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Diritto
I RELITTI DELLE
NAVI DA GUERRA
STATUS E TUTELA GIURIDICA
GIUSEPPE MASETTI, FULVIA ORSINI
24 INFORMAZIONI DELLA DIFESA 5/2011
È
oggetto di dibattito internazionale il mantenimento dell’immunità sovrana1 da parte di
un nave da guerra affondata a seguito di
qualsiasi tipologia di evento. Sebbene non sia individuabile una prassi consolidata, è sufficientemente
condivisa la considerazione che le navi da guerra
affondate siano sacrari militari intangibili. Tale
considerazione non è diventata un principio dalla
Convenzione UNESCO sulla protezione del patrimonio
culturale subacqueo2 che, all’articolo 2 comma 9,
si limita a ricordare come “appropriato rispetto è
dovuto a tutti i resti umani giacenti in acque marittime”, non effettuando alcuna distinzione tra le
spoglie di militari presenti nelle navi da guerra e di
marinai su navi mercantili3.
Durante i negoziati della citata Convenzione
UNESCO, era stata avanzata la proposta di introdurre
nel testo della stessa il rispetto delle spoglie dei
militari presenti nei relitti delle navi da guerra4.
Tale proposta è stata contrastata da numerosi
Stati, principalmente africani, al fine di non effettuare
distinzioni tra le spoglie dei morti in mare, in
relazione al gran numero di schiavi morti nei viaggi
dall’Africa alle Americhe5. Nulla di maggiormente
specifico si rintraccia nella Convenzione di Montego
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In alto mare, le navi da guerra hanno completa immunità dalla
giurisdizione di qualsiasi Stato diverso da quello di bandiera.
L’immunità è, invece, parziale durante il transito nelle acque
territoriali o il soggiorno nelle acque interne (esenzione da
fermo, ispezione, tasse e applicazione di leggi straniere). Di conseguenza, a bordo delle Navi da guerra non deve essere issata
la bandiera dello Stato ospitante. Fanno eccezione sia i periodi
in cui si celebrano cerimonie locali (ad esempio, la festa nazionale), sia l’impiego su disposizione delle autorità superiori della
bandiera come forma di cortesia. L’unica misura coercitiva adottabile dallo Stato costiero nei confronti di una Nave da guerra
straniera in sosta in un proprio porto è rappresentata dall’obbligo di lasciare il porto in caso di violazioni di leggi dello Stato
costiero che abbiano ripercussioni di particolare gravità sul proprio territorio (vedi F. CAFFIO, “Glossario del diritto del mare”, supplemento alla Rivista Marittima, maggio 2007, pp. 59-61).
La Convenzione UNESCO sulla protezione del patrimonio culturale subacqueo è entrata in vigore il 2 gennaio 2009. L’Italia
l’ha ratificata con la legge n. 157 del 23 ottobre 2009.
Il testo originale recita: “States Parties shall ensure that proper
respect is given to all human remains located in maritime waters”.
UNESCO, Convention on the Protection of the Underwater Cultural Heritage. Working Procedures 34, 2 aprile 2001
UNESCO, Convention on the Protection of the Underwater Cultural Heritage. Working Procedures 58, 5 luglio 2001.
DIRITTO 25
Bay del 1982. In essa, all’articolo 303, si stabiliscono
due doveri generali da parte degli Stati rispetto a
tutti gli oggetti archeologici e storici, dovunque
vengano rinvenuti. Il primo è che gli Stati hanno
“l’obbligo di tutelare gli oggetti di carattere archeologico e storico scoperti in mare”; mentre il
secondo dovere è di cooperare a tal fine6. Inoltre,
sebbene nella Convenzione siano presenti indicazioni
in merito alle acque territoriali, alla zona contigua
e all’area degli abissi marini, è evidente la presenza
di un vuoto previsionale in merito alla piattaforma
continentale7.
Immunità sovrana dei relitti militari
Nonostante non esistano norme consuetudinarie
o trattati relativi al mantenimento dell’immunità
sovrana da parte dei relitti delle navi da guerra,
una serie di argomentazioni possono essere portate
a supporto di tale principio. Innanzitutto, va
ricordato che i suddetti relitti potrebbero contenere
documenti sensibili, sistemi d’arma o altre strumentazioni che lo Stato di bandiera non ha
interesse che vengano in possesso di altri8. In aggiunta, si può argomentare che la presenza delle
spoglie dell’equipaggio rappresenta una ulteriore
motivazione a conforto del perdurare dell’immunità
sovrana9.
È infatti opinione ampiamente diffusa che occorre
riservare particolare attenzione ai relitti delle navi
da guerra come sacrari militari marini, in quanto
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conservano le spoglie di militari morti nel servire
la patria. A supporto di tale affermazione si può
anche ricondurre quanto disposto dall’articolo 34
del Primo Protocollo delle Convenzioni di Ginevra
per le tombe di persone decedute all’estero a
causa di ostilità10. A queste considerazioni vanno
aggiunte le posizioni assunte dalla maggior parte
delle potenze marittime – passate e presenti – che
vanno nella direzione del principio secondo cui
nessuno Stato può interagire con un relitto di una
nave da guerra senza l’autorizzazione dello Stato
di bandiera.
Ad esempio, per gli Stati Uniti, tali relitti – anche
se apparentemente abbandonati – sono di proprietà
del governo e affidati in custodia all’U.S. Navy
finché non viene diversamente stabilito con un
atto del Congresso11. Inoltre, il principio di imprescrittibilità dei diritti dello Stato di bandiera è affermato anche nello Statement on United States
Policy for the protection of Sunken Warships del
19 gennaio 200112. Una particolare valutazione
che è stata svolta in merito a quest’ultimo è che
potrebbe essere inteso come uno “shot itself in the
foot”, in quanto gli Stati Uniti hanno le maggiori
capacità tecnologiche nella ricerca e nel recupero
di relitti militari di qualsiasi nazionalità13. Il principio
di immunità sovrana per i relitti di navi da guerra
è stato poi ulteriormente ribadito con il Sunken
Military Craft act del 2004. Discorso analogo viene
portato avanti dalla Francia da cui viene confermata
la tesi di “imprescriptibilité de l’immunité des
La United Nations Convention on the Law of the Sea (UNCLOS) è entrata in vigore il 16 novembre 1994. L’Italia ha ratificato la Convenzione con la legge n. 689 del 2 dicembre 1994.
Cfr. S. DROMGOOLE, “Legal protection of the underwater cultural heritage: lessons from the Titanic”, in Amicus Curiae, Issue 61,
September/October 2005, p. 18.
V. MAINETTI, Considerazioni in tema di esercizio della sovranità archeologica da parte dello Stato costiero, in G. CAMARDA ET T. SCOVAZZI, The
Protection of the Underwater Cultural Heritage. Legal Aspects, Milano, 2002, p. 239.
J.R. HARRIS, “The protection of Sunken Warships as Gravesites at Sea”, in Ocean and Coastal Law Journal, vol. 7, 2001, pp. 75-129.
Il Protocollo è stato adottato a Ginevra l’8 giugno 1977 e ratificato dall’Italia con legge n. 762 dell’11 dicembre 1985. Al comma 1 dell’articolo 34 si afferma che “I resti delle persone […] che non erano cittadini del paese nel quale sono decedute a causa delle ostilità,
debbono essere rispettati, e le tombe di tutte le dette persone saranno rispettate, curate e contrassegnate come previsto nell’articolo
130 della IV Convenzione”.
Nel sito istituzionale, si afferma che il Department of the Navy “retains custody of all of its naval vessels and aircraft, whether lost within
U.S., foreign, or international boundaries” (visita http://www.history.navy.mil/faqs/faq28-1.htm).
La parte conclusiva dello Statement contiene il seguente proposito: “The United States will use its authority to protect and preserve
sunken State craft of the United States and other nations, whether located in the waters of the United States, a foreign nation, or in international waters”.
Cfr. J.R. HARRIS, “The protection of Sunken Warships as Gravesites at Sea”, in Ocean and Coastal Law Journal, vol. 7, 2001, p. 79.
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navires d’Etat”14, così come dal Regno Unito con il
Protection of Military Remains Act del 198615. Le
suddette posizioni sono in contrasto con la Convenzione UNESCO del 2001 nelle parti in cui
prevede delle circostanze in cui lo Stato costiero
può determinare il futuro di uno State vessel senza
il parere concorde dello Stato di bandiera. Infatti,
in base al comma 3 dell’articolo 7, lo Stato costiero
“should inform” lo Stato di bandiera in merito a
relitti di quest’ultimo presenti nelle proprie acque
territoriali o arcipelagiche; mentre, se il relitto è
presente nella propria zona economica esclusivo o
sulla piattaforma continentale, lo Stato costiero
ha il diritto di scegliere se autorizzare qualsiasi
attività “directed at such heritage to prevent interference with its sovereign rights or jurisdiction”
(articolo 10 comma 2). L’applicazione dell’immunità
sovrana diventa ancora più controversa per un
relitto di epoca antica, non essendo agevole comprovare la continuità di “dominio” da parte dello
Stato di bandiera, e per una nave da guerra
affondata da meno di cento anni in acque internazionali o territoriali di un altro Stato.
Relitti di antiche navi da guerra
Un punto fondamentale da cui partire è la definizione
di “nave da guerra”. Infatti, mentre è abbastanza
semplice individuare le moderne navi da guerra,
tale operazione diventa abbastanza complessa per
imbarcazioni molto antiche come le navi vichinghe
ed i galeoni spagnoli. All’articolo 29 della Convenzione
di Montego Bay si definisce “nave da guerra” ogni
nave appartenente alle forze armate di uno Stato,
che mostra le insegne proprie di una nave da
guerra nazionale, viene comandata da “un ufficiale
di Marina al servizio dello Stato e iscritto nell’apposito
ruolo degli ufficiali” ed è munita di un equipaggio
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“sottoposto alle regole della disciplina militare”. È
difficoltoso verificare tali criteri riferendoli ai secoli
passati: ad esempio, in merito alla disciplina militare
o alla verifica della presenza, al momento dell’affondamento, del comandante sui ruoli degli ufficiali
di una data Marina. Ancora più arduo appare verificare le suddette condizioni per le imbarcazioni
impiegate anche a scopi privati prima della Dichiarazione di Parigi del 1856. Diventa, quindi,
controversa la definizione di “nave da guerra” per
le unità delle flotte impiegate dalle grandi potenze
marittime nel commercio con le colonie delle
Americhe e delle Indie Orientali16. Il tema della definizione di “nave da guerra” è stato dibattuto
anche durante i negoziati che hanno portato alla
citata Convenzione UNESCO del 2001. Per il testo
definitivo è stato deciso, al comma 8 dell’articolo
1, di stabilire come “State vessels” sia le navi da
guerra, sia ogni altri nave “owned or operated by a
State” che, al momento dell’affondamento, fossero
impiegate “only for government non-commercial
purposes, that are identified as such and that meet
the definition of under water cultural heritage”. Un
esempio della suddetta problematica è legato alle
vicende dei galeoni Juno e La Galga, rinvenuti nel
1997 dalla società di recupero statunitense Sea
Hunt Inc. e reclamati dalla Spagna. Da un lato, le
argomentazioni portate dalla società si basavano
sulle constatazioni che le navi non erano state affondate in guerra, che venivano impiegate per
trasportare tabacco, oro, posta privata e passeggeri
e che gli oggetti recuperati erano di manifattura
africana e indiana. Dall’altro, la Spagna difendeva
i propri diritti sui galeoni per l’appartenenza alla
marina militare spagnola, per l’essere al servizio
dello Stato spagnolo al momento dell’affondamento
e per l’essere mai state rimosse dal registro navale
spagnolo17. La posizione spagnola, totalmente
Cfr. la risposta all’interrogazione del deputato francese P. Lellouche del 4 aprile 1999, in Journal Officiel de la République Française, 31
maggio 1999, p. 3.261.
Inoltre gli Stati Uniti, la Francia ed il Regno Unito hanno concluso nel 1995 un accordo comune con la Germania ed il Giappone per un
“Joint Statement on Sunken State Vessels and Aircraft”.
D.J. BEDERMAN, “Rethinking the Legal Status of Sunken Warships”, in Ocean Development & International Law, n. 31/2000, pp. 98-99.
C.J. SHAPREAU, “Extension of Express Abandonment Standard for Sovereign Shipwrecks in Sea Hunt, Inc. et al., Raises Troublesome Issues
Regarding Protection of Underwater Cultural Property”, in International Journal of Cultural Property, nr. 10, 2001, pp. 276-314.
DIRITTO 27
diversa da quella sostenuta nel 1965 con gli Stati
Uniti in una situazione per alcuni versi analoga18,
ha prevalso escludendo la possibilità che privati
recuperassero i resti dei galeoni senza l’autorizzazione
dello Stato di bandiera. Sebbene tale posizione sia
condivisa da un numero crescente di Stati, non
può essere considerata un principio di diritto internazionale consuetudinario perché la sua pratica
non è uniforme da parte di tutti gli Stati e perché
spesso applicato su basi di opportunità politiche.
In merito alla mancanza di uniformità, è sufficientemente ricordare la Dichiarazione di Santo Domingo
del 1998 in base alla quale molti Stati dell’America
Latina considerano i galeoni spagnoli e di altri
Stati europei affondati nelle loro acque territoriali
come abbandonati e, quindi, sottoposti alla giurisdizione esclusiva dello Stato costiero19. Per quanto
concerne, invece, le valutazioni di opportunità politiche si può, ad esempio, ricordare l’atteggiamento
della Francia in merito al vascello Orient affondato
il 2 agosto 1798 dall’ammiraglio Nelson nella baia
egiziana di Aboukir. Il governo francese, sebbene
avesse inizialmente avanzato all’Egitto i propri
diritti sul relitto, ha in seguito desistito, ufficialmente
per mancanza di risorse finanziarie20. Una possibile
interpretazione dell’atteggiamento francese è legata
al principio di reciprocità. Infatti, tale principio,
sebbene non produca un obbligo, richiede – come
forma di cortesia – di riconoscere dei diritti analoghi
su beni di interesse archeologico dell’altro Stato
presenti nel proprio territorio21. In tale ottica, la
Francia avrebbe voluto evitare di affrontare il tema
della restituzione dei numerosi reperti archeologici
egiziani presenti nei propri musei. Un’ulteriore interessante vicenda è legata al vascello inglese
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HMS Sussex, affondato nel 1694 a seguito di una
violenta tempesta nei pressi dello Stretto di
Gibilterra. In seguito al rinvenimento di una lettera
diplomatica che attestava il trasporto di ingenti
quantitativi di preziosi, una società statunitense –
l’Odyssey Marine Exploration – ha chiesto al Regno
Unito e alla Spagna le necessarie autorizzazioni ed
ha iniziato delle ricerche su un’area di 400 miglia
quadrate. Nel 2001 il possibile relitto è stato identificato in acque internazionali su un fondale di
circa 820 metri. L’epilogo delle vicende giudiziarie
dei relitti dei galeoni Juno e La Galga hanno spinto
l’Odyssey a cercare un accordo con il governo del
Regno Unito, prima di iniziare qualsiasi operazione
di recupero. In base al Partnering Agreement Memorandum raggiunto, è stato riconosciuto al Regno
Unito il diritto di dover approvare il piano di
recupero proposto dall’Odyssey. Al contempo, è
stata prevista la vendita dei beni recuperati e la
divisione proporzionale dei ricavi. Particolare attenzione è stata riservata ad un eventuale rinvenimento di spoglie umane. Sebbene giudicato improbabile per esperienze su relitti analoghi, il rinvenimento sarà immediatamente comunicato ai
rappresentanti del Governo britannico e si cercherà
di non arrecare alcun inutile disturbo alle spoglie,
lasciandole se possibile in situ. Le fasi finali del recupero sono state sospese il 15 gennaio 2006 a
seguito dell’inasprimento dei rapporti tra la società
statunitense e le autorità spagnole e non sono
ancora riprese nonostante, con un accordo del 23
marzo 2007, la Spagna abbia ottenuto di partecipare
con propri archeologi e la raccolta di informazioni
su altri relitti presenti in area22. Ritornando
all’accordo, è di particolare interesse il dibattito
In una lettera dell’11 gennaio 1965, l’ambasciatore spagnolo presso gli Stati Uniti affermava che la Spagna non poteva avanzare alcun
diritto sui relitti dei galeoni presenti nelle acque della Florida (vedi Annexed to the decision of the Court of Appeal on the 4th Circuit
of the United States, Sea Hunt, Inc. v. Unidentified, Shipwrecked Vessel or Vessels, 221 F.3d 643, 4th Cir. 2000).
L.O. BREA-FRANCO, Informe sobre el estrado de situaciòn de salvaguardia del patrimònio cultural subacuatico, in UNESCO, Background
Materials on the Protection of the Underwater Cultural Heritage, vol. II, Paris, 2000, p. 508.
P. JARNAC, Plongées parmi les épaves, Paris, Ed. France Empir, 1981, p. 158; J.P. LAROCHE DE ROUSSANE, Des épaves chargées d’histoire, in INDEMER, Annuaire de droit de la mer, 1998, vol. 3, p. 553.
Il principio di reciprocità è stato implicitamente applicato tra Francia e Stati Uniti con due distinti accordi bilaterali: nel 1995, in merito
al relitto francese del vascello La Belle affondato in acque territoriali texane nel 1686, e nel 2003, sul relitto della nave confederata CSS
Alabama scoperta nel 1995 in acque francesi.
Dal sito dell’Odyssey: “due to interference by various Spanish entities Odyssey has postponed further work on the project to allow diplomatic
issues to be resolved” (12 aprile 2010, http://shipwreck.net/hmssussex.php).
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In apertura: Nave da guerra giapponese classe Yamato affondata l'8 aprile 1945
Sopra: La Thistlegorm, nave mercantile britannica affondata il 5 ottobre 1941 nel Mar Rosso
sorto in merito alla sua legittimità in quanto viola
la regola 2 dell’annesso della Convenzione UNESCO
del 2001 (che il Regno Unito ha, all’epoca, approvato
per consensus) poiché prevede la commercializzazione dei beni archeologici23. Non è quindi casuale
che, nel Project Plan dell’Odyssey, non è citata in
alcun modo la Convenzione UNESCO. In tale
quadro, è giusto ricordare come l’approccio della
Convenzione UNESCO sia spesso criticato in quanto
non incoraggia il finanziamento delle operazioni
di recupero da parte di privati24.
Navi da guerra affondate da meno di
cento anni
Alle navi da guerra affondate da meno di un
secolo non può essere applicata la Convenzione
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UNESCO del 2001 in quanto, in base all’articolo 1,
è valida soltanto per “all traces of human existence
having a cultural, historical or archaeological character” che siano rimaste sottacqua, totalmente o
parzialmente, con continuità o periodicamente,
per almeno 100 anni. In tali casi, gli Stati fanno
spesso ricorso ad accordi bilaterali da cui lo Stato
costiero e quello di bandiera possano ricavare dei
vantaggi.
Alcuni esempi in tal senso sono l’accordo del 1989
tra Regno Unito e Sud Africa su una nave da
guerra britannica, l’HMS Birkenhead, affondata in
acque sudafricane25; l’accordo del 1997 tra Regno
Unito e Canada in merito ad HMS Erebus e HMS
Terror (due navi da guerra affondate, ma non localizzate in acque canadesi)26; oppure i contatti
avviati dall’Australia con la Turchia per un sotto-
Vedi R. GARABELLO, Sunken Warships in the Mediterranean, in T. SCOVAZZI, La protezione del patrimonio culturale sottomarino nel Mare
Mediterraneo, Milano, Giuffrè Editore, 2004, p. 192-195.
D.J. BEDERMAN, “The UNESCO Draft Convention on Underwater Cultural Heritage: A Critique and Counter-Proposal”, in Journal of Maritime
Law and Commerce, 1999, p. 353.
Vedi Exchange of Notes between South Africa and the United Kingdom Concerning the Regulation of the Terms of Settlement of the Salvaging of the Wreck of HMS Birkenhead, Pretoria, 22 September 1989, in International Journal of Estuarine and Coastal Law, 1990, p.
405; M. MATERA, Due accordi relative a navi di Stato britanniche, in G. CAMARDA, T. SCOVAZZI, The Protection of the Underwater Cultural Heritage. Legal Aspects, Milano, Giuffré Editore, 2002, p. 63.
Vedi R. GARABELLO, Sunken Warships in the Mediterranean, in T. SCOVAZZI, La protezione del patrimonio culturale sottomarino nel Mare
Mediterraneo, Milano, Giuffrè Editore, 2004, p. 178.
DIRITTO 29
marino australiano affondato in Turchia nel corso
della prima guerra mondiale27. Uno dei primi
esempi di tale pratica è l’accordo concluso il 6 novembre 1952 tra l’Italia ed il Regno Unito in
merito al relitto della HMS Spartan, unità da
guerra inglese affondata in acque italiane. In base
all’accordo bilaterale siglato, la metà dei ricavi ottenuti dalla vendita delle parti recuperate sarebbero
andati al governo britannico; quest’ultimo sarebbero
stato esonerato da ogni responsabilità collegata al
relitto; ogni documento, cifrante, denaro o eventuali
spoglie di cittadini britannici rinvenute sarebbero
stati restituiti all’ambasciata britannica28.
Pertanto, con tale accordo, l’Italia ha riconosciuto
al Regno Unito l’immunità sovrana e la proprietà
del relitto della HMS Spartan. Inoltre, lo stesso accordo contiene anche delle previsioni per il futuro:
la notifica da parte del Regno Unito al governo
italiano dei relitti militari inglesi presenti nelle
acque territoriali italiane; nel caso tali relitti fossero
giudicati da rimuovere da parte dell’Italia, il dovere
di quest’ultima di informare il governo britannico
per successivi accordi nel caso in cui quest’ultimo
valutasse di procedere in prima persona al recupero.
Una vicenda in cui l’immunità sovrana è stata
invece riconosciuta ad un relitto italiano è legata
al sommergibile Sciré, affondato il 10 agosto 1942
dalla Marina britannica a largo del porto di Haifa
su fondali di circa 30 metri.
Nell’affondamento persero la vita i sessanta membri
dell’equipaggio e soltanto le spoglie di due di essi
furono portate a riva per essere sepolte ad Haifa
(e, successivamente, restituite all’Italia nel 1984).
Alcuni anni dopo l’affondamento, il relitto è stato
identificato da un ricercatore israeliano a circa 9
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chilometri dalla costa. Del ritrovamento è stato
informato il governo italiano che ha organizzato
tre spedizioni sul relitto (1960, 1963 e 1984). Nel
corso dell’ultima spedizione, la nave Anteo della
Marina Militare italiana ha recuperato le salme di
parte dell’equipaggio e frammenti del relitto29.
Inoltre, ha provveduto a sbarrarne i portelloni per
impedire che il relitto, a tutti gli effetti un sacrario
militare marino, potesse essere facilmente accessibile.
In tutta la vicenda il governo israeliano non ha
soltanto riconosciuto all’Italia l’immunità sovrana,
ma l’ha anche stimolata ad assumere decisioni per
il recupero dei resti umani che erano ancora nello
scafo, opponendosi a ogni iniziativa di privati.
Purtroppo, nel settembre del 2002, nel corso di
un’esercitazione congiunta tra le marine statunitensi
e israeliane, la nave da guerra U.S. Apache è
venuta in contatto con il relitto del sommergibile,
danneggiandolo e riaprendone in parte gli ingressi.
La gravità dell’episodio è stata acuita dalla presenza
delle spoglie ancora presenti nel relitto ed ha
portato alla presentazioni di scuse ufficiali all’Italia
da parte del governo israeliano30.
Nell’ambito del diritto internazionale, questo spiacevole episodio è stato oggetto di deplorazione in
quanto il comportamento della nave statunitense
è totalmente incompatibile con le dichiarazioni rilasciate con citato Statement on United States
Policy for the Protection of Sunken Warships31. Tale
episodio richiama alla memoria un altro accaduto
nel 1974, quando gli Stati Uniti hanno proceduto
al recupero parziale di un sommergibile sovietico
affondato a circa 750 miglia a nord-ovest dell’arcipelago delle Hawaii. Le operazioni di recupero,
nell’ambito del “Progetto Jennifer”, sono state
Vedi COMMONWEALTH OF AUSTRALIA, Diplomatic Note to the Embassy of the Republic of Turkey, 23 may 1996.
Vedi United Nations Treaty Series, 1953, p. 432, n. 2076.
Per lo Scirè una messa in mare. Recuperati i resti di 22 marinai, in La Repubblica, 19 settembre 1984, p. 10. La decisione di intervenire
sullo Scirè è diverso dall’atteggiamento assunto dal governo italiano in merito al sommergibile Nereide affondato nei pressi dell’Isola
di Pelagosa (Croazia) il 5 agosto 1915. Infatti, il relitto venne recuperato, nel gennaio del 1972, dal governo jugoslavo a seguito di
svariate richieste inoltrate dal nostro Ministero degli Esteri.
E. FRANCESCHINI, Manovre militari Israele-USA, profanato il relitto dello Scirè, in La Repubblica, 2 ottobre 2002, p. 20; Il 4 novembre commemorazione sommergibile Scirè, ANSA news, 3 ottobre 2002; Danni allo Scirè. Israele chiede scusa, in La Repubblica, 3 ottobre 2002,
p. 17; Il sommergibile Scirè ripulito e sigillato, in La Repubblica, 4 novembre 2002, p. 18.
Cfr. R. GARABELLO, Sunken Warships in the Mediterranean, in T. SCOVAZZI, La protezione del patrimonio culturale sottomarino nel Mare Mediterraneo, Milano, Giuffrè Editore, 2004, p. 188.
30 INFORMAZIONI DELLA DIFESA 5/2011
eseguite soltanto 7 anni dopo che il sottomarino
era stato riportato come affondato dall’Unione
Sovietica. È evidente che, in tale occasione, gli
Stati Uniti non hanno riconosciuto l’immunità sovrana sul relitto del sommergibile sovietico, nonostante non ci fosse alcun atto di esplicito abbandono
dello stesso e che le operazioni di recupero abbiano
provocato le proteste da parte dell’Unione Sovietica32.
Monitoraggio dei rischi ambientali
marini
In merito ai relitti di navi da guerra moderne, va
anche opportunamente valutato il rischio ambientale
correlato. Infatti, qualsiasi relitto moderno, indipendentemente dal carico trasportato, rappresenta
una potenziale sorgente di inquinamento a causa
degli elementi pericolosi e tossici (combustibile,
olio lubrificante, pittura antifouling) in esso
contenuti. Il livello di minaccia è funzione della
quantità e della tipologia di tali elementi, ma
anche dello stato di conservazione del relitto33.
Sebbene la letteratura tecnica e l’esperienza non
forniscano accurate indicazioni sulle tempistiche
dei processi corrosivi strutturali dei relitti, l’attuale
interesse della comunità marittima internazione
per la loro bonifica deriva da recenti rilasci di idrocarburi da navi affondate nel corso della Seconda
Guerra Mondiale.
Ad ogni modo, si può stimare che l’intervallo di
tempo compreso tra i 40 ed i 100 anni rappresenta
il periodo più probabile in cui possano verificarsi
cedimenti e collassi strutturali di relitti di navi costruite nel secolo scorso. Appare quindi evidente
la necessità di una rinnovata attenzione a livello
internazionale per la raccolta di tutti gli elementi
necessari alla valutazione dei rischi ambientali
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connessi a tali relitti per una loro eventuale bonifica34.
Da quanto appena esposto, emerge l’assenza di
necessità di effettuare il recupero parziale o totale
dei relitti delle navi militari qualora non costituiscano
un concreto pericolo per la sicurezza ambientale e
della navigazione, anche in considerazione che la
conservazione e la protezione in situ rappresenta
l’indicazione che emerge dalla Convenzione UNESCO
del 2001. Partendo da tale presupposto, emerge la
necessità che ogni Stato costiero provveda ad una
capillare e sistematica individuazione dei relitti di
navi da guerra, presenti nelle proprie acque
territoriali, effettuando una contestuale e periodica
valutazione del loro stato di conservazione.
Per quanto riguarda le acque internazionali, una
possibile soluzione potrebbe essere il raggiungimento
di accordi interstatali o la conclusione di trattati
regionali volti ai medesimi scopi. Ciò anche al fine
di evitare che sacrari militari marini, in qualsiasi
zona del mare giacciono, vengano profanati da
subacquei amatoriali e da “cercatori di tesori sommersi”.
Non va, allo stesso tempo, trascurato il difficile
equilibrio che si può delineare tra la volontà da
parte dello Stato di bandiera di conservare in situ
il relitto come sacrario militare marino e la necessità
dello Stato costiero di intervenire sullo stesso per
la messa in sicurezza dal punto di vista dei rischi
ambientali. In merito, sebbene occorra effettuare
la considerazione che ogni relitto è destinato col
tempo al collasso strutturale, è altamente probabile
che nel giro di qualche decennio i progressi della
tecnica permetteranno di intervenire in maniera
appropriata sugli stessi, al fine di permettere una
adeguata bonifica ambientale ed evitare, allo
stesso tempo, che l’oblio della storia cada per
sempre sugli stessi.

D.J. BEDERMAN, “Rethinking the Legal Status of Sunken Warships”, citato, pp. 100-101.
G. MASETTI, F. ORSINI, “Environmental Risks Monitoring of Shipwrecks in Italian Seas”, in International Hydrographic Review, November
2009, pp. 52-60.
Cfr. R. MONFILS, The Global Risk of Marine Pollution from WWII Shipwrecks: Examples from the Seven Seas, Miami, International Oil Spill
Conference, 2005; C.R. PETERSEN, A Proposed Annex to the Wreck Removal Convention Treaty to Address Environmental Hazards of Sunken
World War II Naval Vessels, Denver, Master of Environmental Policy and Management, 2007.
G. MASETTI, F. ORSINI, “Gazzetta Ambiente
DIRITTO 31