la verità al malato

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la verità al malato
LA VERITA’ AL MALATO
Dire la verità al malato? In particolare, dire sempre tutta la verità, anche quando la
prognosi è infausta? E’ il quesito più controverso dell’etica delle professioni sanitarie, che
porta a riflettere anche sul diritto che ogni persona malata debba essere informata sulla
diagnosi, sulle procedure e sui trattamenti che le vengono prescritti, sui rischi ai quali
potrebbe andare incontro, o su eventuali trattamenti non farmacologici.
Il diritto che l’uomo ha di esser messo a conoscenza di ciò che lo riguarda sancisce
la considerazione e il rispetto della sua dignità di persona umana, mettendolo in
condizione di vivere in maniera consapevole
e responsabile la prova difficile della
malattia.
Il dovere di stabilire con il malato un rapporto basato sul dialogo e sulla sincerità,
risponde anche ad un’esigenza di ordine specificatamente deontologico, la persona
malata ha il diritto di conoscere la diagnosi, la terapia prevista e i rischi ad essa connessi,
le eventuali alternative e le prospettive per il futuro anche quando la prognosi è infausta. E’
in questo frangente che entrano in gioco aspetti importanti che riguardano la qualità della
vita, la sua integrità fisica e mentale, i rapporti famigliari, professionali e sociali che
pongono il malato di fronte agli eventi più radicali come quello della vita e della morte.
E’ soprattutto in queste gravi contingenze che il malato stesso - e non altri per lui - è
chiamato a gestire la propria libertà e ad essere responsabile di se stesso. La
consapevolezza circa le proprie aspettative consente oltre che di approfondire le proprie
convinzioni esistenziali, filosofiche o religiose, mette in grado l’interessato di disporre dei
propri beni o di assolvere ad altri doveri civili o di coscienza.
Talvolta le persone che si avvicinano al malato si fanno ogni premura per tenerlo il
più possibile all’oscuro della sua situazione e di ciò che lo attende: si pensa che il lasciar
morire una persona senza che ne sia consapevole sia il massimo dell’umana pietà.
Questo è uno dei segni in cui si rivela quella cultura oggi largamente diffusa che si rifiuta di
pensare alla morte, che vieta di parlarne e cerca di nasconderla e di esiliarla dalla scena
pubblica.
Una costante dissimulazione della verità, che alla fine si rivela illusoria, finisce
spesso per creare il vuoto attorno al malato e non gli consente una vera e aperta
comunicazione umana con coloro che gli sono vicini, quando addirittura non lo costringe,
una volta che egli si sia reso conto delle sue condizioni, a recitare la parte di colui che
“non sa”.
Nella pratica tuttavia non sempre si rivela opportuno dire tutta la verità, non sempre
un’informazione esauriente risponde obiettivamente al bene della persona malata. Una
verità, tutta intera e subito, potrebbe indurre il malato a un grave stato di depressione, che
non gli consentirebbe più di collaborare e anzi lo porterebbe a rifiutare ogni terapia. E’
necessario dire al malato quella verità che egli è in grado di sopportare, e quindi la si deve
dire con gradualità e con misura, nel momento e nel modo che la sensibilità umana,
l’intuito dei professionisti della salute o dei famigliari, giudichino opportuno. Bisogna
considerare la diversità e l’unicità delle persone, il loro grado di cultura, il carattere, le
eventuali condizioni di particolare emotività e instabilità psichica.
La verità va detta in risposta ad una richiesta o comunque ad un’esigenza oggettiva
del malato. La verità non si deve imporre!
In una prognosi infausta la verità non la si deve esprimere nei termini di una
sentenza definitiva, è necessario offrire sempre un qualche appiglio alla speranza. Il
malato ha bisogno di sperare per vivere la sua vita.
Infine è da domandarsi chi sia la persona più idonea ad informare il malato, nella
misura e nei modi opportuni. Non ci sono regole auree, è lo stesso malato che sceglie il
suo interlocutore, poiché egli avverte quale sia la persona, fra coloro che a vario titolo
l’avvicinano, che meglio è capace di comprendere le sue paure e le sue speranze e che è
in grado di confrontarsi con i suoi interrogativi e con i suoi problemi sia questi il medico,
uno dei famigliari, qualcuno fra il personale infermieristico, l’assistente religioso o qualche
persona amica.
Infermiere coordinatore HOSPICE Vertova
Zambetti Margherita
“… accompagnare una persona che sta morendo, intraprendere l’itinerario del lutto,
potrebbero rivelarsi le sfide più impegnative della vostra vita. Ma vi incoraggio a non
voltare le spalle. Quando prestiamo un’assistenza ad una persona cara e lo facciamo con
integrità e al meglio delle nostre capacità, quando sentiamo che ci siamo dati fino in
fondo, senza risparmiarci, certamente proveremo una grande tristezza. Ma accanto alla
tristezza ci sarà la gratitudine. E la possibilità di accedere a risorse di gioia e d’affetto fino
ad ora sconosciute, a un amore che va oltre la morte….”
Tratto dal libro “Saper Accompagnare”
di Frank Ostaseski
Fondatore, direttore e insegnante
dello Zen Hospice Project di San Francisco