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RASSEGNA STAMPA
mercoledì 25 febbraio 2015
L’ARCI SUI MEDIA
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
WELFARE E SOCIETA’
DIRITTI CIVILI
DONNE E DIRITTI
BENI COMUNI/AMBIENTE
INFORMAZIONE
SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
CULTURA E SPETTACOLO
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Del 25/02/2015, pag. 15
Immigrazione, canali d’ingresso gestiti
dall’Unchr
Filippo Miraglia, *Vicepresidente Arci
La condizione che vive oggi la Libia è terribile e la comunità internazionale, in primo luogo
l’Unione europea, deve farsene carico, ricorrendo agli strumenti della diplomazia internazionale e alle Nazioni Unite. Evitando, come spesso è successo in passato — e nel 2011
— di mettere in campo soluzioni che producono altri problemi e instabilità.
Promuovere un’iniziativa diplomatica in Libia, che non sia l’ennesimo intervento neo coloniale a tutela degli interessi occidentali, non significa però, come il Presidente del consiglio
ha sostenuto riferendosi ai flussi di migranti in arrivo sulle nostre coste, «risolvere il problema alla radice».
L’instabilità della Libia, e l’acuirsi di un conflitto con tanti soggetti e interessi diversi in
campo, aumenterà il numero delle persone in fuga, ma non è la causa principale degli
arrivi. Guerre, violenze e persecuzioni riguardano diverse aree geografiche intorno al
mediterraneo e hanno costretto e costringono centinaia di migliaia di persone a cercare
protezione in Europa. Non è certo impedendo di partire dalle coste libiche che diminuiranno i flussi e i morti. L’assenza di vie di accesso legali e sicure consegna i profughi nelle
mani della criminalità organizzata e ne consolida il peso, anche politico, soprattutto nelle
aree instabili come la Libia. Le soluzioni si possono trovare. Con l’apertura di canali
d’ingresso umanitari, che però non devono corrispondere a quello che pensano molti
governi europei, ossia all’esternalizzazione delle frontiere promossa dal processo di Khartoum. Con la richiesta all’Unhcr di gestire il rilascio di lasciapassare in campi d’accoglienza
di paesi intorno al Mediterraneo, senza operare nessuna selezione se non quella su base
nazionale. Oggi in Italia e in quasi tutti i paesi dell’Ue, i primi due gruppi per numero di rifugiati e richiedenti asilo sono quelli provenienti da Siria ed Eritrea. Se solo l’Ue si facesse
carico di questi due gruppi si risolverebbero quasi la metà dei problemi relativi alla sicurezza di chi tenta di arrivare in Europa.
Afgani, iracheni, nigeriani, palestinesi, tanti sono i gruppi che oggi abbandonano le loro
case. Basterebbe affidare all’Unchr la gestione dei lasciapassare verso la sponda nord del
Mediterraneo, con una ripartizione equa tra gli stati membri dell’Ue, per salvare un enorme
numero di vite. Probabilmente l’Ue è più interessata a spendere le risorse per pattugliare
inutilmente le coste. Oppure per cofinanziare, come ha fatto il governo italiano, per più di
300 milioni di euro, un sistema radar nel sud della Libia, in pieno deserto. Appalto andato
a Finmeccanica. E non abbiamo sentito nessuno dei paladini del risparmio dire una sola
parola a proposito di queste risorse che basterebbero per finanziare più di 3 anni di Mare
Nostrum. Se poi consideriamo che il 2014 ha confermato, nonostante i 170 mila arrivi, che
l’Italia è uno dei paesi che investe meno per l’accoglienza, con 64 mila domande d’asilo,
considerando che in Germania le domande d’asilo sono state 204 mila e in Svezia più di
80 mila sempre nel 2014, capiamo come la retorica dello spreco e quella dell’invasione
sono prive di fondamento e usate in modo strumentale.
Il 27 gennaio scorso, in occasione della Giornata della memoria, la Rai ha trasmesso un
bel film inedito sull’arrivo degli alleati nei campi di sterminio. Una delle immagini più
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agghiaccianti è quella degli abitanti delle città vicine ai campi che, mentre a poche centinaia di metri dalle loro case si consumava una delle tragedie più terribili della storia
dell’umanità, continuavano a vivere normalmente come se niente potesse scuoterli dal loro
torpore. Un giorno non lontano qualcuno si rivolgerà anche a noi europei e italiani per
ricordarci quel che è successo sotto i nostri occhi senza che dalla civile Europa o dal bel
Paese si alzasse un coro di voci capaci di fermare il massacro.
Da il Mattino.it del 24/02/15
Frederick Wiseman, il grande regista
americano è a Napoli
Da mercoledì 25 a venerdì 27 febbraio 2015 sarà a Napoli Frederick Wiseman, uno dei
maggiori documentaristi viventi e Leone d’Oro alla Carriera all’ultima Mostra del Cinema di
Venezia. La manifestazione è organizzata da Arci Movie e Parallelo 41 Produzioni con
l'Università degli Studi di Napoli Federico II.
Il cineasta americano sarà a Napoli nella tarda mattinata di mercoledì 25 febbraio,
incontrerà la stampa cittadina e alle 16, nell’Aula Magna Storica dell’Università degli Studi
di Napoli Federico II, Wiseman terrà una lezione magistrale, ‘A conversation with Frederick
Wiseman’, e riceverà il titolo di Membro onorario dell’Associazione Alumni - ex alumni
dell’Ateneo federiciano. La lectio magistralis sarà preceduta dai saluti del Rettore Gaetano
Manfredi e della Console USA a Napoli per gli Affari Culturali Deborah Guido O’ Grady e
dalla presentazione del Professor Corrado Calenda.
Alle 19.30, evento di punta della rassegna, proiezione in anteprima nazionale al cinema
Astra dell’ultimo film realizzato dal regista ‘National Gallery’, del 2014. Il film sarà nelle
sale italiane dall’11 marzo prossimo. Alla serata saranno presenti Fred Wiseman ed Enrico
Ghezzi che introdurrà l’opera del maestro.
Giovedì 26 febbraio, in mattinata, presso l'Università Federico II di Napoli, Fred Wiseman
terrà un workshop per gli studenti dell’Atelier di Cinema del Reale e i filmmakers del
Progetto FILMaP, centro di formazione e produzione cinematografica che Arci Movie ha
aperto a Ponticelli lo scorso anno grazie al contributo di Fondazione CON IL SUD.
Dalle 15 si terranno proiezioni al Cinema Academy Astra con una selezione
rappresentativa della sua filmografia scelti con Enrico Ghezzi, da Titicut follies, celebrato
primo capolavoro del maestro del 1967, a High School del 1968, Primate del 1974 e
Welfare del 1975.
Nella serata di venerdì 27 febbraio, nell’ambito della programmazione di ‘Astradoc Viaggio nel cinema del Reale’, sempre al Cinema Astra, saranno proiettati alle 17.30
Boxing Gym del 2010, e alle 19.15 At Berkeley (in versione originale) presentato alla
Mostra del Cinema di Venezia 2013 in anteprima assoluta a Napoli.
La rassegna napoletana, che si inserisce in una più ampia collaborazione con la Cineteca
di Bologna (che ospiterà l’autore dopo Napoli) e Fuori Orario – Rai Tre, è realizzata a
Napoli con la collaborazione del COINOR, con il Patrocinio del Consolato Generale degli
Stati Uniti d’America e del Comune di Napoli, e con l’adesione di Associazione Amerigo e
di Doc/it – associazione dei documentaristi italiani.
http://www.ilmattino.it/NAPOLI/CULTURA/wiseman-napoli/notizie/1201137.shtml
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Da Repubblica.it (Roma) del 24/02/15
Rialto Sant'Ambrogio, ritornano i sigilli: la
polizia sequestra lo stabile
Era stato dissequestrato un anno fa dopo cinque anni dalla chiusura
di VIOLA GIANNOLI
"Ci risiamo, la polizia sta di nuovo sequestrando il Rialto". Ad annunciarlo, sulla loro
pagina Facebook, sono stati proprio i gestori dello spazio culturale ospitato in un palazzogioiello del Ghetto, intorno alle 16.30, mentre su un palco stava provando una compagnia
teatrale.
"Come un copione già scritto, a un anno esatto da quel 19 febbraio 2014 in cui ci
riconsegnarono il bene, dopo 5 anni di processi che accertarono la legalità totale
dell'Associazione Culturale Rialto Roma e Circolo Arci Roma al Sant'Ambrogio, oggi siamo
di nuovo sotto sequestro preventivo. Ricominciamo" postano sul social network.
Gli agenti sono entrati nuovamente nel palazzo in via di Sant'Ambrogio e hanno rimesso i
sigilli al piano terra, al giardino, al teatro e agli uffici della segreteria dell'associazione
Rialtoccupato. Gli spazi degli altri comitati sono invece agibili. L'ultimo atto, per ora, di una
travagliata vicenda di occupazioni e sgomberi. Un sequestro preventivo legato stavolta, a
quanto si apprende, a "problemi di sicurezza".
La storia dello stabile del Sant'Ambriogio della Massima che dal 2000, tramite
un'ordinanza del sindaco, ospita decine di associazioni, non è semplice. Gli organizzatori
raccontano: "Prima un sequestro preventivo durato cinque anni, tre processi penali,
assoluzioni, il dissequestro ordinato dal Tribunale nel 2014. A quel punto ci saremmo
dovuti trasferire presso l'ex autoparco dei Vigili urbani di viale delle Mura Portuensi, ma
non è mai accaduto. In questi anni, in un palazzo trasformato in parte in locale e in parte in
uffici, sono passati performer, compagnie teatrali, dj set, scrittori, comitati e attivisti per la
promozione dei referendum sull'acqua pubblica".
Proprio pochi giorni fa le associazioni che abitavano il Rialto - Rialtoccupato, Arci Roma,
Forum Italiano dei Movimenti per l'Acqua, Forum Ambientalista, Attac Italia, per citarne
solo alcune - avevano scritto una lettera al Campidoglio per salvare il centro di produzione
culturale indipendente. Il 28 gennaio infatti in via di Sant'Ambrogio era arrivata una lettera
del Dipartimento Patrimonio, Sviluppo e Valorizzazione di Roma Capitale per il "recupero
coatto dell'immobile", concedendo 30 giorni per abbandonare la struttura. Per questo i
gestori chiedevano un incontro urgente con il sindaco
Marino e l'assessore al Patrimonio Cattoi. Non si può "cancellare - dicevano - un luogo
pubblico, non statale, centro di sperimentazione culturale e sociale e per tanto svincolato
dal mero fattore economico". Una vicenda, sottolineano, "non isolata, ma che si inserisce
in una serie di analoghi provvedimenti che stanno colpendo altri spazi sociali della
capitale". Dal Valle al Volturno, dall'America all'Angelo Mai.
http://roma.repubblica.it/cronaca/2015/02/24/news/rialto_di_nuovo_sgomberato108101469/
Da Repubblica.it del 24/02/15 e Da il Venerdì del 20/02/15
Dispacci da una scuola di falegnameria
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Dal Venerdì in edicola
Seghe, pialle e truschini, ovvero compassi primitivi per segnare il punto dove tagliare. E
poi scalpelli affilati come bisturi e morse che stritolano. Un arsenale esorbitante per
realizzare tenoni e mortase, il maschio e la femmina, lo yin e lo yang dell'incastro del
legno. Comincia tutto da lì. Non c'è tavolo, sedia ma neppure banale scatola che stia in
piedi senza un qualche tipo di giunzione. Per questo la prima giornata del corso di
falegnameria tradizionale è tutta dedicata a inculcare questa tecnica di base. La sede della
Mala Spina (www.scuoladellegno.it), variazione del nome-destino del maestro Giacomo
Malaspina, è composta di due stanzoni di una vecchia officina da meccanico con enormi
finestre che danno sulle torrette medievali di Viterbo. Qui è tutto molto bello e, per buona
parte, autoprodotto, a cominciare dai pesantissimi banconi da lavoro di rovere oliato.
Incastro classico, a pettine, a coda di rondine. Da eseguire rigorosamente con strumenti a
mano.
Tra gli allievi c'è un informatico, un ex carpentiere temporaneamente a spasso, un ex
agente immobiliare che vuole riciclarsi, uno studente fuori corso e il cronista. Malaspina, il
maestro, è un articolato homo faber con una laurea in conservazione dei beni culturali che
ha capito per tempo che, più che compulsare miniature, voleva usare le mani. «Il 90 per
cento delle cose che so fare» dice, «le ho imparate per conto mio, facendo e sbagliando.
Poi, in seconda battuta, i tutorial sul web mi hanno aiutato ad affinarmi».
Questa scuola, circolo Arci, è aperta da due anni. I quattro precedenti Malaspina aveva
insegnato altrove. Il seminario intensivo cui partecipo dura due giorni, sabato e domenica,
dalle 9 alle 18 con una breve pausa per pranzo che, il secondo giorno, diventa una
pantagreulica abbuffata di fagioli e salsicce preparate da sua moglie. Gli affari vanno
ragionevolmente bene, calcola Malaspina, che è anche caporedattore del mensile
LegnoLab: «L'anno scorso abbiamo avuto 85 allievi paganti (240 euro per il weekend, più
30 euro di iscrizione), più qualche altra decina di tesserati che possono partecipare ai vari
corsi gratuiti». Ma circa metà degli investimenti iniziali vanno ancora ammortizzati. La
clientela, in ogni caso, è in aumento. «È gente che cerca di scappare alla routine» dice il
maestro «per quasi un terzo informatici». Che non sopportano più, evidentemente, di aver
a che fare solo con materia intangibile. La verità è che costruire un oggetto dà una
soddisfazione ancestrale. Siamo una generazione che, letteralmente, ha perso l'uso delle
mani. Se hanno ragione Carl Benedikt Frey e Michael Osborne di Oxford nel dire che
quasi metà dei lavori in America saranno rimpiazzati dai computer entro due decenni,
l'alternativa manuale diventa allettante. Due anni fa il possibile sorpasso di felicità dei
colletti blu su quelli bianchi era stata sancita in un libro, Il lavoro manuale come medicina
dell'anima, in cui Crawford Matthew raccontava di come l'apparente downsizing da prof di
filosofia a meccanico aveva profondamente cambiato la sua vita. Per il meglio. Se vi
sentite persi in un bosco esistenziale provate a spianarvi una via d'uscita. Una piallata per
volta, ce la si può fare.
http://stagliano.blogautore.repubblica.it/2015/02/24/dispacci-da-una-scuola-difalegnameria/
Da GiocoNews.it del 24/02/15
Mettiamoci in gioco approda nel Lazio,
Primoconsumo: “Prevenire
sovraindebitamento dei giocatori patologici”
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Ci sarà anche Primoconsumo, associazione al servizio dei cittadini e dei consumatori, al
lancio in Lazio di 'Mettiamoci in gioco', la campagna nazionale contro il gioco d'azzardo,
che sarà presentata stamattina a Roma, in Campidoglio.
L’Associazione sostiene l'iniziativa al fianco ed insieme ad una pluralità di soggetti tra i
quali figurano Anci, Anteas, Arci, Avviso Pubblico, Azione Cattolica Italiana, Cgil, Cisl,
Cnca, Ctg, Federazione Scs-Cnos/Salesiani, Cgil, InterCear, Ital Uil, Scuola delle Buone
Pratiche/Legautonomie-Terre di mezzo, Uil, Uil Pensionati, Uisp.
INFORMARE I CITTADINI - 'Mettiamoci in gioco' prosegue il suo impegno nella lotta
contro il gioco patologico iniziato con il progetto 'Game over, la dipendenza dal gioco non
è un gioco', portato avanti con il patrocinio della Regione Lazio e della Provincia di Roma
con l’obiettivo di informare, sensibilizzare e supportare i cittadini ed i consumatori sui rischi
connessi al gioco compulsivo e gode al suo interno di un centro d’ascolto per
l’orientamento ed il supporto psicologico e legale dei malati di Gap e dei loro familiari.
I DATI DEL PROGETTO 'GAME OVER' - I dati che emergono dalle attività del progetto
'Game over' dimostrano e confermano il potere della informazione responsabile sulla
prevenzione dai rischi connessi al gioco patologico messe in campo da realtà esterne. Dai
dati raccolti dal centro d'ascolto di Primoconsumo emerge che nel 2011 il debito
coinvolgeva il 38% delle persone, nel 2012 il 32,9%, nel 2013 il 17, 1%, quindi più che
dimezzato rispetto al 2011. La diminuzione percentuale del debito registrata nel 2013, che
sembra confermarsi nel 2014, secondo Primoconsumo dimostra l’importanza dei
messaggi di informazione, sensibilizzazione e prevenzione dai rischi del Gap”.
ATTENZIONE AL SOVRA INDEBITAMENTO - I giocatori – ricorda Primoconsumo
“accedono non solo al credito sommerso ma chiedono finanziamenti agli istituti di credito e
si indebitano per giocare senza riuscire a mantenerne il controllo. Questo determina un
sovraindebitamento che non sempre si riesce a gestire attraverso gli strumenti a tutela,
quali la rinegoziazione del debito, i piani di rientro e di composizione della crisi nelle sedi
giudiziarie ed extragiudiziarie ed il ricorso alle amministrazioni di sostegno. Primoconsumo
con il dipartimento salute e servizi finanziari dell’associazione si è battuta e si batte
affinché anche gli istituti di credito diano il proprio contributo al processo di informazione e
sensibilizzazione sui rischi del gioco patologico, esponendo all'interno dei locali brochure
sul tema e informando il consumatore sui rischi da sovra-indebitamento legati al gioco
lecito anche al momento della sottoscrizione delle richieste di credito. I dati raccolti
dimostrano che i messaggi di informazione, sensibilizzazione e prevenzione dai rischi del
gioco patologico hanno un effetto sulle conseguenze e di questo le istituzioni devono
prendere atto e farsene carico diffondendo messaggi disillusori”.
http://www.gioconews.it/cronache/70-generale20/43417-mettiamoci-in-gioco-approda-nellazio-primoconsumo-prevenire-sovraindebitamento-dei-giocatori-patologici
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ESTERI
del 25/02/15, pag. 12
Sì dell’Eurogruppo ad Atene ma sul piano di
riforme molti dubbi da Fmi e Bce
Patrimoniale e Iva, spending review e pensioni posticipate La Merkel:
“Non è finita ma almeno il governo torna alla realtà”
ANDREA BONANNI
BRUXELLES .
Ai ministri dell'Eurogruppo sono bastati pochi minuti in teleconferenza per dare il via libera
alla lista di riforme presentata dal governo greco e considerata «una valida base di
partenza». Poco dopo è arrivato anche il benestare, sia pure con molte riserve, degli altri
due creditori di Atene: il Fondo monetario internazionale e la Banca centrale europea. La
Grecia ottiene dunque una proroga di quattro mesi del programma di assistenza europeo
che le eviterà la bancarotta e l'uscita dall'euro, ammesso che i Parlamenti di Germania,
Estonia, Olanda e Finlandia, che si pronunceranno entro la settimana, confermino la scelta
dei rispettivi governi. Atene ha tempo fino a giugno per completare le riforme e le
correzioni di bilancio che erano state concordate dal precedente governo e che avrebbero
dovuto essere chiuse a fine febbraio. Ma non vedrà nuovi finanziamenti fino ad aprile, data
entro la quale dovrà ottenere il beneplacito della Troika composta da Commissione, Bce e
Fmi su un programma di riforme e di manovre fiscali molto più dettagliato. Da qui a giugno,
intanto, il nuovo governo di Alexis Tsipras dovrà cercare di concordare con l'Eurogruppo
un terzo programma di salvataggio accompagnato a nuovi finanziamenti, visto che
difficilmente per quella data sarà in grado di tornare a finanziarsi sui mercati.
Il ministro greco delle Finanze, Yanis Varoufakis, ha inviato il documento di sei pagine con
una prima sommaria lista di misure cinque minuti prima di mezzanotte, ora in cui
scadevano i termini dettati dall'Eurogruppo. Il testo fissa le priorità del governo greco in
quattro aree, ed era stato minuziosamente concordato con la Commissione e con il
presidente dell'Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem. La lettera contiene ampie zone di
ambiguità, come hanno rilevato sia Mario Draghi, presidente della Bce, sia Christine
Lagarde, direttrice del Fmi. Del resto una certa vaghezza è necessaria a Tsipras per
conservare il consenso del proprio partito e del Parlamento. Ma il dato politico più
rilevante, e che ha indotto i ministri dell'Eurogruppo a concedere la proroga del
programma di assistenza, è che il nuovo governo accetta esplicitamente la supervisione
dei suoi creditori, si impegna a non prendere misure unilaterali e appare ormai convinto
della necessità di lavorare in strettissima cooperazione con la Commissione europea.
«Il governo greco del premier Alexis Tsipras è tornato passo dopo passo alla realtà, ma ci
saranno altri negoziati con la Grecia. Il lavoro non è ancora concluso», ha commentato la
Cancelliera Angela Merkel parlando ai deputati del suo partito e invitandoli a dare il via
libera alla proroga quando il Bundestag sarà chiamato a votarla, venerdì prossimo.
E' chiaro che il negoziato, da qui ad aprile, sarà duro.
«Sottolineiamo che gli impegni delineati dalle Autorità divergono da quelli esistenti nel
programma in diversi settori - scrive Mario Draghi nella lettera all'Eurogruppo - sia chiaro
che la base per concludere l'attuale esame, e anche per qualsiasi accordo futuro, saranno
gli impegni già esistenti nel quadro del Memorandum of Understanding in corso». Il
presidente della Bce sottolinea che Francoforte «dovrà valutare durante l'esame se al
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posto delle misure non accettate dalle Autorità ci siano altre misure di uguale o migliore
qualità in termini di raggiungimento degli obiettivi del programma». Draghi non ha ancora
comunicato se e quando la Bce tornerà ad accettare i titoli greci come collaterale per
fornire liquidità alle banche del Paese. Severo anche il giudizio della direttrice del Fondo
monetario internazionale, Christine Lagarde, secondo cui la lettera di Varoufakis, pur
essendo accettabile, «non fornisce una chiara garanzia» della volontà di realizzare «le
riforme già concordate». La strada che Atene dovrà percorrere si presenta ancora tutta in
salita.
del 25/02/15, pag. 12
Ora la partita più difficile per Tsipras
riconquistare la Grecia
ETTORE LIVINI
ATENE .
Alexis Tsipras guadagna quattro mesi di tempo per salvare Atene. E vara un piano di
riforme che — dopo l’ok dell’Eurogruppo — affronta ora l’esame più difficile: quello dei
greci e di Syriza. Le sei pagine di «ambiguità costruttiva » ( copyright dell’autore Yanis
Varoufakis) prive di numeri e cifre approvate dall’ex Troika hanno regalato una giornata da
incorniciare ai mercati (+10% la Borsa ellenica) ma non hanno placato i mal di pancia della
sinistra nazionale. «I vecchi combattenti come te sanno che in certi casi la forza non basta
— ha spiegato Tsipras al compositore Mikis Theodorakis, capofila con l’eroe della
Resistenza Manolis Glezos della fronda domestica — . Servono cervello e strategia per
non cadere nelle trappole».
Dovrà utilizzarli entrambi nelle prossime ore per convincere il Paese che i “pro” dell’intesa
— «nessuno ci detterà più le riforme e abbiamo vincoli meno stretti sull’avanzo primario»
— sono di gran lunga superiori ai contro: il ritorno sotto mentite spoglie del memorandum
e della Troika e la mezza marcia indietro — obbligata viste le forze in campo — su alcune
promesse elettorali. «Siamo partiti da Marx e siamo arrivati a Blair» scherzavano (ma non
troppo) ieri alcuni uomini dell’ala più radicale di Syriza. La vera sfida di Tsipras è riuscire a
realizzare le ambiziose riforme proposte per liberare le risorse necessarie ad affrontare la
crisi umanitaria nazionale: luce gratis ai poveri, la tredicesima per le pensioni più basse,
assistenza sanitaria per tutti, ritorno dei contratti collettivi. «Priorità unilaterali da approvare
il primo giorno di governo», alla vigilia delle elezioni, relegate oggi in coda agli impegni
presi con la Ue, subordinate oltretutto all’ok dei creditori e — come recita lapidaria l’ultima
frase del documento — «alla certezza che non avranno alcun effetto sui conti dello Stato».
LA GUERRA AGLI EVASORI
E’ il capitolo più aggressivo nella lettera di Varoufakis e quello che è piaciuto di più a
Bruxelles. Il governo si impegna («con l’aiuto dei partner») al varo di un’anagrafe tributaria
hi-tech in grado di passare ai raggi x anche le dichiarazioni passate e a rafforzare
l’indipendenza del Segretario generale del Fisco dalla politica. Guerra totale anche a
contrabbando tabacco (800 milioni l’anno di entrate in più) e benzina (1,5 miliardi)
rendendo obbligatorio il Gps sulle navi per evitare che scarichino carburante fuori dai porti
autorizzati. Queste entrate dovrebbero consentire di evitare i tagli alle pensioni e
l’aumento dell’Iva annunciati da Samaras.
CONDONO E BUROCRAZIA
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Altre risorse arriveranno da un mega condono fiscale in stile Robin Hood. Syriza
consentirà di riscadenzare in 100 rate gli arretrati con l’erario, privilegiando le famiglie più
povere e penalizzando i grandi evasori. Operazione che dovrebbe garantire 2,5 miliardi di
entrate. In arrivo, con gli applausi dell’Eurogruppo, un piano di aste online per tagliare i
costi delle forniture dello Stato e una riorganizzazione della pubblica amministrazione per
sforbiciare le spese che non vanno in pensioni e salari, «un impressionante 56% del
totale». Lotta dura anche contro cartelli e corporazioni.
PRIVATIZZAZIONI E LAVORO
Qui iniziano i guai sul fronte interno. Atene si impegna a non fa- re retromarcia sulle
privatizzazioni già avviate, come quella del Pireo e degli aeroporti. E valuterà quelle
successive in base «all’interesse nazionale». Panagiotis Lafazanis, ministro e leader
dell’opposizione interna, ha contestato duramente ieri in Consiglio dei ministri questo
punto. Molte polemiche ci sono anche in tema di lavoro. Il documento approvato in Europa
prevede in modo vago «un approccio creativo» per reintrodurre i contratti collettivi e —
molto gradualmente — lo stipendio minimo. Ma solo con l’ok dei creditori.
PENSIONI E CORRUZIONE
La lotta alla corruzione sarà una «priorità nazionale». Atene si impegna a rivedere il
finanziamento pubblico ai partiti, a tagliare i legami tra economia e politica obbligando ad
esempio gli oligarchi a pagare frequenze e tasse. Il documento non fa per ora riferimento
ai privilegi fiscali di armatori e Chiesa ortodossa. Verrà abolita l’immunità parlamentare.
Malumori suscita invece il delicatissimo problema delle pensioni, che Samaras, per dire,
non aveva voluto affrontare. Syriza promette di legarle ai contributi versati e, soprattutto, di
eliminare i privilegi. Letto in controluce, salterà la possibilità di prepensionamento per
molte categorie. Tasto delicatissimo per la pax sociale nazionale.
LE MISURE UMANITARIE
E’ di gran lunga il capitolo più delicato. «Dobbiamo affrontare le emergenze sociali causate
dalla crisi — dice il documento nella parte finale — . Cose basilari come cibo, casa,
energia e salute. Valuteremo la possibilità di uno stipendio minimo garantito nazionale».
Peccato che la solidarietà alla “tedesca” abbia precisi vincoli contabili. «Dobbiamo
intervenire essendo certi che la crisi umanitaria non abbia conseguenze sulla solidità del
bilancio dello Stato». I soldi, insomma, si spendono solo se ci sono. E visto che Atene è
senza un euro, gli interventi per tamponare la tragedia sociale saranno costretti a rimanere
in lista d’attesa.
Del 25/02/2015, pag. 8
Grecia: si’ dell’Eurogruppo, ma con riserve
Debito eccessivo. Tsipras guadagna 4 mesi di tempo per ridiscutere il programma.
Fmi chiede di più, la Ue pretende di "sviluppare e ampliare la lista". Moscovici: "non
significa che siamo d'accordo su queste riforme". E l'accordo dipende ormai dal
voto di 4 paesi, tra cui la Germania. Ma per la Grecia gli esami non finiscono mai
Anna Maria Merlo, PARIGI
Gli esami non finiscono mai per la Grecia. Ieri, l’Eurogruppo ha finalmente approvato la
“lista” presentata da Atene lunedi’ notte, proprio allo scadere dell’ora limite (“ho ricevuto
una mail alle 23,15” ha precisato il presidente Jeroen Dijsselbloem). L’Eurogruppo ha
seguito il parere favorevole dei creditori — Ue, Bce e Fmi — espresso in mattinata. Ma, ha
spiegato il commissario agli Affari economici e monetari, Pierre Moscovici, questo “non
significa che siamo d’accordo su queste riforme, siamo pero’ d’accordo sull’approccio,
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abbiamo evitato una crisi, ma restano numerose sfide di fronte a noi”. Sulla carta, la Grecia ha quattro mesi, fino a fine giugno, per ridiscutere la questione del debito con le “istituzioni”, il nuovo nome del trio Ue-Bce-Fmi, che ha sostituito l’odiato termine di “trojka”. Ma,
intanto, per avere la certezza che dal 28 febbraio, data di scadenza del secondo piano di
aiuti (130 miliardi), ci sarà l’estensione di quattro mesi, bisogna che il progetto passi nei
parlamenti dei quattro paesi che prevedono un voto ogni volta che vengono impegnati
denari pubblici. Sono Olanda, Finlandia, Estonia e Germania. Il Bundestag vota venerdi’,
Wolfgang Schäuble ha scritto ai deputati per invitarli ad approvare il piano, in caso di via
libera da parte dell’Eurogruppo. Ma, ha precisato ieri il suo portavoce Martin Jaeger, “la
lettera di Atene non conduce a soluzioni sostanziali”. Riserve sono state emesse anche
dall’Fmi: si tratta di un “valido punto di partenza”, ma “in vari settori” mancano rassicurazioni su riforme che erano state imposte dal Memorandum (aumento dell’Iva, abbassamento delle pensioni, privatizzazioni, riforma al ribasso del lavoro). Anche l’Eurogruppo,
dopo l’approvazione, ha voluto aggiungere delle raccomandazioni: la Grecia deve “sviluppare e ampliare la lista delle riforme, sulla base del presente accordo, in stretta cooperazione con le istituzioni, per permettere una conclusione rapida e favorevole dell’esame”.
Difatti, per il versamento dell‘ultima tranche di circa 7 miliardi di euro per la Commissione
“sono attese ulteriori precisazioni sulle riforme e saranno concordate fino a fine aprile, in
linea con quanto prevede la dichiarazione dell’Eurogruppo della scorsa settimana”. I creditori staranno attenti sulla promessa di lotta alla corruzione e all’evasione, vecchie richieste
della trojka e promesse che i predecessori di Tsipras non erano riusciti a mettere in atto.
Il governo Tsipras ha dovuto correggere a più riprese la “lista” da presentare a Bruxelles. Il
draft del comunicato ha fatto varie volte l’andata e ritorno tra Bruxelles e Atene, tra
venerdi’ e lunedi’. La Grecia ha dovuto annacquare molto la proposta. Jean-Claude Juncker, per esempio, ha escluso un aumento del salario minimo. Nel testo resta una frase
vaga: si parla di “approccio intelligente della negoziazione collettiva sui salari” e “questo
include la volontà di aumentare il salario minimo, preservando la competitività”, mentre l’
“aumento del salario minimo e il timing saranno decisi in concertazione con le istituzioni
europee e internazionali”. Per Juncker, sarebbe stato “intenibile” politicamente un salario
minimo greco maggiore di quello “di sei paesi della Ue” (tra cui Slovacchia e Spagna), che
sono chiamati a contribuire all’aiuto ad Atene. La Grecia ha incluso nella proposta dei riferimenti al programma di Syriza sull’aiuto ai più poveri, ma ha dovuto precisare che “la lotta
alla crisi umanitaria non avrà effetti negativi sul bilancio”. Non ci sono dettagli su queste
misure, finite in fondo al testo. Inoltre, sulle privatizzazioni, Atene ha dovuto accettare che
non saranno revocate quelle già approvate e che non tornerà indietro neppure su quelle
per le quali è già stato pubblicato il bando. Invece, “rivedrà quelle non ancora lanciate,
puntando a migliorare i benefici a lungo termine”. Dijsselbloem, che in mattinata è stato
ricevuto dalla commissione affari economici del Parlamento europeo, ha precisato che la
lista è “un primo passo, ma c’è ancora molto da lavorare”. Il presidente dell’Eurogruppo si
è anche interrogato sulla tenuta del governo Tsipras: bisogna vedere se “potrà fare quello
che vuole”, ha detto. L’Eurogruppo si è soprattutto preoccupato di ottenere dalla Grecia
l’assicurazione che non verranno “prese iniziative unilaterali” e che ogni decisione sarà
presa “in consultazione con le istituzioni europee”. Dijsselbloem è stato ancora più diretto:
“ci deve essere una forte cooperazione, non si possono fare mosse unilaterali, almeno fino
a quando Atene vuole nuovi fondi dall’Eurozona”. La vera preoccupazione è di evitare un
Grexit, che farebbe tremare tutto l’edificio dell’euro. Per Christine Lagarde, alla testa
dell’Fmi, “l’uscita della Grecia dell’euro è fuori discussione, faremo di tutto per aiutarli” (in
questo e solo in questo).
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Del 25/02/2015, pag. 8
Nel documento greco, tutti i pilastri di
Salonicco
Grecia. La scheda del documento presentato all'Europa dal governo di
Atene
Attenzione alle fasce più deboli, salari minimi garantiti, casa, sanità garantita e smart card
per l’acquisto dei beni alimentari per i più poveri. La Grecia si è impegnata con le «istituzioni» — come ormai viene chiamata la troika, grazie al nuovo linguaggio imposto dal
governo greco — a garantire un equilibrio finanziario del paese, con un occhio di riguardo
per le fasce più deboli della propria società. Nel documento presentato all’Europa,
e approvato, Tsipras e il suo governo, pur mettendo alcuni aspetti sociali nella parte conclusiva del documento, hanno riportato tutte quante le promesse elettorali contenute nel
«patto di Salonicco».
Buoni pasto, energia e sanità per i poveri, possibile estensione dello schema pilota di salario minimo: queste le misure per affrontare la crisi umanitaria contenute nella lista di
riforme greca. Il Governo ha specificato che «la lotta alla crisi umanitaria non avrà effetti
negativi per il bilancio». E questo è lo spirito con il quale è stato composto il documento
conclusivo, un abile mix tra manovre interne ed esterne, capaci di convincere sia gli europei, sia gli elettori di Syriza. La Grecia infatti si è impegnata a riformare e razionalizzare la
spesa e il funzionamento dello Stato, con una maggior tutela delle fasce più deboli rispetto
al passato. La lista di riforme presentata mette insieme misure fiscali e di spending review
a tutele sociali come gli aiuti alimentari alle fasce più deboli. La lettera inviata a Bruxelles
in precedenza dal ministro greco delle Finanze Yanis Varoufakis impegnava la Grecia
a migliorare il sistema di riscossione fiscale e la lotta all’evasione.
Promessa mantenuta anche nel documento che mira principalmente a combattere
l’evasione fiscale, i traffici di contrabbando e la corruzione: queste azioni dovrebbero portare al recupero di 7 miliardi di euro, mentre per quanto riguarda l’Iva si parla di una
«razionalizzazione» per massimizzare i ricavi «senza impatti negativi sulla giustizia
sociale». Atene provvederà anche ad una revisione delle spese di tutti i ministeri, che
saranno ridotti da 16 a 10. Con I ministeri sono previsi tagli dei consulenti e i benefit di
ministri e parlamentari e avvierà una «spendig review in ogni area della spesa pubblica»
per «razionalizzare» i ministeri dove la spesa non destinata a salari e pensioni «ammonta
a un incredibile 56% del totale». Nella sanità, il maggior controllo sulla spesa dovrà essere
accompagnato dall’accesso universale alle cure. Atene farà della lotta alla corruzione
«una priorità nazionale» e combatterà il contrabbando di carburante e sigarette. Per
quanto riguarda le banche, il governo greco assicurerà un sano funzionamento degli istituti
di credito e collaborerà con loro per evitare la messa all’asta della prima casa per le fasce
di reddito più deboli. Verranno mantenute le privatizzazioni e sarà rinnovato il codice civile.
Nel mercato del lavoro si cercherà di bilanciare l’aumento del salario minimo con la salvaguardia della competitività. Infine, per affrontare la crisi umanitaria prodotta dalle misure di
austerity, è prevista una smart card per l’acquisto di beni alimentari per i più poveri.
Potrebbero essere previste nuove privatizzazioni, ma il governo «si impegna a non ritirare
le privatizzazioni già completate e a rispettare, in base alla legge, quelle per cui è stato
lanciato il bando», rivedendo «quelle non ancora lanciate», «puntando a migliorare i benefici a lungo termine per il Governo». Sul mercato del lavoro Atene scrive di impegnarsi
a consultare le parti sociali, sviluppare il regime attuale di sostegno temporaneo alla disoccupazione «se lo spazio di bilancio lo permetterà». Il Governo greco farà «un “phase in” di
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un nuovo approccio intelligente sulla contrattazione collettiva per bilanciare la flessibilità
con l’equità. Questo include l’ambizione di aumentare il salario minimo» che però «sarà
fatto in consultazione con le istituzioni europee».
del 25/02/15, pag. 15
Tra Hollande e Renzi asse comune sulla Libia
«Ma niente truppe»
Nella Ue priorità alla crescita. Via libera alla Tav
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE PARIGI «Grazie François, ce n’est qu’un début »,
dice Renzi a Hollande nel primo vertice italo-francese al quale partecipa, «questo è solo
l’inizio». Il presidente del Consiglio italiano ricorda che Hollande è stato il primo capo di
Stato a invitarlo dopo la nomina a capo del governo, un anno fa, e traccia un primo
bilancio della collaborazione: «Oggi grazie all’azione comune di Francia e Italia la parola
crescita è entrata nel vocabolario europeo: non è più una parolaccia, è anzi un obiettivo
chiaro».
La conferenza stampa dopo il summit è anche, come sempre negli ultimi anni, un esercizio
di stile per sottolineare quanto eccellenti siano le relazioni tra le due «nazioni sorelle». Ma
è vero che su ogni tema c’è identità di vedute tra Parigi e Roma. Nei primi mesi della
presidenza Hollande in molti avevano ipotizzato un asse del Sud dell’Europa in funzione
anti-tedesca: sgombrato il campo da quell’illusione, riaffermato in ogni occasione il
rapporto speciale e irrinunciabile di Parigi con Berlino, Francia e Italia hanno comunque
cercato di re-equilibrare la politica europea in favore della crescita (e non solo del rigore).
«La Francia rispetta sempre i suoi impegni, lo farà anche nei prossimi mesi e anni», ha
detto François Hollande a proposito della soglia del 3 per cento (deficit/Pil) che continua a
sfuggirgli: lunedì, secondo quanto scrive il quotidiano economico tedesco Handelsblatt,
Bruxelles potrebbe concedere altri tre anni supplementari alla Francia, che avrebbe così
tempo fino al 2018 per rientrare nei parametri.
In attesa di quella decisione, i due leader ieri hanno sottolineato i passi avanti fatti dalle
rispettive economie. «La politica economica dell’Europa ha cambiato direzione: è un
grande risultato per il quale esprimo gratitudine a François — ha detto Renzi —. Oggi la
situazione è positiva: ha smesso di piovere, ancora non c’è il sole ma vediamo le prime
luci dell’arcobaleno».
Sulla Libia, «la Francia sostiene tutti gli sforzi dell’Italia affinché al livello più elevato, vale a
dire l’Onu, si possa trovare soluzione al caos e quindi al terrorismo», ha detto Hollande.
Renzi ha ricordato che «la Libia non è un problema italiano ma una priorità di tutta
l’Europa». Un’eventuale missione militare di peacekeeping non è all’ordine del giorno.
L’obiettivo è semmai favorire un accordo delle fazioni libiche: «La pace in Libia la possono
fare solo i libici, non la possiamo fare noi per loro», ha detto Renzi. Quanto al problema
degli sbarchi, Hollande ha annunciato che è stato chiesto alla Ue «il rafforzamento della
missione Triton».
Tra i sette accordi firmati ieri a Parigi, due riguardano la Tav Torino-Lione, «per la quale
non ci sono più ostacoli», ha detto Hollande: via ai lavori per il tratto transfrontaliero, e
presentazione all’Unione europea della richiesta di sovvenzione per il 40% dei costi sul
periodo 2014-2020.
Stefano Montefiori
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del 25/02/15, pag. 16
Siria, l’Is all’assalto dei villaggi cristiani
“Oltre cento rapiti”
Sulla Libia Renzi incassa l’appoggio di Hollande “Intervento non
all’ordine del giorno”. “Più fondi a Triton”
ALBERTO D’ARGENIO
DAL NOSTRO INVIATO
PARIGI .
Dal cuore dell’Eliseo François Hollande e Matteo Renzi rilanciano sullo scacchiere libico.
La Francia – protagonista con la Germania della gestione della crisi ucraina dove il ruolo di
Roma è marginale - si schiera con l’Italia, chiede all’Unione di aumentare il budget di
Triton, la missione europea di pattugliamento del Canale di Sicilia, accoglie la proposta di
distribuire tra i diversi paesi del continente i rifugiati in arrivo dalla sponda sud del
Mediterraneo e sposa la linea della diplomazia per la soluzione della crisi libica. Un comun
sentire, quello tra Parigi e Roma, turbato dalle notizie in arrivo dall’altro teatro di crisi che
vede come protagonista l’Is, la Siria, dove gli uomini del Califfo Al Baghdadi hanno
sequestrato decine di cristiani, tra cui donne e bambini, facendo temere una nuova
carneficina a pochi giorni dall’orrore dei 21 copti egiziani uccisi in Libia.
I jihadisti hanno agito nelle terre al confine tra Siria e Iraq dando alle fiamme le chiese dei
villaggi di Tel Shemiram e Tel Hermez e prendendo in ostaggio un numero non ancora del
tutto chiaro di fedeli della chiesa assira della zona. Secondo alcune fonti a cadere nelle
mani dei terroristi dello Stato Islamico sarebbero una settantina di persone, forse cento,
ma si teme un bilancio ancora più drammatico visto che le autorità ecclesiastiche oltre a
lanciare l’allarme per centinaia di famiglie in fuga, stimano che solo in uno dei villaggi
battuti dall’Is siano state prelevate dalle loro abitazioni almeno 50 famiglie. La radio online
dell’Is ha parlato di «decine di crociati» catturati. La speranza è che gli uomini del Califfo
abbiano agito non per commettere una nuova carneficina, ma per chiedere un riscatto o
uno scambio di prigionieri con i Peshmerga curdi, che in queste ore continuano a
bombardare le postazioni degli jihadisti impegnati ad aprirsi un passaggio verso la Turchia,
vitale per i rifornimenti.
Per quanto riguarda la Libia, invece, da Parigi Renzi ha confermato che al momento «un
intervento di peacekeeping non è all’ordine del giorno» in quanto non ci sono le condizioni
sul terreno per schierare un contingente internazionale. Le speranze degli europei si
concentrano sull’inviato Onu Bernardino Leon, che domani proverà a strappare un
accordo politico tra le fazioni in guerra in Libia in modo da poter presentare un fronte
compatto contro l’avanzata dell’Is (in un simile scenario si potrebbe sì presupporre un
intervento dei Caschi blu). Se invece Leon dovesse fallire, ha spronato Renzi, «chiediamo
un intervento diplomatico dell’Onu ancora più forte». Hollande ha detto di «appoggiare gli
sforzi italiani» per una soluzione politica e quindi ha chiesto all’Europa di fornire più mezzi
a Triton per pattugliare il Canale di Sicilia anche perché, ha detto, ormai i gruppi terroristici
«lucrano sul traffico di esseri umani». La Francia ha poi accolto la proposta di Alfano di
coinvolgere Egitto e Algeria, dietro incentivi finanziari Ue, nella gestione dei flussi dei
migranti.
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Del 25/02/2015, pag. 7
Il Mossad smentì Netanyahu
Nucleare Iraniano. Il servizio segreto israeliano nel 2012 ridimensionò il "pericolo"
Iran in contrasto aperto con il premier, rivelano i documenti dello scandalo
"Spycables". Netanyahu però non fa marcia indietro e si prepara al discorso davanti
al Congresso volto a contestare la linea del dialogo con Tehran scelta da Obama
Michele Giorgio
Benyamin Netanyahu va avanti a muso duro. Le ampie differenze sul “pericolo” del
nucleare iraniano tra il servizio segreto Mossad e il premier israeliano, rivelate dai documenti “Spycables”, non sono bastate a far crollare agli occhi dell’opinione pubblica israeliana il castello di accuse contro Tehran messo in piedi da Netanyahu in questi ultimi anni.
Il primo ministro israeliano perciò non fa retromarcia. Ieri ha confermato che il 3 marzo
pronuncerà, nonostante le critiche, il suo discorso davanti al Congresso degli Stati Uniti
volto a sconfessare la linea del negoziato e dell’accordo con l’Iran che porta avanti
l’Amministrazione Obama. Quel discorso, ha spiegato, «può essere l’ultimo baluardo contro un accordo» internazionale con l’Iran che dopo diventerà un Paese di «soglia
nucleare». Sempre ieri il quotidiano di destra Israel ha-Yom — organo semiufficiale del
partito di maggioranza relativa Likud – si è scagliato contro il presidente americano con un
fondo al vetriolo in cui si afferma che «nell’era di Obama è conveniente essere nemici
degli Stati Uniti, e meglio ancora se si è un ayatollah…laddove il governo israeliano vede
persone cattive, l’Amministrazione Usa vede invece persone potenzialmente buone».
Che si tratti degli scandaletti “casalinghi” causati dalla first lady Sara o delle posizioni del
Mossad sulla questione nucleare iraniana, la maggioranza degli israeliani resta con Netanyahu. Lo dicono i sondaggi a tre settimane dal voto, lo ripetono nelle strade le persone
comuni. La sicurezza sulla quale batte sempre Netanyahu mette ai margini il tema delle
crescenti difficoltà economiche di una larga fetta della popolazione. E non pare destinato
a cambiare il quadro anche lo scenario emerso dagli “Spycables”, raccontato lunedì dalla
tv araba Al Jazeera e dal quotidiano britannico Guardian, entrati in possesso di un numero
incredibilmente alto di documenti confidenziali dei servizi sudafricani, raccolti per anni nel
corso di incontri con emissari del Mossad e di altri servizi segreti, fra cui quelli statunitensi
e britannici (si parla anche dei tentativi della Cia di stabilire contatti con il movimento islamico palestinese Hamas). Invece di prendere atto del contenuto di quei documenti, ieri
molti siti d’informazione israeliani vedevano dietro le rivelazioni una mossa
dell’Amministrazione Usa, infastidita dall’intenzione di Netanyahu di rivolgersi al Congresso in aperta sfida ad Obama.
Eppure quei documenti sono chiarissimi. Nel 2012, mentre Netanyahu alle Nazioni Unite
mostrava il grafico di una bomba stilizzata che raffigurava l’Iran a un anno dalla realizzazione dell’ipotetica arma nucleare — «Entro la prossima primavera, al massimo entro
l’estate, con tali tassi di arricchimento (gli iraniani) avranno passato il livello medio e si prepareranno all’ultimo gradino. Da allora, in pochi mesi, forse poche settimane, avranno
abbastanza uranio arricchito per la loro prima bomba», affermò il primo ministro israeliano
– invece il Mossad descriveva il pericolo irrealistico o comunque remoto. Il servizio
segreto, secondo “Spycables”, si premurò di far sapere che Teheran non stava svolgendo
le attività per la produzione di bombe atomiche ma lavorava invece per avvicinarsi a obiettivi normali, come l’arricchimento di uranio per i reattori e per la ricerca scientifica. «Anche
se l’Iran ha accumulato il 5% di uranio arricchito per alcune bombe e 100 kg di materiale
arricchito al 20%, non sembra pronto a superare tali livelli. Tehran in questo momento non
sta svolgendo l’attività necessaria a produrre armi, sta lavorando per coprire gap in aree
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che appaiono legittime, come l’arricchimento, i reattori», spiegarono gli agenti del Mossad
in netto contrasto con la posizione di Netanyahu.
Va ricordato inoltre che un ex capo del servizio segreto israeliano, Meir Dagan, “dimissionato” nel 2011, ha più volte affermato pubblicamente le sue differenze con il premier sulla
“minaccia iraniana”, molto ridimensionata anche da un altro ex capo del Mossad, Efraim
Halevy. Fece peraltro clamore lo scorso maggio un’intervista al generale Uzi Eilam in cui
l’ex capo (per un decennio) della Commissione per l’energia atomica israeliana e del programma di sviluppo degli armamenti, spiegò che all’Iran occorreranno ancora una decina
di anni per arrivare alla bomba atomica, ammesso che Tehran abbia davvero questa intenzione. Affermò inoltre che Netanyahu starebbe alimentando paure a vantaggio solo dei
suoi scopi politici. Eilam già più di 30 anni fa si era schierato contro l’attacco aereo israeliano alla centrale nucleare irachena di Arak. Non è mai stato provato che Baghdad
volesse dotarsi dell’arma nucleare e gli Stati Uniti non hanno mai trovato, dopo aver occupato l’Iraq nel 2003, prove di un’intenzione di Saddam Hussein arrivare all’atomica.
Del 25/02/2015, pag. 7
No dei palestinesi al gas israeliano
Palestina. La società civile palestinese e le forze politiche di opposizione chiedono
all'Anp di rinunciare all'accordo per l'acquisto di gas israeliano. Molti ricordano che
il governo Netanyahu impedisce lo sfruttamento del giacimento sottomarino di gas
naturale davanti alla costa di Gaza
Michele Giorgio, RAMALLAH
Il politologo palestinese Talal Okal ascolta le nostre domande. Poi ci risponde che in Palestina, come sempre, il problema non è valle ma a monte. «Gli appelli al boicottaggio
dell’economia israeliana sono giustificati dall’occupazione della nostra terra che continua
dopo decenni». Tuttavia, ci ricorda, «gli Accordi di Oslo firmati nel 1993 e quelli successivi
mettono nelle mani di Israele tutta l’economia palestinese. Non credo che riusciremo
a fare scelte davvero indipendenti sino a quando questi accordi rimarranno in vigore».
Okal si riferisce al recente contratto da 1,2 miliardi di dollari per la fornitura ventennale
all’Autorità nazionale palestinese (Anp) di gas israeliano. Contratto che sta suscitando una
ondata di proteste in casa palestinese. La scorsa settimana intellettuali, rappresentanti di
forze politiche dell’opposizione e attivisti della campagna Bds (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni), tra i quali Omar Barghouti, hanno tenuto un incontro pubblico per
denunciare l’accordo e per chiedere che l’Anp segua la strada della Giordania. Qualche
settimana fa Amman ha sospeso le trattative con due compagnie, l’americana Noble
Energy e l’israeliana Delek, per l’acquisto da Tel Aviv del gas proveniente dal ricco giacimento sottomarino “Leviatano”. «Il popolo palestinese non deve piegarsi ad un contratto
capestro, a favore di una parte e a discapito di un’altra – afferma la deputata Khalida Jarrar del Fronte popolare per la liberazione della Palestina — Non dobbiamo normalizzare
l’occupazione israeliana, piuttosto dobbiamo liberarci di tutte le forme dell’occupazione».
È tutto a posto invece per la Delek che ripete che le intese tra Israele e Anp porteranno
“benessere” ai palestinesi, poichè prevedono la costruzione nella città cisgiordana di Jenin
dell’impianto che riceverà il gas israeliano.
In questi giorni di forti polemiche interne, alcuni ricordano che Israele ha bloccato centinaia
di milioni di dollari palestinesi come rappresaglia per la decisione della leadership dell’Olp
di chiedere l’adesione della Palestina alla Corte Penale Internazionale. Altri sottolineano
che i palestinesi posseggono un giacimento sottomarino di gas naturale, ad un trentina di
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chilometri dalla costa di Gaza, ma non riescono a sfruttarlo a causa delle condizioni imposte da Israele. E secondo l’agenzia governativa statunitense “Geological Survey”, altri giacimenti di gas e di petrolio si troverebbero sulla terraferma in Cisgiordania e ancora
a Gaza. Le esplorazioni però non sono consentite ai palestinesi. Nel 2013, ad esempio, la
“Givot Olam”, una società petrolifera israeliana, comunicò che il pozzo “Meged 5″, presso
Rosh Hayin, a cavallo tra Israele e Cisgiordania, ha riserve di greggio ampiamente superiori a quelle stimate in passato. Tanti palestinesi in quell’occasione sottolinearono che
l’area del “Meged 5″ interessa anche la Cisgiordania. Il pozzo infatti si estende su una
zona tra i 125 e 250 kmq, quindi anche in territorio palestinese. Tuttavia il controllo esclusivo che Israele mantiene, 21 anni dopo la firma degli Accordi “transitori” di Oslo, sulla
«Area C» della Cisgiordania (60% del territorio occupato dal 1967) non consente ai palestinesi l’accesso alla zona del “Meged 5″.
Lo stesso accade per il giacimento di gas sottomarino, una miniera d’oro per la Striscia di
Gaza dove regna la disoccupazione a causa anche se non soprattutto del blocco attuato
da Israele e dall’Egitto. Nel 1999 l’allora presidente palestinese Yasser Arafat con un contratto affidò lo sfruttamento del giacimento a un consorzio composto dalla compagnia privata Consolidated Contractors International Company (di proprietà delle famiglie libanesi
Sabbagh e Khoury), alla British Gas Group e al Fondo per gli Investimenti Palestinesi. Il
consorzio eseguì la perforazione di due pozzi — Gaza Marine 1 e Gaza Marine 2 — ma
da allora non sono mai stati sfruttati. Secondo Tel Aviv non esistendo ufficialmente uno
Stato palestinese ed acque territoriali palestinesi, il gas di Gaza deve essere commercializzato da compagnie israeliane. A complicare le cose è stato anche un “intervento” del
pessimo ex premier britannico Tony Blair, in qualità di inviato del «Quartetto per il Medio
Oriente» (Usa, Russia, Onu e Ue). Grazie alla sua “mediazione” e alla debolezza dell’Anp,
i tre quarti degli introiti del gas sono stati tolti ai palestinesi e il giacimento di fatto è stato
messo sotto il controllo Israele. Hamas, vincitore delle elezioni del 2006, però ha bloccato
l’accordo definendolo un furto. L’anno successivo Israele ha annunciato che il gas non può
essere estratto sino a quando Hamas sarà al potere.
Il fatto che la Palestina nel 2012 sia stata riconosciuta dall’Onu Stato non membro non ha
cambiato nulla. Israele ribadisce le sue condizioni. E non hanno avuto alcun esito pratico
i colloqui di un anno fa tra il leader dell’Anp Abu Mazen e il presidente russo Putin volti,
secondo l’agenzia Itar-Tass, ad affidare alla Gazprom lo sfruttamento del giacimento del
gas di Gaza e alla società, sempre russa, Technopromexport, la partecipazione alla
costruzione di un impianto termoelettrico vicino Ramallah. Secondo alcuni l’offensiva militare israeliana “Margine Protettivo” della scorsa estate contro Gaza avrebbe avuto tra
i suoi scopi anche quello di impedire l’arrivo di importanti imprese russe in Palestina.
del 25/02/15, pag. 15
Londra sfodera i muscoli e invia soldati in
Ucraina
Sono consiglieri militari. Cameron a Mosca: siamo pronti a inasprire le
sanzioni
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE LONDRA Downing Street batte un colpo. Più che
altro per dire che Londra non ci sta a fare da spettatore passivo della crisi in Ucraina e per
rispondere alle critiche di chi ha accusato il governo britannico di essere assente dai giochi
diplomatici europei. E senza dubbio, nelle ultime settimane la marginalità di David
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Cameron nella ancora fragile mediazione del 12 febbraio, guidata da Berlino e Parigi, è
risultata evidente.
Così il primo ministro conservatore, incalzato sul fronte interno, ha pensato di mostrare un
po’ di muscoli andando a Westiminster, alla Camera dei Comuni, per annunciare che
Londra sarà «il paletto più forte della tenda» che si sta piantando a Kiev. Lo slogan,
tradotto, significa che invierà dal prossimo mese (e lontano dalle zone calde del cessate il
fuoco) un primo contingente di 75 militari in qualità di consiglieri per l’intelligence, per la
logistica e per l’addestramento delle truppe di artiglieria ucraine.
Il numero conta poco, conta il messaggio politico che Downing Street vuole lanciare: se la
Russia continuerà ad armare i ribelli e se non si osserverà l’accordo di Minsk, Cameron
chiederà all’Europa nuove pesanti sanzioni economiche nei confronti di Mosca (specie sul
fronte bancario) e non esclude, a patto che sulla stessa linea si mettano anche gli Stati
Uniti, l’invio di armi pesanti.
Il premier britannico compie una mossa che ha lo scopo di replicare a chi gli contesta
l’immobilismo e di riportarlo al tavolo dal quale è assente o è stato escluso («non importa
se siamo materialmente presenti ma importa essere consultati passo dopo passo») e
improvvisamente riscopre l’Europa: «Sarebbe un fallimento per tutti noi se la Ue non
riuscisse ad opporsi unita e in maniera decisa a Putin che sta cercando di smantellare una
democrazia, uno Stato sovrano e membro della Nazioni Unite».
Dunque, via al mini contingente in Ucraina. Che è anche una risposta alle «provocazioni»
russe nei cieli e nei mari attorno al Regno Unito. Nei mesi scorsi è stata ripetutamente
segnalata la presenza di sottomarini nucleari di Mosca al largo della Scozia, pochi giorni fa
un bombardiere è stato intercettato dalla Raf e «accompagnato» lontano dallo spazio
aereo sulla Manica. Ultimo episodio di un film che, nel 2014, ha registrato, per otto volte,
incroci pericolosi ad alta quota fra russi e britannici.
Fabio Cavalera
Del 25/02/2015, pag. 6
Cameron: «Istruttori militari a Kiev»
Ucraina. Incontro in Francia per rispettare gli accordi di Minsk, mentre
Poroshenko fa shopping militare ad Abu Dhabi
Simone Pieranni
I <<normanni» (ieri è toccato ai ministri degli Esteri di Francia, Germania, Russia
e Ucraina) si sono incontrati a Parigi, per ribadirsi la necessità di rispettare gli accordi di
Minsk. E dopo la presa di Debaltseve, i ruoli sembrano essere cambiati. Il presidente
russo Vladimir Putin parla da «uomo di pace» alla tv russa, definendo una guerra con
l’Ucraina come «improbabile». I ribelli filorussi, sostenuti da Mosca a Minsk e non solo,
hanno cominciato a ritirare la propria artiglieria pesante. Il segnale di Putin del resto
è stato chiaro: va bene così. Secondo Kiev, i filorussi starebbe ancora pensando ad attacchi su Mariupol, per unire territorialmente il Donbass alla Crimea, ma sembra un’ipotesi
che potrebbe essere figlia di iniziative personali, anziché essere concordata con Mosca.
Ma dall’altra parte della barricata, ieri sono venute fuori indicazioni non proprio pacifiche.
Con la scusa di «possibili attacchi» da parte dei ribelli, Kiev ha fatto presente di non avere
intenzione di ritirare l’artiglieria pesante della linea del fronte (come stabilito dagli accordi
di Minsk). Non solo perché ieri dalla Gran Bretagna, il premier Cameron ha fatto sapere
che a breve verranno inviati degli istruttori militari per Kiev. Non proprio un segno di pace.
Come non lo è stata la presenza di Poroshenko, il presidente ucraino, alla fiera delle armi
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ad Abu Dhabi, dove pare abbia concluso diversi affari, sia come venditore, sia come
acquirente. Il fronte pro Kiev, quindi, non sembra propriamente sul piede di pace.
La novità di giornata è arrivata sicuramente dalla Gran Bretagna, dove il premier Cameron
ha tentato di lanciare un segnale molto chiaro: consulenti militari per Kiev, minaccia di
chiedere l’uscita della Russia dal sistema bancario internazionale Swift. Infine un avvertimento: il «no» alle armi direttamente a Kiev sarebbe una decisione che potrebbe «non
durare per sempre». Si tratta di parole che stridono con quanto detto nei giorni scorsi dal
presidente russo Putin. Il presidente russo Vladimir Putin considera «decisamente improbabile» quello che considera come lo «scenario apocalittico» di una guerra fra la Russia
e l’Ucraina e dice di «auspicare che non si arrivi mai» a una tale situazione. In una intervista al polo televisivo pubblico Vgtrk, Putin ha definito come «revanchiste» le parole pronunciate dal presidente ucraino Petro Poroshenko, secondo cui l’Ucraina riprenderà il controllo della Crimea, solo «temporaneamente occupata». «La leadership di un grande
paese europeo come l’Ucraina deve prima di tutto riportare il paese alla vita normale, risolvere i problemi economici, sociali, le sue relazioni con le regioni del sud est, e farlo in
modo civile, e assicurare i diritti e gli interessi di chi vive nel Donbass», ha affermato Putin,
nella sua prima intervista dopo il nuovo accordo raggiunto a Minsk dieci giorni fa, dicendosi «certo che l’intesa sarà attuata».
«Nessuno ha bisogno di un conflitto alla periferia dell’Europa, in modo particolare di un
conflitto armato», ha aggiunto il presidente russo secondo cui con il presidente francese
e la cancelliera tedesca «c’è comprensione reciproca e, in generale, anche fiducia», pur
ancora con alcuni elementi di diffidenza. La responsabile per la politica estera dell’Unione
europea, Federica Mogherini, ha precisato che Putin «sbaglia quando dice che è improbabile lo scoppio di un conflitto, perché il conflitto già è in corso». In una intervista alla Bbc,
Mogherini ha aggiunto che la sola cosa che può funzionare per riportare la pace «è un
insieme di pressioni diplomatiche ed economiche», a cui va aggiunto il sostegno alle
riforme in Ucraina. E a questo punto c’è da chiedersi a cosa serviranno i soldi di Fmi
e Unione europea, se è vero che Poroshenko ha appena chiuso una ventina di contratti
per la consegna di armi difensive da parte di aziende europee, americane e del Medio
Oriente.
Del 25/02/2015, pag. 6
Delhi: «Greenpeace pericolo per la sicurezza
nazionale»
India. L’attivista Priya Pillai fermata prima del volo per Londra
Matteo Miavaldi
Priya Pillai, attivista di Greenpeace nata e residente in India, nel gennaio scorso, dopo
essersi presentata in aeroporto a New Delhi, viene bloccata. Doveva partire per la Gran
Bretagna, per compiere un mini tour informativo, ma le autorità locali non le consentono
l’imbarco. All’attivista viene spiegato che la sua partenza è bloccata per «motivi di sicurezza nazionale». Per comprendere le vere ragioni, bisogna tornare indietro di qualche anno. Nel 2006 il governo federale guidato dall’Indian National Congress (Inc) mette
all’asta una serie di giacimenti di carbone sparsi su tutto il territorio indiano, accordandoli
via via al miglior offerente. Tra questi la joint venture formata da Essar – multinazionale
con sede nel Regno Unito – e Hindalco – controllata dal gruppo indiano Birla – si aggiudica il lotto nella foresta di Mahan. Fondano la Mahan Coal Ltd. (Mcl), con l’intenzione di
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realizzare una miniera di carbone i cui proventi andranno per il 60 per cento a Essar, il
resto a Hindalco. Si tratta di due compagnie che in zona dispongono già di centrali elettriche attive, in necessità cronica di nuovo combustibile per alimentare la locomotiva del progresso indiana, per oltre il 60 per cento dipendente da carbone.
I progetti di sviluppo di Mcl, assieme all’entusiasmo del governo locale del Madhya Pradesh, si scontrano però con la legge federale indiana Forests Rights Act (2006), che in
sostanza obbliga i vincitori dell’asta a richiedere il permesso del consiglio dei villaggi locali
(gram sabha) prima di iniziare a sfruttare le risorse naturali presenti sul territorio: occorre
quindi accordarsi, definire le compensazioni e gli indennizzi a vita di tutti coloro che, con la
realizzazione della miniera, perderanno terreni, alberi e colture, loro unica fonte di
sostentamento. Le trattative sono complesse e il lobbying operato ai più alti livelli della
piramide governativa indiana, declinato alla realtà rurale di Singrauli risulta non altrettanto
efficace. C’è chi non vuole lasciare la propria terra, che non si fida dei futuri indennizzi –
ancora da definire — chi invece non ha nulla da recriminare: bisogna andare ai voti.
Il «referendum» si svolge nel marzo del 2013, mentre alcun gruppi di protesta si riuniscono
sotto l’ombrello di Greenpeace, opponendosi ad una miniera che avrebbe comportato
l’abbattimento di centinaia di migliaia di alberi, due villaggi, 14mila persone ricollocate
«altrove», con effetti devastanti sulla biodiversità della foresta che ospita, tra gli altri, leopardi, tigri ed elefanti. Mcl porta alle autorità del Madhya Pradesh un documento contenente le firme di 1125 abitanti dell’area interessata, ma Greenpeace e gli abitanti dei villaggi locali smascherano la truffa.
Al gram sabha, dicono, erano presenti solo in 184 e di quelle firme almeno 9 sono nomi di
persone decedute, certificato di morte alla mano. Un secondo referendum, nell’agosto del
2014, viene cancellato per il trasferimento del sovrintendente governativo, mentre Greenpeace denunciava episodi di minacce, mazzette a funzionari locali, voti comprati con
denaro o alcool. Pillai, in particolare, racconta di un volantino firmato da lei in cui, a nome
di Greenpeace, invitava i contadini locali a manifestazioni violente contro Mcl. Documento
che Pillai dice di non aver mai scritto. Nel frattempo Essar e Hindalco continuano a premere per il via libera del progetto minerario da 3,2 miliardi di dollari, che andrebbe ad alimentare le centrali elettriche e di alluminio nella zona. Più si aspetta, più soldi si perdono.
Pillai avrebbe dovuto raccontare questa storia di fronte ai parlamentari britannici, cosa che
ha comunque fatto via Skype, aggirando la limitazione della libertà imposta dal governo.
Ricorrendo in sede legale, il 14 febbraio scorso i legali di Pillai hanno appreso davanti al
collegio dell’Alta Corte di New Delhi che il nome della loro assistita era stato inserito in una
«black list» redatta dai servizi segreti indiani per bloccare alla frontiera cittadini indiani
sospettati di attività «contro la sicurezza nazionale». L’Additional Solicitor General Sanjay
Jain (il «pubblico ministero» che rappresenta lo Stato indiano) ha spiegato alla Corte che
Pillai «aveva intenzione di andare a testimoniare circa le presunte violazioni dei diritti dei
tribali nella foresta di Mahan», un’iniziativa che avrebbe intralciato il percorso di modernizzazione del Paese incarnato, al momento, dalle politiche ultracapitaliste del primo ministro
Narendra Modi. Citando stralci del memorandum presentato dal Ministero degli Esteri alla
Corte, Jain ha spiegato che le autorità indiane temono che «il parlamento del Regno Unito
possa utilizzare le deposizioni di Priya Pillai per stilare un rapporto contro l’India, mettendo
il Paese a rischio di sanzioni…a differenza dell’Onu, i rapporti di istituzioni come il parlamento americano, quello britannico e quello europeo non danno la possibilità al governo
indiano di controbattere, risultando pesantemente sbilanciati contro il paese oggetto del
rapporto». A dire il vero, di solito, il margine di tolleranza del dissenso «all’indiana» — sit
in, scioperi della fame, manifestazioni quasi mai violente – è molto alto: garantisce il diritto
democratico della protesta, a patto che rimanga quanto più inefficace possibile, aggirabile
coi metodi poco ortodossi della «democrazia reale» di un paese dove i panni sporchi – cri19
mini contro ambiente, minoranze etniche e religiose, donne, lavoratori — si lavano categoricamente in casa. Quando però si tenta la via dell’internazionalizzazione del dissenso,
chiamando in causa organi extra indiani come nel caso di Greenpeace e Pillai, la più
grande democrazia della Terra ricorre a pratiche repressive e restrittive del tutto arbitrarie,
nella salvaguardia del progetto di una nuova Bharat Mata, Madre India, moderna, efficiente, potente e rispettata. E sempre meno democratica.
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INTERNI
Del 25/02/2015, pag. 2
I decreti secondo Matteo: servono contro
l’opposizione
Governo. Renzi allergico alle minoranze. E la destra frantumata gli dà
una mano
Andrea Colombo
<<Saremo in grado di fare meno decreti se le opposizioni faranno meno ostruzionismo.
Facciamo decreti quando ci sono le caratteristiche di necessità e urgenza. Se le opposizioni fanno ostruzionismo una o due volte è comprensibile. Tre volte un po’ di meno». Così
Matteo Renzi, da Parigi. Il premier finge di rispondere a Maurizio Landini, che gli aveva
ricordato di non essere mai stato eletto («E’ il Parlamento a dare la fiducia, come previsto
dalla Costituzione»). In realtà quel che gli interessa non è tanto rimbeccare il leader della
Fiom quando trovare una giustificazione per la pratica ormai quasi quotidiana di governare
a colpi di decreti e voti di fiducia nonostante il monito del presidente Sergio Mattarella
e nonostante ciò significhi ignorare del tutto il dettato costituzionale.
Renzi, tanto per cambiare, è bugiardo. In realtà procede a colpi di decreti con o senza
ostruzionismo. Basti ricordare, come ha fatto subito la presidente dei senatori di Sel Loredana De Petris, gli esempi recenti del milleproroghe e dell’Ilva, oppure le numerose volte
in cui le opposizioni hanno ritirato gli emendamenti proprio per evitare il voto di fiducia,
sempre inutilmente. In realtà, Renzi ha una concezione ben precisa della democrazia e dei
rapporti tra potere esecutivo e legislativo: il primo decide tutto, il secondo controfirma
senza disturbare. In questa visione, che va oltre lo stesso presidenzialismo perché non
comporta la creazione di adeguati contrappesi, è ovvio che il Parlamento ideale, per il
premier-segretario, è quello in cui l’opposizione non c’è. O meglio c’è, ma non va oltre un
inoffensivo diritto di tribuna. E’ il quadro in cui si è mosso fino alla rottura con Forza Italia,
ed è il quadro in cui mira a muoversi di qui alle prossime elezioni politiche. Per questo la
sua opzione privilegiata resta quella di un ritorno all’ovile del Berlusconi sconfitto.
Anche la situazione attuale gli va in realtà bene. Con la destra ridotta a una ex Jugoslavia
di fazioni in guerra e una sinistra, soprattutto quella interna al Pd, balbettante e sottomessa, può comunque fare ciò che vuole. Però sconta sempre il rischio che le tribù trovino
un’occasione unitaria nel momento peggiore, per esempio sulla legge elettorale, modificandola alla camera e imponendo un secondo e pericolosissimo passaggio al Senato. E’
proprio questa la proposta precisa che ha fatto Augusto Minzolini a Berlusconi: «Votiamo
con la minoranza Pd le preferenze». L’ex cavaliere non ha detto di no.
La ruota però gira a favore del fiorentino. Dalla rottura del Nazareno in poi, per Berlusconi
è stata una girandola di sconfitte. Ieri mattina, con parole quasi identiche, il leghista Matteo
Salvini e l’Ncd Renato Schifani lo hanno messo di fronte a un aut aut senza scampo:
«Scegli: o con gli uni o con gli altri». Precisamente quel che Silvio l’Ecumenico odia fare.
Fosse per lui, preferirebbe di gran lunga il Carroccio, ma in questo caso, dato l’aut aut,
metterebbe a rischio la già pericolante presidenza della Campania, l’unica in mano agli
azzurri. La guerra scoppiata nella Lega gli rende tutto ancora più difficile. Ieri Tosi il ribelle,
a un passo dall’uscita dalla Lega, era a Roma. Ha visto certamente i vertici dell’Ncd,
anche se probabilmente non Alfano. Ha preso contatto con la formazione di Corrado Passera, Italia unica. Ma soprattutto, in gran segreto, ha incontrato gli stessi azzurri.
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L’obiettivo è doppio: creare un “terzo polo” in tempo per correre in Veneto, ma anche spingere Fi a fare blocco con quel (forse) nascituro. polo prima in Veneto, poi ovunque.
Gli ammutinati di Raffaele Fitto propendono per l’alleanza opposta, quella con la Lega di
Salvini. Ma questo per Berlusconi è un handicap non un incentivo. Con una delle mosse
politicamente più bizzarre della storia, aveva infatti deciso di imboccare la via da sempre
indicata da Fitto e dai dissidenti, rompendo però allo stesso tempo proprio con quei dissidenti. Il paradosso è che, scagliandosi contro Fitto, Berlusconi ha anzi dato forza proprio
alla componente del suo partito più propensa a un nuovo appeasement con Renzi.
In questa cornice di opposizioni allo sbando, per Renzi al momento è un gioco governare
senza ostacoli. A colpi di decreti legge e voti di fiducia del tutti ingiustificati.
del 25/02/15, pag. 1/29
La politica al tempo dell’esecutivo
GUSTAVO ZAGREBELSKI
VIVIAMO un tempo esecutivo. “L’esecutivo” vorrebbe tutto. “Il legislativo” e “il giudiziario”
dovrebbero essere nulla. Se vogliono contare qualcosa, sono d’impiccio.
IL loro dovere è di adeguarsi, di allinearsi, di mettersi in riga. L’esecutivo deve “tirare
diritto” alla meta, cioè deve “fare”, deve “lavorare” (e più non domandare). Il legislativo e il
giudiziario, se non “si adeguano”, costringono a rallentamenti, deviazioni, ripensamenti,
fermate: cose che sarebbero normali e necessarie, nel tempo degli equilibri costituzionali;
che sono invece anomalie dannose, nel tempo esecutivo.
Il tempo esecutivo è anche, e innanzitutto, un tempo in cui la politica è messa in disparte.
Chi parla di politica è sospettato d’ideologia. La politica è innanzitutto discussione e scelta
dei fini in comune. Il tempo esecutivo annulla il discorso sui fini e si concentra sui soli
mezzi. Concentrarsi sui soli mezzi significa assumere come dato indiscutibile ciò che c’è,
l’esistente, il presente. Il fine unico del momento esecutivo è la necessità che obbliga.
Le parole seduttive e di per sé vuote come “innovazione”, “riforme”, “modernizzazione”,
“crescita” sono parole non di libertà, ma di necessità, necessità che non lascia spazio alla
scelta del perché, ma solo del percome. Gli esecutivi del tempo attuale dove dominano gli
interessi finanziari, nelle posizioni-chiave sono occupati da uomini d’affari e di finanza
perché essi, con tutti i mezzi, anche con i più amari per i cittadini e per le loro condizioni di
vita, devono essere garanti di assetti ed equilibri che s’impongono perentoriamente come
se fossero fatalità. Sono anch’essi, a modo loro, vittime della necessità.
Il tempo esecutivo e nonpolitico è anche tempo della tecnica che soppianta la Gli esecutivi
“tecnici” che, in forma più o meno esplicita, hanno preso piede negli ultimi decenni non
sono anomalie, ma conseguenze funzionali a questo stato di cose che è il mantenimento
dello status quo o, come anche è stato detto, la dittatura del presente che si autoriproduce
e aspira a crescere sempre di più su se stessa.
La tecnica è in sé, per sua natura, conservatrice. Quando si richiede l’intervento di un
tecnico su un manufatto, ciò è per ripararlo in caso di guasto o per potenziarne le
possibilità, non certo per cambiarlo. La stessa cosa è per la tecnica che prende il posto
della politica.
Se si pongono questioni di giustizia, non è in vista di riforme sociali, come quelle
programmaticamente indicate dalla Costituzione, ma è solo per dare sfogo alla pressione
delle ingiustizie quando diventano pericolose per la stabilità degli equilibri che devono
essere preservati. Si può facilmente constatare la connessione che naturalmente si crea
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tra i governi tecnici e l’occultamento della politica. C’è una coerenza, ma una coerenza
inquietante.
Lo schiacciamento sulla perpetuazione del presente coincide con l’assenza di discorsi sui
fini, condannati a priori come irresponsabili o, nella migliore delle ipotesi, come
vaneggiamenti impossibili. Una delle espressioni più in uso e più violentatrici della politica
è “non ci sono alternative”. Non ci si accorge che chi soggiace alla forza intimidatrice di
quest’espressione si fa sostenitore di nichilismo politico, la forma più perfetta di antipolitica conservatrice. Del nichilismo politico, il corollario è la tecnocrazia: i tecnocrati
rifuggono da ogni discorso sui fini che bollano come “ideologia”, come se il loro realismo
cinico non sia esso stesso un’ (altra) ideologia.
Il nichilismo è il regno del nulla. Poiché la vita pubblica si alimenta con la “comunicazione”,
si comunica il nulla. O, meglio: si comunicano le misure tecniche, e con molta enfasi. Ma
le idee politiche svaniscono entro un linguaggio allusivo che non ha nulla di politico. Così,
in assenza di discorsi effettivamente politici, i contrasti vengono ridotti alla
contrapposizione tra il voler fare e il volere impedire di fare. Il tempo tecnico è il tempo
delle banalità politiche e, parallelamente, dei “politici” banali.
La politica, per gli Antichi, era l’arte del buon governo: il buon politico era colui che
conosceva le regole pratiche della sua azione. La politica, per i Moderni, è un’altra cosa: è
innanzitutto confronto e competizione tra visioni diverse della società, cui segue — segue
per conseguenza — l’azione tecnico-esecutiva.
Solo questa concezione della politica è compatibile con la visione costituzionale della
democrazia, cioè con il pluralismo delle idee e il libero dibattito tra chi se ne fa portatore,
l’organizzazione delle opinioni in partiti e movimenti politici, il rispetto dei diritti di tutti e
specialmente delle minoranze, le libere elezioni, il confronto tra maggioranza e
opposizione, la possibilità riconosciuta all’opposizione di diventare maggioranza secondo
regole elettorali imparziali. Questi elementi minimi, costitutivi della democrazia, si svuotano
di significato, quando il governo delle società è conservazione attraverso misure tecniche.
Le forme della democrazia possono anche non essere eliminate ma, allora, la sostanza si
restringe e rinsecchisce, come un guscio svuotato. Le idee generali e i progetti si
inaridiscono; i partiti si cristallizzano attorno alle loro oligarchie; il conformismo politico
alimenta il cosiddetto pensiero unico e il pensiero unico alimenta a sua volta il
conformismo politico. La competizione tra i partiti solo illusoriamente ha una posta politica.
In realtà si trasforma in lotta per ottenere posti.
Quando si denuncia il deficit di depolitica. mocrazia si vuole riassumere il rattrappimento
della vita pubblica sull’esistente, presentato come unica possibilità, cioè — per usare uno
slogan — come “dittatura del presente”. Per usare un terribile linguaggio filosofico, l’ ente
viene presentato e imposto come se fosse l’ essere, e l’essere è ciò che necessariamente
è. Tutto il resto, tutto ciò che non vi rientra, nel caso migliore è bollato come futilità e, in
quello peggiore, impedimento o sabotaggio.
Il tempo esecutivo è incompatibile con il dissenso operante. Per questo, nel governo
esecutivo i diversi soggetti della vita pubblica devono progressivamente livellarsi e
sincronizzarsi. In una parola: devono egualizzarsi e mettersi in linea, la “linea nazionale”.
Sentiamo parlare di “partito della Nazione”, c’è la tentazione di voler essere il premier (non
di un governo, d’una maggioranza, ma) della Na- zione al di là di destra e sinistra,
abbiamo la Tv della Nazione, avremo presto, forse, l’Editore nazionale, eccetera.
Ma, il luogo istituzionale in cui consenso e dissenso politico e sociale dovrebbero
esprimersi con compiutezza è un parlamento risultante da libere elezioni. Questo
dovrebbe essere il punto di riferimento della democrazia, la sede che al massimo livello
rappresenta — come dicevano i costituzionalisti d’un tempo — la coscienza civile della
Nazione tutta intera, non però come un intero, ma come componenti di un “intero
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confronto” tra loro. Un tale parlamento sarebbe precisamente il primo ostacolo che
incontra il governo esecutivo. Questa spiega perché lo si umili spesso con procedure del
tipo “prendere o lasciare” e perché coloro — deputati e senatori — che collaborano al
progetto del governo esecutivo si umilino essi stessi accettando senza lamentarsi, o con
deboli lamenti, la minaccia dello scioglimento che viene ventilata, come se fosse
prerogativa del presidente del Consiglio e non del presidente della Repubblica. Sotto
quest’aspetto dovrebbero principalmente valutarsi le riforme istituzionali: aumentano o
diminuiscono la capacità rappresentativa del Parlamento?
Le espressioni verbali che usiamo sono spesso rivelatrici. Della legge elettorale si dice
ch’essa deve consentire ai cittadini di conoscere il vincitore “la sera stessa”. Ma la politica
democratica non conosce vincitori e vinti. Dalle elezioni risulterà il partito che è più forte
degli altri numericamente, ma non certo il partito che, per i successivi cinque anni della
legislatura, “ha sempre ragione”. Non ci si rende conto di che cosa trascina con sé questa
espressione, tanto disinvoltamente usata nel dibattito politico: implica disprezzo per i partiti
minori che formano le opposizioni e l’insofferenza verso i poteri di controllo, la
magistratura in primo luogo.
Nella democrazia costituzionale — l’opposto della tirannia della maggioranza — non c’è
posto per strappi e “aventini”. Ma il partito che ha ottenuto il maggior successo nelle
elezioni, proprio per questa ragione, ha un onere particolare: governare senza provocare
fratture e strappi, onde chi risulta soccombente non abbia motivo di ritenersi vinto,
annientato, e non debba considerare la sua presenza nelle istituzioni ormai superflua.
Quando si guardano i cambiamenti istituzionali in corso d’approvazione nel loro complesso
— non questa o quest’altra disposizione presa a sé stante — è difficile non vedere, a
meno di non voler vedere, il quadro: un sistema elettorale che, tramite il premio di
maggioranza e, ancor di più, con il ballottaggio, comprime la rappresentanza e schiaccia le
minoranze, nella logica vincitore-vinti; una sola camera con poteri politici pieni e con
procedimenti dominati dall’esecutivo; un’attività legislativa in cui la deliberazione rischia in
ogni momento di ridursi a interinazione veloce delle proposte governative; controllo
maggioritario, rafforzato dal premio di maggioranza, delle nomine di garanzia (presidente
della Repubblica, giudici costituzionali, membri del Csm, presidente della Camera, e
successive decisioni a questi attribuite); minaccia di scioglimento della Camera in caso di
dissenso dal Governo: tutte questioni in ballo nel processi di riforma in corso, che restano
in piedi anche nelle nuove versioni dei testi in discussione, pur emendati rispetto agli
originari.
Soprattutto, influisce sul giudizio della situazione il silenzio totale su due punti cruciali: la
democrazia nei partiti e la vitalità dell’informazione. Qui sta la materia prima della
democrazia e se la materia è corrotta, quale che sia il manufatto (cioè l’impalcatura
istituzionale) il risultato non potrà non portare i segni della corruzione. Il guscio sarà
svuotato della sostanza. Anzi, servirà a mascherare lo svuotamento.
Non si tratta di difendere un’astratta intoccabilità della Costituzione, la quale prevede la
possibilità e le procedure per la propria stessa riforma. La Costituzione non è un totem.
Nemmeno è “la costituzione più bella del mondo”. Semplicemente essa delinea una forma
politica che si basa sulla democrazia di partecipazione, dove le decisioni collettive
procedono attraverso contributi dal basso, cioè dai bisogni sociali, dalle convinzioni della
giustizia e della libertà che si formano nella società, si organizzano in forme associative e
si esprimono negli organi rappresentativi e si sintetizzano e si traducono in pratica
attraverso l’opera del governo.
L’articolo è una sintesi del testo che Gustavo Zagrebelsky presenterà per la discussione a
Firenze venerdì e sabato all’associazione Libertà e Giustizia
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del 25/02/15, pag. 8
Lo strappo dei 500 contro il Pd dei faccendieri
IN SICILIA UN DOCUMENTO CHE ACCUSA IL PARTITO “DEI POCHI E
DEI POTENTI”. E CHE PUNTA A FORMARE UN CARTELLO
ALTERNATIVO
Lo descrivono come un “siluro’’ diretto all’operato del sottosegretario Davide Faraone che
appena tre giorni fa, a braccetto con il leader regionale Fausto Ra-citi, ha accolto nel Pd
siciliano i deputati di Articolo 4: un quintetto di ex cuffariani ed ex lombardiani che non
vedevano l’ora di saltare sul carro vincente del ‘ ’renzismo’’.
È IL DOCUMENTO “carbonaro’’ che circola in gran segreto tra i civatiani e i cuperliani di
Sicilia, e che in queste ore passa di mano in mano tra gli iscritti di Trapani e Ragusa, di
Enna e Catania, fucine del malcontento isolano. Due pagine di critica radicale a quel Pd
“consegnatosi direttamente al centrodestra’’, che almeno 500 iscritti sarebbero pronti a
firmare subito, con l’intenzione di restituire la tessera di quello che descrivono come il
partito ‘ ’dei pochi, dei potenti e dei faccendieri’’, e ormai diventato “la negazione totale
della storia e dei nostri valori’’. L’obiettivo? Tutto è ancora top secret, ma da un capo
all’altro della Sicilia vengono segnalate grandi manovre per lo “strappo’’ che porterebbe
alla costruzione di un nuovo “cartello’’ della sinistra che aggreghi i fuorusciti del Pd ai
superstiti di Sel, agli ex del M 5 S e a pezzi della Fiom. Con la benedizione di Leoluca
Orlando, alla guida di Anci Sicilia, indicato come uno dei tessitori silenziosi della trama,
che avrebbe l’intenzione -neanche tanto segreta- di succedere a Rosario Crocetta sulla
poltrona di Governatore di Sicilia. Sarà l’effetto Tsipras, sarà l’onda lunga di Podemos, ma
le prove tecniche per il nuovo partito della sinistra, che da mesi lo stesso Pippo Civati
vaticina, soffiando sui venti della scissione, sono in piena fase operativa in Sicilia, eterno
laboratorio politico nazionale. Non è un caso che l’ideazione del documento dei 500
coincida con le dichiarazioni del leader della Fiom Maurizio Landini che, tra smentite e
precisazioni, ha apertamente auspicato la nascita di un nuovo polo a sinistra del Pd. Ma
chi sono gli scissionisti pronti a lasciare il Pd siciliano accusato di essere un partitomacedonia? C’è Danilo Festa, consigliere comunale di Motta Sant’Anastasia (Catania),
candidato a sindaco dal Pd del suo comune, ma stoppato dai quadri provinciali. C’è Nicola
Manoli, consigliere comunale di Regalbuto (Enna), e ci sono Sabrina Rocca, Danilo
Orlando e Lillo Fede, tutti di Trapani. Sono decine di amministratori locali, quadri di partito,
e centinaia di semplici tesserati, stanchi di un Pd che ora, dicono, “ha bisogno di tornare
all’anno zero’’. Alla guida della “fronda’’, la ragusana Valentina Spata, referente di Civati in
Sicilia, che aveva spaccato il partito già alle amministrative iblee, quando aveva
pubblicamente annunciato l’appoggio al pentastellato Federico Piccitto. “Il Pd non è più il
partito che ho contribuito a costituire’’, dice ora Spata, “è ormai una sigla unica dove si
riparano gli stessi personaggi che hanno amministrato il potere con Cuffaro e Lombardo:
non è più una questione morale, ma è una questione di dignità’’.
A FAR DA PONTIERI per il nuovo cantiere siciliano della sinistra, i vendoliani di Sel che
già in passato con il deputato Erasmo Palazzotto avevano messo in campo diverse
iniziative in comune con il M 5 S: “L’ultima campagna acquisti – dice Palazzotto – dimostra
che il gattopardismo è la cifra dell’evoluzione del partito di Renzi’’. A mettere d’accordo i
fuggiaschi del Pd con Sel e con i “grillini’’, sono essenzialmente tre temi: la lotta al Jobs
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Act, che per Landini il premier avrebbe scritto “sotto dettatura di Confindustria’’; la vicenda
del Muos, la centrale radar statunitense di Niscemi; e infine la questione dell’acqua
pubblica. A quattro anni dal referendum che ha sancito il passaggio delle reti idriche ai
comuni, la volontà popolare non si è mai tradotta in legge. Proprio di recente, Orlando ha
twittato: “Se la Regione non si muoverà entro marzo, Anci Sicilia scenderà in piazza’’. Non
è una chiamata alle armi, ma poco ci manca.
del 25/02/15, pag. 6
Salvini, ultimatum a Tosi “Chi va contro Zaia
è fuori dal Carroccio”
Il sindaco ribelle: “Se calpestano il Veneto reagirò sabato a Roma ci
sarò, non presto il fianco ai miserabili”
RODOLFO SALA
ROMA .
Ancora a pesci in faccia, nonostante la promessa (condita al veleno) di Flavio Tosi. Il
leghista in guerra con il leader Salvini e il governatore del Veneto Zaia dice che sabato
sarà in piazza del Popolo, alla marcia su Roma targata Lega: «Farò l’impossibile per
andarci, nonostante i miei impegni da sindaco, e lo farò per non prestare il fianco a dei
miserabili che, e non parlo di Salvini, fanno polemiche strumentali e penose». Ma il
segretario è netto: siccome resta in piedi la minaccia di Tosi di candidarsi contro il
governatore uscente (ipotesi «abominevole», la definisce Zaia), ecco l’avvertimento di
Salvini: «Chi si mette contro Zaia è fuori dalla Lega, io non espello nessuno, ma c’è
qualcuno che si autosclude». «La scelta replica il sindaco di Verona - spetta al consiglio
federale, in ogni caso ognuno si assume le proprie responsabilità». E se il “milanocentrico”
Salvini decidesse di non fargli mettere becco sulla composizione delle liste elettorali, e
dunque di «passare sopra l’autonomia del Veneto, io valuterò il da farsi». Poi su
Repubblica.it attacca l’alleanza con Casa Pound: «Contrasta con la storia del Carroccio».
Questo il clima. E a peggiorarlo ci sono gli incontri con il “nemico” tenuti ieri a Roma da
Tosi.
Prima ha visto, a Palazzo Chigi, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Luca Lotti,
fedelissimo di Renzi; poi, nella sede del Ncd, Gaetano Quagliariello. Il “federale” del
Carroccio è convocato per lunedì, due giorni dopo la manifestazione di Roma.
E tra gli amici di Zaia qualcuno sta meditando di chiedere il commissariamento della Liga
veneta guidata da Tosi. A meno di un accordo in extremis che al momento quasi nessuno
prevede. Ma sabato in piazza, a Roma, ci saranno anche gli antagonisti, che al grido «Mai
con Salvini», vorrebbero sfilare da piazza Vittorio a Sant’Andrea della Valle (questura
permettendo). Al controcorteo hanno aderito tra gli altri l’attore Elio Germano, i 99 Posse e
il fumettista Zerocalcare.
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del 25/02/15, pag. 2
La responsabilità dei giudici è legge Orlando:
se serve pronti a correggerci
Si astengono FI, Sel e Lega. No solo dai Cinquestelle. Protesta l’Anm: è
un atto contro i magistrati
ROMA Dopo infinite polemiche e discussioni è giunta in porto la legge sulla responsabilità
civile dei magistrati che l’Ue aveva sollecitato fin dal 2011 con la previsione di 50 milioni di
euro di «multa» in caso di inadempienza. Il voto definitivo, ieri a tarda sera alla Camera, è
arrivato al termine di un dibattito neanche troppo acceso: 265 sì, 51 no, 63 astenuti. Alla
fine la maggioranza si è presentata compatta e ha votato a favore, FI, Sel e la Lega
(tranne Gianluca Pini, che ha votato a favore) se la sono cavata con l’astensione mentre il
M5S ha votato contro.
«Anni di rinvii e polemiche, ma oggi la responsabilità civile dei magistrati è legge!», ha
commentato il premier Matteo Renzi con un tweet, dopo che in Aula il Guardasigilli Andrea
Orlando aveva affermato: «E’ un passaggio storico, la giustizia sarà meno ingiusta».
Superata la prova parlamentare ora per il governo inizia la parte più difficile del confronto
permanente con l’Associazione nazionale magistrati che non mancherà di monitorare al
millimetro gli effetti della nuova disciplina. La prima reazione dell’Anm parla di «pessimo
segnale, legge contro i magistrati». Magistratura Indipendente (la corrente di centrodestra
che fa capo al sottosegretario Cosimo Ferri) ha rilanciato la proposta di uno sciopero con
«la raccolta di firme per la convocazione di un’assemblea dell’Anm che decida iniziative di
protesta contro la riforma». Il ministro Orlando non ha voluto chiudere tutte le porte davanti
alle toghe: «Con grande laicità valuteremo gli effetti della prima applicazione. Siamo
disponibili a correggere i punti segnalati».
In Aula, solo i grillini hanno fatto muro intorno ai magistrati. «Votiamo no perché questa è
una legge intimidatoria», ha argomentato in un appassionato intervento Alfonso Bonafede
che però si è dovuto arrampicare sugli specchi per spiegare la conversione ad «U» del
M5S: «Al Senato il voto del Movimento è stato favorevole perché avevamo ottenuto
l’esclusione della responsabilità diretta e segnali di apertura sulle modifiche da fare qui alla
Camera».
Per Orlando, però, il provvedimento che modifica dopo 26 anni la legge Vassalli imposta
dal referendum del 1987, «è un reale punto di equilibrio». Orlando, poi, non accetta le
accuse lanciate dal M5S: «Io rifiuto l’argomento della intimidazione quando si parla di
inchieste che vogliono intimidire la politica, ma rifiuto l’argomento dell’intimidazione anche
quando si fanno leggi che servono a risarcire cittadini».
Mezzo Pd, comunque, si è dovuto preoccupare di rassicurare i magistrati che ora temono
una valanga di richieste di risarcimento. «Appreziamo molto la decisione dell’Anm di non
scioperare», ha detto Walter Verini. Il relatore Danilo Leva, ha precisato che «la legge
sana un vulnus presente nel nostro ordinamento per altro oggetto di una procedura
d’infrazione della Corte europea». Donatella Ferranti, presidente della commissione
Giustizia della Camera, ex pm, ha cercato di rassicurare le toghe che ha conosciuto da
vicino quando era segretario generale del Csm: «Il travisamento del fatto rappresenta un
danno solo quando sarà macroscopico, evidente e non richieda approfondimenti».
Entusiasti i rappresentanti di Area popolare guidati dal sottosegretario alla Giustizia Enrico
Costa che rivendicano la vittoria di aver ottenuto l’abolizione del filtro di ammissibilità per
le richieste di risarcimento .
Dino Martirano
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del 25/02/15, pag. 5
di Luca De Carolis
Alla Consulta mancano 2 giudici
Le Camere non sanno eleggerli
Il presidente che ha traslocato di qualche metro li guarderà con gli occhi dell’ex collega. E
non potrà che notare il numero delle toghe: 13, invece delle 15 previste dalla Carta. Un
problema anche per la politica, che da mesi guerreggia sull’Italicum. Grana che prima o
poi finirà sul tavolo della Consulta, dove il 12 marzo si terrà la consueta Conferenza
annuale del presidente della Corte costituzionale, alla presenza del capo dello Stato
Sergio Mattarella. Fino al 31 gennaio scorso, giudice della Consulta: tra qualche giorno
primo spettatore della relazione del presidente Alessandro Criscuolo sulle sentenze e sul
lavoro della Corte nel 2014. Mattarella era stato nominato nel 2011 dal Parlamento, che
ora dovrebbe votare il suo sostituto e l’altro togato mancante.
MA IL CONDIZIONALE è un imperativo. Perché la Consulta è sotto organico ormai dal 28
giugno, giorno in cui cessarono dalla carica Luigi Mazzella e Gaetano Silvestri. Lavora da
otto mesi da organo “mutilato”, anche se ugualmente legittimo (“la Corte funziona con
l’intervento di almeno 11 giudici” recita la legge). Dopo decine di sedute a vuoto e trappole
incrociate, e nonostante i settimanali moniti di Napolitano, le Camere sono riuscite a
eleggere solo un giudice per la Consulta, Silvana Sciarra. Accadde lo scorso 6 novembre
alla 21 ° votazione di fila grazie all’intesa tra Pd, Cinque Stelle e Sel. Cadde
rumorosamente invece la candidata di Forza Italia, Stefania Bariatti, pagando la faida tra
berlusconiani e numeri comunque troppo stretti. L’ennesima vittima eccellente dopo
Luciano Violante e Donato Bruno, anche lui forzista. Un film che verrà facilmente replicato
quando il Parlamento tornerà a riunirsi in seduta comune. Sui tempi non c’è ancora
certezza, ma la convocazione dovrebbe arrivare a giorni. Lo scorso 20 febbraio, il gruppo
alla Camera dei Cinque Stelle aveva inviato una lettera alla presidente della Camera
chiedendole di “procedere senza indugio alla convocazione del Parlamento in seduta
comune per l’elezione dei due giudici”. E nel frattempo qualcosa si è mosso. Ieri la Boldrini
e il presidente del Senato, Pietro Grasso, si sono sentiti proprio sulla Consulta. Domani,
spiegano dallo staff della presidente, alla Camera si terrà una conferenza dei capigruppo
che “verosimilmente” indicherà una data per la prima seduta sulla Corte. Del tema si
occuperà anche la prossima capigruppo a palazzo Madama. Sul piatto c’è anche la
matassa del metodo di votazione. Norma alla mano, per eleggere uno dei due giudici,
quello non nominato in 21 sedute, potrebbe bastare un quorum dei 3 / 5 dell’assemblea.
Mentre per l’altro togato (il sostituto di Mattarella) si dovrebbe partire dalla soglia ben più
alta dei 2 / 3 dei membri, obbligatoria nei primi tre scrutini. I presidenti delle due Camere,
d’intesa con i partiti, dovranno trovare una soluzione per evitare il caos. Ma il principale
problema rimane la palude politica. Strappato il patto del Nazareno, trovare nomi che
raggiungano il quorum pare ad oggi quasi impossibile. A meno che Renzi e Berlusconi non
tornino a filare d’amore e d’accordo. O che il Pd non riaccetti il “metodo Sciarra”, riaprendo
al M 5 S. Caduto Violante, ai Cinque Stelle venne proposta la professoressa: e dopo il sì
dei parlamentari e degli iscritti sul web, il Movimento scongelò i suoi voti. Una novità
politica, si disse allora. La capogruppo Fabiana Dadone ha firmato la lettera alla Boldrini.
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Sostiene: “Per noi rimane fondamentale quel metodo, quello della massima trasparenza,
con cui siamo riusciti anche a fermare la nomina di Violante. Una volta convocata la
seduta comune saremo disposti a discutere dei nomi, coinvolgendo i cittadini nella scelta”.
Importante, anche in prospettiva.
L’ULTIMA VERSIONE dell’Italicum prevede un possibile vaglio della sua costituzionalità
prima dell’entrata in vigore (possono chiederlo un quarto dei deputati o un terzo dei
senatori). La legge elettorale potrebbe insomma finire all’esame della stessa Corte che
bocciò il Porcellum (con il voto anche di Mattarella). Tra pochi mesi, se il premier correrà
come spera. E due giudici in più o in meno potrebbero pesare. Ma di casi roventi ne
potrebbero spuntare altri. Più di un giudice, ad esempio, potrebbe sollevare questione di
legittimità costituzionale sul jobs act, come ricordano da settimane la minoranza Pd e la
Cgil. E via proseguendo, di riforma in riforma. Paolo Maddalena, presidente emerito della
Consulta: “Il vero problema è che, mantenendo la Corte sotto organico, si altera
quell’equilibrio voluto dai Costituenti per la sua composizione. Se mancano due giudici,
manca quella proporzione essenziale tra i membri nominati dal Quirinale, dal Parlamento e
dalle supreme magistrature”.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
del 25/02/15, pag. 19
“Da Milano all’Emilia così la ’ndrangheta si è
presa il Nord”
La relazione della Direzione antimafia: anche il Veneto nel mirino
Roberti: “Pesanti i silenzi della Chiesa prima di Papa Francesco”
ALBERTO CUSTODERO
ROMA .
La ‘ ndrangheta domina in Lombardia do ve dialoga con «rappresentanti della politica e
delle istituzioni locali». Ma anche Bologna piange: «oggi può ben definirsi “Terra di mafia”
nel senso pieno della espressione». La relazione del procuratore antimafia Franco Roberti
glissa sul tema dei rapporti tra mafia e politica nazionale. Ammette la resa dello Stato a
proposito della confisca dei patrimoni mafiosi: «Sono stati fatti passi avanti, ma ci sono
ancora delle difficoltà». Ma, alla vigilia di Expo 2015, lancia l’allarme sull’infiltrazione
mafiosa nel Nord, che dalla Lombardia passando per il Piemonte arriva fino a Veneto.
LA ‘ N-DRANGHETA IN LOMBARDIA
Le indagini, dichiara Roberti, hanno confermato «il predominio della ‘ ndrangheta a
discapito di Cosa nostra a Milano e in Lombardia ». «I suoi appartenenti, dimorando al
nord ormai da più generazioni, hanno progressivamente acquisito una piena conoscenza
del territorio consolidando rapporti con le comunità locali e privilegiando contatti con
rappresentanti della politica e delle istituzioni locali». La criminalità calabrese ha anche il
«controllo totalizzante del porto di Gioia Tauro, dove gli ‘ ndranghetisti riescono a godere
di ampi, continui, si direbbe inesauribili, appoggi interni. Non a caso Gioia Tauro è
divenuta la vera porta d’ingresso della cocaina in Italia».
BOLOGNA, “TERRA DI MAFIA”
A Bologna è stata accertata «l’esistenza di un potere criminale di matrice ‘ ndranghetista ,
la cui espansione è andata al di là di ogni pessimistica previsione, con coinvolgimenti di
apparati politici, economici ed istituzionali. A tal livello che, quella che una volta era
orgogliosamente indicata come una Regione costituente modello di sana amministrazione
ed invidiata per l’elevato livello medio di vita dei suoi abitanti, oggi può ben definirsi “Terra
di mafia” nel senso pieno della espressione ».
CORRUZIONE DILAGANTE
Per il procuratore Antimafia, «la corruzione, che in Italia è fenomeno di sistema, è
assolutamente dilagante perché mai efficacemente contrastata e combattuta. Ma, anzi,
per troppo tempo tollerata e giustificata». Il procuratore Antimafia punta poi l’indice sul
governo Berlusconi del 2002 che garantì l’immunità per il falso in bilancio: «C’è stato un
deciso arretramento nei confronti della lotta alla corruzione — dichiara — quando sono
state assicurate ampie prospettive di impunità per il falso in bilancio».
I SILENZI DELLA CHIESA
Roberti attacca a sorpresa il Vaticano pre-Francesco, innescando una polemica con Rosy
Bindi, presidente dell’Antimafia, e con il sacerdote antimafia don Luigi Ciotti. «Sono
convinto — ha detto Roberti — che la Chiesa potrebbe moltissimo contro le mafie. E che
grande responsabilità per i silenzi sia della Chiesa. Ora finalmente si è mosso qualcosa
con papa Francesco, ma per decenni la Chiesa avrebbe potuto fare ma non ha fatto
nulla». La cattolica Rosy Bindy, presidente della commissione Antimafia, ha sottolineato
che «insieme a don Puglisi ed a don Diana c’è un esercito di persone che ha saputo dire
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di no». Mentre don Ciotti ha replicato invocando responsabilità condivise. «È verissimo —
replica il sacerdote antimafia, fondatore di Libera — che ci sono state ambiguità, in certe
situazioni complicità. E un grave malinteso sulla religiosità dei mafiosi è strumentale ed
esteriore ». «Come è anche vero — aggiunge — che ci sono state coraggiose
testimonianze di denuncia e di netta presa di distanza. Ma il problema non riguarda solo la
Chiesa, c’è stata una generale rimozione fatta di silenzi, di sottovalutazioni, di reticenze e
anche di complicità di varie parti della società».
PROTOCOLLO FANTASMA
Il procuratore svela l’esistenza di una indagine segreta sul “protocollo fantasma”, ovvero
su misteriosi «appartenenti alle forze dell’ordine» che per anni hanno spiato magistrati
«per conto di una non meglio specificata entità».
A ROMA MAFIA AUTOCTONA
A proposito della Capitale, la relazione di Roberti non affronta il tema dei rapporti tra mafia
e politica di cui già parlava nel 1900 don Sturzo («La mafia ha i piedi in Sicilia, ma la testa
forse a Roma»). Si accenna alla presenza, «sul territorio laziale, delle articolazioni di tutte
le organizzazioni mafiose tradizionali che si dedicano al riciclaggio». Il procuratore dedica
invece un capitolo all’organizzazione di Carminati che ha infiltrato il Campidoglio,
definendola «mafia autoctona».
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
Del 25/02/2015, pag. 4
Roma, sabato antirazzista contro la «marcia»
della Lega
La contro-manifestazione. Il percorso non è stato ancora autorizzato
Alessandro Barile, Samir Hassan
Cresce l’attesa per la manifestazione leghista del 28 febbraio a Roma e la contestuale
opposizione dei movimenti e delle organizzazioni democratiche alla sfilata xenofoba.
Insieme a Salvini saranno presenti a Piazza del Popolo non solo i neofascisti di CasaPound, nelle cronache in questi giorni per il tentato omicidio a Cremona di un militante del
centro sociale Dordoni, quanto soprattutto le organizzazioni xenofobe di mezza Europa,
dando al ritrovo leghista la parvenza di una rinnovata internazionale nera.
Ad affiancare Salvini saranno anche l’organizzazione razzista tedesca «Pegida», nota in
questi mesi per le continue marce anti-islamiche promosse a Dresda, nonché il «Bloc
Identitaire», partito dell’estrema destra francese anti-immigrazione. Senza contare la promessa manifestazione di aprile, dove Salvini proverà a portare a Roma Marine Le Pen
dando vita ad un vero e proprio coordinamento politico delle destre europee.
Ad «accogliere» il tentativo leghista di radicarsi al centro-sud attraverso la costituzioni di
liste civiche e partiti collegati alla casa madre, la variegata sinistra romana, che da mesi
tenta di trovare una quadra attorno alle modalità di opposizione alla piazza di Salvini. Nei
giorni scorsi è stato definito il percorso della manifestazione che partirà alle 14 da piazza
Vittorio Emanuele e terminerà in piazza Sant’Andrea della Valle, con l’obiettivo di avvicinarsi, almeno idealmente, alla vicina Piazza del Popolo.
La manifestazione è stata organizzata nel corso di un mese di assemblee che hanno registrato una partecipazione crescente. Il corteo non ha ancora ricevuto il via libera da parte
della Questura. Si resta in attesa del vertice sulla sicurezza col Prefetto e il Comune.
A complicare le cose, la probabile partenza del gruppo di estrema destra CasaPound proprio da piazza Vittorio, una provocazione che gli organizzatori della contro-manifestazione
ritengono difficile da digerire. Numerose le iniziative volte a smascherare il tentativo leghista di accreditarsi quale unica opposizione al governo Renzi dopo essere stato al governo
nel ventennio d’oro del berlusconismo. Non solo centri sociali e movimenti antagonisti
insomma: da giorni si moltiplicano le adesioni degli artisti vicini alle ragioni dei
manifestanti. Lo scrittore Erri De Luca, il fumettista Zerocalcare, gli attori Elio Germano,
Moni Ovadia e Ascanio Celestini, così come molta parte del mondo della sinistra intellettuale, hanno appoggiato la mobilitazione. Nelle ultime ore è stato pubblicato in rete
l’appello «Contro il razzismo del terzo millennio». Scritto da artisti, insegnanti e lavoratori
della conoscenza, è rivolto al «mondo del lavoro tradizionale per costruire una grande
campagna» contro la manifestazione leghista. Anche Pasquino, la celebre «statua parlante» di Roma, in questi giorni ha ritrovato il suo antico ruolo di voce del popolo, dando
spazio al rifiuto cittadino di vedere attraversata una città da sempre insultata dal partito di
Salvini. Al di là della causa anti-razzista, sono le contraddittorie posizioni della Lega di Salvini ad unire la composita sinistra romana. Un minimo comun denominatore capace di unificarne le ragioni e i metodi, anche di piazza. In un paese senza memoria storica, sembra
davvero troppo dimenticare di colpo l’appoggio leghista all’ingresso nell’Euro,
l’approvazione della legge Biagi e della Bossi-Fini, per non parlare dei recenti scandali che
hanno coinvolto la precedente gestione del partito del nord. Un passato troppo recente per
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accreditarsi oggi a sinceri oppositori di Renzi e di Alfano, un governo per molti versi speculare agli stessi partecipati dalla Lega. Al di là dei tentativi di criminalizzazione del corteo,
a cui hanno contribuito una parte dei media nazionali, il corteo di sabato si presenta come
l’occasione per una sinistra al momento incapace di opporsi al progetto leghista di rappresentare le fasce popolari delle periferie. Un corteo che sarà importante anche sul piano
simbolico che si giocherà in quella giornata.
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WELFARE E SOCIETA’
del 25/02/15, pag. 1/22
Inquieta l’instabilità politica così come la crisi economica Stabile la
percezione della criminalità
Giù l’indice di insicurezza Italia ancora in
affanno ma ora ha meno paura
Sondaggio della Fondazione Unipolis: il Paese in ansia per il lavoro che
non c’è e le pensioni a rischio. Il terrorismo preoccupa solo 5 su 100
VLADIMIRO POLCHI
ROMA .
«Il cielo plumbeo è diventato meno grigio». Lasciata alle spalle la grande paura, il Paese si
risveglia in una «terra di mezzo», stretto tra ansie quotidiane e terrore globale. La crisi
economica allarma ancora il 67% degli italiani: molto più del terrorismo, infatti, è la perdita
del lavoro e il futuro dei figli a non far dormire i nostri concittadini. Neppure la paura della
criminalità rallenta. Ma nonostante la temperatura resti alta, la febbre del Paese pare
scendere: tutti gli indici di insicurezza calano. Insomma: toccato il fondo, si comincia a
risalire.
A fotografare le nostre ansie è l’ottavo rapporto dell’Osservatorio europeo sulla sicurezza,
realizzato da Demos e Pi e Osservatorio di Pavia per Fondazione Unipolis. Cosa emerge?
L’instabilità politica resta in testa alla graduatoria delle paure. L’entrata in scena di Renzi
l’ha attenuata, ma solo in parte: rispetto a gennaio 2014, i timori scendono dal 68 al 61%.
Nella top ten delle preoccupazioni spicca poi la paura per la distruzione dell’ambiente
(allarma il 58% degli italiani), il futuro dei figli (55%) e la sicurezza dei cibi (46%). Ma è la
dimensione economica a farla ancora da padrone, con il timore di perdere il lavoro (46%),
di non prendere più la pensione (40%) e non avere abbastanza soldi per vivere (39%) a
occupare i primi posti nella mappa delle paure. A differenza di altri Paesi, come Francia,
Gran Bretagna e Germania, il terrorismo è invece indicato tra i primi motivi di
preoccupazione solo dal 5% degli italiani.
La ripresa economica è insomma ancora un miraggio e il numero di famiglie colpite dalla
crisi resta alto: il 43% ha tra i propri familiari almeno una persona che ha cercato lavoro
senza trovarlo, il 24% qualcuno che nell’ultimo anno è stato messo in cassa integrazione,
il 28% ha tra i familiari almeno uno che ha perso il lavoro. E ancora: per otto italiani su
dieci le disuguaglianze economiche sono aumentate nel corso degli ultimi dieci anni.
Nel complesso, però, l’indice di insicurezza assoluta (che somma le tre principali facce –
globale, economica e criminale – della paura) si contrae: dopo il picco toccato nel 2012
(41%), gli italiani insicuri scendono infatti a poco più di un terzo (34%). «Il grado di
insicurezza resta molto elevato – spiega il direttore del rapporto, Ilvo Diamanti – ma si
coglie qualche segno di scongelamento del clima d’opinione. È come se nella “terra di
mezzo” dove viviamo ci fossimo abituati alle emergenze. E in una certa misura riuscissimo
ad accettarle. Insomma abbiamo imparato a cavarcela. Ci siamo adattati ai rischi».
Non è tutto. All’Italia resta il primato della sfiducia nello Stato: solo il 14% di noi si fida delle
istituzioni nazionali (il valore più basso tra Spagna, Gran Bretagna, Francia, Germania e
Polonia). Quanto alla criminalità, la paura rimane sui livelli di un anno fa (coinvolge il 44%
delle persone) e sono i furti in casa a far tremare di più gli italiani. L’86% crede inoltre che
negli ultimi 5 anni tutti i reati siano aumentati e il 48% denuncia un peggioramento nella
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propria zona di residenza. Paure in gran parte telecomandate: non è un caso se i tg
nazionali continuino ad attribuire ai fatti criminali il record dell’insicurezza (con ben il 65%
delle notizie ansiogene). «Perché la “passione criminale” – sostiene Diamanti – resta uno
specifico italiano. Anche se si è trasferita sempre più sulle reti locali: nella cronaca nera
trasmessa come un flusso continuo dai tg regionali. Un giorno dopo l’altro».
Cresce infine la diffidenza verso gli immigrati, soprattutto se d’origine araba o rom. Più di
un italiano su tre li percepisce come un pericolo per l’ordine pubblico e la sicurezza (33%).
Eppure, paradossalmente, alla paura si affianca anche un’ampia apertura sul piano dei
diritti: il 72% è favorevole allo ius soli, cioè alla cittadinanza ai figli di immigrati nati in Italia,
tanto che per la presidente della Camera, Laura Boldrini, la riforma «deve essere portata
all’attenzione dell’Aula». Non solo. Ben l’84% degli italiani farebbe entrare gli immigrati
anche nei seggi elettorali.
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DIRITTI CIVILI
del 25/02/15, pag. 45
Nel suo nuovo libro il teologo Hans Küng spiega perché difende
l’eutanasia “Non è un auto-assassinio pianificato per provocare
l’autorità ecclesiastica”
Resto cristiano anche se scelgo come morire
HANS KÜNG
«SOSTENENDO strenuamente la responsabilità personale nella morte, lei mette in
pericolo tutta la grande opera della sua vita». È più o meno così che si sono espressi molti
amici e lettori dopo la pubblicazione del terzo volume delle mie memorie, Erlebte
Menschlichkeit (“ Umanità vissuta”), nell’ottobre del 2014. Prendo molto sul serio le
obiezioni di questo tipo, ma preferirei che nella memoria dei posteri il mio ricordo non
fosse legato soprattutto al tema dell’eutanasia. In fin dei conti, la mia posizione nei
confronti della morte si può giudicare correttamente solo se si ha almeno una vaga idea
del mio interesse costante per argomenti fondamentali come la questione di Dio, l’essere
cristiani, la vita eterna, la Chiesa, l’ecumenismo, le religioni mondiali, l’etica mondiale
eccetera.
Continuo a professare la prima delle quattro “norme immutabili” dell’etica mondiale, quella
sul “dovere di una cultura del rispetto per ogni vita”, proclamata dal Parlamento delle
religioni mondiali a Chicago nel 1993: «Dalle grandi tradizioni religiose ed etiche
dell’umanità apprendiamo la norma: Non uccidere. O in forma positiva: Rispetta ogni vita.
Riflettiamo, dunque, di nuovo sulle conseguenze di questa antichissima norma: ogni uomo
ha il diritto alla vita, all’integrità fisica e al libero sviluppo della personalità, nella misura in
cui non lede i diritti di altri. Nessun uomo ha il diritto di tormentare fisicamente e
psichicamente, di ferire o addirittura uccidere un altro uomo ». Tuttavia, proprio perché «la
persona umana è infinitamente preziosa e deve essere assolutamente protetta», e questo
sino alla fine, occorre riflettere con attenzione sul significato di queste parole nell’epoca
della medicina tecnologicamente avanzata, che è in grado di provocare la morte in modo
perlopiù indolore ma, in molti casi, anche di protrarla in misura considerevole.
Qui vorrei affrontare questa problematica in tutta franchezza, senza deludere nessuno dei
tanti che nel corso dei decenni sono stati, per certi versi, ispirati dalle mie tesi. D’altro
canto, ora ricevo adesioni e conferme da persone religiose e non che mi sono grate per
aver avuto il coraggio di trattare con la competenza e l’onestà di un teologo cristiano, anzi
cattolico, la questione dell’eutanasia.
Nella vita di tutti i giorni, l’individuo può provare la piccola felicità di un istante di
soddisfazione, per esempio quella data da una parola gentile, un gesto cordiale o il
ringraziamento per una buona azione. A volte può anche conoscere la grande felicità di
un’esperienza momentanea esaltante, come il trasporto della musica, il contatto
travolgente con la natura o l’estasi dell’amore. C’è solo una cosa che l’uomo non è in
grado di fare: prolungare il buonumore. La supplica che Faust rivolge al momento del
massimo gaudio – «Fermati, sei così bello!» – non è pronunciata per caso e resta
inascoltata.
All’uomo, tuttavia, anziché una felicità perpetua, sembrerebbe possibile un’altra cosa: una
serenità di fondo stabile che gli impedisca di perdere la speranza, persino nelle situazioni
disperate, e che alimenti la sua fiducia. In altre parole, accettare, in linea di massima, la
vita così com’è, ma senza rassegnarsi a ogni cosa. Una serenità di fondo consente
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pertanto di vivere in armonia, in pace con se stessi. Mi domando allora: un simile
atteggiamento non si può conservare anche di fronte alla fragilità e alla caducità umane,
fino alla morte?
L’ ars moriendi, l’“arte di morire”, è un argomento che mi affascina sin dagli anni
Cinquanta, quando mio fratello Georg soffrì per mesi di un tumore inguaribile al cervello,
per poi morire a causa di un accumulo d’acqua nei polmoni. Si è imposta ancora di più alla
mia attenzione da quando, a partire dal 2005 circa, il mio caro collega e amico Walter Jens
ha iniziato, nonostante le migliori cure, a vegetare nella nebbia della demenza, fino a
spegnersi nel 2013. Queste esperienze hanno rafforzato la mia convinzione: non voglio
morire così! Allo stesso tempo, tuttavia, mi hanno dimostrato quanto sia difficile cogliere il
momento giusto per una morte affidata alla propria responsabilità.
L’intenzione di non protrarre a tempo indeterminato la mia esistenza terrena è un
caposaldo della mia arte del vivere e parte integrante della mia fede nella vita eterna.
Quando arriva il momento, ho il diritto, qualora ne sia ancora in grado, di scegliere con la
mia responsabilità quando e come morire. Se mi venisse concesso, vorrei spegnermi in
modo consapevole e dire addio ai miei cari con dignità. Per me, morire felici non significa
morire senza malinconia né dolore, bensì andarsene consensualmente, accompagnati da
una profonda soddisfazione e dalla pace interiore . Del resto, è questo il significato della
parola greca euthanasia , entrata in molte lingue moderne, ma storpiata vergognosamente
dai nazisti: “morte felice”, “buona”, “giusta”, “lieve”, “bella”.
Un autentico Requiescat in pace ( «Riposi in pace»), insomma. Dopo aver sistemato tutto
ciò che andava sistemato, con gratitudine e con una preghiera fiduciosa. Per me, questo
atteggiamento si fonda in ultima analisi sulla speranza di una vita eterna che è il
compimento definitivo dell’esistenza in un’altra dimensione della pace e dell’armonia,
dell’amore durevole e della felicità permanente. È questa la mia idea del morire felici, che
trae ispirazione dalla Bibbia.
Ciò dovrebbe bastare a chiarire un concetto: questa eutanasia non ha nulla a che vedere
con un “auto-assassinio” arbitrario ed empio, pianificato per provocare l’autorità
ecclesiastica, come mi accusano alcuni sia sui media sia con lettere personali.
Evidentemente, però, certi rappresentanti della “dottrina ecclesiastica”, da cui la mia
concezione si dissocia, non hanno ancora capito che anche la nostra visione dell’inizio e
della fine della vita umana si trova al centro di un mutamento di paradigma epocale, che
non si può penetrare e dominare con l’immaginario e la terminologia della teologia
medievale né con quelli della teologia ortodossoprotestante. Oggi è necessario prendere
in considerazione il notevole prolungamento della vita consentito dai progressi, prima
inimmaginabili, della medicina moderna e dell’igiene, ma bisogna tenere conto anche delle
idee successive, che sottolineano i limiti di una medicina basata su argomenti e criteri
esclusivi delle scienze naturali e della tecnica. È aumentata la percezione della necessità
di dare un fondamento etico a una medicina globale che tuteli l’umanità del paziente.
Anche nella Chiesa cattolica esiste, sin dall’insediamento di papa Francesco, la speranza
di una maggiore franchezza e di un aiuto caritatevole in questioni che, è risaputo, sono
assai complesse. Per il pontefice, il cristianesimo non è un’astratta ideologia dottrinaria,
bensì una via che si impara a conoscere percorrendola.
Traduzione di Chicca Galli
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Del 25/02/2015, pag. 11
CULTURA
Vite sessuate dietro le sbarre
Saggi. «Recluse» di Susanna Ronconi e Grazia Zuffa per Ediesse Edizioni.
Un'inchiesta sulle donne detenute. Le carceri come un’istituzione tesa a
«naturalizzare» la condizione di genere
Cristina Morini
<<e potrebbe la prigione non essere la pena per eccellenza in una società in cui la libertà
è un bene che appartiene a tutti e al quale ciascuno è legato da un sentimento universale
e costante?», si domanda Michel Foucault in Sorvegliare e punire. Dalla sua origine, tra la
fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, l’istituzione carceraria viene pensata innanzitutto
come castigo «egualitario». Questa storica vocazione del carcere all’«eguaglianza» viene
analizzata da Susanna Ronconi e Grazia Zuffa nel libro Recluse. Lo sguardo della differenza femminile sul carcere (Ediesse Edizioni, pp. 315, 16 euro. Il libro è stato presentato
ieri a Roma da Cecilia d’Elia, Mauro Palma e Stefano Anastasia), attraverso una griglia
interpretativa inconsueta, quella della differenza sessuale.
Eppure, l’impianto della macchina-prigione si configura per la perfetta assenza di «alterità», omologandosi sulla prevalenza della «questione criminale maschile» a partire da un
elemento statistico: «la maggioranza di arrestati, condannati e detenuti è di sesso
maschile» e le donne rappresentano appena il 4,3 per cento della popolazione detenuta
italiana. Popolazione «residuale», dunque, rappresentata per negazione e che fatica a trovare autonomi spazi di soggettivazione. Per altro, la depersonalizzazione e il declassamento dell’individuo attraverso la cancellazioni di diritti (alla privacy, all’affettività, alla
salute) sono parte integrante dei disegni del carcere. La sofferenza che tali trattamenti
generano si traduce spesso in fenomeni autodistruttivi.
I nessi tra il disconoscimento dei vissuti, piegati e domati, le precarietà esistenziali dei percorsi individuali e le ricadute cliniche sono evidenti, ed esplicitati dalle due autrici. Ronconi
e Zuffa muovono da una ricerca condotta nel 2013 nelle carceri di Solliciano, Empoli
e Pisa, dando voce e cioè corpo alle donne detenuti: corpi sessuati nei loro desideri
e nelle loro resistenze. La rimozione della differenza sessuale all’interno degli istituti penali
si inserisce in una schema tradizionalmente insito nella società. Ma il carcere è un microcosmo dove l’inclusione consente di amplificare modelli e simbologie parimenti neutralizzanti e naturalizzanti.
Sessualità da redimere
La principale letteratura sulla carcerazione femminile, dagli inizi del Novecento, mostra
come anche per i «riformisti» alla donna può essere riservata una punizione meno dura
a patto di sottolinearne la costitutiva dipendenza, fragilità e irrazionalità. Nel tempo,
l’apparato repressivo ha dedicato alle donne la reclusione all’interno di riformatori «a
scopo preventivo», per reati connessi alla sessualità, come la prostituzione o l’essere
madri nubili. Almeno fino alla riforma del 1975, in Italia la gestione della reclusione femminile è stata affidata alle suore con «riproposizione di ruoli femminili tradizionali e di soggezione a imperativi di tipo religioso».
Nel presente, Tamar Pitch ha ripreso il dibattito circa il modello di giustizia e di pena per le
donne, mostrando la difficoltà a uscire da una dicotomia stretta tra «la logica
dell’eguaglianza, ritagliata su una norma maschile assunta acriticamente» e la severità
della giustizia maschile, insensibile alle circostanze in cui le donne commettono reati.
La ricerca qualitativa che costituisce il cuore del testo, con 38 interviste autobiografiche,
mette a fuoco la percezione dei dispositivi di detenzione, le strategie di resistenza
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e l’immaginazione del futuro. La lettura di genere aiuta nel lavoro di scavo e risulta utile
nella decifrazione di un universo costruito sull’imposizione della «dipendenza». La donna
in carcere non può sottrarsi alla propria rappresentazione «minorata» che chiama in causa
«la natura femminile» dentro le mura. La devianza nella donna imprigionata è sintomo,
semmai, della sua debolezza, «non pericolosa ma pericolante» per usare un’efficace
immagine di Tamar Pitch. Con il rischio, scrivono Ronconi e Zuffa, che le donne «perdano
se stesse» poiché i meccanismi di infantilizzazione e passivizzazione sono meno decifrabili, mentre il paternalismo si esercita più agevolmente nei loro confronti.
Emergono, dai racconti, le difficoltà quotidiane della sopravvivenza dietro le sbarre, dentro
«la danza immobile del carcere», luogo sprovvisto di un «tempo sensato» le cui regole
disciplinano il corpo, il corpo malato che attende cura, che ha bisogno di ascolto. Si ricorre
a una gestualità quotidiana (pulire, fare ginnastica, scrivere) per difendersi dal vuoto
e dall’ansia, dall’assenza di risposte. Si rintracciano i codici di una resistenza, di una «resilienza», «per tener fede a se stesse, per non farsi invadere dall’istituzione totale», facendo
appello a «una drastica alterità rispetto a tutto ciò che il mondo carcerario significa». Ricostruire, anche, la propria identità di persona, soprattutto attraverso le relazioni, in particolare le relazioni affettive, con la famiglia d’origine e con i figli. Mantenersi dentro questa
traccia, mantenersi legate al domani attraverso gli amori, soprattutto l’amore materno, con
parole commoventi, «con tenerezza, sofferenza e concretezza». Ma questo modo di provare a vivere è, contemporaneamente, il modo di soggiacere al compito assegnato.
Patologie delle norme
La conversazione finale tra le autrici e Maria Luisa Boccia interroga il pensiero e alla pratica femminista del «fuori» come sistema utile per inquadrare il «dentro» delle donne in
carcere, mettendoli in rapporto. Nelle parole di Boccia, «il carcere può essere considerato
una sorta di laboratorio (…) un modello di controllo sociale che anticipa il modello assai
vasto di femminilizzazione della società». Un paradigma, questo, che abbiamo visto
dispiegarsi con l’ideologia neoliberale e che recupera il femminile «come un insieme di
“valori” da mettere a frutto nella società e non solo in famiglia». Nel carcere diventa un
distillato di norme che ricollocano la donna a cavallo tra il «femminile» e il patologico: «per
le donne la riabilitazione significa tornare a essere una buona madre e una buona figlia»,
dice Boccia. Fuori da qui c’è l’«anormalità», intesa come devianza da quel «femminile»
che si pretende connaturato e al quale le donne detenute vanno riportate attraverso la
«correzione» e la «riduzione a minore». «Dallo sguardo della differenza femminile», scrivono nelle conclusioni Ronconi e Zuffa, «si affaccia una riflessione che può condurre
a scelte di politica carceraria “per le donne e per gli uomini”: la “minorazione” della persona detenuta è parte integrante e necessaria della pena carceraria? Oppure rientra in
una lesione del diritto alla dignità e alla salute che eccede la privazione della libertà?». La
Corte Europea di Strasburgo ancora nel 2013 ha giudicato «inumano e degradante» il trattamento impartito nel sistema penitenziario italiano. Nel 2014 si sono avuti 43 suicidi in
cella (fonte, RistrettiOrizzonti.it). Al 30 giugno 2013 in carcere con le madri si trovavano 52
bambini sotto i tre anni (Istat).
Del 25/02/2015, pag. 16
Diritti al vaglio
Amnesty International. Il Rapporto 2014-15
Geraldina Colotti
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Diritti al vaglio in 160 capitoli-paesi. La lente è quella di Amnesty international, che ieri ha
presentato a Roma il rapporto annuale 2014–15. Il volume dal titolo La situazione dei diritti
umani nel mondo, edito da Castelvecchi, è reperibile anche in libreria. Fornisce panoramiche e previsioni dai cinque continenti e «messe in guardia sulle tendenze dei prossimi anni». Amnesty ritiene necessario un «fondamentale cambiamento d’approccio»
e perciò bacchetta «gli attori chiave a livello internazionale»: devono smetterla «di dire che
non c’è niente da fare» per affrontare i conflitti nelle loro vecchie e nuove forme, per accogliere chi fugge dalle guerre e per fermare la «minaccia rappresentata dal crescente
potere dei gruppi armati». Ormai — dice Salil Shetty, Segretario generale
dell’associazione — la situazione ha raggiunto il punto più basso, occorre un vero cambio
di indirizzo. «Da Washington a Damasco, da Abuja a Colombo, i leader di governo hanno
giustificato orrende violazioni dei diritti umani sostenendo che era necessario commetterle
in nome della sicurezza. In realtà, è semmai vero il contrario. Questo tipo di violazioni
è uno dei motivi principali per i quali oggi viviamo in un mondo tanto pericoloso. Non può
esserci sicurezza senza rispetto dei diritti umani».
Un rispetto che manca, in Italia, nei confronti di rom e migranti. I primi hanno continuato
a essere segregati a migliaia nei campi, e la discriminazionei loro confronti è tutt’altro che
diminuita. Solo a Roma sono oltre 4.000 le persone che vivono in condizioni estrema privazione e precarietà. I rom sono rimasti esclusi dall’accesso agli alloggi di edilizia popolare. Non è stata ritirata una circolare del gennaio 2013 che li discriminava al riguardo. Tuttavia a giugno — rileva il Rapporto — a seguito dell’inchiesta sulla Direttiva
sull’uguaglianza razziale, le autorità «hanno espresso l’intenzione di applicare la circolare
in modo non discriminatorio». Sempre molto allarmanti i dati sui migranti e sulle morti in
mare. Oltre 170.000 rifugiati e migranti, fra i quali più di 10.000 minori non accompagnati
sono arrivati in Italia via mare, in maggioranza provenienti dalla Libia. A fine ottobre,
l’operazione Mare Nostrum aveva salvato oltre 156.362 persone. Ma la decisione di interrompere l’operazione per avviare la Triton — di portata ben più limitata e centrata sul controllo dei confini come determina l’agenzia per la sorveglianza delle frontiere, Frontex, —
ha fatto accrescere la propabilità di altre morti in mare. E intanto — denuncia Amnesty —
non ci sono stati progressi nelle indagini sulla morte di oltre 200 persone, annegate l’11
ottobre del 2013. Allora, affondò un peschereccio che trasportava più di 400 migranti
e rifugiati siriani. E resta il sospetto di gravi ritardi nei soccorsi da parte delle autorità maltesi e italiane.
Amnesty rileva anche l’uso eccessivo della forza nell’identificazione di migranti e rifugiati,
seguita all’indirizzo del ministero dell’Interno. E torna a posare l’accento sulla condizione di
sfruttamento e violazioni a cui sono esposti i migranti senza diritti che non possono rivolgersi alla giustizia. Pollice verso per l’Italia anche sui decessi in carcere o sotto custodia
e per maltrattamenti e torture. Ancora una volta — lamenta Amnesty — «i tentativi
d’inserire il reato di tortura nella legislazione nazionale non sono andati a buon fine, perpetuando così una violazione degli obblighi dell’Italia ai sensi della Convenzione delle
Nazioni unite contro la tortura che dura da 25 anni». Nel 2014, ricorda l’associazione umanitaria, ricorrevano anche i trent’anni dall’adozione della Convenzione, per la quale Amnesty si è battuta e ha ottenuto — anche per questa battaglia — il Nobel per la pace nel
1977. Ma, dall’Africa all’Asia al Medioriente, dal Nordamerica all’America latina, i dati del
Rapporto dimostrano che il cammino è ancora lungo. E per questo Amnesty ha lanciato la
campagna globale «stop alla tortura». Il capitolo sugli Stati uniti è purtroppo sempre
ampio. Nonostante l’ammissione di Obama circa l’uso di torture in risposta agli attacchi
dell’11 settembre, non c’è stato «alcun riferimento a iniziative per accertare le responsabilità e fornire riparazione»; né il presidente ha accennato «alla sparizione forzata» utilizzata
per anni in base al programma segreto. Di torture, detenzioni arbitrarie e rigide restrizioni
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alla libertà d’espressione soffrono gli oppositori al regime in Arabia saudita e soprattutto le
donne. Le “raccomandazioni” seguite all’Esame periodico del Consiglio per i diritti umani
delle Nazioni unite sono state respinte o inascoltate, ma il regno resta al coperto delle
alleanze che contano nello scacchiere mondiale. Il Rapporto registra anche i crimini di
guerra e le violazioni commesse da Israele durante i 50 giorni di attacco alla Striscia di
Gaza. Ma la lente di Amnesty sembra appannarsi quando prende in esame la situazione
dei diritti in Venezuela. Qui, l’indagine sulle proteste violente scatenate dall’opposizione
oltranzista a febbraio del 2014 pare svolgersi a senso unico. Vengono citati due casi di vittime nel campo dei manifestanti, ma neanche una parola sulle morti e le aggressioni testimoniate nel rapporto sulle violenze e denunciate dal Comitato Vittime delle guarimbas (tecniche di guerriglia da strada che hanno provocato numerosi morti). Un capitolo che
pare assumere, invece, il punto di vista dei leader della destra golpista, che girano per le
sedi internazionali a chiedere legittimità e sanzioni.
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DONNE E DIRITTI
del 25/02/15, pag. 1/15
La direttrice del Fondo monetario “In troppi paesi le restrizioni legali
cospirano per impedirci di essere economicamente attive”
Allarme di Lagarde “Sessismo sul lavoro c’è
un complotto contro le donne”
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
FEDERICO RAMPINI
NEW YORK
UNA delle donne più potenti del mondo, Christine Lagarde, alla guida del Fondo monetario
internazionale, usa un linguaggio battagliero: «C’è una cospirazione contro le donne».
Dall’alto della più potente organizzazione economica internazionale, quell’Fmi che fa
tremare governi indebitati di mezzo mondo, la sua direttrice generale rivela un animo
femminista, più radicale di quanto si credesse. «In troppi Paesi — scrive la Lagarde nel
suo blog — le restrizioni legali cospirano contro le donne per impedirci di essere
economicamente attive. In un mondo che ha tanto bisogno di crescita, le donne possono
dare un contributo, se solo hanno di fronte a sé delle pari opportunità, invece di una
insidiosa congiura». Parole pesanti: cospirazione, congiura, che altre volte sono state
usate in ben altro contesto, e spesso a proposito dell’Fmi.
Dai paesi del Terzo mondo costretti negli anni Ottanta a digerire amare terapie di austerity,
fino alla Grecia di oggi, spesso le teorie del complotto sono state applicate proprio agli
interventi dell’Fmi. In quanto a Lagarde, che fu ministro dell’Economia in Francia sotto la
presidenza Sarkozy, deve il suo posto attuale a un’altra “presunta congiura”, quella che
secondo alcuni socialisti silurò Dominique Strauss-Kahn da quel posto. Complotti o meno,
DSK è diventato un simbolo di arroganza maschile, di sete del potere che si accompagna
ad appetiti sessuali smisurati. Lagarde ha portato nell’austera isti- tuzione di Washington
un nuovo stile, elegante e sobrio. Uno stile che include piccoli gesti simbolici, come quel
suo esibire orgogliosamente i capelli bianchissimi. Niente tinta, una donna non deve
essere schiava delle apparenze e dei diktat d’immagine.
Poche ora prima, un’altra donna, Patricia Arquette, ha pronunciato il discorso più politico
nella notte degli Oscar, in difesa di tutte le donne. Arquette ha ricevuto il premio per il suo
ruolo in Boyhood dove recita una madre single, impegnata a educare i propri figli tra mille
difficoltà, anche economiche. L’appello di Patricia è stato vibrante di passione. «Ad ogni
donna che ha partorito un figlio, a ogni mamma-contribuente, e cittadina: abbiamo lottato
per la parità di diritti di tutti gli altri. Ora tocca a noi. È ora di ottenere la parità dei salari
una volta per tutte, per le donne americane».
L’ultima uscita della Lagarde è motivata da uno studio importante. Il Fmi ha appena
sfornato un’imponente ricerca sui danni del sessismo. «In più di 40 nazioni, tra cui molte
ricche e avanzate, si perde più del 15% della ricchezza potenziale, per effetto delle
discriminazioni contro le donne», sentenzia la ricerca. Si va dal 5% di Pil “perduto” negli
Stati Uniti, al 9% in Giappone, fino a punte del 34% in Egitto. L’Italia? Si colloca in una
fascia alta... cioè arretrata. Il 15% del Pil potenziale non viene realizzato in Italia, a causa
delle discriminazioni contro le donne. Il triplo del danno economico americano, è quello
provocato dalle discriminazioni contro le italiane.
Le conclusioni dell’Fmi vengono a corroborare altri studi, tra i quali spicca il lavoro del
premio Nobel per l’economia Amartya Sen: uno dei più tenaci nel denunciare il fatto che il
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sessismo «ci impoverisce tutti». Come sostiene Lagarde, i paesi che privano le donne di
opportunità s’impoveriscono, rinunciano a dinamismo e benessere. I casi estremi sono
quelle nazioni dove legislazioni arcaiche vietano alle donne alcune professioni, le
escludono dai diritti di proprietà, subordinano le loro decisioni economiche al consenso dei
mariti o dei padri. Ma anche l’Occidente industrializzato soffre di un divario persistente.
Non abbiamo così tante donne imprenditrici o scienziate, quante potrebbero essercene se
“il campo di gioco” fosse orizzontale, livellato, uguale per tutti.
Novemila miliardi di dollari all’anno, è la ricchezza non realizzata per effetto di tutte quelle
donne e ragazze che devono accontentarsi di un piano B, di una soluzione di ripiego,
rispetto al loro talento. Paesi avanzati come gli Stati Uniti continuano a registrare un
divario retributivo sistematico: a parità di competenza e di qualifica, di mansione e di
responsabilità, una donna guadagna l’85% del suo collega maschio. Un test americano
recente ha dimostrato che il capo del personale di un’azienda, di fronte al curriculum, vitae
di due candidati, “premia” automaticamente il maschio. Lagarde oltre alla denuncia ha
fatto una previsione e un augurio: «Il 2016 sarà l’anno di una donna presidente degli Stati
Uniti». Hillary più Angela più Christine, sarebbe un G-3 capace di cambiare gli equilibri?
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BENI COMUNI/AMBIENTE
del 25/02/15, pag. 7
di Francesco Casula
COSÌ RENZI HA ASFALTATO LE POLITICHE
AMBIENTALI
TRIVELLAZIONI, LIVELLI DI SCARICHI IN MARE, NUOVI INCENERITORI
IL GOVERNO HA FATTO CARTA STRACCIA DI 20 ANNI DI BATTAGLIE
Il 2014 è stato un anno nero durante il quale ambiente, salute ed economia verde sono
state piegate alle esigenze di lobby” e “industria inquinante. Il Governo ha “messo in
ginocchio ambiente, economia verde e salute in Italia”, come hanno più volte denunciato
negli ultimi mesi i Verdi e i movimenti ambientalisti. All’indomani della sentenza Eternit che
ha dichiarato prescritto il reato di disastro ambientale e annullato i risarcimenti per le
vittime dell’amianto, nonostante i proclami del Governo non ci sono interventi legislativi in
grado di colpire realmente quanti hanno danneggiato territori, lavoratori e cittadini. Anzi il
nuovo decreto varato dall’esecutivo di Matteo Renzi ha persino depenalizzato i reati
ambientali dall’abuso edilizio all’avvelenamento del suolo e del sottosuolo, dall’incendio di
rifiuti agli scarichi industriali non autorizzati.
INQUINAMENTO LEGALE. Con il decreto Ambiente il ministro Gian Luca Galletti ha
innalzato i limiti di emissione per gli scarichi a mare di gradi industrie inquinanti
proporzionandoli ai livelli di produzione. Più sarà alta la produzione meno restrittivi
saranno i limiti. E anche nelle aree militari, come i depositi di carburante o i poligoni di tiro
come quello di Quirra dove i terreni sono altamente inquinati da Ipa, benzene, metalli
pesanti o anche da sostanze radioattive, il decreto Ambiente prevede valori limite fino a
500 volte meno restrittivi rispetto alle normative finora in vigore e facendo risparmiare così
al ministero della difesa le spese per la bonifica e il risanamento ambientale.
SILENZIO ASSENSO. Le agenzie di protezione ambientale avranno 45 giorni per
verificare l’avvenuta bonifica dei siti da parte degli inquinatori, altrimenti il silenzio assenso
garatntirà il salvacondotto legale.
ENERGIA PULITA CAMBIA VERSO. Sotto la presidenza del ministro dell’Ambiente
Galletti, l’accordo raggiunto al termine dal vertice sui cambiamenti climatici ha previsto la
riduzione del 30 percento di anidride carbonica fino al 2030: per l’ufficio europeo del Wwf
“gli sforzi iniziali dell’Europa per combattere i cambiamenti climatici e far avanzare
l’energia pulita, sono stati gettati via”. A questo si aggiunge anche il calo degli investimenti
nella green economy che, secondo quanto riportano i Verdi riportando i dati diffusi da
Bloomberg New Energy Finance, nel 2013 gli investimenti sulle rinnovabili in Italia sono
scesi da 15, 2 a 4, 3 miliardi di dollari perdendo 50 mila posti di lavoro. Il decreto Ambiente
ha inoltre messo in discussione anche grandi installazioni fotovoltaiche che avrebbero
consentito di ridurre le spese di importazione di combustibili fossili di diversi miliardi di
euro all’anno e salvare migliaia di vite umane.
CORSA A ORO NERO, CEMENTO E RIFIUTI. Con il decreto Sblocca Italia, il Governo ha
autorizzato le trivellazioni in Basilicata, nel mar di Sicilia e nello Ionio prevedendo
procedure semplificate per raddoppiare la produzione di petrolio in Italia lasciando intere
regioni nei tentacoli delle lobby petrolifere. Inoltre quasi la metà dei circa 4 miliardi
destinati alle grandi opere servirà per costruire strade e autostrade nonostante il consumo
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di suolo sia di 70 ettari al giorno: il terreno ricoperto dall’asfalto e reso fragile dal
disboscamento e dall’erosione al primo acquazzone finisce per mandarci sott’acqua o
franarci sotto i piedi. Ancora. La norma inserita nel decreto prevede un piano nazionale
per la costruzione di inceneritori e nessun piano per la raccolta differenziata, recupero e
riciclo dei rifiuti che avrebbe garantito oltre 10 mila nuovi posti di lavoro.
DEPENALIZZATI I REATI AMBIENTALI E CRESCITA SMOG. Nessun inasprimento delle
pene per colpire chi attenta all’ambiente e alla salute dato che il decreto legislativo
approvato qualche settimana fa dispone la non punibilità per i reati con pene fino a cinque
anni per “le modalità della condotta o per l’esiguità del danno o del pericolo, l’offesa è di
particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale”. Una norma che violerebbe il
dettato europeo che al contrario impone di rafforzare la tutela penale dell’ambiente,
ignorata dall’Italia che detiene già il record europeo dell’illegalità ambientale. Infine nessun
provvedimento per la lotta allo smog che provoca una danno ambientale enorme
all’economia pari a 43 miliardi di euro ovvero 2, 5 punti del Pil. Per i Verdi, come
denunciano Angelo Bonelli e Luana Zanella, coportavoci nazionali e firmatari di un
circostanziato dossier, nel 2014 la crisi economica è stata utilizzata per emanare
provvedimenti “pericolosi e aggressivi nei confronti dell’ambiente, dell’economia verde e
della salute dei cittadini. Sollecitiamo al governo – dicono Bonelli e Zanella – un radicale
cambio di rotta sulle politiche ambientali così non si aiuta l’economia e tanto meno il futuro
delle generazioni presenti e future del nostro paese”.
del 25/02/15, pag. 7
Tav, asse Renzi-Hollande
“Non ci sono più ostacoli”
Siglato l’accordo per la Torino-Lione. Sul tavolo anche Libia e Ucraina
Carlo Bertini
«Oggi grazie all’azione comune di Italia e Francia la parola crescita non è più una
parolaccia, ma l’obiettivo chiave del futuro del continente. L’economia migliora, ha smesso
piovere, ancora non c’è il sole ma vediamo le prime luci dell’arcobaleno». Matteo Renzi si
presenta in conferenza stampa al fianco di François Hollande, il suo alleato più forte nella
battaglia per la crescita economica contro il rigore cieco in Europa, dopo un summit
bilaterale tra i due Paesi: che serve a sigillare una linea comune su Libia e Ucraina e una
sventagliata di accordi su vari dossier, primo tra tutti quello sulla Tav, che per Renzi
rappresenta «un passaggio importante». Il premier annuisce mentre Hollande ne illustra i
contenuti. «Dopo 14 anni, possiamo dire che la Torino-Lione non è solo decisa ma
lanciata, la realizzazione richiederà ancora tempo ma non esiste più nessun freno e
ostacolo. È un’opera che richiederà miliardi di euro e ci aspettiamo dall’Ue il 40% dei
finanziamenti», spiega il presidente francese. Che con il premier Valls e i membri del suo
governo incontra Renzi e i suoi ministri (Boschi, Padoan, Lupi, Alfano e altri ancora). Tutti
insieme, prima della conferenza stampa finale, si ristorano con granchi agli agrumi,
formaggi francesi e babà alla frutta.
Libia e Ucraina
«La Francia sostiene gli sforzi dell’Italia affinché a livello Onu si possano trovare soluzioni
ad una situazione di caos», dice Hollande. «Bisogna trovare un accordo politico tra le varie
fazioni». E sul traffico di esseri umani «abbiamo chiesto all’Europa di rafforzare Triton e la
sorveglianza dei confini». Contando sulla sponda di Hollande, Renzi batte sul tasto che la
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Libia va considerato «una priorità dalla comunità internazionale e non un problema di un
solo paese». Punto secondo, «speriamo si arrivi a un accordo delle fazioni: la pace la
possono fare loro, le tribù. E se dovesse fallire chiederemo che l’intervento diplomatico
Onu sia ancora più forte. Oggi non è all’ordine del giorno un intervento di peacekeeping
perché mancano le condizioni, perché si fa dove la pace va mantenuta». E il filo che lega i
temi di Libia e Ucraina è legato al ruolo della Russia, dove Renzi si recherà ai primi di
marzo per parlare con Putin. «Prima si risolverà la questione Ucraina, prima sarà
importante che la Russia torni al tavolo della comunità internazionale per portare il suo
contributo a risolvere le crisi globali». E sull’Ucraina la linea è la stessa di HollandeMerkel, «affermare la validità dell’intero pacchetto del cessate fuoco con l’impegno per il
controllo delle frontiere, lo scambio di prigionieri e il rispetto della sovranità dell’Ucraina».
I colpi alla sinistra
C’è spazio infine per una serie di stoccate ad uso interno. Con Landini che parla di una
deriva anti democratica di un premier non eletto, Renzi è sprezzante. «Sulle modalità di
designazione del premier, ricordo che l’Italia è una repubblica parlamentare e che nella
discussione il soggetto in questione ha molto combattuto perché non si trasformasse in
qualcosa di diverso». Sull’abuso di decreti, «ne faremo meno se le opposizioni faranno
meno ostruzionismo». Certo «ogni polemica è rispettabile, sinistra radicale, sindacati,
Lega, Grillo, Forza Italia. Noi abbiamo il compito di portare l’Italia nel futuro e non ci
fermano polemiche e slogan».
del 25/02/15, pag. 7
di Ferruccio Sansa
Centrale di Vado, decidono gli indagati
Il destino della centrale a carbone di Vado Ligure discusso da amministratori pubblici
indagati per concorso in disastro ambientale doloso. Dall’altra parte del tavolo – o forse
sarebbe meglio dire dalla stessa – salvo imprevisti dovrebbe esserci la società Tirreno
Power che ha visto la sua centrale sequestrata e i propri manager – alcuni poi sostituiti –
indagati per lo stesso reato. Proprio uno strano vertice. Troppi indagati per far dormire
sonni tranquilli alla gente di Vado e Savona, da decenni costretta a vivere con l’incubo dei
fumi della centrale. L’appuntamento è fissato per oggi pomeriggio in via della Mercede, a
Roma. Oggetto dell’incontro: “Conciliare salute e lavoro”, dicono al Ministero
dell’Ambiente. Insomma, i limiti che l’impianto dovrà rispettare per non mettere in pericolo
la salute dei cittadini. I vincoli fissati finora hanno suscitato la reazione della Tirreno
Power. Che ha annunciato ricorsi al Tar contro l’Aia (Autorizzazione Integrata Ambientale).
Ed ecco allora che i protagonisti tornano intorno a un tavolo. In parole povere: trovare una
soluzione che vada bene alla società. Soprattutto su tre punti: i limiti delle emissioni, la
procedura di avviamento dell’impianto (la società chiede che non avvenga a metano, ma
con olio combustibile). Infine il nodo cruciale: la copertura del deposito di carbone (oggi a
cielo aperto): era prevista entro marzo, ma Tirreno Power chiede un rinvio. E proprio
questo allarma diversi dirigenti del ministero dell’Ambiente e i comitati. Che dicono: “Con il
ricatto dell’occupazione si rischia di vedere abbassati i limiti e messa a rischio la salute”.
Ma non è il solo problema. Tanti puntano il dito sulla composizione della delegazione. È
stata annunciata la presenza del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Graziano
Del Rio. Certa la partecipazione del ministro dell’Ambiente, Gian Luca Galletti. Ma poi? Il
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presidente della Regione Liguria, Claudio Burlando, e l’assessore alle Attività Produttive,
Renzo Guccinelli. E qui i comitati di Vado, Quiliano e Savona storcono il naso: come
possono due indagati per un reato così pesante discutere l’Autorizzazione Integrata
Ambientale? Non solo: l’inchiesta è ancora aperta e per le prossime settimane si
annunciano novità importanti. Si parla di intercettazioni che potrebbero rivelare un
intervento di politici di spicco in favore della centrale a carbone. I rapporti tra la politica e
l’impresa meno amata dai savonesi sono sempre stati stretti. Da destra a sinistra, da
Forza Italia al Pd, nessuno ha messo in discussione il colosso Tirreno Power che in
passsato era controllato dal Gruppo De Benedetti, imprenditore con tessera Pd e
proprietario del quotidiano Repubblica. Non solo: Tirreno Power finanziava tra l’altro
iniziative del Comune di Savona. Per anni a sollevare i problemi della salute dei cittadini si
trovavano solo comitati, movimenti e qualche partito: parte della sinistra, Verdi e M 5 S. Il
Cinque Stelle proprio ieri ha presentato un’interrogazione alla Camera. Nella perizia
richiesta dalla Procura si parla di un numero di adulti deceduti per problemi cardiaci
provocati dai fumi che varia da 250 a 340. Di morti per malattie respiratorie stimabili tra le
90 e le 100. Non solo: gli adulti costretti al ricovero dai fumi sarebbero 1. 700 per problemi
al cuore e 1. 200 per patologie respiratorie. Si è analizzata, separatamente, anche la
situazione dei bambini: da 350 a 450 sarebbero finiti in ospedale per asma o malattie
respiratorie. Un numero di morti e di malattie spesso croniche che ha portato la Procura e
gli esperti a valutare il danno a una cifra record, tra i 770 e gli 860 milioni di euro.
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INFORMAZIONE
del 25/02/15, pag. 4
Rai, Renzi punta sul ddl testo pronto tra 10
giorni Dubbi del Colle sul decreto
Scontro tra la Boldrini e il Pd. La presidente: non c’è urgenza Guerini:
non decidi tu. Il governo vuole il sì entro l’estate
GOFFREDO DE MARCHIS
ROMA .
Alla fine non sarà un decreto a cambiare la Rai. È stata una minaccia utile a smuovere le
acque ed ad accelerare i tempi, visto che a maggio scade l’attuale consiglio di
amministrazione della tv pubblica. Il governo sceglierà la via del disegno di legge e lo farà
nei tempi promessi da Matteo Renzi presentandolo entro marzo, quasi sicuramente in
occasione del consiglio dei ministri del 6.
Non sarà un decreto anche perché dal Quirinale sono filtrati i dubbi, le perplessità del
presidente Sergio Mattarella. Non ci sono i motivi di necessità e di urgenza: Viale Mazzini
non vive una crisi finanziaria e i suoi vertici possono essere prorogati di qualche mese in
modo da nominare i nuovi con criteri diversi da quelli fissati nella Gasparri. Riflessioni che
il capo dello Stato, per vie informali, ha fatto arrivare a Palazzo Chigi. Anche il premier ha
spiegato il senso dell’ipotesi- decreto: «Contro l’ostruzionismo delle opposizioni è l’unico
strumento a disposizione ». E i pericolo del percorso naturale della legge sono evidenti.
Tutte le forze politiche infatti a parole vogliono cambiare la governance del servizio
pubblico, liberarlo dai partiti e dalla lottizzazione. Insomma, modificare la Gasparri. Finora
però alla Camera è stata depositata una sola proposta di legge, firmata dal Pd Michele
Anzaldi. Niente da parte di Lega, Sel o Forza Italia. Niente da parte dei movimento 5stelle
che pure ha la presidenza della commissione di Vigilanza ed è entrato in Parlamento con
l’idea di scardinare Viale Mazzini. Come se le forze politiche in realtà fossero soddisfatte
della legge attuale. «Così sarebbe finita con la nomina dei nuovi vertici con le vecchie
regole — spiega Anzaldi — . La voce del decreto è servita a svegliare tutti».
La voce scatena comunque le reazioni. «La riforma della Rai avverrà tramite decreto se ci
sarà ostruzionismo parlamentare », dice il ministro dell’Economia Piercarlo Padoan,
azionista al 95 per cento della tv pubblica. La presidente della Camera Laura Boldrini
invece avverte: «Non c’è motivo per un decreto. Mancano i requisiti di necessità e
urgenza». Una posizione che fa alzare il muro dei renziani. Il vicesegretario Lorenzo
Guerini consiglia di rileggere la Costituzione: «Sul decreto decide solo il capo dello Stato.
La valutazione sulla necessità e urgenza di decreti legge spetta a lui e a nessun altro. Con
tutto il rispetto, la responsabilità di Laura Boldrini è oggi quella di presidente della Camera
e non di presidente della Repubblica. A chi difende la presidente suggerisce «un breve
ripasso serale di diritto costituzionale ad uso della sinistra radicale che difende la Carta ma
non la ricorda». Ernesto Carbone attacca: «Qualcuno spieghi a Laura Boldrini che é la
Presidente della Camera e quali sono le sue funzioni e le sue responsabilità». Padoan
però difende anche l’attuale vertice di Viale Mazzini. Giudica ottimo il piano per la riforma
dell’informazione varata dal direttore generale Luigi Gubitosi. Un piano che sarà all’esame
del cda Rai giovedì per essere votato entro marzo. È giallo però dentro il governo perché il
sottosegretario alle Comunicazioni Antonello Giacomelli sostiene che le dichiarazioni del
titolare di via XX settembre vanno considerate un equivoco.
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Il disegno di legge che andrà in consiglio il 6 marzo fisserà le nuove regole di nomina degli
amministratori Rai, sottraendo il controllo ai partiti e al Parlamento. Ma ci sono alcuni
puntichiave da precisare. La proposta Anzaldi per esempio affida a una Fondazione la
scelta dei consiglieri e dell’amministratore unico. Però non è facile trasferire le azioni dal
Tesoro al nuovo ente. Quindi il governo manterrà un potere di nomina diretto? Sarà questo
il terreno di scontro tra le opposizioni e Renzi? Va definita anche la divisione dei ruoli tra
presidente e consigliere delegato. È possibile che il primo abbia una ruolo più editoriale
ovvero di gestione del prodotto e il secondo si occupi maggiormente dei conti e del
coordinamento finanziario dell’azienda. Sono questi i dubbi mentre il cda sicuramente
verrà ridotto da 9 a 5 membri. Comunque il disegno di legge affronterà in maniera diretta
la sola questione della scelta dei vertici, ovvero la parte più urgente dell’intervento sulla
televisione di Stato. Ad aprile infatti il cda approverà il bilancio e scadrà un mese dopo
quel voto, a maggio. Renzi punta ad approvare la riforma entro luglio, prorogando di soli
due mesi Tarantola e Gubitosi. Un intervento sulla mission dell’azienda avverrà invece a
fine anno quando l’esecutivo interverrà sul contratto di servizio.
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SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
del 25/02/15, pag. 28
PER LA SCUOLA NON BASTA UNO SLOGAN
NADIA URBINATI
IL PRESIDENTE del Consiglio lancia l’ambizioso progetto “la buona scuola”. Lo fa alla fine
di una consultazione con i diretti interessati (alunni, docenti e famiglie) che egli stesso ha
giudicato un evento unico, non solo nel nostro Paese. In una recente puntata di
Piazzapulita si è avuto modo di capire che le cose non stanno proprio in questi termini:
l’ascolto è stato pilotato e molti temi concreti che le scuole statali hanno urgente bisogno di
discutere e risolvere non hanno avuto centralità, anche perché poco attraenti. In effetti,
parlare della mancanza cronica di carta igienica nelle scuole statali di ogni ordine e grado,
sapere che i genitori si autotassano ormai abitualmente per coprire le spese ordinarie degli
istituti frequentati dai loro figli che lo Stato non copre: tutta questa concretezza non
consente di fare spot attraenti sulla buona scuola del futuro. Tuttavia questi sono i
problemi. Che non svaniscono con gli slogan: “Sì, serve la carta igienica, ma fateci
sognare”. Semmai, si potrebbe dire al presidente Renzi che i sogni li dovrebbero poter fare
le scuole, non il governo. E vi è di che dubitare che questi provvedimenti ben propagandati
vi riescano.
Prima di tutto perché lo Stato ha dichiarato di non potere coprire le spese delle sue scuole.
È come se dicesse: non possiamo garantire i diritti civili perché non abbiamo soldi a
sufficienza per sostenere i tribunali. Non ci sono fondi a sufficienza. Ma se lo Stato (e i
suoi organi amministrativi) finanziasse solo le sue scuole, come la Costituzione gli
comanda, i soldi non sarebbero un problema così emergenziale. A fine gennaio l’Espresso
ha dedicato al depauperamento della scuola statale un’inchiesta ben fatta. Eccone il
senso: “Settecento milioni l’anno di denaro pubblico vanno ad aiutare gli istituti paritari,
mentre lo Stato non ha soldi neppure per rendere sicure le aule. Un flusso che parte dal
ministero dell’Istruzione, dalle Regioni e dai Comuni e finisce senza controlli ad enti privati
di scarsa qualità o dove i professori ricevono stipendi da fame”. Governatori e sindaci,
continua l’Espresso, alimentano un fiume carsico di denaro pubblico per le private, un
federalismo scolastico che si somma alla sovvenzione ministeriale. L’articolo 33 della
Costituzione è raggirato, e non da oggi, con l’escamotage degli aiuti alle famiglie. La
Costituzione sembra non avere forza, sembra parlare la lingua dei sogni, ma non di quelli
che piacciono a chi la dovrebbe attuare.
E il progetto detto “buona scuola” non cambia questo trend privatistico, ma lo legittima, lo
regolamenta e lo stabilizza. Lo ha confermato proprio il presidente del Consiglio in
conferenza stampa: «In futuro chiederemo autonomia anche dal punto di vista economico,
così che una parte della dichiarazione dei redditi possa andare a una singola scuola».
Ovvero, chi non ha figli si sentirà libero di non dare alcun contributo alla scuola pubblica,
trattata come la religione o i partiti politici: oggetto di libera scelta individuale. Benché la
scuola sia un bene pubblico, non privato che si può scegliere o non scegliere. La logica
che guida questo progetto è opinabile: prima di tutto perché associa la tassazione per beni
pubblici al consenso individuale — questo è esattamente quanto dagli anni Settanta sono
andati predicando i teorici liberisti; questa è stata la filosofia che ha guidato i governi
Reagan. E il reaganomics è la direzione di marcia del nostro governo sulla scuola statale.
Lo Stato si impegna a istituire e sostenere scuole di ogni ordine e grado: lo Stato, non i
singoli secondo la loro personale preferenza e decisione. È evidente che il governo cerca
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di vendere il prodotto appellandosi all’autonomia scolastica. Ma legare il destino della
scuola statale alle preferenze individuali non è una condizione di autonomia ma di
assoluta dipendenza dal privato. È stupefacente come non si crei un dibattito serio e
ragionato su temi così rilevanti, come le rivendicazioni della minoranza nel Pd non
sappiano tradursi in contro-proposte che incalzino la maggioranza con argomenti efficaci.
La dialettica sarebbe di aiuto al governo che potrebbe voler accettare la sfida della
discussione e migliorare la sua proposta. In questo momento, i cittadini restano fuori del
palazzo, inascoltati e fortemente critici. Organizzano convegni, lanciano petizioni, firmano
documenti, ma la loro voce non ha risonanza. Non hanno rappresentanti nei partiti e non
hanno nel Parlamento un interlocutore. Politica costituita e opinione dei cittadini marciano
su binari paralleli.
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CULTURA E SPETTACOLO
del 25/02/15, pag. 22
Le dimissioni di Gino Paoli: “Io una persona
perbene”
FRANCO VANNI
MILANO . «Sono certo dei miei comportamenti e di non avere commesso reati». E ancora:
«Intendo difendere la mia dignità di persona per bene». È con una breve lettera indirizzata
al Consiglio di gestione della Siae che Gino Paoli si dimette dal ruolo di presidente, che ha
ricoperto nell’ultimo anno e mezzo. Una pagina appena, letta in video-conferenza da
Genova ai consiglieri riuniti a Milano in seduta straordinaria. «Rassegno le mie dimissioni
irrevocabili scrive - con la certezza che la Siae saprà continuare la sua missione di tutela
della creatività italiana». La decisione di farsi da parte, anticipata nei giorni scorsi, segue la
notizia dell’iscrizione del cantautore genovese nel registro degli indagati a Genova per una
presunta evasione fiscale di circa 800 mila euro per il trasferimento in Svizzera di 2 milioni
di euro non dichiarati.
Paoli si fa da parte in un momento cruciale dell’inchiesta. Oggi i pm genovesi Nicola
Piacente e Silvio Franz sentiranno come teste il commercialista Andrea Vallebuona, ex
collaboratore di Giovanni Berneschi, indagato nell’inchiesta sulla maxi truffa ai danni della
banca Carige. «In questi giorni - scrive Paoli al Consiglio Siae - assisto purtroppo a
prevedibili, per quanto sommarie, strumentalizzazioni, che considero profondamente
ingiuste». E addita proprio alle “strumentalizzazioni” la decisione di aspettare qualche
giorno prima di annunciare le proprie dimissioni.
Paoli spiega poi di volersi dimettere per non coinvolgere Siae «in vicende che certamente
si chiariranno, ma che sono e devono restare estranee alla Società». E conclude: «Sono
orgoglioso dei risultati che abbiamo ottenuto insieme, per cui abbiamo combattuto fianco a
fianco in battaglie importanti, fino all'ultima in favore dei giovani autori». Il consiglio di
gestione e il dg Gaetano Blandini lo ringraziano con una nota: «Siamo certi che la
posizione di quello che per noi rimane il nostro Presidente sarà presto chiarita», si legge.
E gli si riconosce di aver avuto «coraggio e visione del futuro».
Al termine della seduta di ieri, il consigliere Federico Monti Arduini parla di «un gesto di
umiltà da parte di Gino, nell’interesse della società». Biagio Proietti si dice «shockato dalla
decisione» e per Domenico Luca Scordino «lavorare con Paoli è stato un onore».
Nessuno però in Consiglio dice di avere nemmeno preso in considerazione la possibilità di
annunciare le dimissioni collettive, che sarebbe stato l’unico vero tentativo possibile di
convincere Paoli a resistere al proprio posto. Anche i sindacati dei dipendenti sottolineano
«l’atto di coerenza » dell’ormai ex presidente. Il successore di Paoli non si conoscerà
prima di un mese, intanto sarà reggente Filippo Sugar. E proprio lui, figlio di Caterina
Caselli, è accreditato come più probabile successore, in continuità con quanto fatto finora.
del 25/02/15, pag. 46
Il Premio introduce una norma che salva gli indipendenti. De Mauro: “La
Ferrante? Secondo me è un Amico della Domenica”
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Svolta Strega piccoli editori in finale per
diritto
RAFFAELLA DE SANTIS
IL PREMIO Strega è sotto i riflettori. Ieri è stata una giornata cruciale. Su Repubblica lo ha
tirato in ballo Umberto Eco per denunciare il pericolo che muoia sotto i colpi della fusione
Mondadori-Rizzoli, a causa di mancanza di competizione: «Il massimo premio letterario
italiano (lo Strega) conta centinaia di elettori ma, ipocrisie a parte, tutti sanno che le case
editrici possono controllare consistenti pacchetti di voti». Nello stesso giorno Elena
Ferrante, rispondendo su questo giornale alla proposta di candidatura di Roberto Saviano,
ha pesantemente bistrattato la competizione definendola un “tavolo tarlato”, ma
accettando comunque di prenderne parte: «Il libro è stato pubblicato apposta perché
chiunque ne faccia l’uso e l’abuso che vuole».
Nella sua lettera, l’autrice di Storia della bambina perduta , pubblicato da E/O, dice di
mettersi in gioco per «sparigliare le carte», per «irrompere nel rito di una gara sempre più
finta».
Forse allora la sfida quest’anno sarà più aperta. Non solo perché ci sarà Elena Ferrante,
ma perché da oggi le regole cambiano. Dopo una lunga riunione, il comitato direttivo del
premio, presieduto da Tullio De Mauro, ha infatti approvato un nuovo regolamento che
facilita la vita ai piccoli e medi editori, finora fagocitati dalle strategie dei grandi gruppi
editoriali (Mondadori, Rcs, Gems, Giunti, Feltrinelli e De Agostini). Tra le norme più
significative in questa direzione ve ne sono due: una dice che la giuria dei 460 Amici della
Domenica dovrà esprimere nella prima votazione (la semifinale a casa Bellonci) la
preferenza per tre dei dodici libri in concorso, non più per uno solo. L’altra, istituisce una
“clausola di salvaguardia” per favorire la presenza nella cinquina dei semifinalisti dei
piccoli e medi editori (un segmento di mercato pari a circa il 40%). In sostanza se nella
cinquina non vi sarà almeno un piccolo e medio editore, verrà ripescato il libro escluso che
ha ottenuto il maggior numero di voti. E al Ninfeo si arriverà a disputare una finale a sei.
Non si potrà più verificare quindi una situazione come quella dello scorso anno con una
cinquina dominata dai colossi editoriali, nella quale non c’è spazio per gli altri: Elisa
Ruotolo, autrice Nottetempo, sembrava avere fino alla fine buone possibilità di farcela ma
poi era stata sconfitta per tre voti da Antonella Cilento, autrice Mondadori. Quest’anno la
Ruotolo rientrerebbe in gara. Così come nel 2013 l’avrebbe sfangata minimum fax con il
libro di Paolo Cognetti. Inoltre il comitato direttivo ha scelto di aprire la strada ai tanti autori
stranieri che pubblicano in italiano, come ora Jhumpa Lahiri. Se fino ad oggi si poteva
candidare solo la “narrativa in prosa di un autore italiano” da adesso in poi lo Strega si
apre agli “autori di narrativa che abbiano scritto in italiano”, non importa che abbiano
scritto un romanzo o una graphic novel.
Ma cosa significano questi cambiamenti? Tullio De Mauro spiega: «Supponendo che gli
Amici della Domenica, tra i quali immagino ci sia anche colui o colei che si firma Elena
Ferrante, debbano dare un voto all’editore cattivo che glielo chiede, grazie a queste nuove
regole potranno assegnare gli altri due voti seguendo il loro gusto e non le supposte
direttive editoriali ». Perché dice che Ferrante è tra gli Amici? Pensa sia un giurato? «Mi
pare che conosca molto bene il tavolo tarlato che è nel salotto di casa Bellonci – sorride –
dove in genere si svolgono le votazioni. Ne deduco che sia una persona molto attenta, che
frequenta abitualmente la Fondazione. Dubiterei però che si tratti di un maschio. In genere
noi maschi siamo poco sensibili ai dettagli: la tavola tarlata non l’avremmo notata». De
Mauro racconta che il comitato lavorava a questa piccola rivoluzione da molto tempo,
sottolineando che non si tratta di una risposta all’affaire Ferrante: «La riunione che si è
tenuta l’altro ieri era in calendario da un po’. Lo Strega ne ha viste di tutti i colori. Non è
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cambiato il regolamento per Pier Paolo Pasolini, si figuri se lo modifichiamo per
Ferrante…». Però le accuse che nella sua lettera Elena Ferrante ha rivolto al premio sono
molto pesanti, che ne pensa? «Sono le consuete accuse di ogni anno. In genere venivano
fatte dopo aver partecipato, ora è grazioso che vengano fatte prima. Non credo nelle
oscure mene. È un atteggiamento molto italiano quello di pensare che la società sia fatta
di ladri e mascalzoni ». È anche vero che quest’anno lo Strega rischiava la faccia più di
sempre. Qualora la fusione Mondadori-Rizzoli andasse in porto, si chiedeva Eco, che fine
farebbero i premi letterari? «I rischi di cui parla Eco nel suo articolo sono reali. I premi ne
risentirebbero, perché diminuirebbe ulteriormente la possibilità di scelta».
Se i piccoli potranno quindi iniziare a pensare perlomeno di rientrare in cinquina, i grandi
come reagiscono alla notizia dei cambiamenti? Ad Elisabetta Sgarbi, travolta in questi
giorni in qualità di direttore editoriale dalla vicenda di acquisto Rcs, sorge qualche dubbio:
«A volte si confonde picco- lo e medio editore con editore indipendente. E, peraltro, si può
essere medio editore, di grande blasone, anche all’interno di un gruppo editoriale
indipendente. In linea di principio, certo che si è favorevoli ai piccoli editori e alla visibilità
delle loro proposte. Ma avrei esteso la gara anche a scrittori italiani di lingua non italiana.
Ad esempio Pahor, triestino di lingua slovena». Ottimista Gianluca Foglia, direttore
editoriale Feltrinelli, che non pare impaurito: «Mi pare che queste regole vadano nella
giusta direzione. Ben vengano se servono a rendere il premio più libero e meno
prevedibile. Le valuteremo ovviamente alla prova dei fatti».
È chiaro che le regole garantiranno a Elena Ferrante di competere in un contesto meno
asfittico rispetto al passato. Mauro Covacich, in gara per Bompiani con La sposa , appare
un po’ spaesato: «Non è piacevole incarnare il Sistema corrotto dei grandi gruppi. La
competizione con Elena Ferrante sarà trasparente, sui libri. Ma se lei è invisibile, vuol dire
che anch’io potrò scegliere se partecipare o meno di persona». Antonio Pennacchi,
vincitore nel 2010 con Canale Mussolini edito da Mondadori, non vede male la candidatura
della Ferrante: «Ognuno è padrone di candidare chi gli pare, anche se invisibile. La
invidio, come invidio Salinger. Anch’io avrei voluto scrivere libri senza metterci la faccia.
Sullo Strega però la penso diversamente: ne parlano male solo quelli che non sono riusciti
a vincerlo ». Covacich chiosa ironicamente: «Curioso, una campagna all’insegna dello
smascheramento guidata da una scrittrice mascherata ».
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ECONOMIA E LAVORO
del 25/02/15, pag. 14
Il Tesoro ritiene la possibilità di trasferire almeno 100 miliardi di
sofferenze fuori dai bilanci bancari decisiva per agganciare la ripresa
Braccio di ferro Italia-Ue sul progetto bad
bank “Rischio aiuti di Stato”
FEDERICO FUBINI
ROMA .
Per il sistema Italia e le sue chance di ripresa è la partita dell’anno. Quella in cui si
misurerà la capacità dell’Italia di far pesare a Bruxelles i propri progetti e quella del
sistema bancario di accompagnare il risveglio del Paese dopo un quinquennio orribile. È la
partita della bad bank, la «banca cattiva », termine (ormai tabù nel governo) che descrive
lo strumento disegnato per assorbire almeno 100 miliardi di prestiti estesi dagli istituti a
debitori oggi in difficoltà.
È una partita delicata perché, per ora, dalla Commissione Ue sono arrivate solo obiezioni
basate sulla normativa degli aiuti di Stato: tante che l’operazione diverrebbe di fatto
impossibile, se nelle prossime settimane Bruxelles non ammorbidirà la sua posizione. Ma
è una partita che il governo capisce di dover giocare fino in fondo: senza una vera pulizia
dei bilanci bancari dai crediti deteriorati, gran parte degli istituti in Italia non sarebbe in
grado di offrire nuovi prestiti alle imprese mediopiccole, assecondarne i piani
d’investimento e permettere al Paese una ripresa in linea con il resto dell’area euro.
Non è troppo presto per provarci: in Italia sono crediti problematici ormai il 16,8% dei
prestiti bancari, almeno 333 miliardi di euro; il 30% delle imprese esposte presso le
banche è in difficoltà nell’onorare i debiti. Neanche il lentissimo Giappone attese tanto ad
attaccare il problema dopo la sua bolla di fine ‘900: il governo intervenne quando i crediti
deteriorati erano circa la metà del livello raggiunto in Italia.
Non c’è tempo da perdere e in queste settimane un gruppo di lavoro ha messo a punto i
dettagli di un «veicolo». L’idea è finalizzare tutto entro quattro settimane. A Palazzo Chigi
se ne occupa Andrea Guerra, l’ex amministratore delegato di Luxottica che da due mesi
aiuta a titolo gratuito il premier Matteo Renzi. Al ministero dell’Economia, oltre a Pier Carlo
Padoan, ci lavorano il capo-segreteria del ministro Fabrizio Pagani, il direttore generale del
Tesoro Vincenzo La Via e il dirigente Alessandro Rivera. In Banca d’Italia il vicedirettore
generale Fabio Panetta.
In alcune delle ultime riunioni, insieme o separatamente, questo gruppo ha ascoltato vari
consulenti privati: banche come Goldman Sachs, Morgan Stanley, Citigroup, Bank of
America-Merrill Lynch o Mediobanca o, per la parte legale, lo studio Chiomenti. Fra i
banchieri ascoltati spicca un nome: Simone Verri, laureato della Cattolica di Milano,
partner in Goldman Sachs e architetto del progetto di «bad bank» di Madrid che ora aiuta
la Spagna a crescere a oltre il 2% l’anno.
Non che il piano italiano abbia le stesse priorità. In Spagna si trattava di salvare il sistema
creditizio dal collasso. Qui il progetto punta a liberare i bilanci bancari, oberati ma in
aggregato non insostenibili, e creare spazio per nuovo credito alle piccole e medie
imprese. Verrebbe creata una società-veicolo con un capitale di tre miliardi di euro, i cui
soci sarebbero le banche stesse (per una quota non superiore al 19%), investitori privati
come i fondi di private equity, e lo Stato. Questo veicolo si finanzierebbe emettendo titoli
obbligazionari sul mercato fino a circa 30 miliardi e il suo debito godrebbe di una garanzia
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pubblica onerosa: in cambio di una commissione, lo Stato garantirebbe fino al 5% o al
10% delle perdite per chi compra i titoli della bad bank. Il denaro così raccolto verrebbe poi
investito per comprare portafogli di crediti deteriorati delle banche, impacchettati in modo
omogeneo. Per le banche della City, di Wall Street, o per Mediobanca, si prospetta
l’opportunità di guadagnare aiutando le banche italiane minori a confezionare in titoli
cartolarizzati i loro portafogli di crediti «cattivi» da vendere alla società-veicolo. Per le
banche italiane è l’occasione di vendere a sconto quelle posizioni, sulla base di prezzi
determinati da modelli prefissati: non così bassi che le banche rischino forti perdite,
dunque rifiutino di vendere, né gonfiati al punto che le perdite vengano scaricate sul
veicolo partecipato e garantito dallo Stato. Con una trentina miliardi, questa società
dovrebbe poter assorbire crediti deteriorati per circa 100 miliardi a valore nominale (il
valore del prestito originario).
Sono previste misure legali per facilitare l’operazione. Le banche dovrebbero poter
dedurre fiscalmente le perdite derivanti dalla svalutazione dei crediti non più su cinque
anni, come oggi, ma su due o tre: scaricare tutto su un solo anno eroderebbe troppo le
entrate fiscali. In parallelo una legge creerebbe un tribunale ad hoc, attivo per tre anni, che
acceleri pratiche legali oggi lente in maniera soffocante: le procedure fallimentari, o
l’escussione delle garanzie.
Manca solo un dettaglio: il via libera di Bruxelles, perché potenzialmente entrano in gioco
degli aiuti di Stato. I tre portavoce del commissario Ue alla Concorrenza, la danese
Margrethe Vestager, ieri non hanno risposto a una domanda in proposito. Ma i tecnici della
Commissione stanno opponendo forti obiezioni, in un confronto con Roma che una
persona coinvolta definisce «robusto»: le nuove norme europee sugli aiuti di Stato alle
banche imporrebbero che gli istituti coinvolti subiscano piani di ristrutturazione come
quello del Monte dei Paschi; in teoria, gli azionisti e certi creditori delle banche rischiano
perdite. Ce ne sarebbe abbastanza perché le banche rifiutino il progetto e salti così il
piano oggi più necessario alla ripresa. La prossima mossa, a Bruxelles, spetta con ogni
probabilità a Matteo Renzi.
del 25/02/15, pag. 9
«Euro a rischio se si insiste con queste
politiche»
Manasse: il divario su investimenti e disoccupazione tra Nord-Sud può
essere fatale
Danilo Taino
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE BERLINO La crisi greca — destinata a definire i
caratteri dell’Eurozona — sta riaprendo il dibattito (spesso uno scontro) sulle politiche
intraprese nel Vecchio Continente per rispondere alla crisi.
Paolo Manasse, professore di Macroeconomia all’università di Bologna, ha presentato due
giorni fa al parlamento europeo un’analisi di cinque anni di salvataggi e di politiche
economiche: vi sostiene che «l’approccio ha finora avuto successo nel prevenire la rottura
dell’area euro». Ma, se dal punto di vista dei bilanci pubblici il risultato è stato una
convergenza, in termini di disoccupazione, investimenti e crescita tra i membri dell’euro si
è registrata una divergenza che, «se persistesse potrebbe minare l’esistenza della moneta
unica e essere un fattore corrosivo dell’intero progetto europeo». Manasse ritiene che
l’attuale patto di Stabilità europeo sia caratterizzato da una gestione burocratica e
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centralizzata — di scuola franco tedesca — che da un lato impedisce trasferimenti di
risorse tra Paesi ma poi rende impossibile che un Paese fallisca, per cui accetta la logica
dei salvataggi: il contrario di quel che accade in quell’area monetaria funzionante che sono
gli Stati Uniti .
Il paper è interessante anche perché Manasse è considerato vicino al ministero
dell’Economia. Non che ne riporti le opinioni: spesso però i suoi lavori sono usati dal
dicastero retto da Pier Carlo Padoan come documenti di lavoro e di test. Qualche mese fa,
per esempio, uno studio del professore di Bologna sulla (non) sostenibilità del debito
pubblico italiano fu una base di notevole discussione. Anche questo paper riflette un
dibattito presente tra i decisori pubblici italiani: qualcosa che non è esattamente in linea
con il punto di vista prevalente in Germania, dove l’idea è che i problemi siano nazionali e
non risolvibili con cambiamenti a livello europeo.
Manasse nota che durante la crisi le posizioni fiscali (di bilancio) dei Paesi dell’Eurozona
sono state convergenti: dal 2007, la differenza tra i Paesi con maggiore e minore rapporto
debito/Pil è diminuita del 30 per cento. In parallelo, c’è stata però una «divergenza
economica»: i tassi di disoccupazione, che convergevano tra il 2000 e il 2007, hanno
ripreso a divergere considerevolmente; lo stesso gli investimenti, privati e pubblici; la
crescita economica, per parte sua, diverge per un certo periodo e ora sembra di nuovo
convergere. Lo studio stabilisce una correlazione tra le politiche di bilancio, che riducono
le differenze interne all’Eurozona, e i risultati divergenti nelle economie attraverso il calcolo
di una «funzione di reazione fiscale», la quale dimostrerebbe che le politiche restrittive
degli anni scorsi sono state pro-cicliche, cioè non hanno «esacerbato» le divergenze reali.
Manasse dice in sostanza che il persistere della crisi non è solo dovuto a inefficienze
nazionali ma anche alle politiche europee.
Fa una serie di proposte. Soprattutto, la sostituzione dei controlli in essere oggi, rigidi e
complicati, con un sistema lineare in cui si stabiliscono livelli di indebitamento e poi si
agisce sugli scostamenti dopo un periodo prestabilito. Un sistema di incentivi, insomma,
accompagnato dalla chiara possibilità per un Paese di fallire se non li usa. Il punto debole
del tutto è che la Germania non ne vuole sapere.
del 25/02/15, pag. 10
“Milano 2015: macché volontari, sono
sfruttati”
DOPO FRANKIE HI-NRG, INTERVIENE UN FORUM DI AVVOCATI E
SINDACALISTI: “È L’ULTIMA SPALLATA AI DIRITTI. PRONTO UN
ESPOSTO”
Dopo il rapper Frankie Hi-Nrg e i movimenti no expo, in molti si iniziano a chiedere se si
può considerare un “volontario”, alla stregua di chi assiste i bisognosi per spirito di
solidarietà, chi lavora al più grosso evento commerciale avviato in Italia negli ultimi anni.
Se lo sono chiesto ad esempio i responsabili del Forum diritti-lavoro, associazione di
giuslavoristi e sindacalisti di cui è un membro di spicco l’ex leader della Fiom Giorgio
Cremaschi. La risposta è no. L’associazione ha infatti annunciato un esposto all’ispettorato
del lavoro di Milano, contro l’accordo che ha aperto le porte dell’Expo al lavoro gratuito,
firmato nel luglio 2013 dai sindacati confederali Cgil, Cisl e Uil ed Expo spa. All’esposto
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seguiranno ulteriori iniziative quando i cosiddetti volontari inizieranno a lavorare, dal primo
maggio prossimo. È così si aggiunge un nuovo capitolo alla polemica che da mesi
imperversa attorno al volontariato di Expo, che i movimenti No Expo e la sinistra sindacale
considerano l’ultima spallata nel processo di demolizione dei diritti dei lavoratori.
I 10 MILA VOLONTARI reclutati con l’aiuto del Csv, Centro servizi per il volontariato, di
Milano (per un costo di 1, 2 milioni di euro) sono per ora l’unico dato certo sul lavoro
generato dall’evento. L’iniziativa del Forum sembra avere solide basi. Innanzitutto la legge
quadro del 1991 sul volontariato, che all’articolo due sancisce che “per attività di
volontariato deve intendersi quella prestata in modo personale, spontaneo e gratuito,
tramite l’organizzazione di cui il volontario fa parte, senza fini di lucro, anche indiretto, ed
esclusivamente per fini di solidarietà”. Così i giuristi del Forum spiegano che “Expo non
può ricorrere alle associazioni di volontariato vista l’assoluta assenza dei fini di solidarietà
imposti dalla legge, in un evento che è esclusivamente orientato a fini di lucro”. Una
visione questa non lontana da quella sostenuta pubblicamente a inizio febbraio dal rapper
italiano Frankie Hi-Nrg, che ha rinunciato al ruolo di Ambassador di Expo: “Ho sbagliato e
chiedo scusa”, ha detto alla stampa, “la direzione che ha preso Expo è diversa da quella
che avrei sperato. “Il fatto che migliaia di ragazzi vengano fatti lavorare gratuitamente
(ricevendo in cambio il privilegio di aver fatto un’esperienza…) a fronte del muro di miliardi
che l’operazione genera è una cosa indegna per un Paese che parla di impulso alla
crescita”. E, a quanto pare, il rapper non è il solo a pensarla in questo modo.
del 25/02/15, pag. 22
Diritti, la spallata arriva dal Jobs Act
Di Mario Fezzi, avvocato
Il trionfalismo con cui il premier Matteo Renzi ha annunciato i quattro provvedimenti
approvati venerdì scorso in Consiglio dei ministri sembra fuori luogo. L’abrogazione
sostanziale dell’articolo 18 (per i licenziamenti individuali e collettivi) dovrebbe garantire la
ripresa dell’occupazione e di tante nuove assunzioni. Ma perché mai? Come è dimostrato
da studi e ricerche, è solo il trend positivo economico che può fare da incentivo alla ripresa
delle assunzioni. La situazione economica in apparente ripresa dovrebbe di per sé
determinare nuove assunzioni. E a questo dovrebbe aggiungersi l’effetto positivo della
decontribuzione dei contratti a tempo indeterminato del 2015 prevista dalla legge di
Stabilità. Se ci sarà ripresa dell’occupazione, sarà dunque per effetto di questi due
fenomeni e non certo dell’eliminazione dell’articolo 18.
SUSCITA COMUNQUE perplessità il fatto che il governo non abbia voluto fare marcia
indietro almeno per quanto concerne i licenziamenti collettivi, sui quali un chiaro segnale
era arrivato dal Parlamento (per la loro eliminazione dal pacchetto che esclude l’articolo
18). Difficilmente comprensibile poi è l’altra affermazione del capo del governo secondo
cui, con il nuovo schema di decreto sul riordino delle tipologie contrattuali, si
eliminerebbero la gran parte dei contratti parasubordinati per convogliare tutti verso il
contratto a tempo indeterminato. In realtà i contratti di parasubordinazione restano tutti,
eccezion fatta per job-sharing e associazione in partecipazione, oltre ai contratti a
progetto. E non è stato minimamente toccato nemmeno il contratto a termine (riducendo,
come era stato suggerito, ad almeno 24 mesi il termine massimo di durata del contratto
privo di causale): come si pensa di portare tutti nel contratto a tempo indeterminato se si
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mantiene un contratto (quello appunto a termine) che rappresenta oggi l’ 80 per cento
delle assunzioni e che resta molto più conveniente per le imprese? Per quanto riguarda il
contratto a progetto poi, la sua abolizione, a partire dal gennaio 2016, è stata presentata
con le medesime suggestioni che avevano visto dodici anni fa, l’eliminazione dei co. co.
co. in favore dei co. co. pro. Ho sentito il presidente del Consiglio e il suo ministro del
Lavoro affermare che l’eliminazione per legge dei co. co. pro. produrrà la scomparsa delle
false collaborazioni e il mantenimento solo delle genuine collaborazioni autonome. La
stessa cosa era infatti stata affermata nel 2003, all’entrata in vigore del decreto legislativo
276 che cancellava i co. co. co: e abbiamo visto tutti come i contratti a progetto siano
diventati rapidamente un numero incalcolabile. Allo stesso modo è ampiamente
prevedibile che la cancellazione dei co. co. pro. produrrà l’obbligo per i lavoratori a
progetto di dover aprire la partita Iva per mantenere una sorta di rapporto di lavoro. A
fianco di un aumento esponenziale di nuove partite Iva, poi, si aggiungerà una
reviviscenza massiccia del lavoro nero.
TORNANDO sul contratto a termine, c’è da notare che il decreto approvato prevede che il
superamento delle soglie previste per legge o per contratto non determini la conversione
del contratto in un rapporto a a tempo indeterminato, ma venga semplicemente applicata
una sanzione amministrativa. E’ stato anche sostanzialmente riscritto l’articolo 2094 del
codice civile: dal gennaio 2016 le collaborazioni che si concretizzino in prestazioni di
lavoro esclusivamente personali, continuative, di contenuto ripetitivo e le cui modalità di
esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di
lavoro, rientrano nella disciplina del rapporto di lavoro subordinato. Ultima notazione
negativa è rappresentata dalla modifica dell’articolo 2103 del codice civile con la
previsione della possibilità per le imprese di assegnare al dipendente mansioni inferiori,
nel caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali o nelle ipotesi previste dalla
contrattazione collettiva, anche aziendale. Inoltre possono essere stipulati nelle sedi di cui
all’articolo 2113, ultimo comma, del codice civile, possono essere stipulati accordi
individuali di modifica delle mansioni e del livello di inquadramento (quindi anche oltre un
solo livello in meno) e della relativa retribuzione.
È SENZ’ALTRO VERO che venerdì 20 febbraio rimarrà una data storica, come ha detto il
capo del governo, ma soltanto per questa ulteriore, violenta, spallata ai diritti dei lavoratori.
Del 25/02/2015, pag. 2
Camusso a Renzi: “Ti allontani dalla
Costituzione”
Scontro Pd-Cgil. La numero uno del sindacato accusa il premier di "torsione
democratica" nei confronti di Parlamento e parti sociali. Poi conferma la proposta di
legge per un nuovo Statuto dei lavoratori, e non esclude un referendum. Taddei
difende il governo: "Abbiamo messo fine al precariato"
Antonio Sciotto
Torna ad infiammarsi lo scontro tra la Cgil e il governo, e tra i due contendenti RenziLandini, nonostante le frizioni di sempre, Susanna Camusso alla fine sceglie il compagno
della Fiom. La segretaria della Cgil ha rispolverato per l’occasione una formula che aveva
già esibiito al congresso di maggio, la «torsione democratica», attribuendola all’azione del
premier nei confronti del Parlamento e dei sindacati in tutta la gestione della vicenda Jobs
Act: e quindi ha sostanzialmente appoggiato la “versione Landini”, sottolineando che in
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effetti il presidente del consiglio è «distante dal dettato costituzionale». «È indubbio che
c’è una torsione rispetto al rapporto con il Parlamento e l’idea che il potere legislativo sia
tutto nel governo e non nel Parlamento», ha spiegato la numero uno della Cgil.
Tutto questo nel corso di un convegno a Roma — «The New Order — Diritti alla contrattazione nell’era del Jobs Act », organizzato dalla Filcams Cgil — iniziativa a cui era invitato
anche uno dei fedelissimi di Renzi, il responsabile economico del Pd Filippo Taddei.
E la distanza tras i due impianti, quello della Cgil e quello del Pd — come la distanza
Renzi-Costituzione imputata da Camusso — si sente tutto, già a partire dalla nozione di
“lavoratore”: «Il lavoratore è un insieme di competenze», dice Taddei. «No, è soprattutto
una persona e il problema è proprio costruire le competenze per chi è stato sempre in un
mercato del lavoro a ribasso», ribatte Camusso. Intanto la platea a tratti borbotta, in altri
momenti applaude. «La riforma del mercato del lavoro cambia il paradigma e ha l’obiettivo
di creare nuovi posti», dice Taddei subito coperto dal brusio della sala. «Non parlare della
teoria, parla delle realtà che è diversa», gli ribatte il parterre, chiedendo spiegazioni sul
regime dei licenziamenti varato anche per i lavoratori negli appalti: ovvero sul rischio che
al cambio commessa si possa perdere anche l’articolo 18, ripartendo da zero con il
contratto-“bidone” a tutele crescenti.
Taddei, da bravo politico (renziano), quindi glissa: ripete più volte, come una sorta di mantra, che «non ci si può soffermare solo sul tema dei licenziamenti, ma bisogna guardare
all’equilibrio del nuovo mercato del lavoro nel suo complesso e al passaggio da forme precarie di occupazione a rapporti con la massima possibilità di stabilità». Come si fa ad argomentare, dice ancora l’esponente Pd, «che questo è peggio e che il Jobs Act aumenta la
fragilità del lavoratore se garantisce la possibilità di maggiori tutele ai quasi 500 mila cocopro?». Senza contare «che è la prima volta che il governo vara incentivi per contratti
a tempo indeterminato di questa portata, perché questa è la sua scommessa. Capisco il
dissenso ma non si può dire che togliendo il reintegro a favore di un indennizzo si riporta
indietro il mercato del lavoro e ci si allontana dall’Europa. Dissentire va bene ma non mistificare. L’unico nemico da temere è il lavoro parasubordinato».
Lavoro parasubordinato che, tra parentesi, non sparirà affatto: è ormai più che noto infatti
che i contratti cococò sopravviveranno negli ordini professionali e nel lavoro pubblico.
E infatti Camusso replica a testa bassa, tacciando l’esecutivo di fare «propaganda»,
e negando sempre al “tutele crescenti” il suo nome originario, preferendo invece nominarlo
come «contratto a monetizzazione»: «Il nodo vero è che il governo non ha un’idea di quale
sia l’orizzonte ma ha solo una disperata voglia di propaganda per poter dire avevo
ragione», dice. «Tra 3–4 mesi infatti, ci spiegherà che i contratti a termine hanno avuto
uno straordinario successo: certo, solo che si tratterà di un cambio di nome. Laddove si
potrà, i contratti di lavoro dipendente saranno trasformati in contratti a tutele crescenti con
una riduzione di diritti. Non si tratterà quindi di nuovi posti di lavoro ma solo di una loro
sostituzione, di una creazione “al rovescio” di occupazione Senza contare — incalza la
segretaria Cgil — che le forme più odiose di precariato sono ancora tutte lì e conosceranno una crescita».
Infine la conferma che la Cgil «presenterà una proposta di legge per un nuovo Statuto dei
lavoratori», mentre il referendum «se necessario lo sosterremo anche con delle forme
abrogative». E interrogata sull’ipotesi “Landini in politica”, Camusso taglia corto: «Abbiamo
avuto una riunione, in cui abbiamo confermato l’impostazione sindacale: noi dobbiamo
fare il nostro lavoro di organizzazione sindacale e di rappresentanza dei lavoratori».
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Del 25/02/2015, pag. 4
«Partita Iva esci da questo selfie e protesta»
Quinto Stato. Venerdì 27 febbraio a Roma avvocati, freelance e precari in piazza
Cavour per un welfare più equo. «Fare coalizione» è il messaggio che sta passando
di rete in rete nelle ultime ore. Tra gli altri, parteciperanno farmacisti, ingegneri
architetti e geometri, gli studenti e le reti dello "sciopero sociale"
Roberto Ciccarelli
DAi selfie contro l’iniquità fiscale e previdenziale della Cassa Forense su twitter alla presa
di parola dal vero con tanto di megafono e smartphone in uno speakers’ corner organizzato venerdì 27 a Roma in piazza Cavour dalle nove in poi. È la breve, ma significativa,
storia della Mobilitazione generale degli avvocati (Mga) che con i social network ha rinnovato la politica forense. Ora si propone come uno degli aggregatori di una coalizione tra
i professionisti a partita Iva iscritti ad uno degli ordini professionali e i freelance che versano i contributi nella gestione separata dell’Inps.
«Fare coalizione» è il messaggio che sta passando di rete in rete nelle ultime ore. Un
messaggio che rispecchia un bisogno diffuso. Fino a ieri, a questa mobilitazione inedita
nel nostro paese, avevano aderito le professioni tecniche (ingegneri, architetti, geologi), gli
archivisti e i farmacisti, le guide turistiche, le reti dello sciopero sociale, l’associazione dei
freelance Acta, Confassociazioni, gli studenti della Rete della conoscenza, le associazioni
forensi Agifor e Adu. È prevista la partecipazione di Lazzaro Pappagallo, neo-segretario
del sindacato giornalisti di Stampa Romana. Dopo la manifestazione, durante la quale
è previsto un «tweetmob» dove verranno riproposti i selfie con il fortunato hashtag #iononmicancello, al pomeriggio è previsto un incontro programmatico tra le varie sigle all’ordine
degli architetti di Roma. «Finalmente inizia a concretizzarsi la coalizione tra le professioni
intellettuali, ordinistiche non ordinistiche, una coalizione da estendere a tutti i lavoratori
autonomi e a tutte le partite Iva – spiega il presidente di Mga, l’avvocato Cosimo Matteucci
– Chiediamo una riforma degli ammortizzatori sociali, un sistema previdenziale equo, solidale e proporzionato al reddito e l’equità fiscale. Vogliamo un sistema fiscale compatibile
con la vita. Questa è la sintesi della linea politica di tutto ciò che oggi si sta muovendo».
La spinta propulsiva degli avvocati si spiega con la drammatica riforma della professione
a cui sono stati sottoposti dal 2012. Una norma contenuta nella bozza di regolamento
emanato dal ministero della Giustizia prevede la regolarità contributiva come requisito per
la permanenza nell’albo. È una norma pericolosa per tutti, e non solo per gli avvocati.
Potrebbe essere applicata alle altre professioni. Se non si pagano i contributi previdenziali
si rischia la cancellazione dall’albo e quindi la disoccupazione. Se approvata, tale norma
metterà a rischio di espulsione almeno il 40% degli avvocati italiani che, secondo i dati
2013 della Cassa Forense guadagnano meno di 15 mila euro all’anno. Si verrà così
a creare la situazione paradossale che per fare la professione di avvocato bisognerà avere
un reddito adeguato. Potrà fare l’avvocato solo chi risponde a questo criterio di classe o ha
un genitore che esercita la sua stessa professione. Per i precari dell’avvocatura la pressione fiscale sarà sempre più insostenibile.
Nella loro condizione si riconoscono molti under 45. I geometri, ad esempio, che giovedì
26 hanno programmato un sit-in a piazza del Popolo a Roma, a 300 metri dalla loro cassa
previdenziale, la Cipag. Al presidio dei «geomobilitati» parteciperanno gli avvocati in solidarietà. Il giorno dopo, si ritroveranno allo speakers’ corner in piazza Cavour.
I promotori sottolineano che la loro non è una mobilitazione corporativa, né individuale, ma
ha un valore generale per il welfare di tutti. «L’alleanza politica dei professionisti è l’unica
via che ci potrebbe consentire di affrontare e di risolvere i problemi comuni a tutte le categorie professionali – sostiene Michele Privitera, presidente del Comitato Professioni Tecni61
che — e tra questi vi è innanzitutto l’eccessiva ed iniqua pressione fiscale e previdenziale». «L’obiettivo – sostiene Andrea Auletta, segretario del comitato professioni tecniche
— è definire un programma comune e una rete coordinata tra le professioni intellettuali,
ordinistiche e non ordinistiche, da estendere a tutti i lavoratori autonomi a partita Iva». Alla
protesta hanno aderito i farmacisti titolari di parafarmacie che «condannano la mancata
liberalizzazione dei farmaci di fascia C». Una norma rimossa dal Ddl concorrenza approvato dal governo Renzi. Per Davide Gullotta, presidente della Federazione nazionale parafarmacie italiane, «si premia il capitale posseduto e non la professionalità dei farmacisti,
men che meno il titolo di studio».A «incrociare le lotte» con i professionisti a partita Iva
venerdì in piazza Cavour ci sarà anche una delegazione dello «Sciopero sociale», interessato «ad aprire un decisivo confronto tra i freelance e i professionisti atipici e degli ordini
sull’equità fiscale e previdenziale».
Del 25/02/2015, pag. 5
Vendita di Ansaldo Breda, è allarme per il Sud
Italia
La cessione a Hitachi. "Cervelli" trasferiti al Nord e possibili tagli per le tute blu,
indotto incluso. Con un futuro che parla sempre più una sola lingua:
delocalizzazioni
Adriana Pollice
Ansaldo Breda e Sts impiegano in Italia 3.900 unità di personale più l’indotto, i due maggiori insediamenti sono a Pistoia e Napoli. Nel capoluogo partenopeo lavorano in 1.400, di
cui 800 alla produzione di vetture ferroviarie e 600 sui sistemi di segnalamento. Si tratta di
personale altamente specializzato, età media 30 anni, che segue l’intero ciclo partendo da
ricerca e sviluppo fino alla produzione, montaggio e collaudo, in Breda si fa anche manutenzione e revamping dei vagoni. «L’amministraore delegato di Finmeccanica non ha data
alcuna rassicurazione sul mantenimento dei livelli occupazionali – spiega Salvatore
Cavallo, delegato della Fiom Cgil — né sembrano intenzionati a rimanere nel capitale.
Quando la statunitense General Electric ha acquisito la francese Alstom, lo Stato ha tutelato l’interesse nazionale mantenendo il 20% delle quote. Da noi l’unica cosa che è stata
fatta è girare commesse per i prossimi due anni. Passati i 24 mesi cosa resterà? L’Hitachi
probabilmente avrà i propri progetti, sviluppati in Giappone, da far costruire e sicuramente
ci sarà qualche posto del mondo più economico di Napoli».
Persino il di solito silente assessore regionale al Lavoro, Severino Nappi, ha all’improvviso
trovato la voce e ha messo per iscritto la sua protesta: «Non trovo ragioni per festeggiare
la vendita a una multinazionale estera di due pezzi importanti dell’industria ferroviaria italiana. Fino a prova contraria, la storia delle privatizzazioni dell’industria pubblica italiana
non offre esempi confortanti. Come campano sono poi preoccupato del fatto che questa
dismissione sia avvenuta senza alcun confronto col territorio né con le istituzioni. Mi
auguro a questo punto che sia Hitachi ad avviare un confronto nel quale noi chiederemo
precise garanzie sul fatto che il nostro territorio resti non solo il luogo della produzione ma
anche e soprattutto la testa e l’anima di queste realtà». La cessione di Breda e Sts è solo
un tassello della progressiva fuga di Finmeccanica dalla Campania, dove impiega in modo
diretto circa 7 mila lavoratori più i 20 mila dell’indotto, la seconda regione dopo la Lombardia per presenza produttiva del colosso pubblico. La tendenza è quella di spostare ricerca
e sviluppo al nord e lasciare nel Mezzogiorno soltanto le produzioni, cioè la parte più sem62
plice da ridimensionare. Sulla rampa di lancio delle prossime dismissioni ci sono la Selex
di Giugliano e i 35 ingegneri della sede partenopea di Telespazio, supertecnici a cui
è stato intimato di trasferirsi a Roma per risparmiare sui costi della struttura. Il Cira, cioè il
Centro italiano ricerche aerospaziali di Capua, metterebbe a disposizione i locali ma i vertici fanno finta di non sentire.
In via di chiusura anche lo stabilimento di Capodichino di Alenia così il successore dell’Atr,
il nuovo turboprop, andrà a Torino Caselle abbandonando Napoli. In città rimarrebbe la
manutenzione degli aerei, un affare che Finmeccanica programma di dividere con Gianni
Lettieri, che ebbe l’Atitech per la cifra simbolica di 10 euro dal governo Berlusconi
e adesso si è messo in affari con il governo Renzi.
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