- Matematica

Transcript

- Matematica
-1-
«Zo we zo»
Pietro Nastasi1
Le leggi razziali del fascismo e la loro applicazione a Palermo
1. Introduzione
La frase in epigrafe, in una lingua dell’Africa centrale, il sango, significa: «Un
uomo è un uomo», ovvero: «una persona è una persona», «ciascun essere
umano ha uguale dignità».
Ho voluto prendere le mosse da questa frase d’avvio del bel libro di Luca e
Francesco Cavalli-Sforza, Chi siamo. La storia della diversità umana2, per porre
subito il problema di cosa si possa fare, di come ci si possa opporre,
individualmente e collettivamente, perché abbiano termine e non accadano più,
le violenze razziali, i genocidi, le guerre economiche e religiose, le faide secolari
che devastano interi paesi.
Io ho creduto che ripartire da una verità così semplice, ma anche così antica,
fosse il modo migliore di interpretare il senso della legge che quattro anni fa ha
istituito “Il Giorno della Memoria”3: il 27 gennaio di ogni anno è il giorno
dedicato alla “Memoria” della Shoah (termine ebraico che equivale a catastrofe,
disastro, distruzione). Si tratta dunque di raccontare ciò che è successo appena
una sessantina di anni fà, riflettere sul razzismo, le sue manifestazioni e le sue
tragiche conseguenze, nella speranza che il ricordo e la riflessione garantiscano
almeno una certa cautela nell’uso di un termine, razzismo, non sempre chiaro in
tutte le sue implicazioni.
In un momento in cui l’Europa sta vivendo una recrudescenza del razzismo
(nelle molteplici forme che il termine assume di volta in volta), ci si può (ci si
deve) opporre ad esso in due modi: col cuore4 e con la ragione. E questa impone
a chi si occupa di scienza e della sua storia di chiarificare i diversi dati scientifici
1 Dipartimento di Matematica e Applicazioni, Via Archirafi 34, 90123 Palermo.
2 Milano, Mondadori, 1983, p. 3.
3 La legge è la n. 211 del 20 luglio 2000 (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 177 del 31 luglio 2000).
4 È questo il terreno in cui solo i poeti sanno essere i nostri Maestri. Si veda, per esempio, la bella raccolta (a
cura di D. Adriano e D. Racanella): “Voi che siete sicuri nelle vostre tiepide case”. Poeti contro il razzismo: da
Seneca a Primo Levi, supplemento al n. 2 (20 gennaio 1993) di Avvenimenti..
-2-
che di volta in volta sono manipolati e utilizzati da alcune ideologie a fini
politici.
In estrema sintesi, essere «razzista» significa disprezzare l’altro, in base alla sua
appartenenza ad un certo gruppo. Questo gruppo può essere definito in funzione
di caratteri i più disparati: colore della pelle, lingua, religione, patrimonio
genetico o patrimonio culturale. Da questo punto di vista, sarebbe più corretto
parlare di razzismi, piuttosto che di razzismo.
Ora, il primo problema che si pone è:
• questo disprezzo ha un qualche supporto scientifico?
ovvero:
• gli uomini si possono classificare in categorie relativamente omogenee e
distinte le une dalle altre? e se sì, può stabilirsi una scala di valore tra quelle
categorie?
Detto diversamente: si tratta di definire le razze umane e poi stabilire tra loro
una relazione d’ordine. che permetta di dire quale è “inferiore” e quale
“superiore”.
Il primo problema che si pone è quello di vedere quando un gruppo umano
costituisce una “razza”.
Lo Zingarelli ci dice: «Ràzza: di etimologia incerta. s.f. 1 L’insieme degli
individui di una specie animale o vegetale che si differenziano per uno o più
caratteri – costanti e trasmissibili ai discendenti – da altri gruppi della stessa
specie». Cavalli-Sforza (op. cit., p. 333), che ha trovato una definizione simile
sul Dizionario etimologico di Cortellazzo e Zolli, osserva che la definizione è
ambigua riguardo all’aggettivo “costanti”: vuol dire invariabili da un individuo
all’altro, oppure invariabili nel tempo? In entrambi i casi, va presa con beneficio
di inventario. Un po’ più precisa è la definizione di Daniel L. Hartl e Andrew G.
Clark5: «Per un genetista di popolazioni una razza è un gruppo di individui di
una specie che mostra relazioni genetiche più omogenee all’interno del gruppo
rispetto ai membri appartenenti a gruppi simili».
Sebbene più precisa di quella corrente, questa definizione è molto limitata
quando la si voglia applicare alla specie umana. Il motivo è chiaro: ogni
tentativo di definire la «razza» di un gruppo umano deve precisare i meccanismi
della trasmissione da una generazione G alla generazione G+1 e la natura di ciò
che viene trasmesso.
5 Si veda D.L. Hartl, A.G. Clark, Genetica di popolazione, Bologna, Zanichelli, 1993, p. 309.
-3-
Se ci si limita all’aspetto genetico, tutto questo è chiaro e ben definito: ciò che si
trasmette da una generazione all’altra non è un insieme di caratteri, ma un
insieme di geni.
Ma nel caso dell’uomo non si può prescindere da un’altra trasmissione, quella
culturale (qualunque sia la definizione di cultura). Ricorrendo ad una bella
metafora di Cavalli-Sforza (op. cit., p. 305), la definizione di Hartl e Clark
guarda all’hardware (il corredo genetico), e trascura il software, cioè il nostro
cervello (assimilato alla capacità di elaborazione di un computer)6.
La specificità dell’uomo è che da una generazione all’altra, non più per via
sessuale ma attraverso l’apprendistato, si trasmettono attitudini rivelatasi
efficaci e metodi che permettono di trovare attitudini adatte a far fronte a
situazioni nuove. Un’altra e ugualmente importante specificità dell’uomo è
quella di creare una memoria collettiva, capace di mettere a disposizione del
singolo l’insieme delle esperienze di tutti quelli che l’hanno preceduto. Questa
memoria collettiva non è registrata né a livello genetico né a livello cellulare, ma
nella tradizione orale o scritta. Il cucciolo d’uomo, la cui durata di apprendistato
è relativamente molto lunga, dispone alla nascita sia delle ricette di
fabbricazione delle proteine contenute nei suoi cromosomi, sia delle
informazioni, delle spiegazioni e dei consigli della famiglia, sia infine di tutti i
libri di tutte le biblioteche. Ogni uomo è fatto dalla interazione di tutti questi
fattori e quindi bisogna tenerli tutti presenti quando si voglia classificare gli
uomini.
Come opportunamente sottolineano diversi autori7, non esiste una costanza
adeguata a soddisfare una definizione coerente di «razza». Le incoerenze che ne
vengono fuori appena si tenta di metterla all’opera si sono rivelate maggiori
delle chiarificazioni che promettava di apportare. Il che non significa ritenere
inutile una classificazione dei gruppi: per un obiettivo preciso, ben delimitato,
questo lavoro può avere un senso, a patto però che sia chiaro che il risultato
ottenuto è arbitrario, e corrisponde ad un punto di vista molto stretto. Occorre in
ogni caso evitare il termine «razza» per i raggruppamenti ottenuti, sia perché il
termine rischia di creare gravi confusioni e sia perché è stato usato in contesti in
cui non si trattava solo di classificare, ma di affermare una gerarchia. a partire
6 Si veda anche L.L. Cavalli-Sforza, M.W. Feldman, Cultural Transmission and Evolution, Princeton (N.J.),
Princeton Univ. Press, 1981.
7 Si veda per esempio il breve, ma denso, intervento di François Jacob, “Biologie et racisme”, in La Science face
au Racisme, Paris, Seuil, 1988, pp. 66-69.
-4-
dal presupposto (erroneo) della “purezza della razza” (naturalmente la propria).
E qui le cose si complicano ancor di più.
Due oggetti sono «differenti» quando alcune delle loro caratteristiche che ci
interessano sono misurate da numeri diseguali. Ora, però, il ricorso alla
quantificazione nel confrontare individui o gruppi rischia di tendere trappole al
nostro pensiero, perché i numeri godono di una proprietà a cui la nostra mente è
stata abituata fin dall’infanzia, quella dell’ordine e quindi della gerarchia.
Quando due interi positivi non sono uguali, uno è certamente maggiore
dell’altro. La relazione d’ordine “naturale” negli interi induce dunque una
gerarchia. Ma essa non si estende affatto agli insiemi: l’insieme A=[8,2] non è
né maggiore né minore dell’insieme B=[2,,3,10]. A è semplicemente diverso da
B. Se vogliamo stabilire un ordine tra i due insiemi occorre associare ad ognuno
un numero unico. Si può per esempio contare il numero dei loro elementi e dire
che card A < card B; oppure calcolare il valore medio dei loro elementi e dire
che vm(A) = vm(B); o, ancora, calcolare il quoziente del primo elemento per
l’ultimo e dire che q(A) > q(B). Otterremo ogni volta un risultato significativo,
ma la domanda se A è maggiore, uguale o minore di B è priva di significato.
Analogamente, se gli oggetti che confrontiamo sono uomini o gruppi di uomini,
un rapporto di superiorità-inferiorità si può definire a patto di caratterizzare ogni
uomo o ogni gruppo con un numero unico.
Per esempio, ammettendo di definire ogni individuo mediante il solo quoziente
intellettivo, la costatazione QI(A) > QI(B) può anche tradursi nell’affermazione
che «A è superiore a B», ma una tale affermazione è estremamente pericolosa,
perché indica un rapporto tra gli oggetti, sebbene quel rapporto esista solo tra i
numeri che abbiamo arbitrariamente associato ad essi. Questa avvertenza non è
dettata da moralismo astratto, ma è una necessità logica. Non tenerne conto
significa commettere un grave errore logico, dal quale l’insegnamento scolastico
non protegge abbastanza. Lo dimostra la raccolta interminabile di sciocchezze
che si sono scritte a tale riguardo.
2. Le leggi razziali del fascismo italiano
Come giustamente avverte Mauro Raspanti8, nell’analizzare le scelte
apparentemente contraddittorie e a prima vista inesplicabili della politica
razziale del fascismo, occorre rifuggire da due visioni ugualmente limitative:
8 Si veda M. Raspanti, “I razzismi del fascismo”, in La Menzogna della razza. Documenti e immagini del
razzismo e dell’antisemitismo fascista (a cura del Centro Furio Jesi), Bologna, Grafis Edizioni, 1994, pp. 73-89.
-5-
quella che tenderebbe a ridurre il giudizio storico a una formula esorcistica, in
forma di slogan o di anatema che si limita a definirlo come “esecrabile”,
“abominevole”, “infame” senza riuscire a comprenderlo veramente; e l’altra che
tenta di presentarla come razzismo “tollerante”, “blando”, “all’italiana”,
racchiudendo in una formula rassicurante una parte del nostro passato con cui
non si sono ancora fatti veramente i conti. La tesi di Raspanti è che se esiste una
“via italiana” al razzismo, essa è la risultante dell’incontro/scontro tra varie
correnti, tra varie concezioni razziste (“razzismo biologico”, “nazionalrazzismo”, “razzismo esoterico”), il cui bilancio complessivo potrà essere fatto
quando se ne conosceranno meglio le singole componenti, non solo nel loro
autodefinirsi, ma ricercandone le logiche nascoste, i presupposti impliciti, le
finalità dichiarate esplicitamente. Questi tre “razzismi” erano presenti e diffusi
nella società italiana, e hanno goduto di fortune alterne nei confronti dei centri
decisionali del potere politico, pronti ad assecondare e a favorire ora l’uno ora
l’altro.
Il 1938 segna il passaggio da un razzismo frammentato, composto di pregiudizi
xenofobi e di atteggiamenti intolleranti, ad un razzismo di stato. Già l’anno
precedente, nell’aprile 1937, gli organi statali avevano introdotto un principio
discriminatorio su base “razziale” nella legislazione coloniale. Nel 1938 si salda
insieme il razzismo coloniale e l’antisemitismo.
Gli italiani lo apprendono dal Giornale d’Italia (il quotidiano di Mussolini) che
il 14 luglio 1938 pubblica un articolo anonimo dal titolo: “Il fascismo e i
problemi della razza”, poi noto come “Manifesto degli scienziati razzisti”,
rivelatosi un documento fondamentale della strategia fascista nel sancire
l’avvento del razzismo di stato. L’articolo viene annunciato con una formula
perentoria: «Un gruppo di studiosi fascisti docenti nelle università italiane sotto
l’egida del Ministero della Cultura popolare9 ha fissato nei seguenti termini
quella che è la posizione del Fascismo nei confronti dei problemi della razza».
Vediamo intanto l’elenco dei firmatari:
– Lino Businco, assistente di Patologia generale all’Università di Roma;
– Lidio Cipriani, professore di Antropologia all’Università di Firenze;
– Arturo Donaggio, direttore della clinica neuropsichiatrica dell’Università di
Bologna, presidente della Società italiana di psichiatria;
– Leone Franzì, assistente nella clinica pediatrica dell’Università di Milano;
– Guido Landra, assistente di Antropologia all’Università di Roma;
9 Il famigerato Minculpop.
-6-
– Luigi Pende, direttore dell’Istituto di Patologia speciale medica dell’Università
di Roma;
– Marcello Ricci, assistente di Zoologia all’Università di Roma;
– Franco Savorgnan, ordinario di Demografia all’Università di Roma, presidente
dell’Istituto centrale di Statistica;
– Sabato Visco, direttore dell’Istituto di Fisiologia generale all’Università di
Roma;
– Edoardo Zavattari, direttore dell’Istituto di Zoologia all’Università di Roma.
La presenza di questo folto gruppo di docenti universitari di varia competenza,
ha chiaramente l’obiettivo di convincere l’opinione pubblica che il “manifesto” è
un fatto scientifico e non un’opinione. Si tratta di un “decalogo” in cui le singole
affermazioni sono seguite da illustrazioni, che molto spesso sono intrinseche alle
varie correnti che si contendevano il campo.
La storia del “manifesto” è stata ricostruita10 sulla base di un memoriale di
Guido Landra (1913-1980) del 27 settembre 1940, scritto per eccepire il suo
allontanamento dal Minculpop. Landra ricorda come, nel febbraio 1938, dopo
aver fatto pervenire a Mussolini alcuni suoi appunti sul razzismo, fu convocato
dal ministro Alfieri e incaricato di costituire un comitato per lo studio e
l’organizzazione della campagna razziale. Il 24 giugno fu ricevuto
personalmente dal Duce, che gli illustrò la sua personale posizione circa la
questione razziale e gli ordinò di creare un Ufficio Studi sulla razza, con
l’obiettivo di mettere a punto entro pochi mesi “i punti fondamentali per iniziare
la campagna razziale in Italia”.
Landra si mise all’opera e redasse il decalogo, divenuto poi (con qualche leggera
correzione) il famigerato “manifesto” del 14 luglio, col quale gli italiani
scoprirono all’improvviso di appartenere alla “razza ariana” e di dover odiare e
separarsi dagli “italiani ebrei”. Solo successivamente, Landra fu incaricato di
mettere insieme un comitato di dieci studiosi (ideologicamente allineati con il
regime) i quali accettarono di figurare come firmatari del “manifesto” e i loro
nomi resi pubblici il 25 luglio da un comunicato del Partito Nazionale Fascista.
Il memoriale di Landra consente di formulare alcune considerazioni preliminari:
– nel febbraio del 1938 era già operante una complessa macchina politicoideologica che si esprimeva per mezzo di atti ufficiali, come l’Informazione
diplomatica n. 14 dedicata al problema dell’antisemitismo;
10 Oltre al citato lavoro di Raspanti, sia consentito rimandare a G. Israel, P. Nastasi, Scienza e razza nell’Italia
fascista, Bologna, Il Mulino, 1998.
-7-
– è evidente la partecipazione diretta e la responsabilità decisiva di Mussolini
all’elaborazione del “manifesto”, attuato con la complicità del ministro Alfieri;
– emergono gli stretti legami fra elaborazione teorica e strumenti istituzionali
capaci di dare impulso operativo ai temi razzisti;
– si delinea, dopo alcune divergenze con qualche studioso (Pende e Visco)
rispetto alle diverse visioni del razzismo, una chiara presa di posizione rispetto
all’indirizzo biologico da dare all’impostazione della campagna razziale, come
emerge con chiarezza dal contenuto stesso del “manifesto”11. Anche la
“questione ebraica” vien impostata in termini rigidamente razziali, ribadendo
l’estraneità degli ebrei – “gruppo razziale non europeo” – alla razza italiana di
origine ariana12.
Telesio Interlandi (1894-1965), in un articolo di commento uscito il 15 luglio,
ribadì questa impostazione sottolineando in modo particolare il nucleo
antisemita del “manifesto”: «Ecco impostato biologicamente, oltre che
politicamente, il problema ebraico»13.
La nascita di una nuova rivista, La Difesa della Razza, il cui primo numero uscì
il 5 agosto del 1938, segna l’avvio di un’azione comune, dottrinaria e
progettuale, di Landra e Interlandi, cui il regime affida la direzione della rivista.
Siciliano (era nato a Chiaramonte Gulfi), Telesio Interlandi era già direttore del
quotidiano Il Tevere (il giornale ufficioso di Mussolini) e della rivista
Quadrivio. Era “la penna più cara a Benito Mussolini” dice Giampiero Mughini,
un giornalista che a Interlandi ha dedicato una appassionata, ma non
convincente, biografia14. Nicola Tranfaglia, recensendo la biografia di
Mughini15, pur apprezzando lo stile narrativo dell’autore, ricordava tuttavia il
giudizio che di Interlandi dava un altro giornalista che lo conobbe:
Questi – dice Spinosa di Interlandi – mezzo letteraloide e mezzo barricadiero agì con
fredda malafede. Quella della razza fu per lui una carta come un’altra. Vi puntò sopra forte,
convinto di aver intuito il momento buono sulla ruota della fortuna; Interlandi non credeva
minimamente nell’impresa che conduceva con cinismo.
Sebbene “La Difesa della razza” sia rimasta in circolazione fino al 20 giugno del
1943 (usciva in edicola con cadenza quindicinale) e sia la rivista più nota del
11 Si vedano i punti 3 e 7 del “Manifesto” riprodotto nell’Appendice 1.
12 Si veda il punto 9 del “Manifesto” riprodotto nell’Appendice 1.
13 Si veda M. Raspanti, cit., p. 75.
14 Si veda G. Mughini, A via della Mercede c’era un razzista. Pittori e scrittori in camicia nera. Un giornalista
maledetto e dimenticato. Lo strano “caso” di Telesio Interlandi, Milano, Rizzoli, 1991.
15 Si veda N. Tranfaglia, “Attenti agli opportunisti!”, La Repubblica, 10 febbraio 1991.
-8-
razzismo fascista, tuttavia della sua parabola editoriale si sa piuttosto poco e
scarsi sono ancora oggi gli studi storici che ne hanno fatto oggetto di analisi
approfondita16. Non esiste cioè una ricostruzione complessiva che riveli i
meccanismi redazionali della rivista, i suoi rapporti con il potere, i conflitti tra i
collaboratori, l’effetto della rivista sull’opinione pubblica, la sua grafica
aggressiva e non convenzionale e il ruolo dei finanziatori17. Questa lacuna
storiografica è sorprendente, malgrado la rivista abbia avuto un ruolo rilevante
nella definizione del “problema razziale” in Italia e nella diffusione della
propaganda razzista negli anni cruciali della persecuzione antiebraica.
Ci siamo dilungati un po’ di più sulla versione “biologica” del razzismo italiano,
non solo perché è quella che caratterizza le prime annate della Difesa della
razza, ma anche perché influenza la stessa legislazione antisemita del regime. Il
5 settembre 1938 esce infatti il Regio Decreto Legge n. 1390 che annuncia i
primi “Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista”, ovvero la
“liberazione” della scuola italiana “dagli ebrei”, come titola la Difesa della
razza. L’articolo 6 del Decreto precisa che è «considerato di razza ebraica colui
che è nato da genitori entrambi di razza ebraica, anche se egli professi religione
diversa da quella ebraica». In questa affermazione si presuppone quindi una
biologizzazione delle differenze e un rigido postulato ereditarista. Questa rigidità
deterministica, nota Raspanti, poco si prestava a cogliere la complessa realtà
dell’ebraismo italiano, che ben poco aveva a che fare con la rappresentazione
monolitica descritta dai teorici antisemiti. Ciò spiega, forse, i mutamenti di
indirizzo che si notano nell’ideologia ufficiale (riconoscibili, come si diceva,
nell’impostazione della Difesa della razza) e consente a noi di accennare almeno
alla seconda corrente del razzismo fascista18, il “nazional-razzismo” di Pende e
Visco, che aveva costruito il suo nucleo teorico sulla riduzione dell’importanza
dei fattori biologici a favore di quelli storico-culturali.
Ma al di là di queste differenziazioni, resta acquisita l’unicità del disegno, il
proposito cioè di dimostrare che la pura razza (o stirpe) italiana vada
salvaguardata dall’imbastardimento contaminante delle razze inferiori
(“razzismo negativo”) e vada potenziata in senso eugenetico (“razzismo
16 Ma si veda in proposito il recente saggio di V. Pisanty, Educare all’odio: “La Difesa della razza” (19381943), L’Unità, Roma, 2004.
17 Tra questi figurano i nomi di grandi industrie (come la Breda, la Montecatini, le Officine Villar Perosa), di
banche (come la Banca Commerciale Italiana, Il Credito Italiano, il Banco di Sicilia), di compagnie assicurative
(come il Lloyd triestino o l’Istituto Nazionale della Assicurazioni).
18 Sulla terza corrente, il cosiddetto “razzismo esoterico” di Julius Evola, rinvio al più volte citato Saggio di
Mauro Raspanti (pp. 81-86).
-9-
positivo”). E resta acquisito lo scopo squisitamente politico della legislazione
antisemita, vista non più soltanto come una omologazione alle scelte naziste e
all'alleanza sancita dal viaggio di Hitler in Italia della primavera '38, ma come
un'accelerazione della spinta totalitaria interna del regime e, anche, come lo
sviluppo logico e il potenziamento di fermenti culturali e ideologici di vario
segno, “i razzismi endogeni” come sono stati definiti, diffusi nell'apparato del
regime e nella società italiana e potenziati dalla conquista dell’Impero.
Detto altrimenti, la scienza italiana non fu affatto estranea alla preparazione di
un terreno favorevole al razzismo e, quando questo divenne attuale per ragioni
politiche, contribuì a configurarne alcune vistose caratteristiche. Settori
importanti della scienza italiana (Demografia e Statistica, Antropologia e
Medicina sociale) contribuirono a creare, negli anni '20 e '30, una base
“razionale” al problema della diversità e inferiorità di certe “razze” rispetto ad
altre, alla peculiarità della “razza” italiana e alla necessità di difendere ed
esaltare tale peculiarità.
Comune a questi settori disciplinari e a buona parte di tutta la comunità
scientifica fu poi il tema del “primato italiano” in campo tecnico-scientifico, la
rivendicazione cioè di priorità degli italiani nel campo delle scoperte e delle
invenzioni, che toccò il suo apice nel periodo dell'autarchia, quando quasi tutta
la scienza italiana si mobilitò orgogliosamente in difesa della Patria. L'idea della
superiorità manifestata dagli italiani in tutto il corso della Storia della scienza
(da Archimede a Leonardo, da Galileo a Marconi) fu uno degli argomenti più
importanti usati dalla pubblicistica razzista a favore dell'esistenza di una “razza
italica” superiore.
Si è lasciato per ultimo un aspetto che solitamente viene premesso: perché il
razzismo italiano esplode nel 1938? Il 1938, rappresenta – come è stato detto19 –
l'anno “cruciale e terribile per l'ebraismo europeo”: alla sua vigilia, solo la
Germania nazista aveva una legislazione antiebraica; al suo termine, questa
legislazione era ormai un dato continentale: dall'Austria del dopo Anschluss (13
marzo 1938) alla Polonia, dalla Romania all'Ungheria. La decisione definitiva di
Mussolini di varare una legislazione antiebraica e di rendere ufficialmente
antisemita il regime (e il Paese) fa dunque parte di un processo continentale a
cui il fascismo, data la sua rilevanza politica e diplomatica, partecipa da
protagonista.
19 E. Mendelsohn, “Gli Ebrei dell’Europa orientale tra le due guerre mondiali”, cit. in M. Raspanti, p. 74.
- 10 -
Quali, allora, i fattori che possono spiegare l’esplosione dell’antisemitismo
fascista?
Il primo elemento è senza dubbio la guerra di Spagna. Nel 1938 si consuma
l'ultima fase della guerra civile spagnola, che fu anche la prova generale della
guerra mondiale, il primo vero grande scontro internazionale fra lo schieramento
ideologico fascista e quello antifascista. La Germania sperimentò le sue armi
micidiali e lo schieramento antifascista cementò la solidarietà internazionale con
le brigate volontarie. La Spagna franchista fu uno dei terreni in cui incominciò a
maturare un diverso atteggiamento internazionale da parte di Mussolini, fino a
quel momento legato alle dinamiche della diplomazia europea. Il salto di qualità
nella propaganda imperialista ed aggressiva ebbe luogo proprio in quei mesi.
Il secondo elemento, del marzo 1938, è l'Anschluss, l’annessione dell'Austria al
Reich e l’estensione delle leggi razziali, promulgate sul solo territorio tedesco.
Dalla primavera del 1938 l'antisemitismo nazista si espande dunque a macchia
d'olio in tutta l'Europa centro-orientale, lambendo i confini del nostro Paese.
Il terzo elemento, che riguarda più da vicino l'Italia, è rappresentato dal viaggio
di Hitler a Roma nel maggio 1938, che rilancia e consolida l'alleanza militare
italo-tedesca. Il führer è accolto trionfalmente da Mussolini. I contemporanei e
molti storici hanno individuato nelle leggi razziali una sorta di pegno pagato da
Mussolini a Hitler, e indubbiamente esse sono da inserire nel quadro di stretta
alleanza politico-militare fra Italia e Germania, tuttavia sarebbe riduttivo
considerarle solamente come un atto di sudditanza del governo fascista.
Il quarto elemento è la Conferenza di Monaco dell'autunno del 1938, che segna
il destino della Cecoslovacchia con il tacito consenso delle grandi potenze
europee, le quali tendono a spingere la Germania contro l'Unione Sovietica, per
ritardare la guerra europea.
Il quinto ed ultimo elemento è il rilancio della politica coloniale e imperialista
dell'Italia negli anni dal ‘37 al ‘39. I primi provvedimenti razziali sono emanati
nel 1937, mentre tra i primi provvedimenti del 1938 vi sono quelli tendenti a
colpire gli “ebrei stranieri”20. L'Italia sta dunque vivendo una fase di rinnovata
aggressività dai toni apertamente xenofobi. Fin dall'inizio l'ebreo è identificato
innanzitutto come straniero, estraneo alla tradizione ed alla “razza” italica, poi
anche come essere inferiore. La fase imperialistica è significativa per capire
come si vada modificando l'ideologia fascista, come nella propaganda di regime
l'elemento antiebraico sia parallelo ad un elemento di forte revanscismo
20 Il decreto relativo esce il 5 settembre 1938, lo stesso giorno in cui si decreta l’espulsione dei docenti dalla
scuola italiana di ogni ordine e grado.
- 11 -
nazionalista rivolto all'area mediterranea. Nel 1936 è infatti proclamato l'Impero
e prendono il via una serie di rivendicazioni imperialistiche, principalmente
dirette contro la vicina Francia: dalla Corsica a Tunisi, da Nizza a Gibuti.
Questo è il quadro da non dimenticare per non ridurre le leggi razziali ad un
episodio isolato o comunque ad un fenomeno di diretta derivazione tedesca. In
particolare si deve vincere la tentazione di una revisione riduttiva secondo la
quale l'Italia non avrebbe conosciuto un vero e proprio antisemitismo, che le
leggi furono applicate in modo “blando” e che vennero imposte da Hitler a
Mussolini. Quest’ultima notazione consente di passare alla seconda parte del
titolo.
3. L’applicazione delle leggi razziali all’Università di Palermo
Anche per questa seconda parte una premessa è necessaria. Palermo e la Sicilia
sembrano apparentemente molto marginali rispetto al problema che ci occupa.
Nel documentato volume di Liliana Picciotto Fargion, Il Libro della Memoria21,
che contiene i nomi ed i dati dei circa settemila italiani ebrei deportati nei campi
di sterminio tedeschi, la statistica dei deportati suddivisi per località di arresto
(p. 29) non riporta nessun arrestato in Sicilia. Si tratta di un dato che ha bisogno
di almeno due precisazioni. La prima è che in molti casi gli ebrei siciliani furono
arrestati fuori dalla Sicilia. Fu così per l'ebreo catanese Antonino Lanza (la
madre era Nurian Falcon Levi, discendente da una famiglia polacca di antica
tradizione mercantile), arrestato a Milano, dove si era rifugiato, per delazione di
un suo concittadino22. Fu deportato a Dachau, dove ebbe il numero di matricola
361.809. Fu così anche per gli ebrei di Palermo: Olga Renata Castelli, arrestata a
Firenze nell'aprile '44 e deportata ad Auschwitz; Leo Colonna, arrestato a Torre
Pellice (Torino) il 16 dicembre 1943 e deportato ad Auschwitz. E fu così anche
per gli ebrei messinesi: Emma Moscato, arrestata nella casa di riposo israelitica
di Mantova l'1 dicembre 1943 e deportata ad Auschwitz; Egle Segre, arrestata a
Tradate (Varese) nell'ottobre del '43 e deportata ad Auschwitz23. Ad eccezione
del Lanza, nessuno degli altri tornò!
Se si ignorano queste tristi vicende e si dimentica che le deportazioni ebbero
inizio nel settembre '43 e che a quella data la Sicilia era già stata liberata,
21 Milano, Mursia, 1991.
22 La vicenda di Lanza è descritta da P. Nicolosi, Gli ebrei a Catania, Catania, Tringale Ed., 1988, pp. 134-136.
23 Le vicende degli ebrei messinesi e palermitani deportati in Germania sono accennate da M. Genco, Repulisti
Ebraico. Le leggi razziali in Sicilia: 1938-1943, Palermo, Istituto Gramsci Siciliano, 2000, p. 134.
- 12 -
sembrerebbe che l'antisemitismo in Sicilia sia stato attuato in modo blando,
«alla buona». Impressione avvalorata da un passo spesso ignorato del racconto
sciasciano Il cavaliere e la morte24, dove si legge il seguente brano:
Agenzia di viaggi Kublai: del dottor Giovanni Rieti; e non aveva mai saputo in che dottore.
Vecchia conoscenza, forse si poteva dire amicizia: per la storia di umana tenerezza da cui
muoveva. Era cominciata coi loro padri, nel 1939: il padre del Vice, ufficiale di stato civile
in un piccolo paese siciliano dove il padre del dottor Rieti, ebreo, era casualmente nato. Il
signor Rieti era piombato da Roma, disperato, in quel municipio: a cercare se nel suo atto
di nascita ci fosse qualche appiglio a dimostrare che propriamente ebreo non lo si potesse
considerare. E poiché non c'era, lo crearono: ufficiale di stato civile, podestà, arciprete,
guardie municipali. Tutti fascisti con tessera in tasca e distintivo all'occhiello; e l'arciprete,
senza tessera e distintivo, lo era di sentimento. Ma tutti d'accordo che non si dovesse
lasciare il signor Rieti, la sua famiglia, i suoi bambini, a quella legge che ne voleva la
rovina. E fecero, alla lettera, false le carte: poiché nulla voleva dire per loro che un uomo
fosse ebreo, se in pericolo, se disperato. (Che gran paese era stato in queste cose, forse lo
era ancora, l'Italia!). (corsivo nostro)
Come ha svelato Genco, nessuno può più dire con certezza se le carte fossero
realmente false, «ma sul certificato anagrafico sta scritto che il nonno dello
sciasciano signor Rieti – che nella realtà si chiamava Alfredo Sacerdoti – era
stato un prete, don Michele, i cui discendenti da un certo giorno, e precisamente
dal 23 gennaio 1942 in poi, furono autorizzati a chiamarsi C.»25. Ma il punto è
un altro, cioè che Sciascia sarebbe stato certamente rafforzato nella sua opinione
se avesse saputo che tra i deportati in Germania figuravano alcuni italiani ariani
(poco più di dieci, fra cui il siciliano Alfio La Rosa), accusati di aver prestato
aiuto a degli ebrei. Ma questi casi isolati, importanti per l'«umana tenerezza» che
testimoniano, non possono annullare il fatto che anche in Sicilia la campagna
razziale e antisemita del fascismo poté valersi di modi e atteggiamenti
preesistenti, ai quali si richiamarono alcune delle manifestazioni più aberranti
proprio nel campo della cultura26. Né si può ridurre tutto alla violenza fisica:
24 Milano, Adelphi, 1988, p. 53. Non meno limitativo il giudizio di Giuseppe Montalenti (“Il concetto biologico
di razza e la sua applicazione alla specie umana”, in Conseguenze culturali delle leggi razziali in Italia, Atti del
Convegno Linceo – Roma, 11 maggio 1989 – pp. 25-39 (p. 38)): «Così, con il “Manifesto della razza” firmato
da alcuni biologi piuttosto squalificati, ebbe inizio la campagna antisemitica, che condusse, negli anni sucessivi
alle nefande azioni di cui fu maestra la Germania nazista, azioni la cui efferatezza fu pienamente conosciuta
soltanto dopo la fine della guerra. Perché, si è domandato, gli scienziati bene informati non hanno reagito
pubblicamente contro le affermazioni del manifesto? Evidentemente essi non avevano la vocazione eroica che
avevano avuto quegli antifascisti che sopportarono l’esilio, la galera, o andarono incontro alla morte».
25 Cfr. M. Genco, op. cit., pp. 132-133.
26 E. Garin, in Fascismo, antisemitismo e cultura italiana (Conseguenze culturali delle leggi razziali in Italia,
Roma, Lincei, 1990, pp. 9-24, in particolare pp. 23-24) ha ricordato il caso di un certo Carlo Costamagna, che
pretendeva bonificare la filosofia espungendo da essa l'ebreo Spinoza (cfr. Carlo Costamagna, Professori ebrei e
dottrina ebraica, “Lo Stato”, agosto-settembre 1938, p. 490). Si può aggiungere che su La Difesa della Razza (a.
II, n. 9, 5 marzo XVII, cioè 1939, p. 40), un certo S. Perticone pubblicò alcuni estratti della biografia di Spinoza,
- 13 -
anche in Sicilia gli ebrei (una comunità che nel 1938 contava appena 202
appartenenti, «una goccia di umanità», secondo la plastica espressione di
Genco) vennero schedati, insultati, allontanati dalla vita collettiva e spiati.
Insistere dunque sull'applicazione blanda delle leggi razziali è fuorviante, e
peraltro non mancano testimonianze atte a smentire l'affermazione. In modo
blando o no, le leggi razziali vennero applicate, con una corresponsabilità dei
massimi vertici dello Stato che non ammette distinguo. I dati sono significativi
soprattutto a livello scolastico: centinaia di professori universitari e liceali,
centinaia di studenti universitari, migliaia di studenti liceali e di studenti
elementari vennero espulsi nel corso dell'anno scolastico 1938-39. In modo
blando o meno, venne reso praticamente impossibile l'esercizio delle libere
professioni a chiunque fosse di religione, anzi di razza ebraica. Certo, si possono
raccogliere numerose testimonianze di solidarietà e di aiuto agli ebrei da parte di
singoli funzionari pubblici, che cercarono di aggirare le leggi o di non applicarle
alla lettera, salvando (dopo il '43) parecchie vite umane. Ma si tratta di singole
testimonianze e di atti individuali, nobilissimi e lodevoli quanto isolati. Mancò
una solidarietà collettiva e organizzata, soprattutto fra gli intellettuali.
Il loro mondo fu uno dei primi a essere colpiti. La fascistizzazione della società
doveva iniziare dalla scuola. In questo contesto si collocano gli episodi più
grotteschi come la bonifica del libro, promossa per purificare dalla
contaminazione ebraica i manuali delle scuole di ogni ordine e grado. Ma
contano anche i piccoli gesti di vigliaccheria e di delazione. Significativo al
riguardo, per dare un'idea del clima generato dalle leggi razziali, il caso del
Preside del Ginnasio "G. Garibaldi" di Partinico – Francesco Barbarino – che in
data 19 giugno 1939 (–XVII per la precisione) così scrive a «Sua Eccellenza il
Prefetto di Palermo»27:
Ho ragione di sospettare che la Dott.ssa Emma Calabrese fu Giuseppe e di Maria Grazia
Villani, nata a Palermo il 21-10-1913 e ivi residente in Via Segesta N°. 2, e che presta
servizio in questo Istituto come professoressa straordinaria di materie letterarie nel Corso
Inferiore, appartenga alla razza ebraica.
Prego, in linea del tutto riservata, l'E.V. di ordinare le opportune indagini, per le quali a me
mancherebbero i mezzi necessari, e riferire a questo ufficio con cortese sollecitudine.
contenenti la sua scomunica, come prova «dell'intolleranza fanatica, dell'intransigenza implacabile, della
ristrettezza d'orizzonte di questa razza, alla quale volentieri si attribuiscono le doti contrarie d'indipendenza,
libertà, audacia speculativa».
27 Cfr. L. Vincenti, Storia degli Ebrei a Palermo durante il Fascismo. Documenti e testimonianze, Palermo,
Offset Studio, 1998, pp. 191-193.
- 14 -
Sua Eccellenza trasmette il compito al Questore, Giuseppe Lauricella, e questi,
fatti gli opportuni accertamenti, dà finalmente la risposta il 30 giugno:
In relazione alla nota sopra distinta, comunicasi che Calabrese Emma e i di lei genitori
risultano battezzati fin dalla nascita.
Dagli accertamenti esperiti non consta che la suddetta appartenga alla razza ebraica.
In questo quadro, per venire più specificamente al caso della cosiddetta grande
cultura, non si può dimenticare, arrivando persino a proporre di intestargli una
via di Palermo, un articolo del giurista Giuseppe Maggiore (1882-1954),
all'epoca rettore dell'Università di Palermo, che su “Critica Fascista” del '38
pretendeva di dimostrare che le scienze matematiche, se coltivate da un ebreo,
non possono essere che semite, e che «Lombroso, Freud, Einstein, non possono
essere che semiti»28. Semmai, il caso del rettore Maggiore va tenuto presente in
relazione al problema della mancata o incompleta defascistizzazione del Paese.
Da tale punto di vista, come vedremo, esso è esemplare.
Né è il solo. Fatte le leggi razziali bisognava perfezionare i razzisti, annota
Mario Genco nella sua bella inchiesta sul razzismo siculo già citata. Giuseppe
Bottai, solerte ministro dell'Educazione Nazionale, inventò la cattedra di Studi
sulla razza nelle principali università italiane. Così, nel '41, presso la nostra
Facoltà di Giurisprudenza venne istituita la cattedra di “Demografia generale e
comparata” che venne affidata a Alfredo Cucco, oculista di buon nome e fascista
della prima ora, che nel '43 sarebbe stato nominato vice-segretario nazionale del
P.N.F. e avrebbe finito la sua singolare carriera fascista come sottosegretario alla
Cultura della repubblica sociale di Salò. “Infortunii” che non gli impedirono di
riprendere nel dopoguerra il suo originale corso di Demografia: trenta e lode se
solo l'esaminando accennasse al «coitus interruptus» ed alla «sindrome oculare
contraccettiva» che ne derivava. Fu la sua massima scoperta scientifica.
Collaborò alla rivista ufficiale del razzismo italiano, la Difesa della razza,
assieme all'etnologo Giuseppe Cocchiara (poi nominato dal Governo alleato
professore universitario per meriti “antifascisti”) e al già citato Maggiore.
Grande e ricercato avvocato, giurista e filosofo del diritto penale, Giuseppe
Maggiore fu dal 1934 al '43 presidente della Provincia, dal 1935 al '39
Commissario della Accademia di Scienze, Lettere e Arti, presidente
dell'O.N.M.I. di Palermo, consigliere d'amministrazione del Banco di Sicilia,
segretario provinciale del Sindacato Autori, rettore dell'Università nel biennio
1938-39 e ultimo presidente nazionale dell'Istituto di Cultura fascista.
28 Cfr. G. Maggiore, La scuola degli Italiani, “Critica Fascista”, XVI (1938), n. 21, pp. 356-358.
- 15 -
Fu un campione, dice Mario Genco: lui sapeva che gli ebrei potevano esser
riconosciuti a naso, dall'odor judaicus “caratteristico della sudorazione di quel
popolo”, come scrisse nel suo Razza e Fascismo29. Un libro che si meritò la
recensione del «dottor Werner A. Eicke» sul Westdeutscher Beobachter di
Colonia, come diligentemente annotarono i redattori della Difesa della Razza30.
Dal 1938 in poi, non ci fu commissione di esami prelittoriali, non ciclo di
conferenze o lezioni razziste, che non lo vedesse protagonista.
Il terzo numero della Difesa della Razza, quello che annunciava il repulisti
ebraico nelle scuole, pubblicò il suo commento “Logica e moralità del
Fascismo”31. L'obiettivo dell'articolo è quello di difendere il razzismo italiano da
alcune riserve, indirizzate soprattutto al settimo punto del Manifesto della razza,
là dove si affermava che «la questione del razzismo in Italia deve essere trattata
da un punto di vista puramente biologico, senza intenzioni filosofiche e
religiose». Era, come sappiamo, uno dei vari indirizzi del razzismo italiano, ma
sembrò a qualcuno che ci fosse come una sorta di confessione di debolezza,
come se il decalogo del razzismo fascista, forte su un preteso terreno scientifico,
non lo fosse altrettanto davanti al «tribunale della religione e della filosofia».
Ma lui era un coraggioso e difendeva «la piena legittimità di una filosofia
razziale. Anziché arrossire, noi confessiamo virilmente le nostre “intenzioni”,
anzi le nostre convinzioni filosofiche. Nel razzismo italiano, secondo noi,
rivivrebbe la visione totalitaria – psicologica, logica, etica, politica, giuridica –
della nuova vita imperiale italiana».
La frase d'esordio del suo libro sul razzismo era: «L'ignoranza in fatto di razza è
oggi, anno XVII dell'era fascista, un lusso consentito solo ai poltroni».
Inaugurando da rettore l’anno accademico 1938-'39, consegnò all'Annuario
universitario le seguenti parole32:
Io dovrei anzitutto, secondo prescrive la legge, farvi un resoconto dell’attività accademica,
darvi un ragguaglio dei più notevoli avvenimenti della vita universitaria, prospettando i
principali problemi, la cui soluzione interessa le sorti presenti e future dell’Istituto. Lo farò
tra poco. Ma poiché la vita universitaria è un aspetto della vita nazionale, io non posso
parlarvi di noi senza vedere noi stessi inseriti e operanti nella prospettiva storica di questa
grande ora che passa. Ciò significa, nella sede degli studi severi, intrattenerci di politica. Lo
29 Palermo, Agate, 1939.
30 Anno. II, n. 20, 20 agosto XVII, cioè 1939, p. 50.
31 La Difesa della Razza, a. I, n. 3, 5 settembre XVI (1938), pp. 31-32.
32 Cfr. R. Università degli Studi di Palermo, “Relazione letta dal Magnifico Rettore prof. Giuseppe Maggiore
per l’inaugurazione dell’anno accademico 1938-39 il giorno 12 novembre 1938-XVII”, in Annuario Accademico
anno 1938-39 - XVII, Palermo 1939, pp. 11-21 (pp. 12-14). Come si vede dalle sue stesse parole, questa parte
della prolusione è una parafrasi del discorso di Mussolini del 9 settembre 1938 a Trieste.
- 16 -
so che in altri tempi, (per esempio nella pacifica e stagnante stagione della mia giovinezza)
questo sarebbe stato disdicevole e assurdo, quasi vera contaminazione della maestà della
scienza. Non oggi. Oggi noi sentiamo che l’Università non può essere apolitica, cioè
agnostica, cioè assente dalla vita nazionale; e che al contrario non è permesso accostarci
nobilmente agli studi, in qualsiasi settore, senza partecipare con consapevolezza e
responsabilità alla vita stessa dello Stato italiano.
E da Italiani diciamo che anche quest’anno è stato, per la nostra patria, glorioso. L’ombra
del divo Augusto, evocata al compimento del duplice millennio, sorride su tutto l’anno
XVI, anno di raccoglimento, di lavoro e di pace. Il lavoro ha donato all’Impero la
soddisfazione e l’orgoglio di bastare a se stesso: l’autarchia. La pace ha operato il
consolidamento e il potenziamento della compagine imperiale, amplificata romanamente
con la recente creazione di quattro nuove provincie sulla quarta sponda. All’interno due
grandi avvenimenti hanno segnato un nuovo passo in avanti della costruttiva politica
fascista: la istituzione della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, e i provvedimenti per la
razza. Accenno a questi ultimi provvedimenti perché il loro raggio di azione è penetrato in
profondità nella vita della scuola.
Il problema razziale, come ha detto il Duce nel discorso di Trieste, non è stato un plagio di
atteggiamenti stranieri né è scoppiato all’improvviso come pensano coloro che sono
abituati ai bruschi risvegli dai lunghi sonni poltroni. È in relazione con la conquista
dell’Impero, poiché la storia c’insegna che gli Imperi si conquistano con le armi, ma si
tengono col prestigio. E per il prestigio occorre una chiara e severa coscienza razziale che
stabilisca non soltanto delle differenze, ma delle superiorità altissime. “Uno degli aspetti di
questo problema - ha ribadito il Capo - è il problema ebraico. L’ebraismo mondiale è stato
durante sedici anni il nemico inconcialibile del fascismo”.
Siffatte considerazioni giustificano le misure antisemitiche adottate dal Gran Consiglio:
misure che non rappresentano una persecuzione, ma attuano una campagna di energica
profilassi della vita nazionale.
Nei riguardi della scuola la politica della razza ha avuto un’applicazione totalitaria. La
scuola, severamente fascistizzata non poteva essere lasciata alla mercé di chi non appartiene
a nessuna nazione, per essere legato a una comunità di carattere internazionale, per essere
portatore di una religione e di una civiltà in perfetta antitesi allo stile di vita della nuova
Italia fascista. Conseguentemente ben novantanove professori sono stati allontanati in
complesso dalle Università italiane; cinque dalla nostra. (...)
E bene è stato ricordato agli Italiani l’anniversario del patto anticomunista tra Italia,
Germania e Giappone. Per difendere la civiltà latina dal pericolo comunista, per
sconfiggere lo spettro sanguinoso del bolscevismo, la nostra gioventù si è immolata in terra
di Spagna.
Gloria agli studenti Borsellino Domenico, Lo Faso Gerardo, Perino Giovanni, Terranova
Antonino che hanno scritto col loro sangue gentile pagine di storia e strofe di epopea!
Come chiunque può constatare scorrendo l'elenco dei docenti espulsi,
l’Università di Palermo perdeva letterati, medici e scienziati di fama: lo storico
della letteratura Mario Fubini, lo studioso di elettrotecnica Alberto Dina, il
clinico Maurizio Ascoli che era allora il principale malariologo d’Italia, il
fisiologo Camillo Artom ricordato quale pioniere per l'uso degli isotopi radiattivi
nello studio del metabolismo intermedio, ricerche cui molto aveva contribuito il
- 17 -
quinto degli espulsi, il fisico Emilio Segré, che proprio a Palermo aveva fatto,
col mineralogista Carlo Perrier (1886-1948), la scoperta del tecnezio33. E ancora:
Menase Lucacer, un ebreo rumeno naturalizzato italiano, libero docente di
Tisiologia, e Walter Fabish, un ebreo tedesco assistente di Maurizio Ascoli.
Maggiore si schierò apertamente ed entusiasticamente a favore della «Carta
della Scuola» di Giuseppe Bottai, che sanciva la definitiva fascistizzazione
dell'insegnamento. Poi, quando gli Stati Uniti entrarono in guerra, li inondò di
disprezzo: «America giovane? ma per carità ... supercapitalista ebraizzata
depravata, alla quale la civiltà deve la scoperta del grattacielo, del linciaggio, del
cocktail e del jazz». Ancora, nel 1941 per i tipi di Zanichelli, pubblicò La
Politica, un volume che riprende e amplia un libro giovanile con lo stesso titolo
scritto nel '19 e pubblicato nel '20. Questo il commento di Piero Violante34:
Come tutti gli italiani, anche il Professor Maggiore era un fascista della prima ora. Ma, a
differenza di molti italiani, lo può provare notando che quelle pagine giovanili,
“sviluppano, o adombrano, motivi divenuti poi caratteristici e centrali della rivoluzione
fascista.” Non vuol darsi però il Professore aria di precursore ma significare che quando “si
ha un profondo sentimento dell'immortalità della Patria, della santità della religione, del
valore etico-politico della famiglia, della dignità del lavoro, e sopra tutto, della maestà
dello Stato non si può non navigare nella stessa corrente ideale, che – per opera di un
grande italiano – sboccò nel fascismo.”
Il nuovo libro – ci dice Maggiore – invece è “illuminato – è qui il suo massimo valore – dal
pensiero di uomini di eccezione, e addirittura privilegiati, che rappresentano dei geni, dei
veggenti, dei veri e propri demiurghi della politica. Parlo di Mussolini e Hitler.”
E l'illuminazione è talmente forte che Maggiore, distinguendo tra opere di letteratura
politica e opere di politica, dice che di queste ce ne sono davvero poche. E ne offre il breve
catalogo: i due sommi Aristotile e Machiavelli; parte del Leviatano di Hobbes per il
Seicento; salta of course il Settecento, ma segnala la Politica di Treitschke per l'Ottocento
e per l'oggi, almeno il suo, il Mein Kampf di Hitler e gli Scritti e Discorsi di Mussolini.
L'ultimo suo articolo di fondo apparve il 24 febbraio del 1943, con il titolo
“Cristianesimo in pericolo”. Due grevi colonne di piombo, “tipografico e
metaforico”, scrive ancora Genco, la cui sintesi può cogliersi in queste frasi:
«Russia e America sono due mostruose organizzazioni economico-sociali e
politiche manovrate dal Giudaismo nemico giurato del cristianesimo e del
cattolicesimo ... L'Europa è avvertita ... E non c'è dubbio che potrà essere salva
solo a patto che, virilmente combattendo, essa si raccolga attorno al labaro
imperiale con la fatidica leggenda, sotto il simbolo eterno della Croce: «in hoc
signo vinces». Peggio di una bestemmia, commenta amaramente Genco: la croce
33 Cfr. Emilio Segré, Autobiografia di un fisico, Bologna, il Mulino, 1995, pp. 152-156.
34 Cfr. P. Violante, La goccia di umanità e l'asterisco, Nota introduttiva a M. Genco, op. cit., pp. 9-31 (pp. 2526).
- 18 -
per cui ancora si moriva e si perseguitava era allora quella uncinata. (Vengono i
brividi ad osservare la carta dell’Europa di quell’epoca: tutta l’Europa
continentale e la parte del Mediterraneo fino a tutto il Nord Africa erano sotto il
tallone dell’Asse e oggi racconteremmo una storia diversa senza Stalingrado e
senza El Alamein!)
Finito il fascismo, finita la guerra, Maggiore fu sospeso dall'insegnamento. In
data 17 novembre 1943 (protocollo n. 1408), il rettore Giovanni Baviera
comunica al preside di Giurisprudenza, Andrea Guarneri, la cessazione dal
servizio del prof. Maggiore. La motivazione è in una lettera del Comando
militare alleato del 21 ottobre che Baviera riporta e in cui si afferma35:
Poiché il dr. Giuseppe Maggiore (...) era indubbiamente un dirigente fascista, dottrinario e
propagandista negli ambienti universitari, ed era autore di libri di carattere virulentissimo
in appoggio del fascismo e contro gli Stati Uniti e la Gran Bretagna ed in generale contro i
Princìpi democratici;
Poiché, a motivo della sua attitudine mentale estremamente polemica egli non è adatto a
ricoprire una cattedra in nessuna istituzione accademica;
In virtù dei miei poteri (...).
Alla data del 17 gennaio 1945 risulta sottoposto a procedura di
defascistizzazione dalla Commissione d'epurazione del personale universitario.
Il questore tranquillamente riferì: «Il predetto esplicò le mansioni inerenti alla
carica (“Preside della Provincia”) con probità e imparzialità e per la sua
rettitudine e scrupolosità godeva in pubblico di ottima stima. Non consta che
abbia dato prova di faziosità o malcostume ...». Non meraviglia questo, stupisce
il giudizio che della vicenda dell'epurazione universitaria dà Salvo Di Matteo nel
suo Anni Roventi: la Sicilia dal 1943 al 194736:
Ancora più rigorosa fu l'azione svolta dagli alleati per la defascistizzazione dell'ambiente
universitario, che, in effetti, era stato oggetto di particolari cure da parte del soppresso
regime. Presso l'Università di Palermo si installò un ufficiale inglese, quel colonnello
Gayre, consigliere per l'educazione dell'A.M.G.O.T. e professore nell'Università di Oxford,
che (...) era venuto a Palermo anche con l'incarico di tenere lezioni di antropologia sociale.
Il Gayre intraprese immediatamente un'intensa attività diretta alla indiscriminata
eliminazione di testi universitari e di materie di studio ed all'allontanamento di un gran
numero di docenti, colpevoli solo di essersi indotti ad iscriversi al partito fascista.
Fu un bene che le iniziative dell'ufficiale alleato potessero essere infrenate attraverso
l'abile e paziente opera del prof. Giovanni Baviera, noto antifascista, che nel mese di
novembre [1943] era stato nominato dal Governo d'occupazione Rettore dell'Ateneo
palermitano. Il prof. Baviera si adoperò energicamente perché venissero reintegrati nel loro
posto d'insegnamento ben diciannove docenti epurati dagli alleati, fra cui il Maggiore
35 Ibidem, p. 27.
36 Palermo, Denaro, 1967, p. 161.
- 19 -
professore di diritto penale, e il De Francisci Gerbino, che teneva cattedra di economia
politica, sostenendo presso gli organi di polizia la assoluta mancanza di azioni di
rilievo svolte a favore del fascismo dagli illustri epurati. (Il grassetto non nel testo).
Fu così, che il Maggiore riebbe la sua cattedra e poté concludere la lunga
carriera riverito come grande giurista: la Facoltà di Giurisprudenza gli ha
intitolato un'aula e la Biblioteca37. Nel 1952, due anni prima della morte, ebbe
anche una parentesi di notorietà letteraria quando l'editore Flaccovio gli
pubblicò (oggi di nuovo ristampato) il romanzo Sette e mezzo, ispirato alla
rivolta palermitana del 1866, senza molto fondamento ritenuto la fonte
misconosciuta di Tomasi di Lampedusa per il suo Gattopardo. Il suo ritratto,
annota puntigliosamente Mario Genco, è conservato tra quelli dei “Siciliani
illustri” presso la nostra Biblioteca Comunale, al n. 290 dell'inventario.
Il percorso, comunque, del rettore Maggiore, e la sua orazione inaugurale, non
differiscono in nulla dai concetti espressi dal biologo razzista Sabato Visco in un
suo intervento alla Camera, dove dichiarava che l'università aveva perduto i suoi
docenti ebrei “con la più serena indifferenza” e anzi ne aveva guadagnato in
“unità spirituale”. Le previsioni catastrofiche di alcuni “ben pensanti” non si
erano verificate “nei riguardi di quelle attività che si riferiscono più direttamente
ai problemi dell’autarchia e che venivano svolte da qualcuno dei professori che
hanno lasciato le Università”38.
L’apparente serenità di Visco di fronte alla reale devastazione della comunità
scientifica del nostro Paese ha bisogno di qualche dato quantitativo.
Come si è già anticipato, il 5 settembre del ‘38, il R.D.L. n. 1390 decretava che
le “persone di razza ebraica”, sia docenti che studenti, venivano espulse dalla
scuola italiana di qualunque “ordine e grado”. Inoltre, “i membri di razza
ebraica” venivano pure radiati dalle Accademie e dagli Istituti di cultura. Per
quanto riguarda i docenti, si prevedeva in più di 200 il numero di quelli che
sarebbero stati espulsi dalle scuole italiane a far data dal 16 ottobre ‘38. Di essi
ben 99 erano professori ordinari, il 7 % circa della categoria, ed erano distribuiti
in quasi tutte le Università.
Per darne un’idea, si vedano gli esiti devastanti della legislazione antisemita
sulla comunità matematica. Vengono allontanati dall'insegnamento39:
37 Ad un altro insigne giurista, Santi Romano, componente del comitato scientifico della rivista Diritto razzista,
l'Università di Palermo ha dedicato un pensionato universitario.
38 Cfr. “Vita Universitaria”, 20 maggio 1939.
39 A questi nomi, che riguardano i docenti di ruolo, vanno aggiunti quelli dei liberi docenti: Alberto Mario
Bedarida (di Analisi algebrica a Genova), Giulio Bemporad (di Astronomia a Torino), Bonaparte Colombo (di
Analisi infinitesimale a Torino) e Bruno Tedeschi (di Matematica finanziaria e attuariale a Trieste).
- 20 -
• Guido Ascoli, ordinario di Analisi matematica, Università di Milano;
• Ettore Del Vecchio, ordinario di Matematica generale e finanziaria, Università
di Trieste
• Federigo Enriques, ordinario di Geometria Superiore, Università di Roma;
• Gino Fano, ordinario di Geometria analitica, Università di Torino
• Guido Fubini Ghiron, ordinario di Analisi, Politecnico di Torino
• Guido Horn d'Arturo, ordinario di Astronomia, Università di Bologna
• Beppo Levi, ordinario di Analisi matematica, Università di Bologna
• Tullio Levi-Civita, ordinario di Meccanica razionale, Università di Roma
• Arturo Maroni, ordinario di Geometria analitica, Università di Pavia
• Giorgio Mortara, ordinario di Statistica, Università di Milano
• Beniamino Segre, ordinario di Geometria analitica, Università di Bologna
• Alessandro Terracini, ordinario di Geometria analitica, Università di Torino
In base all'articolo 4 del R. Decreto Legge n. 1390 del 5 settembre 1938 sui
cosiddetti Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista, tutti
vengono esclusi dal sistema scolastico italiano e dalle Accademie e Istituti di
cultura, con effetto dal 16 ottobre 1938. La Società professionale dei matematici,
l'Unione Matematica Italiana, viene sottoposta a una energica cura dimagrante:
vengono espulsi 27 membri, circa il 10% del totale.
Non meno devastanti furono gli effetti sulle altre comunità scientifiche. “Il
disastro della fisica” si intitola il primo paragrafo di una ricostruzione della
Fisica italiana (dalle leggi razziali alla seconda guerra mondiale) che Edoardo
Amaldi aveva intenzione di pubblicare e che ora è stato reso disponibile agli
studiosi grazie all'ottima pubblicazione di Battimelli e De Maria40. Si apre con
l'addio alla famiglia Fermi, alla stazione Termini, la sera del 6 dicembre 1938
«se ben ricordo, attorno alle 21». Quel giorno e quell'ora segnano, dice Amaldi,
la data precisa con cui «si chiudeva definitivamente un periodo, brevissimo,
della storia della cultura in Italia che avrebbe potuto estendersi e svilupparsi e
forse avere un'influenza più ampia nell'ambiente universitario e, con il passare
degli anni, magari nell'intero paese. Il nostro piccolo mondo era stato sconvolto,
anzi quasi certamente distrutto, da forze e circostanze completamente estranee al
nostro campo d'azione. Un osservatore attento avrebbe potuto dirci che era stato
ingenuo pensare di costruire un edificio così fragile e delicato sulle pendici di un
vulcano che mostrava così chiari segni di crescente attività. Ma su quelle pendici
40 Si veda E. Amaldi, Da via Panisperna all’America. I fisici italiani e la seconda guerra mondiale (a cura di G.
Battimelli e M. De Maria), Roma, Editori Riuniti, 1997.
- 21 -
eravamo nati e cresciuti e avevamo sempre pensato che quello che facevamo
fosse molto più durevole della fase politica che il paese stava attraversando» 41.
Proprio per documentare il “disastro” e gettare uno sguardo sull’ambiente in cui
si era formato Emilio Segré, forse il più illustre degli scienziati espulsi
dall’Università di Palermo, conviene accennare alla situazione della Fisica
italiana nel periodo tra le due guerre mondiali. La disciplina non aveva
conosciuto, tra Otto e Novecento, gli esaltanti sviluppi della Matematica. Non
che fossero mancate figure di rilievo, si pensi per tutti a Augusto Righi (18501920), era però mancata la legittimazione della disciplina. Come ha giustamente
sottolineato Barbara Reeves42, proprio nel momento in cui altrove decollava la
nuova fisica teorica con i suoi risultati sconvolgenti, i fisici italiani restavano
appiattiti sugli aspetti più direttamente sperimentali della disciplina (con risultati
avvilenti data la povertà di risorse), mentre la fisica matematica restava
patrimonio scientifico e accademico dei matematici. E ciò metteva in una
posizione subordinata la fisica sperimentale, dal momento che le possibilità di
reclutamento e quindi di attrazione di giovani talenti erano scarse. Questa
situazione è sostanzialmente confermata da Giuseppe Giuliani che estende la
valutazione anche per il periodo tra le due guerre, sostenendo che nell'arco
temporale (1900-1940) mancavano “le condizioni necessarie perché la ricerca
italiana potesse complessivamente raggiungere livelli competitivi o che
potessero favorire il radicarsi diffuso di nuovi settori di ricerca”43.
Tuttavia questo giudizio integrato, che condividiamo, non può trascurare il dato
secondo il quale nel periodo tra le due guerre ci fu un significativo spostamento
a favore delle discipline sperimentali. È in questo contesto che si assiste, negli
anni '20 e ancor più negli '30, al decollo dei due gruppi principali intorno ai quali
si concentrò la ricerca fisica in Italia: il gruppo di Roma, dedito principalmente a
ricerche nel campo della fisica atomica e della fisica nucleare, e quello di
Firenze (Arcetri), dedito principalmente alla ricerca nel settore dei raggi cosmici.
È noto che gli artefici dell'affermazione dei due gruppi nel panorama della
ricerca internazionale sono principalmente Orso Mario Corbino (1876-1937),
41 Ibidem, p. 63.
42 Si veda B.J. Reeves, Le tradizioni di ricerca fisica in Italia nel tardo diciannovesimo secolo, in Vittorio
Ancarani (ed.), La scienza accademica nell'Italia post-unitaria. Discipline scientifiche e ricerca universitaria,
Milano, Franco Angeli, 1989, pp. 53-95 (94).
43 Si veda G. Giuliani, Gli aspetti istituzionali dello sviluppo della fisica dal 1900 al 1940, in Ancarani, op. cit.,
pp. 97-112 (111-12). Il lettore interessato può anche utilmente vedere S. Galdabini, G. Giuliani, “Physics in Italy
between 1900 and 1940: the Universities, physicists, funds, and research”, Historical Studies in Physical
Sciences, 19 (1988), 1, pp. 115-136.
- 22 -
direttore dell'Istituto di Fisica di Roma, e Antonio Garbasso (1871-1933),
direttore dell'Istituto di Fisica di Firenze. Entrambi avevano molteplici legami
politici (il primo era stato addirittura Ministro della Pubblica Istruzione dopo
Croce e immediatamente prima di Gentile), con gli ambienti industriali e con le
istituzioni scientifiche (erano entrambi accademici lincei e Garbasso ne era stato
vicepresidente dal 1926 e presidente dal 14 luglio 1932 alla morte).
A Firenze il Corso di Laurea in Fisica era stato istituito nel 1924 in seguito alla
trasformazione in Università dell'Istituto di Studi superiori. Lì aveva insegnato,
quale incaricato di Fisica matematica, il giovanissimo Enrico Fermi (1901-1954)
nel 1924-25 e vi aveva trovato Franco Rasetti (1901-2001), assistente di
Garbasso dal 1921 al 1925.
L'anno successivo, il 1926, è l'anno in cui Fermi vince la cattedra di Fisica
teorica e gli altri due ternati risultano Enrico Persico (1900-1969) e Aldo
Pontremoli (1896-1928), nipote di Luigi Luzzatti (1841-1927), milanese, il
compagno di Umberto Nobile, scomparso nei pressi del Polo Nord, e che si era
già distinto nel campo della fisica superiore. Come è noto, Fermi andrà a Roma,
Persico a Firenze e Pontremoli, già assistente di Corbino dal 1920 al '24, a
Milano dove avrà appena il tempo di creare l'Istituto di Fisica prima della tragica
morte.
Con l'arrivo a Firenze di Persico, presto raggiunto (1928) da Bruno Rossi (19051993) e da Giulio Racah (1909-1965), comincia l'opera di svecchiamento:
entrambi collaborano col di poco più anziano professore alla stesura delle sue
ben note lezioni di meccanica quantistica, “dando vita – come scrive Lucia
Orlando44 – al primo testo di meccanica quantistica per gli universitari italiani,
scherzosamente chiamato il Vangelo”. Nel 1929, con l'arrivo di Gilberto
Bernardini (1906-1995) e Giuseppe Occhialini (1907-1993), Bruno Rossi dà
avvio al settore dei raggi cosmici, individuato come l'unico in cui fosse possibile
fare ricerche di valore compatibili con la modestia delle risorse finanziarie.
L'anno successivo Persico si trasferisce a Torino, Rossi diventa aiuto di
Garbasso e Bernardini e Occhialini assistenti.
Analoga trasformazione avviene nel gruppo romano. Nel 1929 oltre Fermi e
Rasetti, c'erano Emilio Segré (1905-1989), diventato assistente in quell'anno,
Edoardo Amaldi (1908-1989) e Ettore Majorana (1906-1938) appena laureati.
Proprio in quell'anno, all'annuale riunione della SIPS, Corbino annuncia che i
futuri orientamenti saranno in direzione della fisica nucleare. Ancora facendo
44 Si veda L. Orlando, Gli ebrei nei laboratori dell'Italia fascista, "Sapere", a; 64° (1998), pp. 58-73 (59).
- 23 -
ricorso alle considerazioni di Lucia Orlando, possiamo fissare al 1929 l'anno di
svolta dei due gruppi di ricerca e valutare la presenza ebraica in ciascuno di essi:
i fisici ebrei presenti ad Arcetri fino alle leggi razziali sono i già citati Bruno
Rossi e Giulio Racah (poi trasferitosi a Roma), e inoltre Lorenzo Emo
Capodilista (1909-1973) e Sergio De Benedetti (n. 1912). A Roma oltre al già
citato Emilio Segré sono presenti Ugo Fano (n. 1912), Eugenio Fubini (n. 1912),
Leo Pincherle (1910-1976) e Bruno Pontecorvo (1913-1996). Per un certo
periodo frequentò il gruppo romano anche il futuro nobel per la medicina
Salvatore (poi, da emigrato, Salvador Edward) Luria (1912-1991), allievo del
biologo torinese Giuseppe Levi (1872-1965). Nell'organico dell'Istituto di Fisica
di Roma c'era anche Nella Mortara (1893-1988), assistente di Corbino e libero
docente di Fisica sperimentale.
Un'osservazione importante della Orlando (p. 61) è che nella nuova generazione
dei fisici erano presenti figli o nipoti di illustri matematici: così Edoardo Amaldi
è figlio di Ugo (1875-1957), Leo Pincherle è nipote di Salvatore, Eugenio Fubini
è figlio di Guido e Ugo Fano è figlio di Gino. “Questa circostanza – scrive la
Orlando – prima ancora di ogni altro discorso, è rappresentativa di quell'ideale
passaggio di testimone dalla matematica alla fisica”. Va aggiunto che anche una
delle figlie del grande matematico Guido Castelnuovo, Gina, si laureò in Fisica a
Roma poco prima delle leggi razziali e anche lei è costretta ad emigrare.
Alcuni dei giovani fisici ebrei si aggregano ai due gruppi, già da studenti, alla
fine degli anni '20, mentre per la maggior parte la laurea o l'accesso a posizioni
istituzionali avviene ai primi anni '30. Pincherle arriva a Roma nel '32 dopo la
laurea a Bologna; Fubini si laurea nel '33 con Fermi e sceglie poi di lavorare, dal
1935, all'Istituto Elettrotecnico Nazionale di Torino; Fano si unisce al gruppo
romano nel 1934 dopo la laurea in matematica a Torino; Pontecorvo si laurea nel
1934 dopo aver iniziato gli studi a Pisa; De Benedetti, infine, inizia la carriera a
Padova nel 1933 con Bruno Rossi (lì trasferitosi dopo la nomina a ordinario),
partecipando nello stesso anno alla spedizione scientifica all'Asmara (che portò
alla scoperta dell'effetto Est-Ovest).
Non è nelle competenze di chi scrive né pertinente all'argomento qui affrontato,
l'esame intrinseco ai programmi di ricerca dei due gruppi di Firenze e Roma.
Qui si intendeva dare conto della loro presenza contestualmente alla definizione
di quei programmi: alcuni sono protagonisti di quella ridefinizione, altri si
trovano coinvolti nella loro attuazione senza, però, avere il tempo di raggiungere
posizioni di primo piano a causa delle leggi razziali. Ma va sottolineata, come
già nel caso della Matematica, la loro completa integrazione con la comunità
- 24 -
scientifica di appartenenza. Non è riscontrabile, come fece notare Amaldi a
Antonino Lo Surdo in una lettera (del 1941) critica di uno sciocco articolo
apparso sul giornale romano “Tevere”45, uno specificum ebraico né in quei
programmi né nel loro modo di fare fisica.
Detto questo, va pure affrontato il problema se quella presenza “ebraica” fosse
in qualche modo favorita da valutazioni razziali, una specie di “lobby ebraica”,
come sostennero le frange più oltranziste del fascismo. Questo deve escludersi
del tutto per i settori scientifici di cui qui discutiamo. E l’affermazione è ancora
confermata anche nel caso della matematica, dove i matematici ebrei erano stati
allievi di maestri non ebrei (Beltrami, Bertini, Betti, Brioschi, Cremona, Dini,
Ricci Curbastro, Veronese) e formarono a loro volta allievi non ebrei
(Campedelli, Chisini, Conforto, Fantappié, Krall, Lampariello, Lombardo
Radice, Signorini, Zappa etc.).
Quando anche su loro e su Fermi, che aveva sposato l'ebrea Laura Capon (19071977), si abbatterono le leggi razziali, la maggior parte emigrò: Sergio De
Benedetti, prima a Parigi (laboratorio Curie) e poi negli Stati Uniti dove dal '49
fu docente alla Carnegie Mellon University; Enrico Fermi, negli Stati Uniti,
dove fu docente all'Università di Chicago; Ugo Fano, cugino di Racah, negli
Stati Uniti dove, dopo aver lavorato al Dipartimento di genetica della Carnegie
Institution, divenne professore all'Università di Chicago; Eugenio Fubini, negli
Stati Uniti dove ha contribuito alle ricerche di elettronica (radar) al Radio
Research Laboratory dell'Università di Harvard e dal 1965 è stato vice
presidente della IBM; Bruno Pontecorvo, prima a Parigi a lavorare con Joliot e
poi negli Stati Uniti con una borsa di studio Westinghouse. Dopo la guerra passò
in Inghilterra e, nel settembre 1950, emigrò in Unione Sovietica dove ha dato
contributi fondamentali alla fisica del neutrino; Giulio Racah, in Israele dove
fondò una scuola di fisica teorica alla Hebrew University di Gerusalemme;
Bruno Rossi, prima a Copenhagen a lavorare con Bohr e poi negli Stati Uniti,
dove è stato professore al Massachusetts Institute of Technology; Emilio Segré,
a Berkeley (dove si trovava già dall'estate del '38). Si aggiunga che anche
Franco Rasetti, che ebreo non era, decise di emigrare nel 1939 per non voler
vivere in un Paese che aveva commesso una simile infamia: andò in Canada,
dove diresse l'Istituto di Fisica dell'Università Laval a Québec, fondandovi un
nuovo laboratorio.
45 Si veda E. Amaldi, Da via Panisperna all'America, cit., pp. 141-42.
- 25 -
Anche la scuola di biologia fondata da Giuseppe Levi a Torino veniva dispersa.
Oltre allo stesso Levi, due suoi allievi (futuri premi Nobel) furono persi per la
Biologia italiana: Salvatore Luria e Rita Levi Montalcini (n. 1909). Ad essi va
aggiunto un terzo futuro Nobel «ariano», formatosi anch'egli alla scuola di Levi,
Renato Dulbecco (n. 1914).
La Chimica, una disciplina molto vicina al fascismo e da esso fortemente
beneficata, perdeva due dei principali animatori del settore industriale della
disciplina, Giorgio Renato Levi e Mario Giacomo Levi (1878-1954).
Questo (arido) elenco mostra, colla sola presenza di nomi ben noti anche ad un
pubblico non specialistico, come l’allontanamento dall’insegnamento e
dall’Università degli studiosi di origine ebraica sia stato per la scienza italiana
una vera e propria decapitazione.
Alla morte civile seguirono presto le più odiose restrizioni. E furono queste che
suscitarono finalmente il distacco di molti italiani dal fascismo e quel clima di
umana solidarietà su cui si soffermano alcuni commentatori per attenuare gli
effetti delle leggi razziali. Questi furono in realtà devastanti e la serena
indifferenza del rettore Maggiore o del biologo Visco lascia veramente
stupefatti. Per capire l'entità del dramma e l'immenso valore della perdita subita
dalla cultura italiana, basta guardare da vicino le biografie dei cinque docenti
allontanati dall'Università di Palermo.
Mario Fubini (1900-1977)
Laureatosi a Torino nel 1921 con una tesi di letteratura francese, insegnò lettere
italiane e latine nei licei; dal 1929 fu libero docente di letteratura italiana presso
l'Università di Torino e dal 1934 al '37 incaricato dello stesso insegnamento al
Magistero di Firenze. Nel 1937 vinse la cattedra di Letteratura italiana presso
l'Università di Palermo. Ha appena il tempo di giurare e di tenere un “notevole
corso” (sono parole della Facoltà di Palermo quando lo voleva richiamare) su
“La critica letteraria nel Settecento e il Baretti”46. Reintegrato dopo la guerra,
insegnò a Trieste e Milano. Nel 1965 ebbe la cattedra di Storia della critica nella
Scuola Normale di Pisa. Socio dell'Accad. dei Lincei dal 1953, fu anche
Direttore del Giornale storico della letteratura italiana e collaboratore de Il
Ponte, Direttore della collana “Classici italiani” della Utet e Presidente del
Comitato per l'Edizione nazionale delle opere di Ugo Foscolo.
46 Poi divenuto, nell’immediato dopoguerra, un fortunato saggio: Dal Muratori al Baretti. Studi sulla critica del
Settecento (Bari, Macrì, 1946; 4.a ed. riv. e ampliata, Roma-Bari, Laterza, 1975).
- 26 -
Che bisogno c’era, se si voleva sul serio “discriminare” e non “perseguitare”,
di negare a Mario Fubini un certificato di servizio che gli consentisse una nuova
sistemazione? Quando viene espulso, chiede alla Facoltà un attestato “sulla
qualità del servizio prestato”. Grande imbarazzo, con la Facoltà che chiede
l’autorizzazione al Rettore (Maggiore) e questi al Ministro (Bottai). La risposta
telegrafica del Ministro suona così: “Relazione vostra richiesta ... significo che
non ritengo opportuno rilascio certificato richiesto dal professore Fubini”. Nel
1946, la stessa Facoltà non ha alcun ritegno a certificare: “Studioso di varia
cultura e di fine sensibilità, egli fu seguito con particolare interesse e profitto da
giovani i quali ne apprezzavano l’acuto ingegno e il chiaro fervore. Alla cattedra
egli fu tolto dalle infauste leggi razziali tra il rammarico dei colleghi [sic!] e il
disappunto dei giovani”. Forse il secondo aspetto è vero, del primo – il
rammarico dei colleghi – non abbiamo trovato alcuna traccia, probabilmente
perché affidato ad un pensoso silenzio.
Maurizio Mosé Ascoli (1876-1958)
Vasta era la fama di cui godeva il clinico Ascoli, che aveva svolto in Sicilia la
maggior parte della sua carriera scientifica: dal 1910 al 1929 a Catania e poi
sempre a Palermo, fino alla morte. Aveva partecipato come volontario, assieme
ai suoi due fratelli – Alberto e Giulio – alla prima guerra mondiale (e Giulio,
fatto prigioniero, aveva preferito la morte, mentre Alberto, ordinario di
Patologia generale all’Università di Milano, sarà pure lui espulso). Era tisiologo
illustre ed uno dei più importanti esperti sulla malaria47. Pare che la sua cura
della malaria consistesse nell'iniettare adrenalina nella milza dei pazienti, così da
far immettere in circolo i parassiti e farli aggredire più facilmente dal chinino.
Proprio nel ‘38 stava attivamente lavorando per l’istituzione di un “Centro studi
per la cura della malaria”. Quale esperto su tale argomento era stato invitato in
Albania dalla Direzione Generale di Sanità pubblica. Nel chiedere
l’autorizzazione alla partenza scriveva: “Credo poi che sarebbe nell’interesse
delle cose, che potesse venire meco un assistente, da lasciare poi a Tirana alcune
settimane per addestramento dei medici nella mia cura, che offre largo margine
di applicazione in Albania: mi piace ricordare che fu proprio S.E. Bottai, allora
Governatore di Roma, a promuoverne il 1° esperimento nell’Agro Romano”.
Pare che sia stato Mussolini in persona, con gesto clamoroso, a scrivere in calce
47 Le sue idee sul settore possono leggersi in M. Ascoli, Nuove vedute sulla malaria, Roma, Ist. Bibliogr. Ital.,
1946.
- 27 -
alla richiesta ufficiale del governo albanese: “Scegliere un altro fra i 44 milioni
di cristiani italiani”.
Fu un abbaglio clamoroso. Dopo le leggi razziali, il regime dovette
precipitosamente affrettarsi a istituire a Roma un Istituto di Malariologia e il
Servizio Antimalarico, alle dirette dipendenze del governatorato dell'A.O.I. ma
ricorrendo ad oscuri personaggi48.
Anche a lui fu negata una qualsiasi attestazione che gli permettesse una
dignitosa sistemazione. Fu costretto a lavorare clandestinamente nella tollerante
Clinica privata Noto-Pasqualino. Reintegrato, riprese nel '43 la sua cattedra
palermitana.
Camillo Artom (1893-1970)
Figlio di Vittorio (banchiere) e di Gemma Pugliese, ricevette da istitutori privati
la prima educazione. Si iscrisse in Medicina all'Università di Roma
frequentando negli a.a. 1912-15, ma poi si laureò a Padova il 5 aprile 1917 col
massimo dei voti e la lode. Nel frattempo (1916) era stato chiamato alle armi nel
corpo degli alpini e ottenne il congedo solo nel 1920, dopo essersi guadagnato
due croci al merito di guerra.
Nel 1921 ottenne una borsa di studio per un periodo di studio presso l'Università
di Francoforte e ritornò all'estero, nel 1923, per studiare presso l'Università di
Amsterdam. Lo stesso anno ottenne la libera docenza di Fisiologia a Messina.
Nel 1925, trasferita a Palermo la libera docenza dove era stato chiamato da Ugo
Lombroso (1877-1952), vi ottenne un posto di assistente con qualifica di aiuto,
ma passò il 1927 a Napoli, avendo ottenuto una borsa di studio
dall’International Education Board della Rockefeller Foundation. Lo stesso
anno ottenne anche la libera docenza in Chimica biologica (disciplina che tenne
per incarico) e nel 1928 (il 29 luglio) sposò la veneziana Bianca Ara, figlia
dell'assicuratore Marco, da cui ebbe un solo figlio, Giorgio Vittorio. Nel 1930
vinse il concorso a professore di Fisiologia presso l'Università di Cagliari e nel
1935 ottenne il trasferimento alla stessa cattedra dell'Università di Palermo. Nel
1936 aveva chiesto il trasferimento alla stessa cattedra dell'Università di Pavia,
ma il Ministro del tempo, Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon (1884-1959),
48 Uno di questi, un certo Alfonso Petrucci, affidando alla rubrica «Per la sanità della razza» un suo articolo di
rassegna, “La lotta contro la malaria”, (La difesa della razza, a. II, n. 17, 5 luglio XVII, pp. 43-45) è costretto a
ricorrere alla bibliografia degli odiati inglesi pur di non citare Ascoli. Un giornalista del Giornale di Sicilia, un
certo M. Lombardo, in un articolo del 26 giugno 1942, scrisse un articolo sull'uso della adrenalina nella cura
della malaria, attribuendone il merito ad una lunga lista di medici, tutti allievi di Ascoli, naturalmente mai citato.
- 28 -
lo subordinò «alla situazione generale delle cattedre vacanti e avuto riguardo ad
ogni altro opportuno elemento». In altre parole glielo negò.
Costretto a lasciare la cattedra in conseguenza delle leggi razziali del 1938, si
trasferì l'anno successivo negli Stati Uniti. La sua fama di “principale
biochimico italiano di quegli anni” gli procurò la posizione di docente di
Biochimica, con la direzione dell'annesso Dipartimento, presso la scuola di
medicina di Wake Forest (N.C.). Nel 1941 Artom si trasferì a Winston-Salem
(N.C.) presso la “Bowman Gray School of Medicine” dove restò fino al ritiro
nel 1961. Nel 1963 fu dichiarato “emerito” e continuò a lavorare e studiare fino
alla morte.
Le ricerche di Artom riguardano il metabolismo lipidico. In particolare, Artom
studiò l'assorbimento dei grassi nel cibo, il loro metabolismo nel fegato e la loro
presenza nelle pareti arteriose, contribuendo sostanzialmente a costruire un
corpo di conoscenze fondamentali per prevenire l'arteriosclerosi (indurimento
delle arterie). Nel 1933, assieme ad un suo studente (Lorio Reale), aveva
dimostrato che nella digestione dei grassi si formano monogliceridi e digliceridi.
Ma è soprattutto ricordato, assieme ai suoi collaboratori, quale uno dei primi
italiani a fare uso degli isotopi radioattivi nello studio del metabolismo
intermedio. La circostanza è stata raccontata da Emilio Segré nella sua
Autobiografia di un fisico 49:
Riconobbi immediatamente che avevo una gran quantità di P32 con la vita media di due
settimane. Pensai subito che questa sostanza avrebbe potuto servire per esperimenti di
fisiologia, ma naturalmente io non ero fisiologo e non sapevo cosa farci. Spiegai in
dettaglio al mio collega fisiologo, Camillo Artom, che cosa fossero gli indicatori radioattivi
e gli offrii il fosforo radioattivo che avevamo nonché l'aiuto tecnico per le misure di radioattività. Artom capì al volo la tecnica e le possibilità che apriva, e in brevissimo tempo ne
pensò delle applicazioni interessanti al metabolismo dei fosfolipidi. Così cominciammo
una collaborazione fruttifera che ci portò a buoni risultati. Dopo che ebbi appreso un po' di
fisiologia cercai di pensare un modello sia pure ultraprimitivo di un sorcio e per stabilirne
il ricambio feci uno schema matematico con opportuni coefficienti di ricambio. Alcune
delle idee risalivano a lavori di Volterra che avevo letto da studente. Pubblicai anche
questo piccolo lavoro; credo che l'impostazione sia stata seguita e che ampliata e
perfezionata sia ora abbastanza di moda.
Il “piccolo lavoro” di cui parla Segré si trasformò in realtà in due brevi articoli
(com'era costume della Rivista) del 15 maggio 1937 sulla prestigiosa Nature di
Londra50. Le versioni ampliate furono poi pubblicate su Riviste italiane51.
49 Bologna, Il Mulino, 1995, p. 151.
50 C. Artom, G. Sarzana, C. Perrier, M. Santangelo, E. Segré, Rate of organification of phosphorus in animal
tissue (v. 139, pp. 836-838) e Phospholipid synthesis during fat absorption (pp. 1105-1106).
- 29 -
È un simile bagaglio che Artom si portò negli Stati Uniti, dove le sue ricerche
furono generosamente finanziate, anche perché si collegavano ai pioneristici
studi del biochimico tedesco Rudolf Schoenheimer (1898-1941), emigrato
anch’egli negli Stati Uniti, all’avvento del nazismo, perché di origini ebraiche52.
Ottenuto un posto alla Columbia University, Schoenheimer entrò in contatto con
Urey53 che aveva appena scoperto il deuterio (idrogeno pesante). Schoenheimer
ebbe l’intuizione che l’idrogeno 2 avrebbe potuto servire per marcare dei
composti organici. A partire dal 1935, in collaborazione con David Rittenberg
(n. 1906), Schoenheimer condusse una serie di esperimenti di questo genere
(immettere nell’alimentazione degli acidi grassi marcati isotopicamente con più
idrogeno 2) sui topi. Successivamente, Schoenheimer e Rittenberg
sperimentarono anche altri tipi di indicatori isotopici. Si fecero rifornire da Urey
di azoto 15 e lo impiegarono per sintetizzare degli amminoacidi. Scoprirono così
che l’atomo di azoto non rimaneva in quel particolare amminoacido dato ai topi.
Dopo un periodo di tempo notevolmente breve, era individuabile in altri
amminoacidi. Questa si rivelò una regola generale. Poco dopo il suo improvviso
suicidio, gli allievi pubblicarono un suo libro, The dynamic State of Body
Constituents54, nel quale descriveva e spiegava tutte le sue scoperte, che destò
grande scalpore nel mondo chimico e biochimico. Così Gamow (op. cit., p. 45)
commenta il suo suicidio:
Non so perché lo fece. Di certo egli era fuggito da Hitler e, nel settembre del 1941,
sembrava che la Germania dovesse vincere la guerra. Tutta l’Europa era sotto il suo
controllo. La Gran Bretagna era sopravvissuta a stento agli attacchi aerei e l’Unione
Sovietica, da poco invasa, sembrava sul punto di collassare sotto la potente offensiva
tedesca. Il Giappone stava dalla parte dei nazisti e gli Stati Uniti erano paralizzati dalla
pressione del loro stesso isolazionismo. Ricordo bene le paure e lo sconforto di chi, in quel
tempo, aveva motivo di temere le teorie naziste sulla razza. Schoenheimer potrebbe aver
avuto anche delle ragioni personali, ma non posso fare a meno di pensare che lo stato
generale del mondo debba aver avuto il suo peso.
In ogni caso, fu una tragedia sotto molti aspetti. Considerate che Schoenheimer aveva
fondato la tecnica degli indicatori isotopici e, con tale procedura, rivoluzionato le nostre
51 C. Artom, G. Sarzana, C. Perrier, M. Santangelo, E. Segrè, “Distribuzione e velocità di organificazione del
fosforo nei vari tessuti animali”, Archivio It. Sci. Farmacologiche, vol. giubilare dedicato a A. Benedicenti,
1937; C. Artom, G. Sarzana, C. Perrier, M. Santangelo, E. Segrè, “Sintesi dei fosfolipidi durante l'assorbimento
del grasso”, Boll. Soc. It. Biol. sperim., 1937; C. Artom, G. Sarzana, C. Perrier, M. Santangelo, E. Segrè,
“Influenza della natura della dieta sulla velocità di sintesi dei fosfolipidi nei differenti tessuti”, Ricerca
scientifica, 1937.
52 Su Schoenheimer si veda: H.T. Clarke, Rudolf Schoenheimer, 1898-1941, Science, 94 (1941), 553 e I.
Asimov, Grande come l’Universo, Milano, Mondadori, 1990, pp. 41-45.
53 Harold Clayton Urey (1893-1981), Premio Nobel per la Chimica nel 1934 proprio per la scoperta
dell’idrogeno 2.
54 Cambridge (Mass.), Harvard Univ. Press, 1942 (a cura di H.T. Clarke).
- 30 -
idee sul metabolismo. Considerate, anche, che i lavori successivi (ai quali Schoenheimer
avrebbe sicuramente partecipato se fosse vissuto ancora) facendo uso di questi tracciati
portarono alla completa risoluzione di molti problemi metabolici. Si può quindi facilmente
supporre che, nel giro di pochi anni, Schoenheimer si sarebbe guadagnato un premio
Nobel, se solo fosse riuscito a lasciare che la sua vita continuasse.
Quel che è peggio, egli non visse fino a vedere il successo di un’altra forma di tracciante
isotopico che fu sviluppato dopo la fine della seconda guerra mondiale. Egli stesso, se
fosse possibile per lui saperlo, rimpiangerebbe questa perdita anche più di quella del
premio Nobel.
Per tornare a Artom, diciamo in conclusione che i suoi lavori scientifici, circa
200, sono tutti pubblicati su riviste prestigiose, tra cui la già citata Nature e la
Annual Review of Biochemistry. Fu socio delle principali Accademie scientifiche
statunitensi ed è ricordato quale militante del partito democratico oltre che per le
sue doti giovanili di ottimo scalatore.
Emilio Segrè (1905-1989)55
Nato da un'agiata famiglia ebraica, Segré aveva cominciato gli studi di
Ingegneria a Roma ed era poi passato a Fisica in seguito all'incontro con Franco
Rasetti e Fermi. Dopo la laurea, conseguita nel 1928, era diventato assistente di
Fermi e aveva avuto parte attiva nelle ricerche del gruppo di via Panisperna nel
campo della spettroscopia e della fisica nucleare. La sua esperienza scientifica
era stata arricchita da un soggiorno presso il laboratorio di Pieter Zeeman ad
Amsterdam e da un più lungo periodo di lavoro nel laboratorio di Otto Stern ad
Amburgo. Nel 1935, in conseguenza della prematura morte di Michele La Rosa
(1880-1933), partecipa con successo al concorso per la cattedra di Palermo e già
il 16 gennaio 1936 può tenere la prolusione al corso di Fisica sperimentale su “Il
nucleo atomico”. L'impatto con il nuovo ambiente di lavoro non fu
entusiasmante. Abituato al grande dinamismo scientifico del gruppo romano e
ormai inserito nel circuito internazionale della ricerca fisica più avanzata,
doveva sgomentarlo trovare un Istituto con un anziano assistente, un solo
tecnico e pochissimi studenti. Il suo primo obiettivo era stato dunque quello di
dotare l'Istituto di un minimo di strumentazione adeguata alle ricerche di fisica
nucleare. Il secondo fu quello di incrementare il numero dei collaboratori: li
trovò nel siciliano Mariano Santangelo (1908-1970), e nei pisani Bernardo
Nestore Cacciapuoti (1913-1979) e Manlio Mandò. Santangelo si era laureato in
55 Per una ricostruzione accurata del periodo palermitano di Segré, cui ho liberamente attinto, si veda A. Russo,
“L’affermazione della fisica palermitana nel panorama scientifico nazionale, 1935-1970”, in P. Nastasi (a cura
di), Le scienze chimiche, fisiche e matematiche nell’Ateneo di Palermo, Palermo, Quaderni del Seminario di
Storia della Scienza, n. 7 (1998), pp. 167-193 (in particolare pp. 169-178).
- 31 -
Fisica, nel 1931, con Antonio Sellerio (1885-1973), discutendo una tesi
sull'«Assorbimento dei raggi X». Poi era stato assistente incaricato del torinese
Carlo Perrier, professore di Mineralogia al secondo piano dell'Istituto di Fisica.
Segrè l'aveva confermato nell'incarico e aveva iniziato con un lui le ricerche
culminate nel lavoro «Radioactive isotopes of Zinc and Cobalt»56.
Contemporaneamente, Segrè fece bandire un concorso di Fisica teorica, sicché
nel 1937 arrivava a Palermo anche il torinese Gian Carlo Wick (1909-1992). In
definitiva, ad appena due anni dal suo arrivo, Segré era riuscito ad avviare
l'Istituto di Palermo verso una posizione meno periferica e con un gruppo di
ricecatori di buon livello. I risultati non potevano mancare. Lo stesso anno 1937
segna la scoperta del tecnezio, fatta da Segrè insieme a Perrier. Né questa
collaborazione termina qui. Sempre utilizzando quella «vera miniera di sostanze
radioattive» costituita dai pezzi del ciclotrone di Berkeley, dove si era recato
nell'estate del '36, Segrè si rivolge a Camillo Artom per studiare assieme la
possibilità di usare il P32 ricavato dai campioni di Berkeley per lo studio del
metabolismo dei fosfolipidi, cui abbiamo già accennato.
Con la cacciata di Segrè ed Artom, questa felice e intensa stagione di ricerca
interattiva era destinata a chiudersi. Nel 1937, in attesa che si sbloccassero i
concorsi per assistente ordinario (che una legge in elaborazione doveva rendere
statali), Santangelo partecipa ad un concorso per i Licei e si trasferisce a
Potenza. Nel 1939 anche Cacciapuoti e Mandò lasciano Palermo (per Roma e
Bologna rispettivamente). Anche Wick lascia Palermo lo stesso anno, per
accettare la cattedra di Fisica teorica di Padova (lasciata libera dalla cacciata di
Bruno Rossi). Con loro se ne andò anche Perrier, trasferitosi alla cattedra di
Mineralogia dell'Università di Genova.
Alberto Dina (1873-????)
Non sappiamo quasi nulla di questo docente di Elettrotecnica, ma conosciamo
però il gesto di vigliaccheria del rettore Maggiore che richiesto da Dina di
“confermare” che aveva tenuto a titolo gratuito l'incarico di “Misure Elettriche”
per gli a.a. ‘36-’37 e ‘37-’38 e che anche per il ‘38-39 si era impegnato in quel
senso, cancellava dalla risposta la frase: “Vi ringraziamo di tale Vostro
interessamento a favore di questa Amministrazione”. E dire che Dina aveva
rinunziato nel 1923 alla prestigiosa cattedra del Politecnico di Milano,
preferendo restare a Palermo, dove era arrivato nel 1909 quale vincitore di
56 Phys. Rev., 53 (1938), con Segrè e Perrier.
- 32 -
concorso. Come amaramente annota Genco, le «vie dell'umiliazione passarono
anche attraverso la perdita anagrafica dell'indentità»: nel 1941, la figlia fu
costretta a cambiare nome e si chiamò ...57.
Questo rapido viaggio tra le vestigia delle leggi razziali del fascismo si conclude
qui, con questo ricordo dei cinque “diversi” allontanati dalla vita sociale italiana
nella sovrana indifferenza dei tanti Maggiore e Visco. A 66 anni di distanza,
appaiono anche a noi dei “diversi”, appaiono anche a noi appartenere ad una
“razza diversa”, a quella “razza” che si accontenta, per dirla con Primo Levi58,
«di altre verità più modeste e meno entusiasmanti [delle verità rivelate], quelle
che si conquistano faticosamente, a poco a poco e senza scorciatoie, con lo
studio, la discussione e il ragionamento, e che possono essere verificate e
dimostrate».
57 Cfr. M. Genco, op. cit., p. 132.
58 P. Levi, Se questo è un uomo, Torino, Einaudi, 1958, p. 257.
- 33 -
Appendice 1
MANIFESTO DEGLI SCIENZIATI RAZZISTI
1. Le razze umane esistono. La esistenza delle razze umane non è già una astrazione del
nostro spirito, ma corrisponde a una realtà fenomenica, materiale, percepibile con i nostri
sensi. Questa realtà è rappresentata da masse, quasi sempre imponenti, di milioni di uomini,
simili per caratteri fisici e psicologici che furono ereditati e che continuano ad ereditarsi. Dire
che esistono le razze umane non vuol dire a priori che esistono razze umane superiori o
inferiori ma soltanto ehe esistono razze umane differenti.
2. Esistono grandi razze e piccole razze.
Non bisogna soltanto ammettere che esistano i
gruppi sistematici maggiori, che comunemente sono chiamati razze o che sono
individualizzati solo da alcuni caratteri, ma bisogna anche ammettere che esistano gruppi
sistematici minori (come per es.: nordici, i mediterranei, i dinarici, ecc.) individualizzati da un
maggior numero di caratteri comuni. Questi gruppi costituiscono dal punto di vista biologico
le vere razze. la esistenza delle quali, è una verità evidente.
3. Il concetto di razza è concetto puramente biologico.
Esso è quindi basato su altre
considerazioni che non i concetti di popolo e di nazione, fondati essenzialmente su
considerazioni storiche, linguistiche, religiose. Però alla base delle differenze di popolo e di
nazione stanno delle differenze di razza. Se gli Italiani sono differenti dai Francesi, dai
Tedeschi, dai Turchi, dai Greci, ecc., non è solo perché essi hanno una lingua diversa e una
storia diversa, ma perché la costituzione razziale di questi popoli è diversa. Sono state
proporzioni diverse di razze differenti che da tempo molto antico costituiscono i diversi
popoli, sia che una razza abbia il dominio assoluto sulle altre, sia che tutte risultino fuse
armonicamente, sia, infine, che persistano ancora inassimilate una alle altre le diverse razze.
4. La popolazione dell'Italia attuale e di origine ariana e la sua civiltà è ariana. Questa
popolazione a civiltà ariana abita da diversi millenni la nostra penisola: ben poco è rimasto
della civiltà delle genti preariane. L'origine degli Italiani attuali parte essenzialmente da
elementi di quelle stesse razze che costituiscono e costituirono il tessuto perennemente vivo
dell'Europa.
5. È una leggenda l'apporto di masse ingenti di uomini in tempi storici. Dopo l'invasione
dei Longobardi non ci sono stati in Italia altri notevoli movimenti di popoli capaci di
influenzare la fisionomia razziale della nazione. Da ciò deriva che, mentre per altre nazioni
europee la composizione razziale è variata notevolmente in tempi anche moderni, per l'ltalia,
nelle sue grandi linee, la composizione razziale di oggi è la stessa di quella che era mille anni
fa: i quarantaquattro milioni d'Italiani di oggi rimontano quindi nell'assoluta maggioranza a
famiglie che abitano l'ltalia da un millennio.
6. Esiste ormai una pura “razza italiana”. Questo enunciato non è basato sulla confusione
del concetto biologico di razza con il concetto storico-linguistico di popolo e di nazione, ma
sulla purissima parentela di sangue che unisce gli Italiani di oggi alle generazioni che da
millenni popolano l'ltalia. Questa antica purezza di sangue è il più grande titolo di nobiltà
della Nazione italiana.
- 34 -
7. È tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti.
Tutta l'opera che finora ha
fatto il Regime in Italia è in fondo del razzismo. Frequentissimo è stato sempre nei discorsi
del Capo il richiamo ai concetti di razza. La questione del razzismo in Italia deve essere
trattata da un punto di vista puramente biologico, senza intenzioni filosofiche o religiose. La
concezione del razzismo in Italia deve essere essenzialmente italiana e l'indirizzo arianonordico. Questo non vuole dire però introdurre in Italia le teorie del razzismo tedesco come
sono o affermare che gli Italiani e gli Scandinavi sono la stessa cosa. Ma vuole soltanto
additare agli Italiani un modello fisico e soprattutto psicologico di razza umana che per i suoi
caratteri puramente europei si stacca completamente da tutte le razze extra-europee, questo
vuol dire elevare l'Italiano ad un ideale di superiore coscienza di se stesso e di maggiore
responsabilità.
8. È necessario fare una netta distinzione tra i Mediterranei d'Europa (occidentali) da una
parte, gli orientali e gli africani dall'altra. Sono perciò da considerarsi pericolose le teorie
che sostengono l'origine africana di alcuni popoli europei e comprendono in una comune
razza mediterranea anche le popolazioni semitiche e camitiche stabilendo relazioni e simpatie
ideologiche assolute inammissibili.
9. Gli ebrei non appartengono alla razza italiana. Dei semiti che nel corso dei secoli sono
approdati sul sacro suolo della nostra Patria nulla in generale è rimasto. Anche l'occupazione
araba della Sicilia nulla ha lasciato all'infuori del ricordo di qualche nome; e del resto il
processo di assimilazione fu sempre rapidissimo in Italia. Gli ebrei rappresentano l'unica
popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali
non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani.
10. I caratteri fisici e psicologici puramente europei degli Italiani non devono essere alterati
in nessun modo.
L'unione è ammissibile solo nell'ambito delle razze europee, nel quale
caso non si deve parlare di vero e proprio ibridismo, dato che queste razze appartengono ad un
corpo comune e differiscono solo per alcuni caratteri, mentre sono uguali per moltissimi altri.
Il carattere puramente europeo degli Italiani viene alterato dall'incrocio con qualsiasi razza
extra-europea e portatrice di una civiltà diversa dalla millenaria civiltà degli ariani.
COMUNICATO DEL PNF A PROPOSITO DEL “MANIFESTO DEGLI SCIENZIATI
RAZZISTI”
Roma, 25 luglio 1938
Il ministro Segretario del Partito ha ricevuto un gruppo di studiosi fascisti, docenti nelle
Università italiane, che hanno sotto l'egida del Ministero della Cultura popolare redatto o
aderito alle proposizioni che fissano la base del razzismo fascista. Erano presenti i fascisti
dott. Lino Businco, assistente di patologia generale nell'Università di Roma, prof. Lidio
Cipriani, incaricato di antropologia nell'Università di Firenze direttore del Museo Nazionale
di antropologia ed etnologia di Firenze, prof. Arturo Donaggio, direttore della clinica
- 35 -
neuropsichiatrica dell'Università di Bologna, presidente della Società italiana di psichiatria,
dott. Leone Franzí, assistente nella clinica pediatrica dell'Università di Milano, prof. Guido
Landra, assistente di antropologia nell'Università di Roma, sen. Nicola Pende, direttore
dell'Istituto di patologia speciale medica dell'Università di Roma, dott. Marcello Ricci,
assistente di zoologia all'Università di Roma, prof. Franco Savorgnan, ordinario di demografia
nell'Università di Roma, presidente dell'Istituto centrale di statistica, on. Sabato Visco,
direttore dell'Istituto di fisiologia generale dell'Università di Roma e direttore dell'Istituto
nazionale di biologia presso il Consiglio nazionale delle ricerche, prof. Edoardo Zavattari,
direttore dell'Istituto di zoologia dell'Università di Roma.
Alla riunione ha partecipato il ministro della Cultura Popolare.
Il Segretario del Partito, mentre ha elogiato la precisione e la concisione delle tesi ha ricordato
che il Fascismo fa da sedici anni praticamente una politica razzista che consiste - attraverso
l'azione delle istituzioni del Regime - nel realizzare un continuo miglioramento quantitativo e
qualitativo della razza. Il Segretario del Partito ha soggiunto che il Duce parecchie volte - nei
suoi scritti e discorsi - ha accennato alla razza italiana quale appartenente al gruppo cosiddetto
degli indo-europei.
Anche in questo campo il Regime ha seguito il suo indirizzo fondamentale: prima l'azione, poi
la formulazione dottrinaria la quale non deve essere considerata accademica, cioè fine a se
stessa, ma come determinante un'ulteriore precisazione politica. Con la creazione dell'Impero
la razza italiana è venuta in contatto con altre razze; deve quindi guardarsi da ogni ibridismo e
contaminazione. Leggi «razziste» in tale senso sono già state elaborate e applicate con
fascistica energia nei territori dell'Impero.
Quanto agli ebrei, essi si considerano da millenni, dovunque e anche in Italia, come una razza
diversa e superiore alle altre, ed è notorio che nonostante la politica tollerante del Regime gli
ebrei hanno, in ogni Nazione, costituito - coi loro uomini e coi loro mezzi - lo stato maggiore
dell'antifascismo.
Il Segretario del Partito ha infine annunciato che l'attività principale degli istituti di cultura
fascista nel prossimo anno XVII sarà l'elaborazione e diffusione dei principi fascisti in tema di
razza, principi che hanno già sollevato tanto interesse in Italia e nel mondo.
- 36 -
Appendice 2
La razza italiana o l'italiano allo specchio59
Basterebbe che ogni italiano, in una di quelle domande rivolte alla propria coscienza che
neppure il fascismo può impedirgli di porsi, si chiedesse di che razza è, da dove viene il
colore dei suoi occhi o della sua pelle, perché l'«antica purezza del sangue» proclamata dal
Ministero della Cultura popolare prenda un aspetto assurdo. Abitante di grandi porti che sono
comunità viventi di tutte le genti, contadino di quelle campagne del sud, da cui tanti sono
partiti emigranti per il mondo per tornare africanizzati, americanizzati, europeizzati, abitante
di quelle isole che sono state fecondate dalle piú diverse civiltà, e percorse dai pirati di tutte
le coste, lavoratore di quel nord d'Italia che da tanti secoli è uno di quei centri in cui l'Europa
si è riconosciuta nella sua multiforme varietà, tutti gli italiani portano in se stessi le tracce
delle «razze» dei quattro punti cardinali.
«Per l'Italia nelle sue grandi linee la composizione razziale di oggi è la stessa di quella che
era mille anni fa», dice il comunicato. Come se nel sud non fossero venuti e non si fossero
solidamente impiantati, meno di mille anni fa, quei Normanni che sono una delle poche genti
di cui l'origine nordica, scandinava non sia tanto lontana nei tempi da perdersi nelle leggende,
come avviene per tanti altri popoli battezzati germanici. Come se Venezia, Pisa, Amalfi,
Genova e le più recenti Livorno e Trieste non si fossero vantate di essere empori di
quell'oriente che allora dava a quelle città insieme alle sue merci degli abitanti di tutte le
specie. Come se francesi, spagnoli, austriaci fossero passati per tre secoli «sul sacro suolo
della patria» come i freddi e casti inglesi passano in mezzo alle popolazioni indiane o negre.
Volendo fare di noi una razza, il Ministero che pretende di pensare per gli italiani ridotti al
silenzio, ci ha fatto il complimento di considerarci un popolo colonizzato, amministrato da
secoli da gente che ci avrebbe trattato come i fascisti pretendono trattare gli abissini. Oggi
l'idea di razza è l'unica speranza di certi popoli asserviti nelle colonie, che debbono trovare
nel colore della loro pelle una prima giustificazione delle loro rivolte e delle loro sofferenze.
Senza storia, senza nessun passato, i senegalesi possono rivendicare la loro razza. Per un
popolo europeo, e più evidentemente che mai per noi italiani, parlare di razza è un negare la
59 Da F. Venturi, La lotta per la libertà. Scritti politici, Torino, Einaudi, 1996, pp. 123-126. (Originariamente
pubblicato il 29 aprile 1938, in «Giustizia e Libertà», a firma Gianfranchi). Franco Venturi (Roma 1914 –
Torino 1994 ), figlio di Lionello (uno dei pochi che nel 1931 preferì non giurare ed emigrare in Francia) e di
Ada Scaccioni. Militante antifascista e della resistenza, dopo la guerra fu professore di Storia moderna
all'Università di Torino, direttore della Rivista storica italiana e animatore della Einaudi. Ha lasciato opere
fondamentali sul Populismo russo (1962, 1972), su Le origini dell'Enciclopedia (1963, 1977) e su Utopia e
riforma nell'llluminismo (1970, 1992), tutte pubblicate da Einaudi insieme al monumentale Settecento
riformatore in 5 volumi e 7 tomi (1969 – 1990).
- 37 -
verità e tutto quello che ci fa essere noi stessi.
Basta guardarci nello specchio, basta guardarci l'uno bene in faccia all'altro, per riconoscere
su ognuno di noi i segni di un passato mescolato alla storia di tanti altri popoli, per vedere
che nulla più rimane di quel tempo (anche se mai esistette) in cui la ferina povertà e la vita
cavernicola ci teneva separati come delle bestie d'altro genere dagli altri uomini. Gli italiani
sono stati uniti, nel male, come nel bene, alle vicende dell'Africa, dell'Asia e dell'America. E
sarebbero una razza «pura»! Marco Polo, l'uomo che meno di mille anni fa, signori docenti,
mise in contatto Venezia con l'Estremo Oriente, tornato a casa sua pare fosse divenuto
irriconoscibile nel suo abito e nel suo viso orientali. È questo, anche se è una leggenda,
esempio tipico di cosa è l'emigrante italiano cosí pronto a riconoscere in qualsiasi altro
popolo se stesso. E di quest'uomo si vorrebbe fare un purissimo animale di razza, un
colonizzato ariano, un abissino a pelle bianca. Purissimi sarebbero quei siciliani in cui corre
sangue greco, arabo, saraceno, albanese, spagnolo, aragonese, ecc. Purissimi sarebbero tutti
gli abitanti di quell'Italia che è stata il punto di convergenza dei piú diversi popoli della terra.
Quest'idea della razza italiana non poteva fruttificare che sotto il cranio di quell'impotente
storico che è il fascista perfetto, incapace, per mancanza di sangue, di simpatia, di entusiasmo
di vedere il mondo se non diviso in caste e in razze.
Per ordine superiore il «nostro più gran titolo di nobiltà» sarebbe quello di essere ariani, e
pare sia tempo «che ci proclamiamo apertamente razzisti». Il che è press'a poco come dire
che è gran tempo che ci proclamiamo eunuchi. Non è stato forse attraverso i tempi la forza
degli italiani quella di aver saputo dare qualche volta una civiltà, un'arte, una poesia a coloro
che hanno mescolato il loro sangue col nostro?, di aver saputo cioè riassorbire la vita di altre
schiatte in una forma superiore di vita umana? E non è forse parte integrante di tutta la storia
italiana quell'emigrazione per fede, per idee, per fame, che sempre ha salvato in noi quel
carattere di uomini del mondo che tutte le reazioni e le contro-riforme hanno voluto toglierci?
Il fascismo vuole ora coltivarci, come abitanti di una repubblica del Paraguay, come bestie da
tenersi ben separate dalle altre, e tutto questo per poter più facilmente giustificare la miseria
degli uni e il potere degli altri. Eppure gli italiani non sono una razza: sono stati spesso, da
mille anni a questa parte, nelle loro città, una volontà di essere una civiltà; sono stati
modernamente una volontà di essere una nazione. Come razza siamo mostruosi, e tutti i vari
razzisti ce lo hanno sempre detto con parole che ora che le loro teorie sono artificialmente
importate anche in Italia, debbono essere tenute a titolo d'onore da tutti gli italiani pensanti.
Per chi sogna sterile purezza, siamo il corpo razziale sul quale sono passati piú numerosi i
popoli. La nostra storia è quello che è e non è certo l'addetto alla propaganda che la cambierà.
Se c'è una nazione che meno sia nata da una forza barbarica e semi-incosciente, da una spinta
di popoli primitivi a conglomerarsi in nazione, è proprio l'Italia. In quel fenomeno di
formazione degli Stati moderni, paesi come la Francia, l'Inghilterra, la Russia, poggiano su
- 38 -
lontane origini che certo mai non sono razziali, ma che nella loro lontananza ed oscurità
relativa potrebbero invitare a mitiche raffigurazioni di razze e di stirpi. L'Italia invece è nata
recentemente a nazione, in pieno sole di una Europa moderna. Le sue origini non hanno nulla
di mitico. Sappiamo, sentiamo quotidianamente in noi stessi coloro che con il loro sforzo, il
loro sacrificio, hanno fatto sí che l'Italia fosse una nazione. Essa è nata dalla volontà di
alcuni, dai sogni di pochi, dallo sforzo di uomini moderni, aperti alle esigenze dell'Europa
moderna. Si potrebbe obbiettare che proprio per questo Germania e Italia credono necessari
questi succedanei razzisti, per crearsi artificialmente quei miti delle origini che non possono
avere e che altri popoli piú anticamente sorti a nazioni non si degnano neppure di cercarsi. Ed
è in parte vero, ma ciò non fa che dimostrare l'incapacità dell'Italia attuale a vivere quella vita
per la quale essa nacque. Razzismo è anche qui segno di impotenza, segno di rinnegamento
di quelle che sono le vere radici della storia italiana.
Non per nulla l'atto di emancipazione degli ebrei coincide con l'atto di nascita della nuova
nazione: 1848. Ora i fascisti vogliono rigettarli nei ghetti: essi rinnegano cosí quell'atto del
Risorgimento, che se è stato preparato da tutta una evoluzione europea, resta pur sempre la
prova che nel sorgere a nazione l'Italia intendeva riassorbire gli ultimi resti di divisioni
razziali in una superiore convivenza. Dai Comuni all'abolizione del ghetto, i fascisti
rinnegano tutto quello che è veramente nostro nella storia del nostro paese. E null'altro noi
siamo se non la nostra storia e la volontà di non lasciarla in mano a coloro che l'abbassano a
zoologia.