UMANIZZAZIONE DELLE CURE E RESPONSABILITÀ

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UMANIZZAZIONE DELLE CURE E RESPONSABILITÀ
UMANIZZAZIONE DELLE CURE E RESPONSABILITÀ
ORGANIZZATIVA
Una connotazione profondamente negativa, malgrado l’intenzione di chi la usa, ha il
ricorso alla categoria di “umanizzazione”, come correttivo proposto per riportare la
pratica medica alla sua ispirazione originaria, si rivela una scelta infelice. Chi la usa
ha per lo più intenzioni lodevoli: vuol conferire alla medicina una carica ideale. Ma
l’esito tradisce le intenzioni. Quando i sanitari si sentono oggetto di campagne di
“umanizzazione” o “riumanizzazione” della medicina (o espressioni equivalenti,
come l’auspicio di avere “ospedali più umani”…), non possono che sentir aleggiare
l’accusa implicita di disumanità. La risposta, psicologicamente comprensibile, non
può essere altro che di ostilità e chiusura a simili progetti. Il termine “umanizzazione”
fa aleggiare su di essi un alone moralistico.
L’esortazione a “umanizzare” le cure rivolte ai malati viene intesa per lo più come un
invito ai sanitari a considerare i malati nella loro condizione di fragilità. Il movimento
di “umanizzazione” della medicina si è fatto portavoce in Italia soprattutto di
iniziative
provenienti
dall’ambito
religioso. Ordini
ospedalieri
-
come
i
Fatebenefratelli, i Camilliani - hanno assunto un ruolo da protagonisti nel denunciare
una perdita di anima da parte dei professionisti nella pratica quotidiana della
medicina. L’attenzione a eliminare i comportamenti dei sanitari che violano i diritti e
la dignità delle persone e sono incompatibili con il rispetto del malato quale cittadino
è solo il presupposto di quanto è richiesto dal programma di “umanizzazione”. Il vero
obiettivo del movimento che fa appello alle medical humanities può essere definito
con una formula che risale al medico-filosofo tedesco Viktor von Weizsäcker:
“reintrodurre il soggetto in medicina”. L’analisi dei mali della medicina, vista dalla
realtà europea, è sovrapponibile a quella che aveva indotto negli anni ’60 il gruppo
di ecclesiastici e cappellani universitari americani a fondare la “Society for Health
and Human Values”, che ha svolto un ruolo così importante per la diffusione delle
medical humanities in America. Ma la terapia proposta dal movimento italiano per
l’umanizzazione della medicina ha preso la china della “predicazione” piuttosto che
quello della cultura, traducendosi in un invito rivolto ai sanitari a riscoprire
motivazioni e orientamenti interiori di natura oblativa e filantropica.
Il fascino che esercita il richiamo all’umanizzazione della medicina travalica gli
ambienti religiosi. È recente la costituzione di un’associazione culturale, che fa centro
presso la facoltà di medicina dell’Università di Bologna, che ha promosso la nascita
di un “Movimento per l’Umanizzazione della Medicina”. Leggiamo dal suo
manifesto di fondazione, che si propone la creazione di “Comitati apolitici e non
violenti per l’Umanizzazione della Medicina”:
L’offesa e l’umiliazione del malato che l’incerto potere medico non riesce a combattere
efficacemente, perché quasi mai guarisce definitivamente, si possono contrastare solo se
anche la Medicina (come alcune Religioni e alcune Filosofie) darà alla persona offesa e
all’umanità umiliata del malato un valore superiore sia alla persona e all’umanità del
sano che alla medicina stessa […].
Per cambiare questa tragica situazione non resta che promuovere la nascita di un
Movimento per l’Umanizzazione della Medicina (M.U.M.) con tre semplici scopi
generali:
I.
Far sì che la superiorità morale del malato venga riconosciuta anche dal malato
stesso, ponendo al centro dell’aiuto medico il ripristino della dignità della
persona malata e dell’uomo malato, anche quando (e soprattutto quando) non sia
possibile conseguire questo obiettivo attraverso la guarigione;
II.
Far sì che la formazione del medico non sia più prevalentemente ed
esclusivamente tecnica e che il medico non venga più ricattato economicamente,
ma venga finalmente educato a diventare ciò che è sempre stato e ha voluto
essere nella sua vocazione più autentica e più nobile, il tutore della vita e della
dignità della persona malata e dell’uomo malato, a dispetto di ogni compatibilità
economica e contro ogni potere;
III.
Far sì che coloro che momentaneamente sono sani acquisiscano la consapevolezza
che all’offesa e all’umiliazione della malattia che prima o dopo tutti
incontreranno si possono opporre difese più efficaci delle tecnologie mediche: la
condivisione collettiva del principio morale che chi soffre “vale moralmente di
più” di chi non soffre e la responsabilità di un medico capace di un atto tecnico
non autosufficiente ma sempre al servizio della persona e dell’umanità del
malato.
L’appello alla “umanizzazione” della pratica medica, tanto che provenga da ambienti
religiosi, tanto sostenuto da motivazioni secolari, ha un valore riconducibile alla
moral suasion. Si rivolge al cuore degli operatori sanitari, vuol modificare i
comportamenti con la forza dell’empatia. Più che un’affinità con l’etica, vi
ravvisiamo una somiglianza con la “parenetica”, che per gli stoici costituiva la parte
della filosofia morale rivolta a fornire precetti pratici per la condotta della vita nelle
varie circostanze. Questa concettualizzazione non ha valore svalutativo: di calde
esortazioni abbiamo e avremo sempre tutti bisogno! Ma la prevedibile reazione
negativa dei professionisti che si sentono invitati a “umanizzarsi” ci induce a evitare
questa terminologia: un percorso molto più proficuo è quello che, invece di
accentuare la condizione di fragilità del malato, ne mette in evidenza i diritti che
derivano dall’essere cittadino. Questo approccio non è improvvisato: in Italia ha già
una trentina d’anni. Nel periodo in cui in Italia l’organizzazione sanitaria stava
facendo quel passo decisivo che avrebbe portato alla creazione del Servizio Sanitario
Nazionale (23 dicembre 1978), un progressivo degrado dei rapporti tra operatori
sanitari e malati affliggeva la pratica quotidiana della medicina. Si tratta di problemi
che non emergono finché non si descrive il vissuto della malattia dal punto di vista
del malato stesso. Un brillante giornalista, Vittorio Gorresio, annunciava
pubblicamente nella rubrica che teneva sul giornale La Stampa che stava per
affrontare a Zurigo un intervento operatorio per un carcinoma alla mascella. Pochi
mesi dopo rendeva un dettagliato resoconto della sua vicenda nel libro Costellazione
cancro (1975). Stabiliva impietosi confronti tra la situazione della sanità italiana e
quella svizzera e segnalava i frequenti viaggi della speranza che portavano gli italiani
a cercare all’estero quello che non trovavano in patria. Tra le cause del degrado
segnalava l’atteggiamento fatalista che faceva accettare come inevitabile il
malfunzionamento delle strutture (l’oscar del fatalismo Gorresio lo attribuisce a un
ex sindaco di Napoli, che reagiva al colera del 1973 dichiarando: “È una maledizione
naturale e come tale da accettare. È la volontà di Dio, insomma, e noi cristiani non
possiamo che chinare il capo. Il Dio, del resto, ha dimostrato di non volere tanto male
ai napoletani, tanto è vero che ha fatto piovere per due giorni. Una bella lavata su
tutta la città, che chissà quante vite umane ha salvato”). Il libro equivaleva a un
reagire all’immobilismo e a modificare le disfunzioni del sistema delle cure che
gravano sui malati.
Un forte impatto sull’opinione pubblica esercitò il giornalista Gigi Ghirotti, che con
interventi televisivi prima e con un libro poi (Il lungo viaggio nel tunnel della
malattia, ed. Gluckman), ruppe la consegna del silenzio che gravava sul malato per
descrivere la spersonalizzazione operata dal modo abituale di erogare le cure. Ghirotti
è deceduto nel 1974, ma la sua voce non si è spenta: nel 1975, alcuni mesi dopo la
morte del giornalista, si costituiva l’Associazione Gigi Ghirotti, con lo scopo di
continuare a mantenere vivo l’impegno a favore del miglioramento della qualità di
vita dei malati. L’Associazione, diffusa attualmente in diverse città italiane, ha
portato un contributo decisivo nel modificare la pratica dell’assistenza ai malati
bisognosi di cure palliative, nella fase della malattia che va verso la morte.
Nello stesso periodo di tempo un’altra iniziativa si è dimostrata di durevole impatto
nei confronti del modo di erogare cure mediche: la creazione dei Tribunali per i diritti
del malato. Anche in questo caso un libro ha avuto la capacità coagulare l’attenzione
sulla condizione concreta del malato. Pubblicato per la prima volta nel 1978, L’uomo
negato, di Giancarlo Quaranta (ed. Effedierre, Roma; successivamente ripubblicato
con lo stesso titolo da Nuova Guaraldi, Firenze 1980 e da FrancoAngeli, Milano
1982, con una seconda parte dedicata ai Tribunali per i diritti del malato) analizzava
come le procedure terapeutiche alle quali viene sottoposto il malato si risolvono in
un’opera di devastazione dell’identità del malato. Questi, inspiegabilmente, da
soggetto diventa oggetto:
Dal momento in cui una struttura sanitaria mi accoglie tra le sue braccia, certamente per
tentare di guarirmi, succede che, senza che nessuno lo voglia, senza che ci siano cattive
volontà, il mio lavoro, la mia cultura, il mio stesso corpo, per quello che la malattia me
ne lascia, i miei desideri, le mie idee, i miei diritti, i miei affetti non contano più e
svaniscono nel nulla. Mi è difficile anche tenermi legato ad alcune piccole cose alle
quali attribuisco un valore particolare per mantenere la mia identità. Se sto in corsia, i
pochi oggetti che posso tenere mi danno la misura di quello che mi è rimasto.
L’analisi che L’uomo negato fa della condizione del malato prende in considerazione
le innumerevoli piccole vessazioni che il malato deve subire durante il ricovero
ospedaliero: gli orari della vita in ospedale, l’uso del “tu” al posto della forma di
cortesia, le difficoltà a incontrare i familiari, di poter mangiare cibo caldo, di
accedere alla cartella clinica e quindi di poter conoscere le proprie reali condizioni. In
breve, tutto ciò a cui in una condizione abituale di degenza il personale sanitario non
presta attenzione, nella convinzione che “importante è guarire, tutto il resto non
conta”; per il malato, invece, anche il resto conta! Le varie tappe del processo che
porta a negare il malato in quanto cittadino vengono considerate analiticamente:
l’ospedale è un carcere; ogni procedimento terapeutico contiene tratti di
spersonalizzazione; i malati sono una casta; il malato diviene una malattia.
Il libro-denuncia di G. Quaranta non si limitava ad analizzare abusi che vengono
quotidianamente esercitati sul malato, ma intendeva smontare il meccanismo che
fabbrica l’“uomo negato”. Mutuava soprattutto dal sociologo americano Talcott
Parson gli strumenti per comprendere come il sistema sociale dominante instauri un
controllo della malattia, prescrivendo al malato un ruolo che neutralizza le spinte
verso la devianza. Un potere tra i più rilevanti nella nostra società consiste
nell’attribuire o nel negare a un soggetto il ruolo di malato, con i comportamenti
connessi a questo ruolo. L’analisi si traduceva in una tesi, annunciata a chiare lettere
dalla copertina dell’edizione del 1980: «La malattia ripara dalle regole del gioco
sociale: l’ospedale annulla l’uomo per affermare la sua subordinazione politica».
Gli spunti critici contenuti nel pamphlet venivano assunti dal Movimento Federativo
Democratico, con l’idea che, coniugando diversamente la politica con la sofferenza,
si sarebbero potuti creare cambiamenti vistosi nella vita dei malati. L’intento era
quello di dare centralità al ruolo di cittadini, quali garanti dell’attuazione di un diritto
costituzionale, fortemente condiviso, ma misconosciuto e negato nella vita concreta.
Ai cittadini veniva attribuita una funzione di governo insostituibile all’interno del
Servizio sanitario nazionale, diventando protagonisti della gestione della malattia e
della guarigione, della vita in ospedale e dell’organizzazione dei servizi. Lo
strumento di cui il movimento si dotò furono i Tribunali per i diritti del malato.
Lo scopo dei Tribunali, costituiti a partire dal 1980, non era quello di affermare diritti
umani in senso astratto e generale, come quelli alla libertà e alla dignità, quanto
piuttosto concrete rivendicazioni relative alle condizioni di vita in ospedale. L’idea
stessa di tribunale evocava una esplicita conflittualità con chi, nell’uso del potere, era
individuato come controparte. Era questa una richiesta esplicita contenuta ne L’uomo
negato: «Si apra con la classe medica e con i suoi collaboratori una vera e propria
controversia di massa, diretta a far maturare, ma anche a imporre, un consenso,
perché il quadro socio-culturale della malattia venga radicalmente cambiato».
La prima sessione del Tribunale di Roma, tenutasi il 29 giugno 1980 in Campidoglio
(con il titolo programmatico: “Da malato a cittadino: contro l’emarginazione, per la
gestione popolare delle strutture sanitarie”), culminava con la presentazione dei 33
diritti del cittadino. È interessante notare che nel lungo elenco di diritti rivendicati
(diritto a essere assistiti da personale sanitario identificabile, munito di cartellino
leggibile, a usufruire durante la degenza di lenzuola, cuscini, posate, di disporre di
servizi igienici puliti, di vivere la giornata di degenza secondo gli orari medi della
vita civile…) un’attenzione relativamente modesta viene riservata alla partecipazione
attiva del paziente alle decisioni cliniche (l’art. 28 parla di un diritto ad avere inserita
nella cartella clinica «una scheda dove siano illustrate in termini chiari e
comprensibili, e con testo obbligatoriamente dattiloscritto, la diagnosi e la terapia in
corso, nonché le previsioni circa la durata del ricovero e le eventuali possibilità di
guarigione»).
Il confronto con movimenti che andavano prendendo consistenza in quegli stessi anni
fa emergere che altrove veniva messa a fuoco la centralità dell’informazione per
promuovere l’empowerment del cittadino malato. Ad esempio, l’Associazione dei
pazienti della Svizzera italiana presentava la propria attività non sotto l’immagine di
un tribunale che tutela chi è costretto a subire maltrattamenti, ma come una struttura
che può fornire consigli quando sorgono interrogativi, quali: “Ho diritto di vedere la
mia cartella medica? A chi appartengono i risultati delle analisi e le radiografie?
Quali informazioni devono essere date al paziente sul suo stato di salute e sulla cura
che deve seguire? E ai suoi familiari? C’è libertà di scelta della terapia?”.
L’iniziativa del Movimento Federativo Democratico, anche se non perfettamente
sintonizzata sui temi che, negli anni seguenti, sarebbero diventati la struttura portante
del movimento della bioetica, ha avuto grandi meriti per la promozione di una nuova
cultura sanitaria. I Tribunali per i diritti del malato si sono diffusi in buona parte delle
realtà locali; la Giornata nazionale dei diritti del malato e dei diritti sociali è
diventata, a partire dal 1980, un appuntamento annuale; in alcune Regioni sono state
promulgate specifiche normative rivolte a disciplinare le condizioni di utilizzo dei
servizi sanitari e a tutelare i diritti dei cittadini malati (la Regione Toscana, ad
esempio, nel 1999 ha approvato un Decalogo dei diritti e dei doveri, in tema di
informazione sanitaria, quale strumento di sensibilizzazione e informazione per i
cittadini). Più di recente il Tribunale ha lanciato una vasta campagna per promuovere
tra i cittadini la cultura del consenso informato ai trattamenti sanitari.
E quindi del suo sapere sulla malattia. La biomedicina, creando l’impressione che
quello che essa conosce della malattia sia la malattia, e che quindi non ci sia altro da
cercare e da sapere, rafforza il senso di sicurezza del malato che si appoggia alle
certezze del sapere medico. Proprio questa certezza, tuttavia, suscita perplessità. La
“cultura del sospetto”, cresciuta con la consapevolezza dell’Occidente, ci ha
insegnato a diffidare soprattutto delle certezze. Esse crescono, infatti, in modo
particolare all’ombra di quel sapere tendenzioso che è l’ideologia. È proprio della
conoscenza ideologica, oltre al suo carattere aprioristico e al nascondimento dei
rapporti di potere che essa favorisce, anche il comunicare una falsa sicurezza.
Il sospetto che sorge è che il sapere certo sulla malattia sviluppato dalla medicina
scientifica svolga una funzione ideologica: serve a mantenere immutata la realtà,
invece che a cambiarla; maschera i rapporti di potere (in questo caso, l’impotenza che
il paziente induce in se stesso, consegnandosi all’apparato sanitario, a cui attribuisce
tutto il sapere e tutto il potere); conferisce una falsa sicurezza.
Se è vero che nessuna operazione di creazione di un sapere ideologico è così perfetta
da non lasciare qualche traccia della realtà che maschera, ci sentiamo autorizzati a
cercare degli indizi. Può esserci d’aiuto un paradosso così formulato dallo scrittore
Wolfdietrich Schnurre: «Il sapere del malato è superiore a quello del medico.
Altrimenti come potrebbe questi ogni giorno domandare: “Come va?”» (14).
È chiaro che la domanda di solito non eccede il livello della pura formalità (del resto,
basta vedere quanto poco tempo venga lasciato al malato per formulare la risposta e
quanto questa non incida sulle domande che il medico gli farà in seguito, seguendo lo
schema diagnostico che ha in mente). Nel migliore dei casi la domanda significa la
richiesta di sintomi soggettivi di malessere o delle sensazioni di benessere. Adottando
consapevolmente una forzatura semantica, carichiamo la domanda di un significato
che sembra alieno alla sua candida ingenuità. Vogliamo attribuire alla domanda:
“Come va?” il valore di un indizio che ci rimanda a un sapere nascosto del malato
stesso; anzi, un sapere che nel suo genere è di un altro ordine rispetto a quello che il
medico deriva dalla scienza medica, lo comprende e lo trascende. L’opera del medico
non ha altra funzione che quella di attivare questo sapere che è proprio del malato. Lo
fa con la scienza (se la possiede…!); ma deve farlo anche con le scienze dell’uomo:
questa è l’istanza fondamentale del movimento delle medical humanities, nelle sue
varie articolazioni.
Quando il professionista sanitario, attingendo a un sapere che ignora il soggetto,
mette tra parentesi la persona, non fa di per sé qualcosa di scorretto: adotta la
metodologia delle scienze naturali. Ma deve essere consapevole che attiva un sapere
parziale e che gli è richiesto di controbilanciarne l’unilateralità con un ricorso
consapevole alle scienze umane. Viene sanata così la frattura - frattura necessaria! che la medicina come scienza ha introdotto nel sapere del sanitario sull’uomo malato.
Questo atteggiamento di fondo riguarda tutti i professionisti sanitari, e non solo i
medici. Ci sentiamo così autorizzati a rifiutare l’insidiosa divaricazione tra una
medicina hich tech e una high touch (quest’ultima affidata per lo più a infermieri,
psicologi o altri professionisti di professioni di aiuto). In tutta la pratica della
medicina deve circolare la linfa della humanitas, intesa come uno spazio privilegiato
riservato alla parola e alle relazioni interpersonali.