determinare il contenuto delle azioni delle varie categorie». Secondo autorevole dottrina (68), per le speciali categorie di azioni vale, grazie alla riforma del 2003, il principio di atipicità (69): lo statuto può, nei limiti imposti dalla legge, determinarne liberamente il contenuto. La ratio di tale principio risiederebbe nella «mutata filosofia economica che ha ispirato il legislatore, tesa al riconoscimento di una più estesa autonomia statutaria ed alla massima valorizzazione del mercato. Non spetta al legislatore decidere, secondo i postulati della più antica e dirigistica visione del diritto regolatore dell’economia, che cosa sia utile e che cosa non sia utile alle imprese, che cosa sia vantaggioso e che cosa non sia vantaggioso per gli investitori. La decisione è rimessa alle imprese, che faranno le loro libere valutazioni al riguardo, e l’ultima parola spetta al mercato, che renderà palese se determinate categorie di azioni incontrino o meno il gradimento degli investitori». Attenta dottrina (70) ha efficacemente sottolineato che il secondo comma dell’art. 2348 c.c., nel nuovo secondo periodo, ha codificato «il principio generale di atipicità delle categorie speciali di azioni, scolpendo plasticamente la regola in base alla quale le società per azioni possono, nei limiti imposti dalla legge, “liberamente determinare il contenuto delle azioni delle varie categorie” alla cui emissione intendano procedere». Aggiungendo, inoltre, che «la “solenne” consacrazione del principio di atipicità delle categorie azionarie operata dalla norma in commento costituisce dunque il primo e fondamentale “pilastro” sul quale l’autonomia sta- tutaria è chiamata ad edificare la nuova struttura finanziaria delle società per azioni». Nell’enunciare detto principio di atipicità la norma precisa che la libertà statutaria deve comunque svolgersi nel rispetto dei «limiti imposti dalla legge». Ma quali sono tali limiti? Sul versante dei diritti amministrativi gli unici vincoli residui sembrano essere rappresentati dal divieto di voto plurimo e dal perdurante obbligo che almeno la metà del capitale sia rappresentato da azioni a voto pieno, mentre, con riguardo agli altri diritti amministrativi, risulta enucleabile una sfera di prerogative che anche nel nuovo sistema restano in suscettibili di elisioni statutarie, quali il diritto di impugnare le deliberazioni assembleari (artt. 2377 ss. c.c.), di promuovere l’azione sociale di responsabilità (art. 2393 bis c.c.), di prendere visione del bilancio e dei relativi allegati (art. 2429, comma 3, c.c.) e di denunciare fatti censurabili al collegio sindacale (art. 2408 c.c.) o gravi irregolarità al tribunale (art. 2409 c.c.) (71). Sul versante dei diritti patrimoniali, invece, l’unico limite all’autonomia statutaria è rappresentato dall’esigenza di rispettare il divieto del patto leonino, in base al quale sono da considerarsi nulle le clausole che attriNote: (64) F. Galgano, Diritto civile e commerciale, I, Padova, 1996, 527, nota 25, il quale affermava che da tali norme si desume che «non esiste un principio di tipicità del contenuto dei diritti e obblighi dell’azionista…né esistono su questi punti principi di ordine pubblico che si pongono come limiti all’autonomia privata». In giurisprudenza cfr. Cass. 18 dicembre 1971, n. 3693, in Vita not., 1972, 488. (65) F. Galgano, in AA.VV., Statuti di società e patti parasociali. Il ruolo del Notaio, Padova, 1992, 30. (66) Cass. pen. 31 gennaio 1987, in Banca, borsa e tit. cred., 1988, II, 173, con nota di A. Biffani, cit. (67) App. Roma 12 maggio 1986, in Dir. giur., 1989, II, 458, con nota di M. Confortini, cit. (68) F. Galgano - R. Genghini, Il nuovo diritto societario, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia diretto da F. Galgano, XXIX, 1, Padova, 2006, 212-213. (69) In tal senso anche G. F. Campobasso, La riforma delle società di capitali e delle cooperative, Aggiornamento della V edizione del Diritto commerciale, 2, Diritto delle società, Torino, 2003, 53; A. Gambino, Spunti di riflessione sulla riforma: l’autonomia societaria e la risposta legislativa alle esigenze di finanziamento dell’impresa, in Giur. comm., 2002, 6, I, 645; A. Gambino - D.U. Santosuosso, Società di capitali, II, Torino, 2006, 53, ove si legge «il sistema si spiega con il superamento di quella correlazione necessaria tra potere e rischio di impresa che si riteneva tradizionalmente caratterizzare gli equilibri societari con riferimento al contenuto delle partecipazioni. Le azioni sono liberamente utilizzabili come strumento finanziario flessibile a disposizione dei soci per la soddisfazione di diverse esigenze partecipative»; M. Notari, Le categorie speciali di azioni, in Il nuovo diritto delle società, Liber amicorum Gian Franco Campobasso diretto da P. Abbadessa e G. B. Portale, I, Torino, 2006, 593. (70) N. Abriani, commento sub art. 2348, in Il nuovo diritto societario, commentario diretto da G. Cottino, G. Bonfante, O. Cagnasso, P. Montalenti, Bologna, 2004, 262. (71) N. Abriani, cit., 266; F. Magliulo, Le categorie di azioni e strumenti finanziari nella nuova S.p.A., in Notariato e nuovo diritto societario, collana diretta da G. Laurini, Milano, 2004, 78. NOTARIATO N. 2/2009 217 ARGOMENTI•SOCIETA’ buiscono privilegi così elevati da determinare una sostanziale esclusione dalla partecipazione agli utili delle azioni di altra categoria (72). Conseguenza di ciò è che la libertà statutaria potrà d’ora in poi elaborare nuove tipologie di privilegi patrimoniali da introdurre a fianco o in alternativa a quelli già noti in virtù della pluriennale prassi delle azioni privilegiate, potendo gli atti costitutivi «indirizzarsi verso soluzioni rimaste sinora in gran parte inesplorate nel nostro ordinamento. Il riferimento è […] al riconoscimento del diritto a particolari prestazioni economiche da parte della società emittente (come, ad esempio, un trattamento preferenziale nella fornitura di beni o servizi da questa prodotti od erogati)» (73). Ma se così è, allora cade l’ultimo ostacolo ad ammettere che la stessa partecipazione sociale, sotto forma di azione privilegiata, possa attribuire direttamente al possessore il diritto di godimento turnario sull’immobile di proprietà della società, considerato che si tratterebbe nient’altro che di un trattamento preferenziale nella fornitura di un servizio dalla stessa erogato anche nei confronti dei terzi (multiproprietà impura). Non sembrerebbe decisiva nemmeno la considerazione che il socio sarebbe costretto ad effettuare prestazioni accessorie consistenti in danaro nei confronti della società, in spregio del divieto contenuto nell’art. 2345 c.c., posto che non è necessario stabilire a carico dei soci il pagamento di «oneri condominiali» (74), i quali possono essere ben sopportati dalla società attraverso i ricavi provenienti dalla gestione del complesso e delle singole frazioni di multiproprietà offerte in godimento a terzi (75). Il corrispettivo per l’acquisto del diritto coinciderebbe con quello versato (a titolo di conferimento o di prezzo) per l’acquisto a titolo originario o derivativo per la partecipazione, con il vantaggio di superare l’obiezione relativa all’indeterminabilità dell’oggetto del contratto di multiproprietà quando (come previsto nella normalità dei casi) il corrispettivo dovuto dal socio per il godimento del bene doveva essere stabilito annualmente da un organo di una delle parti contraenti (C.d.A. della società), in contrasto con il divieto sancito dall’art. 1349 c.c. Il socio dovrebbe semplicemente impegnarsi a rispettare il «regolamento di multiproprietà» (76), onde consentire l’ordinato avvicendarsi di soci e terzi nel godimento del bene. Quale ulteriore argomento a sostegno della prospettata ricostruzione può addursi la nuova formulazione del secondo comma dell’art. 2350 c.c. Mentre in precedenza, come detto, si aveva del privilegio una nozione tipica, assorbente, ritenendo che lo stesso dovesse consistere nel riconoscimento al socio di una “speciale” quantità di diritti amministrativi o patrimoniali uti socius oggi, dopo la Riforma delle società di capitali, è la stessa legge ad ammettere - fuori dai casi dei c.d. patrimoni destinati - che la società possa emet- 218 NOTARIATO N. 2/2009 tere azioni fornite di diritti patrimoniali correlati ai risultati dell’attività sociale in un determinato settore. Se così è, sarebbe dunque ipotizzabile quantomeno la creazione di azioni fornite di un diritto patrimoniale, a beneficio del socio, correlato all’attività sociale che coincida, alle condizioni sopra esposte, con il godimento dell’immobile con destinazione alberghiera. I vantaggi della prospettata ricostruzione, oltre a quello in precedenza ricordato, sono dunque molteplici. In primo luogo, il socio multipropritario sarebbe tutelato fin dal momento dell’acquisto (a titolo originario o derivativo) della partecipazione, evitandosi quella pericolosa vacatio dovuta alla necessità di stipulare il successivo contratto di multiproprietà (o di locazione o di comodato). In secondo luogo, non si porrebbero tutti i problemi relativi alla durata del diritto di godimento che, trovando la propria causa nel titolo azionario, sarebbe correlata alla durata del contratto di società. Con riferimento, invece, all’obiezione che, in sede di assemblea, i soci ordinari potrebbero pregiudicare i diritti dei soci multiproprietari, occorre evidenziare come le azioni privilegiate attributive del diritto di godimento possano considerarsi a pieno diritto una “speciale categoria di azioni”, con conseguente applicazione dell’art. 2376 c.c., di tal che la decisione assunta dall’assemblea generale deve essere assoggettata allo specifico apprezzamento dei soci interessati. Ciò consente, inolNote: (72) N. Abriani, cit., 267. (73) N. Abriani, cit., 269; F. Magliulo, cit., 92, il quale afferma che «considerato che uno dei principi cardine della riforma consiste nell’intento di conferire ampio spazio all’autonomia statutaria, si può ipotizzare la possibilità di prevedere, in aggiunta al diritto agli utili, privilegi patrimoniali ulteriori e diversi, quali ad esempio il diritto di assistere gratuitamente a spettacoli organizzati dallo società ovvero il diritto ad ottenere sconti su prodotti o servizi forniti dalla società». (74) Per superare questo problema era stato proposto - cfr. C. A. Busi, cit., 138 - di attribuire alle azioni privilegiate un diritto d’opzione alla conclusione di un contratto di godimento di una unità immobiliare per un determinato periodo dell’anno in corso verso il corrispettivo del pagamento di un canone di particolare favore, ciò che verrebbe a dipendere non dall’acquisto dello status di socio ma dall’avvenuto perfezionamento di un distinto contratto a prestazioni corrispettive. Tale soluzione, tuttavia, se da un lato ha il pregio di individuare una forma di collegamento tra il contratto di sottoscrizione delle azioni con il contratto di godimento dell’unità immobiliare, dall’altro sconta le medesime problematiche, sopra evidenziate, della tesi del Confortini e di Cass. n. 4088/97. (75) Va ad ogni modo sottolineato che, secondo una buona parte della dottrina, i versamenti corrisposti dal socio multiproprietario in favore della società rappresentano una fattispecie ben distinta dalle prestazioni accessorie di cui all’art. 2345 c.c., costituendo in realtà il corrispettivo dei servizi erogati dalla società, ovvero il «pagamento di competenza per un appalto di servizio, concluso tra società e soci e collegato al contratto sociale», cfr. M. Klun, cit., 861; O. Amoruso Battista, cit., 991; D. Minussi, Multiproprietà tra modello reale e societario, in Corr. giur., 1992, 2226; M. Delucchi, Multiproprietà azionaria e divieto d’uso dei beni sociali ex art. 2256 c.c., in Le Società, 1997, 1281. (76) Sull’uso improprio di tale locuzione, data l’inesistenza di una vera con titolarità dell’immobile - che resta di proprietà esclusiva della società - cfr. M. Confortini, La multiproprietà, cit., 118-121. ARGOMENTI•SOCIETA’ tre, una tutela dei soci multiproprietari slegata dalla necessità di dover sacrificare il principio maggioritario proprio delle s.p.a. attraverso l’introduzione del principio di unanimità o di maggioranze “quasi totalitarie”. Senza dimenticare che la società non risulterebbe soggetta, all’atto di cessione delle partecipazioni sociali, ai sensi dell’art. 10, n. 4), D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, ad alcun obbligo di fatturazione giacché la causa del godimento turnario dell’immobile non si identificherebbe né nel trasferimento di un diritto reale né nella stipula di un autonomo negozio a titolo oneroso di prestazioni di servizi bensì risiederebbe nella stessa partecipazione sociale (77). In tal modo appare possibile perseguire l’obiettivo di una formula di multiproprietà che consenta di realizzare, con il risparmio delle spese di acquisto e di registrazione del contratto, notevoli vantaggi sia in ordine alla trasferibilità del bene sia in ordine al trattamento fiscale. È evidente che la circostanza per cui i soci non sono comproprietari di un bene ma soci di una società comporta i rischi collegati alle vicende societarie oltre a quelli legati all’esercizio dell’attività imprenditoriale in sé, con particolare riguardo al fallimento. Tuttavia, non diversamente da quanto accade in relazione a qualsiasi soggetto che intende assumersi un rischio di impresa: i soci multiproprietari, infatti, oltre al godimento turnario, compenseranno tale rischio con la percezione di ulteriori utili derivanti dalla gestione del complesso nei confronti dei terzi. Senza tacere del fatto, inoltre, che qualora di tratti di un immobile già costruito (e non da costruire ad opera della stessa società) e la società abbia solo il compito della gestione, il rischio di impresa appare invero assai ridotto. Nota: (77) Così già Cass. pen. 31 gennaio 1987, cit. NOTARIATO N. 2/2009 219 LEGISLAZIONE•SINTESI Novità normative ∗ a cura di GAETANO PETRELLI MUTUI IPOTECARI - TETTO AI TASSI DI INTERESSE E PARAMETRI DI INDICIZZAZIONE L’art. 2, D.L. 29 novembre 2008, n. 185 (in Suppl. ord. alla G.U. n. 280 del 29.11.2008), in vigore dal 29 novembre 2008, convertito con modificazioni dalla L. 28 gennaio 2009, n. 2 (in Suppl. ord. alla G.U. n. 22 del 28.1.2009), in vigore dal 29 gennaio 2009, ha dettato disposizioni di favore in relazione a determinati mutui. A) - mutui stipulati fino al 31 ottobre 2008 L’importo delle rate, a carico del mutuatario, dei mutui infra indicati, è calcolato con riferimento al maggiore tra: a) - il 4 per cento senza spread, spese varie o altro tipo di maggiorazione; b) - il tasso contrattuale alla data di sottoscrizione del contratto. Tale criterio di calcolo non si applica nel caso in cui le condizioni contrattuali determinano una rata di importo inferiore. In pratica: a) - se il mutuo è stato contratto ad un tasso iniziale inferiore al 4%, si applica quest’ultimo tasso; b) - se il mutuo è stato contratto ad un tasso iniziale superiore al 4%, si applica il suddetto tasso iniziale. La suddetta disposizione si applica esclusivamente: – ai mutui per l’acquisto, la costruzione e la ristrutturazione dell’abitazione principale, ad eccezione di quelle di categoria A1, A8 e A9 (quindi “non di lusso”); – sottoscritti da persone fisiche fino al 31 ottobre 2008; – concessi sia da banche, sia da altri soggetti mutuanti; – a tasso non fisso (quindi a tasso variabile, o misto); – garantiti da ipoteca o meno; – limitatamente alle rate da corrispondere nel corso dell’anno 2009. La disposizione in commento si applica anche ai mutui rinegoziati in applicazione dell’art. 3, D.L. n. 93/2008 (c.d. rinegoziazione “Tremonti”), con effetto sul conto di finanziamento accessorio, ovvero, a partire dal momento in cui il conto di finanziamento accessorio ha un saldo pari a zero, sulle rate da corrispondere nel corso del 2009. Con Circ. Min. Finanze 29 dicembre 2008, n. 117852 (in G.U. n. 4 del 7.1.2009), è stato chiarito che la disposizione in commento trova applicazione anche ai mutui cartolarizzati: in questo caso il contributo viene corrisposto dalla banca cedente (originator), ovvero dal soggetto incaricato della riscossione dei crediti ceduti e dei servizi di cassa e di pagamento (servicer). La differenza tra gli importi, a carico del mutuatario, delle rate determinati secondo il comma 1 e quelli derivanti dall’applicazione delle condizioni contrattuali dei mutui è assunta a carico dello Stato (con modalità da stabilirsi con decreto direttoriale). Le suindicate disposizioni operano automaticamente, senza che sia necessaria a tal fine la rinegoziazione delle condizioni del mutuo, o la stipula di qualsiasi contratto modificativo tra mutuante e mutuatario. Nessuna particolare limitazione o modalità redazionale è richiesta in caso di stipula di atto notarile (di rinegoziazione, modifica, erogazione, ecc.) avente ad oggetto taluno dei mutui sopra indicati (posto che il beneficio in oggetto opera automaticamente, sia nei rapporti tra mutuante e mutuatario, sia nei rapporti tra il soggetto mutuante e lo Stato); con l’unica avvertenza della preclusione all’inserimento, in tale atto, di clausole contrattuali in contrasto con l’art. 2 del D.L. n. 185/2008. B) - mutui stipulati dal 1° gennaio 2009 A partire dal 1° gennaio 2009, le banche che offrono alla clientela mutui garantiti da ipoteca per l’acquisto dell’abitazione principale devono assicurare ai medesimi clienti la possibilità di stipulare tali contratti a tasso variabile indicizzato al tasso sulle operazioni di rifinanziamento principale della Banca centrale europea. Nota: (*) Prima parte relativa al secondo semestre 2008. 220 NOTARIATO N. 2/2008 LEGISLAZIONE•SINTESI Per questa seconda tipologia di mutui, quindi: – la legge fa riferimento solo ai mutui bancari (e non di altri intermediari finanziari); – il riferimento è circoscritto ai mutui contratti per l’acquisto dell’abitazione principale (non si fa menzione di costruzione o ristrutturazione, né del fatto che l’abitazione debba essere “non di lusso”); – il riferimento è altresì circoscritto ai mutui ipotecari; – il beneficio consiste nel diritto del mutuatario di ottenere l’indicizzazione al tasso BCE (senza però limite alcuno allo spread, quindi alla maggiorazione che la banca può proporre). Il tasso complessivo applicato in tali contratti è in linea con quello praticato per le altre forme di indicizzazione offerte. Relativamente ai mutui da contrarre a partire dal 1° gennaio 2009, quindi, non vi è alcuna limitazione all’autonomia contrattuale (possono essere conclusi mutui a tasso fisso, variabile o misto, indicizzati a qualunque parametro determinato o determinabile, con qualsiasi spread); il notaio ha unicamente un obbligo di informazione e chiarimento riguardo al nuovo diritto attribuito al mutuatario di ottenere l’indicizzazione al tasso BCE. MUTUI IPOTECARI - RINEGOZIAZIONE La L. 24 luglio 2008, n. 126 (in G.U. n. 174 del 25.7.2008), ha convertito con modificazioni il D.L. 27 maggio 2008, n. 93 (in G.U. n. 124 del 28.5.2008), apportando delle variazioni anche all’art. 3 di tale decreto, relativo alla rinegoziazione dei mutui. Cfr., per una sintesi della relativa disciplina, coordinata con quella contenuta nel D.L. n. 7/2007, Petrelli, Rinegoziazione dei mutui ipotecari, in http://www.gaetanopetrelli.it. CONVENZIONI URBANISTICHE L’art. 1, comma 1, lett. f), D.Lgs. 11 settembre 2008, n. 152 (in G.U. n. 231 del 2.10.2008) ha modificato l’art. 32, comma 1, lett. g), D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici), stabilendo che le norme del Titolo I del Codice (contratti di rilevanza comunitaria), nonché quelle delle parti I (principi e disposizioni comuni), IV (contenzioso) e V (disposizioni finali) si applicano anche - a condizione che il contratto sia di importo pari o superiore alle soglie di cui all’art. 28 - ai lavori pubblici da realizzarsi da parte dei soggetti privati, titolari di permesso di costruire, che assumono in via diretta l’esecuzione delle opere di urbanizzazione a scomputo totale o parziale del contributo previsto per il rilascio del permesso di costruire medesimo, ai sensi dell’art. 16, comma 2, D.P.R. n. 380/2001, e dell’art. 28, comma 5, L. n. 1150/1942. L’amministrazione che rilascia il permesso di costruire può prevedere che, in relazione alla realizzazione delle opere di urbanizzazione, l’avente diritto a richiedere il permesso di costruire presenti all’amministrazione stessa, in sede di richiesta del permesso di costruire, un progetto preliminare delle opere da eseguire, con l’indicazione del tempo massimo in cui devono essere completate, allegando lo schema del relativo contratto di appalto. L’amministrazione, sulla base del progetto preliminare, indice una gara con le modalità previste dall’art. 55, D.Lgs. n. 163/2006. Oggetto del contratto, previa acquisizione del progetto definitivo in sede di offerta, sono la progettazione esecutiva e le esecuzioni di lavori. L’offerta relativa al prezzo indica distintamente il corrispettivo richiesto per la progettazione definitiva ed esecutiva, per l’esecuzione dei lavori e per gli oneri di sicurezza. A norma dell’art. 28, lett. c), D.Lgs. n. 163/2006, la soglia per gli appalti e concessioni di lavori pubblici è pari ad euro 5.278.000. Per le opere di importo pari o superiore a tale soglia, trova applicazione l’art. 55. Al di sotto di tale soglia, trova invece applicazione la disciplina contenuta nell’art. 122 del medesimo decreto. In particolare, ai sensi dell’art. 122, comma 8, come sostituito dall’art. 1, comma 1, lett. bb), n. 1, D.Lgs. 11 settembre 2008, n. 152, si applica la procedura prevista dall’articolo 57, comma 6, D.Lgs. n. 163/2006: pertanto, ove possibile, l’amministrazione che rilascia il permesso di costruire (stazione appaltante) individua gli operatori economici da consultare sulla base di informazioni riguardanti le caratteristiche di qualificazione economico-finanziaria e tecnicoorganizzativa desunte dal mercato, nel rispetto dei principi di trasparenza, concorrenza, rotazione, e seleziona almeno cinque operatori economici, se sussistono in tale numero soggetti idonei. Gli operatori economici selezionati vengono contemporaneamente invitati a presentare le offerte oggetto della negoziazione, con lettera contenente gli elementi essenziali della prestazione richiesta. L’amministrazione che rilascia il permesso di costruire (stazione appaltante) sceglie l’operatore economico che ha offerto le condizioni più vantaggiose, secondo il criterio del prezzo più basso o dell’offerta economicamente più vantaggiosa, previa verifica del possesso dei requisiti di qualificazione previsti per l’affidamento di contratti di uguale importo mediante procedura aperta, ristretta, o negoziata previo bando. In definitiva, nella redazione delle convenzioni urbanistiche con le quali i soggetti privati, titolari di permesso di NOTARIATO N. 2/2008 221 LEGISLAZIONE•SINTESI costruire, assumono in via diretta l’esecuzione delle opere di urbanizzazione a scomputo totale o parziale del contributo previsto per il rilascio del permesso, occorre: a) precisare se l’importo delle opere di urbanizzazione a scomputo sia pari o superiore, ovvero inferiore, alla soglia comunitaria di cui all’art. 28; b) chiarire, nel primo caso, che trovano applicazione all’esecuzione di tali opere di urbanizzazione le norme del Titolo I del Codice dei contratti pubblici (contratti di rilevanza comunitaria), nonché quelle delle parti I (principi e disposizioni comuni), IV (contenzioso) e V (disposizioni finali); c) prevedere che l’avente diritto a richiedere il permesso di costruire presenti all’amministrazione, in sede di richiesta del permesso di costruire, un progetto preliminare delle opere da eseguire, con l’indicazione del tempo massimo in cui devono essere completate, allegando lo schema del relativo contratto di appalto; d) richiamare, a seconda dei casi, la disciplina degli artt. 55, 122, comma 8, 57, comma 6, D.Lgs. n. 163/2006, quanto alla gara da indire ed alle modalità di esecuzione dei lavori. Cfr. anche, sul punto, la Determinazione in data 2 aprile 2008, n. 4/2008, dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (in G.U. n. 89 del 15.4.2008), già commentata nella Rassegna relativa al primo semestre 2008, in http://www.gaetanopetrelli.it. CERTIFICAZIONE ENERGETICA DEGLI EDIFICI In materia di certificazione energetica degli edifici sono stati emanati, a livello nazionale: – il D.Lgs. 30 maggio 2008, n. 115 (in G.U. n. 154 del 3.7.2008); per il relativo commento cfr. Petrelli, Certificazione energetica degli edifici dopo il D.Lgs. 30 maggio 2008, n. 115, in http://www.gaetanopetrelli.it; – l’art. 35, comma 2-bis, D.L. 25 giugno 2008, n. 112, come aggiunto dalla legge di conversione, 6 agosto 2008, n. 133 (in G.U. n. 195 del 21.8.2008), in vigore dal 22 agosto 2008, che ha abrogato l’obbligo di allegazione dell’attestato di certificazione (o qualificazione) energetica a pena di nullità dell’atto traslativo; per il relativo commento cfr. Petrelli, Certificazione energetica degli edifici dopo la legge 6 agosto 2008, n. 133, in http://www.gaetanopetrelli.it. Sono state, inoltre, emanate alcune disposizioni legislative e regolamentari regionali: 1) Regione Piemonte: – Con Delibera della Giunta Regionale 30 settembre 2008, n. 35-9702 (in B.U.R. 9.10.2008, n. 41, sono state dettate disposizioni attuative in materia di impianti termici ai sensi dell’art. 21, comma 1, lett. h), i), j), k), l), m) ed o), della legge regionale 28 maggio 2007, n. 13. Non sono state, invece, ancora emanate le disposizioni attuative dell’art. 21, comma 1, lett. e), f) e g), L. n. 13/2007, a cui è condizionata l’entrata in vigore dell’obbligo di allegazione dell’attestato di certificazione energetica per gli edifici di nuova costruzione. Pertanto, agli effetti sanzionatori previsti dalla suddetta legge regionale: a) per gli edifici di nuova costruzione o soggetti a ristrutturazione edilizia, le disposizioni di cui all’art. 5, commi 1, 2, 3 e 5 (quindi, in particolare, l’obbligo di dotare l’edificio della certificazione energetica, l’obbligo di allegazione dell’attestato di certificazione energetica agli atti traslativi a titolo oneroso, e di messa a disposizione del locatario), si applicano dopo un anno dalla data di pubblicazione della deliberazione attuativa della Giunta regionale di cui al comma 1, lett. e), f) e g) (art. 21, comma 2). b) per gli edifici esistenti, le disposizioni di cui all’art. 5, commi 2 e 3 (quindi, in particolare, l’obbligo di allegazione dell’attestato di certificazione energetica agli atti traslativi a titolo oneroso, e di messa a disposizione del locatario), si applicano a decorrere dal 1° luglio 2009 (art. 21, comma 3). 2) Regione Emilia Romagna: Con Deliberazione della Giunta regionale n. 1050 del 7 luglio 2008 (in B.U.R. n. 124 del 21.7.2008) è stato disciplinato il sistema di accreditamento dei soggetti preposti alla certificazione energetica degli edifici. Con Deliberazione della Giunta regionale 28 ottobre 2008, n. 1754 (in B.U.R. n. 194 del 19.11.2008), sono state emanate disposizioni per la formazione del Certificatore energetico in edilizia in attuazione della Delib.Ass.Legisl. n. 156/2008. A norma di quest’ultimo provvedimento, fino al 31 dicembre 2008 l’attestato di certificazione energetica e l’attestato di qualificazione energetica avevano la medesima efficacia ai fini del rispetto delle disposizioni di cui alla Delib. Ass. Legisl. 4 marzo 2008, n. 156 in materia di certificazione energetica degli edifici. A partire dal 1° gennaio 2009, quindi, può essere rilasciato unicamente l’attestato di certificazione energetica. 3) Regione Liguria: L’art. 3 della legge regionale 24 novembre 2008, n. 42 (in B.U.R. 26 novembre 2008, n. 17, parte prima), in vigore dal 27 novembre 2008, ha abrogato l’art. 28, commi 3 e 4, e l’art. 33, commi 12 e 13, della legge regionale n. 222 NOTARIATO N. 2/2008 LEGISLAZIONE•SINTESI 22/2007 (e quindi ha eliminato gli obblighi di allegazione dell’attestato di certificazione energetica a pena di nullità relativa degli atti di trasferimento). Rimane l’obbligo di consegna dell’attestato, in conformità alla normativa nazionale e comunitaria, nonché le altre disposizioni sanzionatorie previste dalla L. n. 22/2007. Cfr. anche la Deliberazione della Giunta regionale in data 6 giugno 2008, n. 624 (in B.U. n. 27 del 2.7.2008), relativa ai corsi di formazione per l’iscrizione all’elenco dei professionisti abilitati. 4) Regione Valle d’Aosta: Legge 21 aprile 2008, n. 21 (in B.U. n. 28 del giorno 8.7.2008). Ai sensi dell’art. 7, comma 3, “In ogni contratto di compravendita di un intero edificio o di singole unità immobiliari, l’attestato di certificazione energetica è allegato al contratto, in originale o in copia autenticata, a cura del venditore”. Ai sensi dell’art. 21, “Fino alla data di approvazione delle deliberazioni della Giunta regionale attuative della presente legge, si applicano le disposizioni di cui all’allegato I del D.Lgs. n. 192/2005”. 5) Regione Lombardia: – Decreto direttoriale 7 agosto 2008, n. 8935 (in B.U.R. 25 agosto 2008, n. 35), recante “Approvazione circolare relativa all’applicazione della legge regionale n. 26/1995 e al rapporto con l’art. 11, D.Lgs. 115/2008”. – Deliberazione della Giunta regionale in data 22 dicembre 2008, n. 8/8745 (in B.U.R. 15.1.2009, n. 2). Cfr., per i rapporti tra normativa statale e regionale in materia di certificazione energetica, Lucchini Guastalla, Nullità della compravendita immobiliare per contrarietà a norma regionale: il caso della certificazione energetica, in Riv. crit. dir. priv., 2008, 469, ed in Studi in onore di Nicolò Lipari, I, Milano, 2008, 1441; Petrelli, La certificazione energetica degli edifici. Normativa nazionale e delle Regioni Piemonte e Lombardia, in Notariato, 2008, 82. Sul controverso tema del c.d. diritto privato regionale, cfr., tra i contributi più recenti, Benedetti, Il diritto privato delle Regioni, Bologna, 2009; Giova, “Ordinamento civile” e diritto privato regionale. Un difficile equilibrio nell’unitarietà del sistema, Napoli, 2008; AA.VV., Il diritto privato regionale nella prospettiva europea, a cura di Calzolaio, Milano, 2006; Lamarque, Regioni e ordinamento civile, Padova, 2005; AA.VV., L’ordinamento civile nel nuovo sistema delle fonti legislative, Milano, 2003; De Felice, L’ordinamento civile tra pluralità delle competenze e unità dell’ordinamento, in Interpretazione a fini applicativi e legittimità costituzionale, a cura di Femia, Napoli, 2006, 593; Putti, Il diritto privato regionale, in Giurisprudenza costituzionale e fonti del diritto, a cura di Lipari, Napoli, 2006, 281; Vitucci, Proprietà e obbligazioni nel diritto privato regionale, in Studi in onore di Majello, II, Napoli, 2005, 829; Roppo, Diritto dei contratti, ordinamento civile, competenza legislativa delle regioni - Un lavoro complicato per la corte costituzionale, in Corr. giur., 2005, 1301. Cfr., infine, la panoramica, relativa all’ulteriore legislazione regionale finora emanata, nella Rassegna relativa al primo semestre 2008, in http://www.gaetanopetrelli.it. REGOLAMENTO COMUNITARIO SULLA LEGGE APPLICABILE ALLE OBBLIGAZIONI CONTRATTUALI Il Regolamento (CE) n. 593/2008 del Parlamento europeo e del Consiglio del 17 giugno 2008 (in G.U.C.E. n. L177 del 4.7.2008), c.d. Regolamento “Roma II”, disciplina la legge applicabile alle obbligazioni contrattuali. Di seguito verranno esposte, brevemente, le principali novità e differenze rispetto alla disciplina di conflitto contenuta nella Convenzione di Roma del 19 giugno 1980, attualmente in vigore ed applicabile “in ogni caso” ai sensi dell’art. 57, L. 31 maggio 1995, n. 218. In linea generale, le nuove disposizioni si propongono l’obiettivo generale di accrescere la certezza del diritto nello spazio giudiziario europeo, mediante la statuizione di regole di conflitto di legge con “alto grado di prevedibilità” (16° “Considerando”). – ENTRATA IN VIGORE DEL REGOLAMENTO Il Regolamento si applica ai contratti conclusi “dopo il 17 dicembre 2009”, e quindi stipulati a partire dal 18 dicembre 2009 (art. 28). – RAPPORTO CON LA CONVENZIONE DI ROMA DEL 1980 A norma dell’art. 24, il Regolamento sostituisce la Convenzione di Roma del 19 giugno 1980, sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali, negli Stati membri, salvo per quanto riguarda i territori degli Stati membri che rientrano nel campo di applicazione territoriale di tale convenzione e ai quali il presente regolamento non è applicabile a norma dell’articolo 299 del trattato. Pertanto, il Regolamento non si applica a Danimarca e Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord: nei rapporti con tali Stati continua a trovare applicazione la Convenzione di Roma. Nella misura in cui il Regolamento sostituisce le disposizioni della convenzione di Roma, ogni riferimento a tale convenzione si intende fatto al Regolamento stesso. Ciò significa che anche il richiamo, contenuto nell’art. 57, L. 31 maggio 1995, n. 218, deve intendersi ora effettuato, “in ogni caso”, al Regolamento n. 593/2008. NOTARIATO N. 2/2008 223 LEGISLAZIONE•SINTESI – RAPPORTO CON ALTRE FONTI NORMATIVE A norma dell’art. 23 del Regolamento, quest’ultimo “non pregiudica l’applicazione delle disposizioni dell’ordinamento comunitario che, con riferimento a settori specifici, disciplinino i conflitti di legge in materia di obbligazioni contrattuali”. Ai sensi del successivo art. 25, il Regolamento non osta all’applicazione delle convenzioni internazionali di cui uno o più Stati membri sono parti contraenti al momento dell’adozione del Regolamento stesso e che disciplinano i conflitti di leggi inerenti ad obbligazioni contrattuali. Tuttavia, il Regolamento prevale, tra Stati membri, sulle convenzioni concluse esclusivamente tra due o più di essi nella misura in cui esse riguardano materie disciplinate dal Regolamento medesimo. Entro il 17 giugno 2009 gli Stati membri comunicano alla Commissione le convenzioni di cui all’articolo 25, paragrafo 1, che verranno quindi pubblicate nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea, entro sei mesi dal ricevimento delle notifiche. – CARATTERE UNIVERSALE DEL REGOLAMENTO La legge designata dal Regolamento si applica anche quando non sia quella di uno Stato membro (art. 2), e quindi anche quando, per effetto di scelta delle parti o altro criterio di collegamento (es., residenza di un contraente in uno Stato extracomunitario, o collegamento più stretto con quest’ultimo), il risultato sia l’applicazione di una legge non comunitaria. – ESCLUSIONE DEL RINVIO Come per la Convenzione di Roma del 1980, anche il Regolamento esclude l’applicazione delle norme di diritto internazionale privato della legge applicabile (art. 20). Ciò significa che sono sempre irrilevanti, dal punto di vista dell’operatore giuridico italiano, le norme straniere di conflitto in materia di obbligazioni contrattuali. Tuttavia, se il contratto deve avere esecuzione in uno Stato extracomunitario la cui legge adotta soluzioni conflittuali diverse, è opportuno tenerne conto, a livello redazionale, nella scelta contrattuale della legge applicabile. – NULLITA’DEI CONTRATTI L’art. 12 del Regolamento, al pari dell’art. 10 della Convenzione di Roma, include tra le materie rientranti nella competenza della legge applicabile alle obbligazioni contrattuali anche la nullità dei contratti. L’Italia aveva tuttavia apposto una riserva, su questo punto, alla Convenzione di Roma, con la conseguenza che il punto è attualmente regolato dall’art. 61, L. n. 218/1995, e dal 1° gennaio 2009 dalla legge individuata dall’art. 10 del Regolamento in materia di legge applicabile alle obbligazioni extracontrattuali. Quando, invece, entrerà in vigore il Regolamento “Roma I”, lo stesso - che non ammette riserve da parte degli Stati membri - ricomprenderà nel suo ambito anche la disciplina della nullità. – RAPPORTI DI CONVIVENZA REGISTRATI A norma dell’art. 1, paragrafo 2, lett. c), sono esclusi dal campo d’applicazione del Regolamento, tra l’altro, le obbligazioni derivanti da regimi patrimoniali relativi a rapporti che secondo la legge applicabile a questi ultimi hanno effetti comparabili al matrimonio. Quindi le obbligazioni nascenti da rapporti di convivenza registrati, che in base alla legge ad essi applicabile hanno effetti comparabili al matrimonio, non sono comunque regolate al contrario di quanto riteneva un certo orientamento dottrinale - dal Regolamento in oggetto. – RAPPRESENTANZA NEGOZIALE Ai sensi dell’art. 1, comma 2, lett. g), non rientra nell’ambito di applicazione del Regolamento “la questione di stabilire se l’atto compiuto da un intermediario valga ad obbligare di fronte ai terzi il mandante”, come pure la questione “se l’atto compiuto da un organo di una società, altra associazione o persona giuridica valga ad obbligare di fronte ai terzi la società, altra associazione o persona giuridica”. Per la legge applicabile alla rappresentanza negoziale occorre, quindi, continuare a far riferimento alla legge individuata dall’art. 60, L. n. 218/1995 (vi è stato pertanto un revirement rispetto alla soluzione adottata nella proposta di Regolamento, che all’art. 7 disciplinava il profilo della rappresentanza negoziale). – RESPONSABILITA’PRECONTRATTUALE La responsabilità precontrattuale è disciplinata dall’art. 12 del Regolamento CE n. 864/2007, sulla legge applicabile alle obbligazioni extracontrattuali; ed è quindi esclusa dall’ambito di applicazione del presente Regolamento (10° “Considerando”; art. 1, paragrafo 2, lett. i). – SCELTA DELLA LEGGE APPLICABILE Come per la Convenzione di Roma, il criterio principale per individuare la legge applicabile è la scelta delle parti, espressa o risultante “chiaramente” dal contratto o dalle circostanze (art. 3, paragrafo 1). Ai sensi del 12° “Considerando”, “L’accordo tra le parti volto a conferire a uno o più organi giurisdizionali di uno Stato membro competenza esclusiva a conoscere delle controversie riguardanti il contratto dovrebbe essere uno dei fattori di cui tenere conto nello stabilire se la scelta della legge risulta in modo chiaro”. L’accordo esclusivo sulla giurisdizione ha, quindi, un valore probatorio presuntivo. Ai sensi dell’art. 3, paragrafo 3, “Qualora tutti gli altri elementi pertinenti alla situazione siano ubicati, nel momento in cui si opera la scelta, in un paese diverso da quello la cui legge è stata scelta, la scelta effettuata dalle 224 NOTARIATO N. 2/2008 LEGISLAZIONE•SINTESI parti fa salva l’applicazione delle disposizioni alle quali la legge di tale diverso paese non permette di derogare convenzionalmente. A norma del 15° “Considerando”, questa norma dovrebbe applicarsi a prescindere dal fatto che la scelta di una legge sia stata accompagnata dalla scelta di un organo giurisdizionale. Qualora tutti gli altri elementi pertinenti alla situazione siano ubicati, nel momento in cui si opera la scelta, in uno o più Stati membri, la scelta di una legge applicabile diversa da quella di uno Stato membro ad opera delle parti fa salva l’applicazione delle disposizioni di diritto comunitario, se del caso, come applicate nello Stato membro del foro, alle quali non è permesso derogare convenzionalmente (art. 3, paragrafo 4). Pertanto, le norme comunitarie inderogabili sono fatte salve nel solo caso in cui la scelta abbia ad oggetto la legge di uno Stato extracomunitario, e tutti i criteri di collegamento (diversi dalla scelta) si riferiscano alla legge di uno o più Stati comunitari. A norma dell’art. 1, paragrafo 4, per “Stato membro”, agli effetti dell’art. 3, paragrafo 4, si intendono tutti gli Stati membri (compresi, quindi, Danimarca e Regno Unito, ai quali le restanti parti del Regolamento non si applicano). Ai sensi del 13° “Considerando”, il Regolamento “non impedisce che le parti includano nel loro contratto, mediante riferimento, un diritto non statale ovvero una convenzione internazionale”. Ai sensi del 14° “Considerando”, “qualora la Comunità dovesse adottare in un idoneo strumento giuridico norme di diritto sostanziale dei contratti, comprendenti clausole e condizioni standard, tale strumento può prevedere la possibilità per le parti di scegliere l’applicazione di tali norme”. Peraltro non è stata riproposta, nel testo dell’articolato, la previsione contenuta nella proposta di Regolamento, che all’art. 3, paragrafo 2, consentiva espressamente la scelta di “principi e norme di diritto sostanziale dei contratti, riconosciuti a livello internazionale o comunitario” (es., principi Unidroit, Principi di diritto europeo dei contratti), il che rende dubbio che sussista una tale possibilità. – LEGGE APPLICABILE IN MANCANZA DI SCELTA Le disposizioni dell’art. 4 del Regolamento innovano in modo considerevole rispetto alla Convenzione di Roma del 1980, per l’ipotesi in cui manchi una scelta della legge applicabile ad opera delle parti. Il paragrafo 1 dell’art. 4 elenca, con metodo casistico, singole fattispecie contrattuali individuando per ciascuna di esse la legge applicabile in mancanza di scelta (salvi gli artt. da 5 a 8 e quindi, in particolare, le regole specifiche per i contratti dei consumatori, che comunque prevalgono): a) - il contratto di vendita di beni (non immobili) è disciplinato dalla legge del paese nel quale il venditore ha la residenza abituale; b) - il contratto di prestazione di servizi (compresi i servizi professionali) è disciplinato dalla legge del paese nel quale il prestatore di servizi ha la residenza abituale; c) - il contratto avente per oggetto un diritto reale immobiliare o la locazione di un immobile è disciplinato dalla legge del paese in cui l’immobile è situato; d) - in deroga alla lettera c), la locazione di un immobile concluso per uso privato temporaneo per un periodo di non oltre sei mesi consecutivi è disciplinata dalla legge del paese nel quale il proprietario ha la residenza abituale, purché il locatario sia una persona fisica e abbia la sua residenza abituale nello stesso paese; e) - il contratto di affiliazione (franchising) è disciplinato dalla legge del paese nel quale l’affiliato ha la residenza abituale; f) - il contratto di distribuzione è disciplinato dalla legge del paese nel quale il distributore ha la residenza abituale; g) - il contratto di vendita di beni all’asta è disciplinato dalla legge del paese nel quale ha luogo la vendita all’asta, se si può determinare tale luogo; h) - il contratto concluso in un sistema multilaterale che consente o facilita l’incontro di interessi multipli di acquisto e di vendita di terzi relativi a strumenti finanziari, quali definiti all’articolo 4, paragrafo 1, punto 17, della direttiva 2004/39/CE, conformemente a regole non discrezionali e disciplinato da un’unica legge, è disciplinato da tale legge. Per i contratti diversi da quelli elencati dal paragrafo 1 dell’art. 4, e per quelli contemplati da più di una delle lettere da a) ad h), del medesimo paragrafo 1, il contratto è disciplinato dalla legge del paese nel quale la parte che deve effettuare la prestazione caratteristica del contratto ha la residenza abituale (art. 4, paragrafo 2). A norma dell’art. 19: – per residenza abituale di società, associazioni e persone giuridiche si intende il luogo in cui si trova la loro amministrazione centrale. Per residenza abituale di una persona fisica che agisce nell’esercizio della sua attività professionale si intende la sua sede di attività principale (art. 19, paragrafo 1); – quando il contratto è concluso nel quadro dell’esercizio dell’attività di una filiale, di un’agenzia o di qualunque altra sede di attività, o se, secondo il contratto, la prestazione deve essere fornita da una siffatta filiale, agenzia o sede di attività, il luogo in cui è ubicata la filiale, l’agenzia o altra sede di attività è considerato residenza abituale (art. 19, paragrafo 2); – al fine di determinare la residenza abituale il momento rilevante è quello della conclusione del contratto. NOTARIATO N. 2/2008 225 LEGISLAZIONE•SINTESI Come rilevato nel 39° “Considerando”, nel definire la residenza abituale le regole di conflitto ex art. 19 si limitano, per ragioni di certezza del diritto, ad un solo criterio, “giacché altrimenti le parti resterebbero nell’impossibilità di prevedere quale sarebbe la legge applicabile alla loro situazione”. Ne deriva una discrasia rispetto al concetto di residenza abituale di cui all’art. 60, paragrafo 1, del regolamento (CE) n. 44/2001 in materia di giurisdizione, che propone tre criteri. Vi è poi la c.d. clausola di eccezione: se dal complesso delle circostanze del caso risulta chiaramente che il contratto presenta collegamenti manifestamente più stretti con un paese diverso da quello indicato ai paragrafi 1 o 2, si applica la legge di tale diverso paese (art. 4, paragrafo 3). Si potrebbe ipotizzare, ad esempio, un contratto di cessione di azienda, se il complesso aziendale e l’attività di impresa siano ubicati in uno Stato, diverso da quello di residenza abituale del cedente. Infine, se la legge applicabile non può essere determinata a norma dei paragrafi 1 o 2 (perché il contratto è diverso da quelli elencati, e manca una prestazione caratteristica), il contratto è disciplinato dalla legge del paese con il quale presenta il collegamento più stretto (articolo 4, paragrafo 4). Per determinare quest’ultimo paese “si dovrebbe considerare, tra l’altro, se il contratto in questione sia strettamente collegato a un altro contratto o ad altri contratti” (21° “Considerando”). – CONTRATTI DEI CONSUMATORI L’art. 6 del Regolamento innova rispetto alla Convenzione di Roma del 1980, riguardo ai contratti conclusi dai consumatori (persone fisiche che agiscono per scopi estranei all’eventuale attività commerciale o professionale, contraendo con altra persona che invece agisce nell’esercizio di attività commerciale o professionale). In tale eventualità, l’art. 6, paragrafo 1, non prevede come regola generale la scelta della legge applicabile ad opera delle parti: il contratto è disciplinato dalla legge del paese nel quale il consumatore ha la residenza abituale, a condizione che il professionista svolga le sue attività commerciali o professionali nel paese in cui il consumatore ha la residenza abituale, oppure diriga tali attività, con qualsiasi mezzo, verso tale paese o vari paesi tra cui quest’ultimo; e sempreché il contratto rientri nell’ambito di dette attività. Questo criterio di collegamento vale anche quando il consumatore abbia la propria residenza abituale in uno Stato extracomunitario (è stata quindi ampliata la portata della norma, rispetto a quanto disposto dall’art. 5, paragrafo 1, della proposta di Regolamento). A norma dell’art. 6, paragrafo 2, in deroga al paragrafo 1 le parti possono scegliere la legge applicabile al contratto (è stata quindi riproposta la soluzione della Convenzione di Roma, mentre la proposta di Regolamento, all’art. 5, precludeva la scelta in questo caso). Tuttavia, tale scelta non può privare il consumatore della protezione assicuratagli dalle disposizioni alle quali non è permesso derogare convenzionalmente ai sensi della legge che, in mancanza di scelta, sarebbe stata applicabile a norma del paragrafo 1. Se i requisiti di cui al paragrafo 1, lettere a) o b), non sono soddisfatti (quindi se il professionista non svolge le sue attività commerciali o professionali nel paese in cui il consumatore ha la residenza abituale, oppure non dirige tali attività, con qualsiasi mezzo, verso tale paese o vari paesi tra cui quest’ultimo), la legge applicabile a un contratto tra un consumatore e un professionista è determinata a norma delle regole generali di cui agli articoli 3 e 4 (art. 6, paragrafo 3). Così, ad esempio, un contratto di mutuo tra una banca italiana ed un consumatore residente in altro Stato membro dell’Unione è regolato: a) - in assenza di scelta della legge applicabile, dalla legge dello Stato di residenza abituale del consumatore, se la banca suddetta vi svolga la propria attività; altrimenti, dalla legge italiana, quale legge dello Stato nel quale la banca ha la propria residenza abituale; b) - in caso di scelta della legge italiana, da quest’ultima, fatte salve le norme inderogabili della legge del luogo di residenza abituale del consumatore, quando applicabile. A norma dell’art. 6, paragrafo 4, i paragrafi 1 e 2 non si applicano, tra l’altro: a) - ai contratti di fornitura di servizi quando i servizi dovuti al consumatore devono essere forniti esclusivamente in un paese diverso da quello in cui egli risiede abitualmente; b) - ai contratti aventi per oggetto un diritto reale immobiliare o la locazione di un immobile diversi dai contratti di multiproprietà, riguardanti un diritto di godimento a tempo parziale ai sensi della direttiva 94/47/CE. Ciò significa che per i contratti aventi ad oggetto diritti reali immobiliari, anche se conclusi tra un professionista ed un consumatore, non si applica la disciplina speciale dell’art. 6, ma unicamente quella generale degli artt. 3 e 4. – CESSIONE DI CREDITI E SURROGAZIONE CONVENZIONALE A norma dell’art. 14 del Regolamento, i rapporti tra cedente e cessionario o tra surrogante e surrogato nell’ambito di una cessione o di una surrogazione convenzionale di credito nei confronti di un altro soggetto («il debitore») sono disciplinati dalla legge che, in forza del presente regolamento, si applica al contratto che li vincola. La legge che disciplina il credito ceduto o surrogato determina la cedibilità di questo, i rapporti tra cessionario o surrogato e debitore, le condizioni di opponibilità della cessione o surrogazione al debitore e il carattere liberatorio 226 NOTARIATO N. 2/2008 LEGISLAZIONE•SINTESI della prestazione fatta dal debitore. Il concetto di cessione nell’art. 14 include i trasferimenti definitivi di crediti, i trasferimenti di crediti a titolo di garanzia nonché gli impegni e altri diritti di garanzia sui crediti. – SURROGAZIONE LEGALE A norma dell’art. 15, qualora, in virtù di un’obbligazione contrattuale, un soggetto, il creditore, vanti diritti nei confronti di un altro soggetto, il debitore, e un terzo sia tenuto a soddisfare il creditore, ovvero il terzo abbia soddisfatto il creditore in esecuzione di questo obbligo, la legge applicabile a tale obbligo del terzo determina se e in quale misura questi possa esercitare nei confronti del debitore i diritti vantati dal creditore nei confronti del debitore in base alla legge che disciplina i loro rapporti. – OBBLIGAZIONI SOLIDALI Ai sensi dell’art. 16 del Regolamento, qualora un creditore vanti un credito nei confronti di vari debitori che sono responsabili in solido e uno di essi abbia già adempiuto in tutto o in parte, la legge che regola l’obbligazione di tale debitore nei confronti del creditore regola anche il diritto di regresso del debitore nei confronti degli altri debitori. Gli altri debitori possono opporre le eccezioni che potevano opporre al creditore nella misura consentita dalla legge che regola la loro obbligazione nei confronti del creditore. – COMPENSAZIONE LEGALE A norma dell’art. 17 del Regolamento, qualora il diritto di compensazione non sia stato convenuto dalle parti, la compensazione è regolata dalla legge applicabile al credito per il quale è fatto valere il diritto di compensazione. – NORME DI APPLICAZIONE NECESSARIA A norma dell’art. 9, paragrafo 1, del Regolamento, “1. Le norme di applicazione necessaria sono disposizioni il cui rispetto è ritenuto cruciale da un paese per la salvaguardia dei suoi interessi pubblici, quali la sua organizzazione politica, sociale o economica, al punto da esigerne l’applicazione a tutte le situazioni che rientrino nel loro campo d’applicazione, qualunque sia la legge applicabile al contratto secondo il presente regolamento”. Il concetto di «norme di applicazione necessaria» è quindi distinto dall’espressione «disposizioni alle quali non è permesso derogare convenzionalmente» e deve essere inteso in maniera più restrittiva (37° “Considerando”). L’art. 9, paragrafo 2, fa salva l’applicazione delle norme di applicazione necessaria della legge del foro. L’art. 9, paragrafo 3, attribuisce rilevanza anche alle norme di applicazione necessaria del paese in cui gli obblighi derivanti dal contratto devono essere o sono stati eseguiti, nella misura in cui tali norme di applicazione necessaria rendono illecito l’adempimento del contratto. Per decidere se vada data efficacia a queste norme, si deve tenere conto della loro natura e della loro finalità nonché delle conseguenze derivanti dal fatto che siano applicate, o meno. Tra le norme di applicazione necessaria vengono generalmente incluse le disposizioni di natura fiscale, urbanistica, come pure quelle che, ai fini della pubblicità immobiliare, impongono una determinata forma per gli atti soggetti ad iscrizione o trascrizione. – FORMA DEGLI ATTI A norma dell’art. 11 del Regolamento, “un contratto concluso tra persone che si trovano, o i cui intermediari si trovano, nello stesso paese al momento della conclusione è valido quanto alla forma se soddisfa i requisiti di forma della legge che ne disciplina la sostanza ai sensi del presente regolamento o della legge del paese in cui è concluso” (art. 11, paragrafo 1). Un contratto concluso tra persone che si trovano, o i cui intermediari si trovano, in paesi diversi al momento della conclusione (c.d. contratto tra assenti) è valido quanto alla forma se soddisfa i requisiti di forma della legge che ne disciplina la sostanza ai sensi del presente regolamento o della legge del paese in cui si trova una delle parti, o il loro intermediario, al momento della conclusione oppure della legge del paese in cui una delle parti risiedeva abitualmente in quel momento (art. 11, paragrafo 2). Un atto giuridico unilaterale relativo ad un contratto concluso o da concludere è valido quanto alla forma se soddisfa i requisiti di forma della legge che disciplina o disciplinerebbe la sostanza del contratto ai sensi del Regolamento, o della legge del paese in cui detto atto è stato compiuto, o della legge del paese in cui l’autore dell’atto risiedeva abitualmente nel momento in cui l’ha compiuto (art. 11, paragrafo 3). La forma dei contratti conclusi dai consumatori, che rientrano nel campo d’applicazione dell’articolo 6, è disciplinata imperativamente dalla legge del paese in cui il consumatore ha la residenza abituale (articolo 11, paragrafo 4). In deroga ai paragrafi da 1 a 4, qualsiasi contratto avente per oggetto un diritto reale immobiliare o la locazione di un immobile è sottoposta ai requisiti di forma della legge del paese in cui l’immobile è situato, sempre che, secondo tale legge: a) - tali requisiti si applichino indipendentemente dal paese in cui il contratto è concluso e dalla legge che disciplina il contratto; e b) - a tali requisiti non è permesso derogare convenzionalmente. Cfr., per approfondimenti sulla materia, Ubertazzi, Il Regolamento Roma I sulla legge applicabile alle obbligazioni con- NOTARIATO N. 2/2008 227 LEGISLAZIONE•SINTESI trattuali, Milano, 2008; AA.VV., Il nuovo diritto europeo dei contratti: dalla Convenzione di Roma al Regolamento “Roma 1”, Quaderni della Fondazione italiana per il notariato, Roma, 2007; AA.VV., La legge applicabile ai contratti nella proposta di Regolamento “Roma I”, a cura di Franzina, Padova, 2006; Ambrosi-De Amicis, La legge applicabile alle obbligazioni contrattuali: il Reg. CE 593/2008 “Roma I” (parte I), in Famiglia, persone e successioni, 2008, 1052; Rossolillo, Regolamento CE n. 593/2008 del 17 giugno 2008 del Parlamento europeo e del Consiglio sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali (Roma I), in Obbligazioni e contratti, 2008, 948; Vinci, La “modernizzazione” della convenzione di Roma sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali: la scelta del diritto applicabile, in Contratto e impresa, 2007, 1223; Ferrari, Il diritto oggettivamente applicabile ex art. 4 della Proposta di Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali (Roma I), in Giur. it., 2007, 1549; Castellaneta, Relazione sulla comunitarizzazione della convenzione di Roma del 1980 in materia di obbligazioni contrattuali, in Studi e materiali, 2004, 2, 1067; Conetti, Verso una disciplina comunitaria della legge applicabile ai contratti, in Studium iuris, 2004, 326; Boschiero, Verso il rinnovamento e la trasformazione della convenzione di Roma: problemi generali, in Diritto internazionale privato e diritto comunitario, a cura di Picone, Padova, 2004, 319. REGOLAMENTO COMUNITARIO SULLA LEGGE APPLICABILE ALLE OBBLIGAZIONI EXTRACONTRATTUALI A partire dal giorno 11 gennaio 2009 trova applicazione il Regolamento (CE) n. 864/2007 del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 luglio 2007 (in G.U.C.E. n. L199 del 31.7.2007), c.d. Regolamento “Roma II”, che stabilisce la legge applicabile alle obbligazioni extracontrattuali, modificando in tal modo la disciplina di diritto internazionale privato contenuta negli artt. 61, 62 e 63 della legge 31 maggio 1995, n. 218. Cfr., sulla materia, Franzina, Il regolamento n. 864/2007/CE sulla legge applicabile alle obbligazioni extracontrattuali (“Roma II”), in Nuove leggi civ.comm, 2008, 971; Ambrosi-De Amicis, La legge applicabile alle obbligazioni extracontrattuali: il Regolamento CE n. 864/2007 “Roma II”, in Famiglia, persone e successioni, 2008, 471, e 565; Tonolo, La nuova disciplina di conflitto delle obbligazioni extra-contrattuali nel Regolamento (CE) Roma II, in Studium iuris, 2008, 1; De Lima Pinheiro, Choice of Law on Non-Contractual Obligations between Communitarization and Globalization. A First Assessment of EC Regulation Rome II, in Riv. dir. internaz. priv. e proc., 2008, 5. Cfr. inoltre la Rassegna relativa al secondo semestre 2007, in http://www.gaetanopetrelli.it. TASSI USURARI La rilevazione dei tassi medi ai fini dell’applicazione della legge sull’usura è stata effettuata, da ultimo: – con D.M. 24 settembre 2008 (in G.U. n. 228 del 29.9.2008); – con D.M. 19 dicembre 2008 (in G.U. n. 304 del 31.12.2008). A seguito di quest’ultimo provvedimento, si distingue, limitatamente ai mutui, tra tasso fisso e tasso variabile; il limite di liceità degli interessi pattuiti sarà quindi - dal 1° gennaio al 31 marzo 2009: – relativamente ai mutui a tasso fisso, dell’8,085 %; – relativamente ai mutui a tasso variabile, dell’8,175 %; – relativamente alle aperture di credito in conto corrente, sara’invece - oltre l’importo di 5.000 euro - del 13,68 %. Si richiamano le istruzioni per la rilevazione del tasso effettivo globale medio, dettate con Provvedimento della Banca d’Italia in data 8 gennaio 2003 (in G.U. n. 5 dell’8.1.2003); nonché - per la rilevazione delle categorie omogenee di operazioni ai fini della rilevazione dei tassi effettivi globali medi praticati dalle banche e dagli intermediari finanziari, il decreto ministeriale 16 settembre 2004 (in G.U. n. 230 del 30.9.2004), il decreto ministeriale 20 settembre 2005 (in G.U. n. 224 del 26.9.2005), il Provvedimento della Banca d’Italia del 29 marzo 2006 (in G.U. n. 74 del 29.3.2006) (in quest’ultimo, in particolare, al punto C4 vengono definite le componenti da considerare ai fini dell’individuazione del tasso effettivo globale medio). Cfr. anche il Provvedimento dell’Ufficio italiano cambi in data 4 maggio 2006 (in G.U. n. 102 del 4.5.2006), il D.M. 20 settembre 2006 (in G.U. n. 227 del 29.9.2006), il D.M. 18 settembre 2007 (in G.U. n. 226 del 28.9.2007), e il D.M. 23 settembre 2008 (in G.U. n. 228 del 29.9.2008), che opera la classificazione delle operazioni creditizie per categorie omogenee ai fini della rilevazione dei tassi effettivi globali medi praticati dalle banche e dagli intermediari finanziari.. L’art. 1, comma 2, del D.M. 19 dicembre 2008 precisa che i tassi non sono comprensivi della commissione di massimo scoperto eventualmente applicata (commissione oggetto di autonoma rilevazione nella tabella allegata, attualmente pari a 0,66 punti percentuali in media). 228 NOTARIATO N. 2/2008 LEGISLAZIONE•SINTESI Ai sensi dell’art. 3, comma 4, del suddetto decreto “i tassi effettivi globali medi di cui all’art. 1, comma 1, del presente decreto non sono comprensivi degli interessi di mora contrattualmente previsti per i casi di ritardato pagamento. L’indagine statistica condotta a fini conoscitivi dalla Banca d’Italia e dall’Ufficio italiano dei cambi ha rilevato che, con riferimento al complesso delle operazioni facenti capo al campione di intermediari considerato, la maggiorazione stabilita contrattualmente per i casi di ritardato pagamento è mediamente pari a 2,1 punti percentuali”. Ciò significa che il tasso di mora per i mutui (di durata superiore a cinque anni) è pari mediamente: – quanto ai mutui a tasso fisso, all’11,235 %; – quanto ai mutui a tasso variabile, all’11,325 %. INTERESSI DI MORA - RITARDI DI PAGAMENTO NELLE TRANSAZIONI COMMERCIALI Giusta il comunicato del Ministero dell’Economia e delle Finanze in data 21 luglio 2008 (in G.U. n. 169 del 21.7.2008), il saggio d’interesse di cui al comma 1 dell’art. 5, D.Lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, al netto della maggiorazione ivi prevista, è pari al 4,10 % per il periodo 1° luglio - 31 dicembre 2008. Dovendosi applicare, ai sensi del suddetto 1° comma dell’art. 5, la maggiorazione del 7%, il tasso d’interesse di mora applicabile è pari all’11,10 %. CODICE DEONTOLOGICO NOTARILE Con Deliberazione del Consiglio Nazionale del Notariato in data 5 aprile 2008, n. 2/56 (in G.U. n. 177 del 30.7.2008), sono state approvate modifiche ai Principi di deontologia professionale dei notai. La precedente versione del Codice deontologico era stata approvata con deliberazione in data 26 gennaio 2007, n. 1/62 (in G.U. n. 51 del 2.3.2007). Tra le novità introdotte: 1) - la previsione dell’art. 42, lett. c), a norma del quale “La scrittura privata tenuta a raccolta viene letta dal notaio alle parti, salva espressa dispensa delle parti stesse. Nell’autentica il notaio fa menzione della lettura o della dispensa dalla stessa. La reiterata presenza della clausola di esonero costituisce indizio di comportamento deontologicamente scorretto”; 2) - l’abrogazione di alcune disposizioni riguardanti gli uffici secondari, ed in particolare dei previgenti articoli 11 (che disponeva quanto segue: “I Consigli Distrettuali, tenuto conto delle diverse situazioni locali, possono vietare l’apertura e/o il mantenimento di uffici secondari in sedi nelle quali la media repertoriale realizzata nell’anno precedente dai notai che ne sono titolari sia inferiore alla media repertoriale del distretto”), 15 (“Le associazioni di notai costituite ai sensi dell’art. 82 L.N. non devono essere strumento di elusione della normativa sugli uffici secondari”); 16 (“L’utilizzazione dell’ufficio secondario nelle condizioni indicate nei casi seguenti configura comunque ipotesi di illecita concorrenza: a) l’apertura, da parte del notaio trasferito, di un ufficio secondario nella sede precedente, salva l’esigenza, da valutarsi dal Consiglio Notarile, di assicurare il pubblico servizio per il periodo in cui la sede predetta resti vacante; b) l’apertura di un ufficio secondario presso lo studio di un notaio trasferito, cessato o defunto utilizzandone, anche parzialmente, la struttura organizzativa; c) lo svolgimento del servizio protesti in maniera stabile fuori della propria sede in Comuni sedi di altri notai che possano provvedervi, salvo che ciò avvenga in esecuzione di apposita delibera adottata dal Consiglio Notarile per la distribuzione del servizio”); 3) - lo spostamento della disciplina del “procacciamento di clienti” dall’art. 17 (illecita concorrenza) al nuovo art. 31 (della assunzione dell’incarico). REVISIONE DELLA TABELLA DELLE SEDI NOTARILI Con D.M. 2 aprile 2008 (in Suppl. ord. alla G.U. n. 79 del 3.4.2008) è stata disposta la revisione della tabella che determina il numero dei notai per ciascun distretto notarile, con istituzione di numero 840 nuove sedi notarili. L’allocazione delle sedi notarili nei singoli distretti è stata disposta con D.M. 28 aprile 2008 (in G.U. n. 102 del 2.5.2008). Il decreto suddetto è stato successivamente rettificato con D.M. 6 maggio 2008 (in G.U. n. 111 del 13.5.2008), e con D.M. 7 maggio 2008 (in G.U. n. 111 del 13.5.2008). I suddetti decreti sono stati annullati con diverse pronunce del giudice amministrativo: cfr., tra gli altri, NOTARIATO N. 2/2008 229 LEGISLAZIONE•SINTESI T.A.R. Lazio, sez. I, 5 novembre 2008, n. 6563; T.A.R. Lazio, sez. I, 5 novembre 2008, n. 6564; T.A.R. Lazio, sez. I, 5 novembre 2008, n. 8459; T.A.R. Lazio, sez. I, 5 novembre 2008, n. 5525; T.A.R. Lazio, sez. I, 5 novembre 2008, n. 7438; T.A.R. Lazio, sez. I, 5 novembre 2008, n. 6317; tutti in http://www.giustizia-amministrativa.it. COPIE INFORMATICHE NON AUTENTICHE DI DOCUMENTI L’art. 16, comma 12, D.L. 29 novembre 2008, n. 185 (in Suppl. ord. alla G.U. n. 280 del 29.11.2008), in vigore dal 29 novembre 2008, convertito con modificazioni dalla L. 28 gennaio 2009, n. 2 (in Suppl. ord. alla G.U. n. 22 del 28.1.2009), in vigore dal 29 gennaio 2009, sostituisce i commi 4 e 5 dell’art. 23, D.Lgs. n. 82/2005 (Codice dell’amministrazione digitale), stabilendo che qualsiasi documento originale, cartaceo o informatico, analogico o digitale, unico o non unico, può essere ora sostituito “ad ogni effetto di legge” da una copia su supporto informatico “non autenticata”, se la conformità all’originale è “assicurata da chi lo detiene mediante l’utilizzo della propria firma digitale”. Pertanto, a seguito della suddescritta modifica, anche le copie di documenti cartacei “unici” (quali ad esempio gli atti notarili), possono essere non autentiche e nonostante ciò sostituire a tutti gli effetti di legge l’originale. Relativamente agli atti notarili, quindi: – se “conservati” nella raccolta del notaio, quest’ultimo è l’unico legittimato ad “assicurare” la conformità all’originale, anche senza rilasciarne copia autentica in senso stretto; – se “rilasciati” in originale (cfr., ad esempio, la procura autenticata o per unico affare), può esserne “assicurata” la conformità all’originale anche da parte di qualunque altro soggetto detenga quest’ultimo (salve le disposizioni da emanarsi con D.P.C.M. che potranno escludere questo tipo di documenti dalla disciplina “liberalizzatrice” in commento). Parimenti, dei documenti informatici originali possono essere effettuate “copie informatiche” munite della firma digitale di “chi li detiene”, che sostituiscono l’originale a tutti gli effetti di legge. Quanto alla nozione di documento analogico, esso è il “documento formato utilizzando una grandezza fisica che assume valori continui, come le tracce su carta (esempio: documenti cartacei), come le immagini su film (esempio: pellicole mediche, microfiche, microfilm), come le magnetizzazioni su nastro (esempio: cassette e nastri magnetici audio e video). Si distingue in documento originale e copia; c) documento analogico originale: documento analogico che può essere unico oppure non unico se, in questo secondo caso, sia possibile risalire al suo contenuto attraverso altre scritture o documenti di cui sia obbligatoria la conservazione, anche se in possesso di terzi” (deliberazione Aipa 13 dicembre 2001). Ai sensi del nuovo art. 23, comma 5, D.Lgs. n. 82/2005, con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri possono essere individuate particolari tipologie di documenti analogici originali unici per le quali, in ragione di esigenze di natura pubblicistica, permane l’obbligo della conservazione dell’originale analogico oppure, in caso di conservazione ottica sostitutiva, la loro conformità all’originale deve essere autenticata da un notaio o da altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato con dichiarazione da questi firmata digitalmente ed allegata al documento informatico. POSTA ELETTRONICA CERTIFICATA DEI NOTAI E ALTRI PROFESSIONISTI L’art. 16, comma 7, D.L. 29 novembre 2008, n. 185 (in Suppl. ord. alla G.U. n. 280 del 29.11.2008), in vigore dal 29 novembre 2008, convertito con modificazioni dalla L. 28 gennaio 2009, n. 2 (in Suppl. ord. alla G.U. n. 22 del 28.1.2009), in vigore dal 29 gennaio 2009, dispone che “I professionisti iscritti in albi ed elenchi istituiti con legge dello Stato comunicano ai rispettivi ordini o collegi il proprio indirizzo di posta elettronica certificata o analogo indirizzo di posta elettronica di cui al comma 6 entro un anno dalla data di entrata in vigore del presente decreto. Gli ordini e i collegi pubblicano in un elenco riservato, consultabile in via telematica esclusivamente dalle pubbliche amministrazioni, i dati identificativi degli iscritti con il relativo indirizzo di posta elettronica certificata”. Riguardo ai notai, è da ritenersi che la comunicazione - da adempiersi entro il 29 novembre 2009 - debba essere effettuata al consiglio notarile distrettuale, a cui incombe l’obbligo di pubblicazione telematica dei dati identificativi dei notai del collegio (salva la possibilità che detta pubblicazione sia effettuata sul sito del Consiglio nazionale del Notariato a cura - o per conto - e sotto la responsabilità dei consigli distrettuali). Riguardo alla posta elettronica certificata, disciplinata dal D.P.R. 11 febbraio 2005, n. 68, e dal successivo D.P.C.M. 2 novembre 2005 (in G.U. n. 266 del 15.11.2005), cfr. la Rassegna relativa al primo semestre 2005, in http://www.gaetanopetrelli.it. 230 NOTARIATO N. 2/2008 LEGISLAZIONE•SINTESI USO DI STRUMENTI INFORMATICI E TELEMATICI NEL PROCESSO CIVILE Con il D.M. 17 luglio 2008 (in Suppl. ord. alla G.U. n. 180 del 2.8.2008), in vigore dal 1° settembre 2008, sono state approvate le regole tecnico-operative per l’uso di strumenti informatici e telematici nel processo civile, di cui all’art. 3, comma 3, D.P.R. 13 febbraio 2001, n. 123, in sostituzione di quelle previste dal D.M. 14 ottobre 2004. In particolare, l’art. 1 prevede che l’accesso al sistema informatico civile (SICI), come definito nel D.P.R. 13 febbraio 2001, n. 123, avvenga tramite “punti di accesso”, strutture tecnico-organizzative che forniscono ai soggetti abilitati, esterni al SICI, i servizi di connessione al gestore centrale e di trasmissione telematica dei documenti informatici relativi al processo, nonché la casella di posta elettronica certificata, secondo le regole tecnico-operative riportate nel presente decreto. A norma dell’art. 6 del decreto, i soggetti abilitati esterni accedono al SICI tramite un punto di accesso, che può essere attivato esclusivamente dai soggetti pubblici di cui al comma 5, tra i quali è compreso il Consiglio nazionale del notariato, limitatamente ai propri iscritti. Tra le disposizioni rilevanti del decreto si segnalano, in particolare: – la disciplina della gestione della posta elettronica certificata del processo telematico, CPECPT (artt. 11 ss.); – la disciplina dell’attività del SICI (artt. 20 ss.); – l’accesso al SICI (artt. 28 ss.); – la trasmissione di documenti informatici tra il SICI ed i soggetti esterni (artt. 37 ss.); in particolare, la trasmissione e consultazione dei fascicoli (art. 43), la trasmissione delle sentenze (art. 44), le comunicazioni e notificazioni (art. 45); – i pagamenti per via telematica (artt. 46 ss.); – la previsione per cui la registrazione, la trascrizione e la voltura degli atti avvengono, in via telematica, nelle forme previste dall’art. 73, D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (art. 48); – l’archiviazione e conservazione delle informazioni (artt. 50 ss.); – i formati standard e modelli di riferimento dei documenti informatici (artt. 52 ss.). A norma dell’art. 62, l’attivazione del processo telematico è preceduta da un decreto dirigenziale, che accerta l’installazione e l’idoneità delle attrezzature informatiche, unitamente alla funzionalità dei servizi di comunicazione dei documenti informatici nel singolo ufficio. Le caratteristiche specifiche della strutturazione dei modelli informatici sono state determinate con D.M. 29 settembre 2008 (in Suppl. ord. alla G.U. n. 251 del 25.10.2008). Cfr., sulla materia, Zan, Processo civile telematico, in Enc. dir., Annali, I, Milano, 2007, 982; Brescia-Liccardo, Processo telematico, in Enc. giur. Treccani, XXIV, Roma, Aggiornamento 2005; Villecco Bettelli, Processo telematico, in Digesto discipline privatistiche, sez. civ., Aggiornamento, II, Torino, 2003, 1028. DISPOSIZIONI IN TEMA DI PRIVACY Con Provvedimento del Garante per la protezione dei dati personali in data 19 giugno 2008, n. 4/2008 (in Suppl. ord. alla G.U. n. 169 del 21.7.2008) è stata rilasciata l’autorizzazione al trattamento dei dati sensibili da parte dei liberi professionisti, con efficacia a decorrere dal 1° luglio 2008 fino al 31 dicembre 2009. Con Provvedimento del Garante per la protezione dei dati personali in data 19 giugno 2008, n. 1/2008 (in Suppl. ord. alla G.U. n. 169 del 21.7.2008), è stata rilasciata l’autorizzazione al trattamento dei dati sensibili nei rapporti di lavoro, con efficacia a decorrere dal 1° luglio 2008 fino al 31 dicembre 2009. Con Provvedimento del Garante per la protezione dei dati personali in data 19 giugno 2008, n. 7/2008 (in Suppl. ord. alla G.U. n. 169 del 21.7.2008) è stata rilasciata l’autorizzazione al trattamento dei dati a carattere giudiziario da parte di privati, di enti pubblici economici e di soggetti pubblici, con efficacia a decorrere dal 1° luglio 2008 fino al 31 dicembre 2009. A norma dell’art. 29, D.L. 25 giugno 2008, n. 112, come modificato dalla legge di conversione, 6 agosto 2008, n. 133 (in G.U. n. 195 del 21.8.2008), che ha inserito il comma 1-bis all’art. 34, D.Lgs. n. 196/2003 (codice per la protezione dei dati personali), per i soggetti che trattano soltanto dati personali non sensibili e che trattano come unici dati sensibili quelli costituiti dallo stato di salute o malattia dei propri dipendenti e collaboratori anche a progetto, senza indicazione della relativa diagnosi, ovvero dall’adesione ad organizzazioni sindacali o a carattere sindacale, la tenuta di un aggiornato documento programmatico sulla sicurezza è sostituita dall’obbligo di autocertificazione, resa dal titolare del trattamento ai sensi dell’art. 47, D.P.R. n. 445/2000, di trattare soltanto tali dati in osservanza delle altre misure di sicurezza prescritte. In relazione a tali trattamenti, nonché a trattamenti comunque effettuati per correnti finalità amministrative e contabili, in particolare presso piccole e medie imprese, liberi professionisti e artigiani, il Garante per la protezione dei dati personali, sentito il Ministro per la semplificazione normativa, individua NOTARIATO N. 2/2008 231 LEGISLAZIONE•SINTESI con proprio provvedimento, da aggiornare periodicamente, modalità semplificate di applicazione del disciplinare tecnico di cui all’Allegato B) al D.Lgs. n. 196/2003, in ordine all’adozione delle misure minime di sicurezza. In attuazione di quest’ultima disposizione, con Provvedimento del Garante per la protezione dei dati personali in data 27 novembre 2008 (in G.U. n. 287 del 9.12.2008) è stata disposta la semplificazione delle misure minime di sicurezza contenute nel disciplinare tecnico, di cui all’allegato B) al codice in materia di protezione dei dati personali. In particolare, modalità semplificate sono applicabili dai soggetti pubblici o privati che: a) utilizzano dati personali non sensibili o che trattano come unici dati sensibili - riferiti ai propri dipendenti e collaboratori anche a progetto - quelli costituiti dallo stato di salute o malattia senza indicazione della relativa diagnosi, ovvero dall’adesione a organizzazioni sindacali o a carattere sindacale; b) trattano dati personali unicamente per correnti finalità amministrative e contabili, in particolare presso liberi professionisti, artigiani e piccole e medie imprese. Con Provvedimento del Garante per la protezione dei dati personali in data 26 giugno 2008, n. 46/2008 (in G.U. n. 178 del 31.7.2008) sono state approvate le linee guida in materia di trattamento dei dati personali da parte dei consulenti tecnici e dei periti ausiliari del giudice e del pubblico ministero. Con Provvedimento del Garante per la protezione dei dati personali in data 27 novembre 2008 (in G.U. n. 300 del 24.12.2008) sono stati individuati misure e accorgimenti prescritti ai titolari dei trattamenti effettuati con strumenti elettronici relativamente alle attribuzioni delle funzioni di amministratore di sistema. Con Provvedimento del Garante per la protezione dei dati personali 6 novembre 2008, n. 60 (in G.U. n. 275 del 24.11.2008), applicabile dal 1° gennaio 2009, è stato approvato il Codice di deontologia e di buona condotta per il trattamento dei dati personali per svolgere investigazioni difensive o per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria, a norma degli artt. 12, 135 e 154, D.Lgs. n. 196/2003. Da rilevare che, ai sensi dell’art. 1, comma 2, di quest’ultimo provvedimento, le disposizioni del suddetto Codice di deontologia e buona condotta non si applicano soltanto agli avvocati ed a coloro che svolgono indagini investigative, ma più in generale “a chiunque tratti dati personali per le finalità di cui al comma 1, in particolare a altri liberi professionisti o soggetti che in conformità alla legge prestino, su mandato, attività di assistenza o consulenza per le medesime finalità”. A norma dell’art. 2, comma 6, devono essere utilizzati lecitamente e secondo correttezza “i dati personali contenuti in pubblici registri, elenchi, albi, atti o documenti conoscibili da chiunque, nonché in banche di dati, archivi ed elenchi, ivi compresi gli atti dello stato civile, dai quali possono essere estratte lecitamente informazioni personali riportate in certificazioni e attestazioni utilizzabili a fini difensivi”. Di rilievo anche la previsione dell’art. 4, in base alla quale la cessazione dello svolgimento di un incarico non comporta un’automatica dismissione dei dati; una volta estinto il procedimento o il relativo rapporto di mandato, atti e documenti possono essere conservati, in originale o in copia e anche in formato elettronico, qualora risulti necessario in relazione a ipotizzabili altre esigenze difensive della parte assistita o del titolare del trattamento, ferma restando la loro utilizzazione in forma anonima per finalità scientifiche. La valutazione è effettuata tenendo conto della tipologia dei dati. Con D.M. 2 dicembre 2008 (in G.U. n. 300 del 24.12.2008) è stata disposta la riproduzione in allegato al D.Lgs. n. 196/2003 del Codice di deontologia e di buona condotta per il trattamento dei dati personali effettuato per lo svolgimento delle investigazioni difensive di cui alla L. 7 dicembre 2000, n. 397, o per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria, in particolare da liberi professionisti o da soggetti che esercitano un’attività di investigazione privata autorizzata in conformità alla legge, ai sensi dell’art. 12, comma 2, D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196. Con Provvedimento del Garante per la protezione dei dati personali in data 13 ottobre 2008 (in G.U. n. 287 del 9.12.2008), disciplina le cautele da adottarsi in caso di dismissione (senza contestuale distruzione) di computers ed in genere supporti informatici sui quali siano registrati dati personali. Tali misure e accorgimenti possono essere attuate anche con l’ausilio o conferendo incarico a terzi tecnicamente qualificati, quali centri di assistenza, produttori e distributori di apparecchiature che attestino l’esecuzione delle operazioni effettuate o che si impegnino ad effettuarle. Chi procede al reimpiego o al riciclaggio di rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche o di loro componenti è comunque tenuto ad assicurarsi dell’inesistenza o della non intelligibilità di dati personali sui supporti, acquisendo, ove possibile, l’autorizzazione a cancellarli o a renderli non intelligibili. L’art. 44, D.L. 30 dicembre 2008, n. 207 (in G.U. n. 304 del 31.12.2008) ha aumentato le sanzioni previste dal D.Lgs. n. 196/2003 per la violazione delle disposizioni in materia di protezione dei dati personali. REGISTRI IMMOBILIARI - TRASMISSIONE TELEMATICA DEL REGISTRO GENERALE D’ORDINE Con Decreto Direttoriale 10 dicembre 2008 (in G.U. n. 293 del 16.12.2008), in vigore dal 17 dicembre 2008, 232 NOTARIATO N. 2/2008 LEGISLAZIONE•SINTESI emanato in attuazione del disposto dell’art. 23, L. n. 52/1985, come sostituito dall’art. 1, comma 278, L. 24 dicembre 2007, n. 244 (a norma del quale ogni quindici giorni, i conservatori dei registri immobiliari inviano al procuratore della Repubblica presso il tribunale competente copia del registro generale d’ordine su supporto informatico o con modalità telematiche), sono state dettate disposizioni finalizzate a definire le modalità tecnico-operative della procedura di trasmissione telematica al procuratore della Repubblica di copia del registro generale d’ordine. Detta comunicazione telematica deve aver luogo con decorrenza dal 1° marzo 2009, con cadenza quindicinale (art. 2). La trasmissione ha luogo mediante posta elettronica certificata (art. 3). La copia informatica del registro generale d’ordine è sottoscritta, con firma digitale, dal conservatore dei registri immobiliari o da un funzionario dallo stesso delegato (art. 4, comma 2). È stato approvato, con il decreto in commento, un nuovo formato di stampa del registro generale d’ordine (art. 4, comma 1, e allegato I al decreto). MISURE PATRIMONIALI DI PREVENZIONE E CONFISCA L’art. 10, comma 1, lett. d), D.L. 23 maggio 2008, n. 92 (in G.U. n. 122 del 26.5.2008), convertito con modificazioni in L. 24 luglio 2008, n. 125 (in G.U. n. 173 del 25.7.2008), ha apportato alcune modifiche all’art. 2-ter, L. 31 maggio 1965, n. 575, in materia di misure di prevenzione e confisca nell’ambito delle disposizioni contro la mafia. Viene disposto che, con l’applicazione della misura di prevenzione, il tribunale dispone la confisca dei beni sequestrati di cui la persona, nei cui confronti è instaurato il procedimento, non possa giustificare la legittima provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulti essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica, nonché dei beni che risultino essere frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego. Si precisa poi che se la persona nei cui confronti è proposta la misura di prevenzione trasferisce legittimamente i beni, prima dell’esecuzione del sequestro, a terzi in buona fede, rendendone così impossibile la confisca, il sequestro e la confisca hanno ad oggetto denaro o altri beni di valore equivalente. Si sancisce, in tal modo, normativamente la salvezza dei diritti dei terzi acquirenti di buona fede. Si precisa, inoltre, che la confisca può essere proposta, in caso di morte del soggetto nei confronti del quale potrebbe essere disposta, nei riguardi dei successori a titolo universale o particolare, entro il termine di cinque anni dal decesso. Sembra quindi che il legatario non goda della tutela accordata agli acquirenti a titolo particolare per atto tra vivi, se in buona fede. Quando risulti che beni confiscati con provvedimento definitivo dopo l’assegnazione o la destinazione siano rientrati, anche per interposta persona, nella disponibilità o sotto il controllo del soggetto sottoposto al provvedimento di confisca, si può disporre la revoca dell’assegnazione o della destinazione da parte dello stesso organo che ha disposto il relativo provvedimento. Quando accerta che taluni beni sono stati fittiziamente intestati o trasferiti a terzi, con la sentenza che dispone la confisca il giudice dichiara la nullità dei relativi atti di disposizione. Ai fini di cui sopra, fino a prova contraria si presumono fittizi: a) - i trasferimenti e le intestazioni, anche a titolo oneroso, effettuati nei due anni antecedenti la proposta della misura di prevenzione nei confronti dell’ascendente, del discendente, del coniuge o della persona stabilmente convivente, nonché dei parenti entro il sesto grado e degli affini entro il quarto grado; b) - i trasferimenti e le intestazioni, a titolo gratuito o fiduciario, effettuati nei due anni antecedenti la proposta della misura di prevenzione. Sul problema della tutela dei terzi acquirenti dei beni sottoposti a misure di prevenzione, cfr., tra i commenti più recenti, Farina, Sulla tutela dei creditori ipotecari e dell’aggiudicatario nell’espropriazione dei beni confiscati (nota a Cass. 16 gennaio 2007 n. 845), in Dir. fall., 2008, II, 494; Buraschi, Se i diritti reali di garanzia dei terzi vengano tutelati a fronte della speciale disciplina della confisca, in Studium iuris, 2008, 972; Tierno, La circolazione dei beni soggetti a misure patrimoniali di prevenzione, in La tutela dell’acquirente negli acquisti a titolo oneroso, Milano, 2005, 153; Aiello, La tutela civilistica dei terzi nel sistema della prevenzione patrimoniale antimafia, Milano, 2005. REGOLAMENTO SULLA NAUTICA DA DIPORTO Con D.M. 29 luglio 2008, n. 146 (in Suppl. ord. alla G.U. n. 222 del 22.9.2008), in vigore dal 21 dicembre 2008, è stato approvato il Regolamento di attuazione dell’art. 65, D.Lgs. 18 luglio 2005, n. 171, recante il codice NOTARIATO N. 2/2008 233 LEGISLAZIONE•SINTESI della nautica da diporto; regolamento riguardante in particolare le modalità di iscrizione nei registri delle navi, delle imbarcazioni da diporto e delle imbarcazioni autocostruite, ivi compresa la disciplina relativa alla iscrizione provvisoria delle imbarcazioni e delle navi da diporto; e le procedure relative al trasferimento ad altro ufficio dell’iscrizione di una unità da diporto e formalità relative alla cancellazione dai registri delle unità da diporto. Per l’iscrizione nei registri delle navi da diporto il proprietario presenta all’autorità competente il titolo di proprietà in una delle forme previste dall’art. 10, comma 1, del regolamento; qualora il proprietario di una nave da diporto iscritta in uno dei registri pubblici di uno Stato membro dell’Unione europea chieda l’iscrizione nei registri nazionali, in luogo del titolo di proprietà è sufficiente presentare il certificato di cancellazione dal registro comunitario (art. 3). I registri di iscrizione delle imbarcazioni da diporto, di cui all’art. 15 del Codice, sono tenuti anche dagli uffici motorizzazione civile del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti (art. 4). Il proprietario di un’unità da diporto autocostruita ai sensi dell’art. 15, comma 3, del Codice (si tratta delle unità da diporto costruite da un soggetto privato per proprio uso personale e senza l’ausilio di alcuna impresa, cantiere o singolo costruttore professionale), può richiedere l’iscrizione nei registri delle imbarcazioni da diporto presentando, in luogo del titolo di proprietà, una dichiarazione sostitutiva di atto notorio con sottoscrizione autenticata dal notaio o da altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato, corredata della documentazione fiscale attestante l’acquisto dei materiali necessari alla costruzione (art. 5). Per l’annotazione di cui all’art. 16 del Codice (in caso di unità da diporto utilizzate a titolo di locazione finanziaria con facoltà di acquisto, occorre annotare nel registro di iscrizione e sulla licenza di navigazione il nome dell’utilizzatore e la data di scadenza del contratto di locazione finanziaria), il proprietario dell’imbarcazione o della nave da diporto presenta, con la domanda di iscrizione, copia del contratto di locazione finanziaria. Se si verificano cessioni o variazioni del contratto di locazione finanziaria relative all’utilizzatore o alla data di scadenza, il proprietario ne richiede l’annotazione con le medesime modalità (art. 7). Le domande e gli atti diversi da quelli previsti dall’art. 17 del Codice (diversi, cioè, dagli atti costitutivi, traslativi o estintivi della proprietà o di altri diritti reali su unità da diporto), per i quali il codice civile richiede la trascrizione, sono resi pubblici mediante trascrizione nei registri di iscrizione delle unità ed annotazione sulla relativa licenza di navigazione (art. 9). A norma dell’art. 10, comma 1, la trascrizione e l’annotazione si compiono in forza di uno dei titoli indicati dall’articolo 2657 del codice civile e, in caso di acquisto a causa di morte, in forza dell’atto indicato dall’articolo 2648 del codice civile oppure della dichiarazione di successione. Ai sensi dell’art. 10, comma 2, per le imbarcazioni da diporto, il titolo per la trascrizione e l’annotazione può essere costituito da una dichiarazione dell’alienante con sottoscrizione autenticata oppure dalla fattura di vendita con firma, per quietanza, dell’alienante autenticata. Riguardo all’autentica della sottoscrizione, ai sensi dell’art. 11, comma 2, lett. c), si parla, oltre che di pubblico ufficiale, di “altro soggetto che ha autenticato le firme ai sensi dell’art. 7 del d.l. 4 luglio 2006, n. 223, convertito con modificazioni con legge 4 agosto 2006, n. 248”. A norma di quest’ultima disposizione, “L’autenticazione della sottoscrizione degli atti e delle dichiarazioni aventi ad oggetto l’alienazione di beni mobili registrati e rimorchi o la costituzione di diritti di garanzia sui medesimi può essere richiesta anche agli uffici comunali ed ai titolari, o dipendenti da loro delegati, degli sportelli telematici dell’automobilista”. Ai sensi dell’art. 11, comma 4, “Agli atti scritti in lingua straniera presentati per la pubblicità è allegata la loro traduzione in lingua italiana eseguita o da un interprete nominato dal tribunale o dall’autorità consolare”. L’art. 11 disciplina il contenuto delle note di trascrizione e i documenti da presentare; l’art. 12 regola la trascrizione anteriormente alla registrazione dell’atto. Ai sensi dell’art. 13, comma 4, “Nel concorso di più atti resi pubblici, la precedenza, agli effetti del codice civile, è determinata dalla data di trascrizione nei registri di iscrizione e, in caso di discordanza tra le trascrizioni nei registri e le annotazioni sulla licenza di navigazione, prevalgono le risultanze dei registri”. L’art. 16 disciplina la cancellazione dell’unità da diporto dai registri. Riguardo al Codice della nautica da diporto, cfr. la Rassegna relativa al secondo semestre 2005, in http://www.gaetanopetrelli.it. RILASCIO DEL CERTIFICATO DI DESTINAZIONE URBANISTICA DA PARTE DI COMUNITA’ MONTANE Ai sensi dell’art. 30, comma 3, D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (testo unico dell’edilizia), “il certificato di destinazione urbanistica deve essere rilasciato dal dirigente o responsabile del competente ufficio comunale”. Tuttavia, l’art. 27, comma 1, D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti 234 NOTARIATO N. 2/2008 LEGISLAZIONE•SINTESI locali), individua le comunità montane quali “unioni di comuni, enti locali costituiti … per l’esercizio di funzioni proprie, di funzioni conferite e per l’esercizio associato delle funzioni comunali”. A norma dell’art. 27, comma 3, la Regione individua gli ambiti o le zone omogenee per la costituzione delle comunità montane. Ai sensi dell’art. 27, comma 4, la legge regionale disciplina le comunità montane stabilendo in particolare i rapporti con gli altri enti operanti nel territorio. L’art. 28, comma 1, dispone che alle comunità montane spetta “l’esercizio associato di funzioni proprie dei comuni o a questi conferite dalla Regione”. Tra le “funzioni proprie dei comuni” esercitate in forma associata dalle Comunità montane vi è, quindi, anche il rilascio del certificato di destinazione urbanistica. Sul punto - salva la c.d. presunzione di legittimità degli atti amministrativi - va esaminata, di volta in volta, la competente legge regionale: a) - al fine di verificare le zone territoriali omogenee riguardo alle quali si esplica la competenza territoriale della Comunità montana; b) - al fine di riscontrare le disposizioni che disciplinano l’esercizio associato di funzioni proprie dei comuni. REVOCA DI ATTI AMMINISTRATIVI E CONTRATTI DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE L’art. 12, comma 1-bis, D.L. 25 giugno 2008, n. 112, come introdotto dalla legge di conversione, 6 agosto 2008, n. 133 (in G.U. n. 195 del 21.8.2008), ha introdotto il nuovo comma 1-ter all’art. 21-quinquies, L. 7 agosto 1990, n. 241, di disciplina del procedimento amministrativo, a norma del quale “Ove la revoca di un atto amministrativo ad efficacia durevole o istantanea incida su rapporti negoziali, l’indennizzo liquidato dall’amministrazione agli interessati è parametrato al solo danno emergente e tiene conto sia dell’eventuale conoscenza o conoscibilità da parte dei contraenti della contrarietà dell’atto amministrativo oggetto di revoca all’interesse pubblico, sia dell’eventuale concorso dei contraenti o di altri soggetti all’erronea valutazione della compatibilità di tale atto con l’interesse pubblico”. In dottrina e giurisprudenza è controverso se il vizio dell’atto deliberativo precedente un contratto della pubblica amministrazione determini la nullità, ovvero l’annullabilità di detto contratto. Cfr., sul punto, Calvo, Nullità derivata e rilevanza civilistica dei vizi del procedimento a evidenza pubblica, in Rass. dir. civ., 2008, 299; Apicella, Caducazione del contratto e frazionamento della pretesa giudiziale: notazioni in tema di sindacato giurisdizionale sulle sorti del contratto ad evidenza pubblica, in Giust. civ., 2008, II, 523; Fimiani, Annullamento dell’aggiudicazione e contratto di appalto: un rapporto complesso (nota a Cass. 15 aprile 2008, n. 9906), in Giust. civ., 2008, I, 1642; Galli, Rappresentanza negli enti pubblici ed effetti dell’annullamento dell’aggiudicazione, in Il diritto civile oggi. Compiti scientifici e didattici del civilista, a cura di Perlingieri, Napoli, 2006, 995; Lamorgese, Vizi del procedimento amministrativo e contratto di diritto privato (nota a Cons. Stato 21 maggio 2004 n. 3355), in Foro it., 2005, III, 552; Moscarini, Vizi del procedimento e invalidità o inefficacia del contratto, in Dir. proc. amm., 2004, 597; Cinque, In attesa dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato: giurisprudenza e dottrina sull’effetto dell’annullamento dell’aggiudicazione sui contratti ad evidenza pubblica, in Vita not., 2005, 1130. DISMISSIONI DI IMMOBILI PUBBLICI La L. 6 agosto 2008, n. 133 (in G.U. n. 195 del 21.8.2008) ha apportato modificazioni agli artt. 11, 13 e 58, D.L. 25 giugno 2008, n. 112, riguardo ai programmi di alienazione e dismissione ivi disciplinati. Ai sensi del nuovo art. 13, comma 3-ter, gli alloggi realizzati ai sensi della L. 9 agosto 1954, n. 640, non trasferiti ai comuni alla data del 22 agosto 2008, ai sensi della legge n. 388/2000, possono essere ceduti in proprietà agli aventi diritto secondo le disposizioni di cui alla L. 24 dicembre 1993, n. 560, a prescindere dai criteri e requisiti imposti dalla predetta L. n. 640/1954. Inoltre, ai sensi dell’art. 13, comma 3-bis, al fine di consentire alle giovani coppie di accedere a finanziamenti agevolati per sostenere le spese connesse all’acquisto della prima casa, a partire dal 1° settembre 2008 è istituito, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento della gioventù, un Fondo speciale di garanzia per l’acquisto della prima casa da parte delle coppie o dei nuclei familiari monogenitoriali con figli minori, con priorità per quelli i cui componenti non risultano occupati con rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Con decreto interministeriale sono disciplinate le modalità operative di funzionamento del Fondo di cui al primo periodo. Sono state, poi, apportate modifiche - relativamente alla dismissione delle infrastrutture militari - all’art. 3, comma 15-ter, D.L. 25 settembre 2001, n. 351, convertito in L. 23 novembre 2001, n. 410. NOTARIATO N. 2/2008 235 LEGISLAZIONE•SINTESI Cfr., per i restanti aspetti della disciplina, anteriormente alle modifiche apportate con la L. n. 133/2008, la Rassegna relativa al primo semestre 2008, in http://www.gaetanopetrelli.it. ACQUISTO DI IMMOBILI SOTTOPOSTI A PROCEDURE ESECUTIVE DA PARTE DI ISTITUTI AUTONOMI PER LE CASE POPOLARI A norma dell’art. 1-quater, D.L. 20 ottobre 2008, n. 158 (in G.U. n. 246 del 20.10.2008), inserito dalla legge di conversione 18 dicembre 2008, n. 199 (in G.U. n. 296 del 19.12.2008), gli immobili sottoposti a procedura esecutiva immobiliare o concorsuale, con le caratteristiche di quelli facenti parte del patrimonio di edilizia residenziale pubblica, e comunque non rientranti nelle categorie catastali A/1 e A/2, occupati a titolo di abitazione principale da un mutuatario insolvente, possono essere ceduti in proprietà agli istituti autonomi case popolari, comunque denominati o trasformati, che li acquistano a valere su risorse proprie e senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, al fine di favorire la riduzione del disagio abitativo e la riduzione delle passività delle banche. L’acquisto di cui sopra ha luogo con le agevolazioni previste per l’acquisto della prima casa di abitazione. Gli istituti autonomi case popolari, comunque denominati o trasformati, provvedono a stipulare contratti di locazione a canone sostenibile con i mutuatari che occupano gli alloggi a titolo di abitazione principale. Resta ferma la facoltà di riacquisto dell’immobile prioritariamente dal parte del mutuatario insolvente alla scadenza del contratto di locazione secondo le modalità stabilite da leggi regionali. SEMPLIFICAZIONE DELLA NORMATIVA VIGENTE L’art. 24, D.L. 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla L. 6 agosto 2008, n. 133 (in G.U. n. 195 del 21.8.2008) ha disposto l’abrogazione delle disposizioni legislative indicate nell’allegato “A” al medesimo decreto (si tratta di 3.370 provvedimenti normativi), a far data dal centottantesimo giorno successivo alla data di entrata in vigore del decreto stesso (e quindi dal 22 dicembre 2008). Ai sensi dell’art. 24, comma 1-bis, D.L. n. 112/2008, come introdotto dalla legge di conversione, il Governo deve individuare, con atto ricognitivo, le disposizioni di rango regolamentare implicitamente abrogate in quanto connesse esclusivamente alla vigenza degli atti legislativi espressamente abrogati. L’art. 2, comma 1, D.L. 22 dicembre 2008, n. 200 (in Suppl. ord. alla G.U. n. 298 del 22.12.2008), in vigore dal 22 dicembre 2008, ha disposto l’abrogazione delle disposizioni legislative indicate nell’allegato 1 al medesimo decreto (si tratta di 28.889 provvedimenti normativi), a decorrere dal sessantesimo giorno successivo alla data di entrata in vigore del decreto stesso (e quindi a decorrere dal 20 febbraio 2009; di questo termine è peraltro prevista la proroga ad opera del d.d.l. di conversione del decreto). A norma dell’art. 2, comma 2, il Governo individua, con atto ricognitivo, le disposizioni di rango regolamentare implicitamente abrogate in quanto connesse esclusivamente alla vigenza degli atti legislativi inseriti nell’Allegato 1. L’art. 3, D.L. n. 200/2008 sopprime peraltro dall’allegato “A” al D.L. n. 112/2008 (evitandone quindi l’abrogazione) le disposizioni elencate nell’allegato 2 (si tratta di 60 provvedimenti normativi). Tra le fonti legislative “salvate” dall’abrogazione per effetto del D.L. n. 200/2008 vi è il R.D. 29 marzo 1942, n. 239 (che disciplina, tra l’altro, l’autenticazione della girata dei titoli azionari e le formalità conseguenti alla relativa successione a causa di morte). Parimenti, gli artt. da 125 a 138, R.D. 28 aprile 1938, n. 1165 (testo unico delle disposizioni in materia di edilizia economica e popolare), riguardanti la vigilanza sulle cooperative edilizie a contributo erariale, già abrogati dal D.L. n. 112/2008 (voce n. 668 dell’allegato “A”), sono stati “salvati” dall’art. 1, comma 4-bis, D.L. 20 ottobre 2008, n. 158 (in G.U. n. 246 del 20.10.2008), come aggiunto dalla legge di conversione 18 dicembre 2008, n. 199 (in G.U. n. 296 del 19.12.2008). Tra i provvedimenti abrogati, con decorrenza dal 20 febbraio 2009, dal D.L. n. 200/2008 (n. 23340 dell’allegato 1) - salve eventuali modifiche che potrà apportare la legge di conversione - vi sono: – la L. 23 novembre 1939, n. 1966, che disciplina le società fiduciarie e di revisione; – la L. 23 novembre 1939, n. 1815, che disciplina gli studi professionali associati. 236 NOTARIATO N. 2/2008 INDICI INDICE DEGLI AUTORI Antonio Baldassarre La funzione notarile e la Costituzione italiana ............ 129 Consiglia Botta Garanzie autonome e disciplina delle eccezioni opponibili................................................................................ 139 Ernesto Briganti Osservatorio di giurisprudenza ...................................... 132 Biagio Caliendo La multiproprietà azionaria alla luce della riforma delle società di capitali........................................................ 207 Paolo Divizia Clausole statutarie di covendita e trascinamento ...... 157 Roberta Greco Funzione di adeguamento e contratto di mantenimento.............................................................................. 196 Salvatore Monticelli La recuperabilità del contratto nullo............................ 174 Loredana Napolitano I vincoli pubblicistici di destinazione delle aree a parcheggio............................................................................ 154 Vincenzo Pappa Monteforte Violazioni tributarie e validità del contratto................ 189 Benedetto Ronchi Il riscatto agrario e la comunione legale tra coniugi ... 150 Gaetano Petrelli Novità normative .......................................................... 220 INDICE CRONOLOGICO Giurisprudenza Corte di cassazione Cass., sez. II, 16 gennaio 2008, n. 730 ......................... Cass., sez. III, 14 marzo 2008, n. 6879.......................... Cass., sez. II, 25 settembre 2998, n. 24055 (Oss.)....... Cass., sez. III, 30 settembre 2008, n. 24325 (Oss.)...... Cass., sez. II, 15 ottobre 2008, n. 25192 (Oss.) ........... Cass., sez. II, 3 novembre 2008, n. 26406 (Oss.)......... Cass., sez. III, 6 novembre 2008, n. 26610 (Oss.) ....... Cass., sez. I, 7 novembre 2008, n. 26842 (Oss.).......... Cass., sez. III, 10 novembre 2008, n. 26863 (Oss.)..... Cass., sez. II, 11 novembre 2008, n. 26955 (Oss.) ...... Cass., sez. II, 12 novembre 2008, n. 26983 (Oss.) ...... Cass., sez. I, 12 novembre 2008, n. 27013 (Oss.)........ Cass., sez trib., 18 novembre 2008, n. 27349 (Oss.) ... Cass., sez. lav., 19 novembre 2008, n. 27475 (Oss.) ... Cass., sez. II, 20 novembre 2008, n. 27599 (Oss.) ...... Cass., sez. III, 25 novembre 2008, n. 28067 (Oss.)..... Cass., sez. III, 28 novembre 2008, n. 28419 (Oss.)..... 238 NOTARIATO N. 2/2009 152 148 132 133 134 135 136 134 133 135 132 135 136 132 133 133 132 Cass., sez. III, 28 novembre 2008, n. 28420 (Oss.) ..... Cass., sez. I, 3 dicembre 2008, n. 28748 (Oss.) ........... Cass., sez. II, 3 dicembre 2008, n. 28753 (Oss.) .......... Cass., sez. I, 5 dicembre 2008, n. 28819 (Oss.) ........... Cass., sez. I, 10 dicembre 2008, n. 28977 (Oss.) ......... Cass., sez. III, 12 dicembre 2008, n. 29215 .................. Cass., sez. III, 12 dicembre 2008, n. 29216 (Oss.)....... Cass., sez. II, 15 dicembre 2008, n. 29344 (Oss.)........ Cass., sez. I, 16 dicembre 2008, n. 30416, ord. (Oss.). Cass., sez. unite, 14 gennaio 2009, n. 553 (Oss.) ........ Cass., sez. II, 20 gennaio 2009, n. 1373 (Oss.) ............ Tribunale Tribunale di Treviso 14 novembre 2008 (Oss.)........... 133 135 132 135 133 137 133 134 134 134 136 135 INDICE ANALITICO Comunione legale – Il riscatto agrario e la comunione legale tra coniugi (Cass., sez. III, 14 marzo 2008, n. 6879) di Benedetto Ronchi ................................................................ 148 Fideiussione – Garanzie autonome e disciplina delle eccezioni opponibili (Cass., sez. III, 12 dicembre 2008, n. 29215) di Consiglia Botta .......................................... 137 Obbligazioni e contratti – Funzione di adeguamento e contratto di mantenimento di Roberta Greco............................................. – La recuperabilità del contratto nullo di Salvatore Monticelli .................................................................... – Violazioni tributarie e validità del contratto di Vincenzo Pappa Monteforte.............................................. 189 Notai – La funzione notarile e la Costituzione italiana di Antonio Baldassarre.................................................... 129 Parcheggi – I vincoli pubblicistici di destinazione delle aree a parcheggio (Cass., sez. II, 16 gennaio 2008, n. 730) di Loredana Napolitano .............................................. 152 Società – Clausole statutarie di covendita e trascinamento di Paolo Divizia........................................................... – La multiproprietà azionaria alla luce della riforma delle società di capitali di Biagio Caliendo................ 196 174 157 207 ERRATA CORRIGE Si precisa che nell’articolo della dott.ssa Roberta Marino, Cessione del credito futuro e obblighi d’informazione del debitore ceduto, pubblicato in questa Rivista, n. 1/2009, pag. 30 ss., il titolo corretto del paragrafo n. 3 è il seguente: La posizione della S.C.