Il cavaliere assorto - Campus
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Il cavaliere assorto - Campus
Chrétien de Troyes Il cavaliere assorto Parsifal o Il racconto del Graal Parsifal, opera iniziata all’incirca 1182 da Chétrien de Troyes e rielaborata, in seguito alla sua morte, durante il xiii secolo, è dedicata al conte Filippo d’Alsazia; l’autore, considerato il maggiore poeta medievale prima di Dante, è attivo tra il 1160 e il 1190 presso la corte di Maria di Champagne. La sua produzione comprende un paio di canzoni amorose alla maniera dei trovatori e cinque romanzi cavallereschi di materia bretone. Parsifal è un «racconto di formazione», in cui il protagonista conquista progressivamente coscienza di sé a ogni livello dell’esperienza cortese. 5 10 15 20 25 30 35 Nel brano seguente Parsifal, lasciato il castello del re Pescatore, scorge tre gocce di sangue di un’oca ferita sparse sulla neve che gli fanno ricordare l’incarnato dell’amata Biancofiore e lo inducono in uno stato di contemplazione estatica; inoltre, il protagonista riesce a respingere vittoriosamente gli attacchi del cavaliere Sagremor. L’originale in lingua d’oïl è in coppie di versi ottonari a rima baciata. Qui viene presentata la traduzione italiana in prosa. Al mattino la neve era caduta abbondante, ché la contrada era molto fredda. E Parsifal si era levato di buon’ora, come soleva, perché voleva ricercare e incontrare avventure e cavalleria; venne dunque dritto verso la prateria coperta di ghiaccio e neve dove era accampato l’esercito del re1. Ma prima che raggiungesse le tende, ecco in volo uno stormo di oche selvatiche, abbagliate dalla neve. Egli le ha viste e le ha udite, perché se ne fuggivano con grande strepito davanti a un falcone, che le inseguiva impetuoso: una, separata dalle altre, l’ha urtata e colpita con tanta forza che l’ha abbattuta a terra; ma il falcone continuò il volo, senza degnarsi di raggiungerla e assalirla. Parsifal comincia a spronare verso il luogo dove vide il volo; l’oca selvatica era stata ferita al collo, e aveva perduto tre gocce di sangue che si erano sparse sul bianco. Si sarebbe detto un colore naturale. L’oca non ha male né dolore che la trattenga a terra, così che quando egli vi giunse, già se n’era volata via. Quando Parsifal distinse l’impronta nella neve lasciata dall’oca selvatica e il sangue che le si vedeva intorno, si appoggiò sulla sua lancia per osservare quell’immagine: il sangue insieme alla neve gli appaiono come il fresco colore che è sul volto della sua amica2, e tanto s’immerge in questo pensiero che dimentica se stesso, perché sul viso di lei il vermiglio era diffuso sul bianco allo stesso modo con cui quelle tre gocce di sangue risaltano sulla neve; e insistendo nella contemplazione gli parve infine – a tal punto gli piacque! – di vedere proprio il colorito senza pari della sua amica, che tanto è bella. Sopra alle gocce Parsifal rimane assorto, e l’alba è già trascorsa; in quel momento dalle tende uscirono degli scudieri, i quali lo videro talmente rapito nella contemplazione che pensarono fosse assopito. Prima ancora che il re fosse levato (ancora dormiva nella sua tenda), gli scudieri davanti al padiglione del re hanno incontrato Sagremor3, che per la sua impulsività era detto lo Sregolato. «Ehilà!» dice «non mi celate perché ve ne venite così in fretta!» «Signore» dicono «fuori da questo campo abbiamo veduto un cavaliere appisolato sul suo destriero». «È armato?» «Per la nostra fede, sì!» «Andrò a parlargli» dice quello «così da condurlo a corte». Subito Sagremor corre alla tenda del re, e lo sveglia: «Signore» dice «là fuori, sulla landa, c’è un cavaliere appisolato». E il re gli comanda di andare, e quindi gli dice e lo prega che lo conduca con sé, e non lo faccia andar via. Subito Sagremor ordina che si porti fuori il suo cavallo, e chiede le sue armi; così fu fatto immediatamente, egli si arma presto e bene. Tutto armato esce dal campo, e va finché raggiunge il cavaliere. «Signore» gli fa «è bene che voi veniate dal re». E quello non si muove, anzi dà mostra di non avere udito, e quello glielo ripete, e lui tace, e quello si adira e dice: «Per san Pietro l’apostolo, voi ci verrete vostro malgrado. Di avervene prima pregato assai mi spiace: davvero ho impiegato bene le mie parole!». Ed ecco che ha spiegato l’insegna che era avvolta alla sua lancia, il cavallo sotto di lui corre, egli prende terreno e grida all’altro di mettersi in guardia, che se non si difende, lo colpirà. Parsifal guarda allora verso di lui, lo vede venire a briglia sciolta; subito esce dalle sue riflessioni, e a sua volta va contro di lui. Quando l’uno con l’altro si scontra, Sagremor manda in pezzi la sua lancia, ma quella di Parsifal non si incrina né si spezza, anzi lo colpisce con tale forza che l’ha abbattuto in mezzo al campo, e il cavallo, senza aspettare, se ne fugge per la prateria verso le tende, e lo vedono quelli che in quel momento si alzavano. [...] E Parsifal si è di nuovo appoggiato alla lancia, assorto sulle tre gocce. 1. del re: di re Artù. 2. amica: Biancofiore, la donna di cui Parsifal si è innamorato alla corte di re Artù. 3. Sagremor: cavaliere della Tavola Rotonda, nipote dell’imperatore Adriano di Costantinopoli. Successivamente viene definito «lo Srego- lato», per la sua abitudine a lanciarsi sempre per primo negli scontri.