FILE Vita di don Giussani

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FILE Vita di don Giussani
Estratti / Vita di Don Giussani di Alberto Savorana
Rizzoli, 2013 • pp.1354 • € 25,00
Un padre e una madre danno loro stessi al figlio
Una foto del 1930 ritrae il piccolo Giussani – “Gigi” o “Gigetto” per i familiari – con i sandali ai piedi, pantaloni
corti e camicia bianca, mentre tiene per mano la sorellina Livia in cortile. La casa natale esiste tuttora, in via
General Cantore angolo corso Italia (allora corso Umberto I). I Giussani vivono al primo piano, in un
appartamento di tre locali.
Luigi Giussani trascorre la sua infanzia a Desio, vicino a Milano, dividendo le sue giornate tra la scuola
elementare (che all’epoca ha classi composte da cinquanta alunni e oltre) e i pomeriggi nel grande cortile
della casa di ringhiera, con il pergolato e l’adiacente campo da bocce.
Livia, di tre anni più giovane di lui, lo ricorderà come un bimbo vivacissimo («Non stava fermo un
momento»), che passa le giornate giocando con le biglie oppure coi soldatini di piombo che il padre gli porta
dalla vicina Milano, mentre qualche anno più tardi si sarebbe cimentato anche con la dama.
Dell’infanzia a Desio Livia rievoca un episodio curioso, che solo il tempo caricherà di un significato profondo:
il fratello è fermo davanti al portone di casa, le mani dietro la schiena e la pancia in avanti. Passa un frate
per la questua e gli dice: «O missionario, o milionario!».
Le serate in famiglia – in un’epoca lontana anni luce dalla società dello spettacolo – sono ancora segnate
dalla recita del Rosario, dal racconto degli episodi del Vangelo e dalla lettura. Tra i libri preferiti, c’è un
volumetto del 1883, dalle pagine ingiallite: Un viaggetto di Gigino, di Eliseo Battaglia, acquistato da uno dei
genitori forse per quel titolo che richiama così da vicino il nomignolo che hanno dato al figlio.
Il piccolo Giussani si riflette dunque in questo suo omonimo del quale ascolta il racconto. Il Gigino della
narrazione ha anche lui una sorella, Ernestina, ed è con lei che va alla scoperta delle rondini e degli altri
uccelli migratori. Il testo – come accade per tutta la letteratura dell’infanzia dell’epoca – è in realtà denso di
contenuti antropologici e di ammaestramenti morali. Ed è così che, tra un racconto e l’altro, il giovane
Giussani sente frasi del tipo: «Nell’uomo l’intelligenza domina l’istinto», oltre a concetti meno generici come il
seguente: «Se non è il lume divino della ragione in tutto il suo splendore che li guida, è però certo che Dio ha
dato a tutti questi nostri fratelli inferiori [gli animali; N.d.A.], come li chiama un grande scrittore francese,
Michelet, qualche scintilla di essa che li guida nelle loro operazioni».
Nel capitolo che narra di un viaggio in treno da Torino a Pisa, il piccolo Giussani si sente leggere che
«Gigino non stava mai fermo; correva da un finestrino all’altro […]. Ernestina e lui non si chetavano un
momento; sfringuellavano di continuo: e come si chiama quel paesello lassù mezzo nascosto tra gli uliveti?
che monte è quello? che cosa vuol dir questo? che cosa fa quello? Era un subisso di domande che
rivolgevano al babbo, alla mamma, al nonno […], bisogna dir la verità, quei due ragazzetti non facevano
domande sciocche, come fanno certi bambini. Le loro interrogazioni erano sempre sensate, mostravano il
desiderio che avevano d’imparare, […] di Gigino ciò faceva un po’ specie, perché aveva appena sei anni, ed
era sempre inquieto e vivacissimo».
La lettura del libro, fatta dalla mamma, non sarà priva di conseguenze. E così una sera, quando si racconta
di un inverno che la famiglia di Gigino sta trascorrendo a Pisa, il piccolo Giussani sente parlare per la prima
volta di un certo «Dante Alighieri, il più grande poeta italiano, nato a Firenze nel 1265, [che] immortalò in
versi divini il giusto, ma tremendo supplizio del traditore della propria patria [il conte Ugolino; N.d.A.],
rimproverando però e con ragione Pisa, che chiamò vituperio delle genti, per avere, insieme al colpevole,
puniti di morte così atroce, i figli e i nipoti affatto innocenti». Scoperto in così tenera età, nel tempo Dante
diventerà uno degli autori più cari a Giussani.
Il padre Beniamino è ovviamente fiero del suo primogenito. Amante della giustizia e della libertà, non gli fa
mai mancare qualche raccomandazione prima del riposo notturno. Alla domenica sera, quando il tempo lo
permette, porta la famiglia a prendere il gelato presso la sala da ballo del paese. «Per noi era una cosa
grande,» ricorda Livia «se si pensa che allora non c’era niente altro.» E poi Beniamino ama la musica,
l’opera lirica.
La sera, anche la mamma lancia qualche suggerimento mentre rimbocca le coperte al figlio: «Pensiamo ai
poveri… pensiamo a quel che è successo in Giappone, pensa alla guerra che c’è in Cina». Rievocando molti
anni dopo quegli episodi della sua infanzia, Giussani commenterà: «La mia povera mamma, che ha vissuto
sempre in casa, facendo la serva di tutti, aveva un senso di ciò che accadeva nel mondo, un interesse
all’eco delle vicende, che le era dettato inevitabilmente dalla sua fede».
Capitolo 1: La nascita e l’infanzia, pp. 7-8
La centralità dell’io in Giussani e Montini
In occasione della Quaresima del 1957 l’arcivescovo Montini scrive una lettera pastorale dal titolo Sul senso
religioso. Nel dicembre dello stesso anno esce un piccolo libro di Giussani: Il senso religioso.
Massimo Borghesi, che ha curato un’edizione congiunta dei due testi, osserva che quella di Montini è una
scelta inusuale, della quale l’Arcivescovo è ben consapevole, «per il tema, allora in odore di modernismo, e
nell’orizzonte pastorale dominato, per lo più, da argomenti di carattere morale». Sottolinea tuttavia che la
decisione di concentrarsi sul tema del senso religioso rivela «una lettura originale della condizione di fede
nell’Italia degli anni Cinquanta». Per il successore di sant’Ambrogio, infatti, «l’uomo moderno va perdendo il
senso religioso», fattore essenziale alla fede se non si vuole ridurla a obbedienza passiva, subita per
tradizione, la quale, osserva ancora Borghesi, «non regge di fronte alle due forme di critica dominanti: il
laicismo borghese e l’ateismo marxista».
Montini afferma che il senso religioso è «sintesi dello spirito» che, «ricevendo la parola divina, impegna con
la mente anche le altre facoltà, e dona un prezioso apporto, quella rispondenza cioè che noi chiamiamo il
cuore, […] facendo sì che la parola divina non sia ricevuta solo passivamente, ma in modo invece da
ricavarne un caldo atto di vita».
Come si è visto, l’insegnamento di Giussani al Berchet si articola secondo la scansione Dio-Cristo-Chiesa. In
particolare, il primo anno la tematica del senso religioso è prevalente, come retaggio dei suoi studi rivissuto
alla luce dell’impatto coi giovani di Milano fin dagli inizi degli anni Cinquanta.
Sostenuto da questa duplice esperienza – gli studi compiuti a Venegono e i primi anni di insegnamento a
Milano –, e sollecitato dalla Lettera pastorale di Montini, Giussani scrive Il senso religioso su mandato della
Presidenza diocesana milanese della GIAC (l’imprimatur, del 16 dicembre 1957, è di monsignor Giuseppe
Schiavini, vicario generale della diocesi ambrosiana). Viene inviato a tutti i soci della Gioventù di Azione
Cattolica milanese «perché sia oggetto di riflessione questo tema, che è fondamentale per la vita di ogni
uomo», si legge nel corsivo introduttivo che termina con queste parole: «La stesura chiara e vivace di questo
scritto è del professor Don Luigi Giussani, cui sentiamo il dovere di esprimere la nostra profonda gratitudine,
certi di interpretare anche i sentimenti di quanti potranno apprezzarne, con la lettura, la profondità del
pensiero e la ricchezza della dottrina».
Giussani mette al centro della sua riflessione il soggetto dell’esperienza religiosa, e come Montini è
preoccupato che la proposta cristiana sia rivolta innanzitutto all’educazione del senso religioso che c’è in
ogni persona, prima che a definire forme e regole di comportamento morale da seguire.
In questo senso si può leggere l’affinità tra il testo di Montini e i primi cinque capitoli del volumetto di
Giussani. Eccone una sommaria esemplificazione.
Montini scrive: «Il senso religioso è un’attitudine naturale dell’essere umano a percepire qualche nostra
relazione con la divinità». E Giussani:
«Proprio questa capacità di entrare in rapporto con Dio è il senso religioso. Esso è quindi una dote
caratteristica della nostra natura», ci è dato con la nostra stessa esistenza.
Ancora, l’Arcivescovo afferma: «E lo diremo sentimento religioso quando questa attitudine si pone in
esercizio […]; l’avvertenza indistinta, balenata intuitivamente alla sua coscienza, del proprio essere
dipendente». Giussani: «Noi uomini siamo esseri dipendenti: non solo all’origine, […] ma anche per poter
compiere ogni atto. [E] il richiamo che mette in moto il senso religioso […] viene da Dio attraverso la realtà
creata».
Montini osserva: «Occorre […] una riabilitazione razionale del senso religioso. […] ben consapevole delle
due forme precipue di attacco che gli vengono […] una, è il laicismo; l’altra, […] è l’ateismo». Giussani
insiste: «Oggi possiamo amaramente constatare che il dubbio serpeggia e che l’ateismo, che per secoli era
stato l’eccezione, è largamente diffuso».
Il testo di Giussani prosegue con due capitoli dedicati alla figura di Cristo e due che trattano del fenomeno
Chiesa. L’edizione del 1957 ha un capitolo conclusivo (che non comparirà più in quelle successive), dedicato
all’urgenza della testimonianza cristiana – eco evidente delle preoccupazioni di Montini per una ripresa di
presenza missionaria in città. Vi si legge che «la maggior parte degli uomini sono completamente determinati
dalla società in cui vivono. Se essa è cristiana, sapranno rimanere cristiani anche loro; se la società non è
cristiana, si lasceranno trascinare via, come pietre in un torrente impetuoso. […] La mentalità dominante è
quella laicista per cui Dio e la religione devono essere completamente staccati dalla esistenza concreta, e
relegati tutt’al più nel fondo soggettivo e incomunicabile della coscienza individuale. Questo Dio confinato
fuori dalle esperienze vissute è un’astrazione razionalista – è un Dio nebuloso e arido – è un Dio destinato a
scomparire. La mentalità dominante diseduca il senso religioso. Il laicismo è il nemico di quella Chiesa, che
esaurisce tutta la sua funzione e tutto il suo significato proprio nello sforzo di educare il senso religioso».
Giussani ha ben chiaro che solo un percorso sistematico di educazione può rendere autocoscienza sicura il
cristianesimo, in un contesto di progressiva contestazione e di abbandono della fede tradizionale. Per questo
nel febbraio del 1957 nasce la «Scuola Dirigenti», così presentata in un bollettino ciclostilato dal titolo Cose
nostre/G.S., 2 gennaio ’57: «Un movimento come Gioventù Studentesca non può vivere senza una anima,
senza un centro, che ne unifichi le attività e ne rinnovi, volta a volta, la vitalità. Proprio perché non siamo un
organismo irrigidito in schemi vincolanti, ma un movimento dinamico che “si fa” secondo particolari esigenze,
è necessaria un’intima energia, che affiori, animandolo, nelle nostre iniziative. Per questo nasce la Scuola
Dirigenti GS, che si terrà, a partire dal prossimo 3 febbraio alle ore 10 in via Statuto 2, con periodicità
quindicinale, per sei domeniche. Vi interverranno i membri del consiglio, i capiraggio, i responsabili delle
iniziative e i migliori studenti dei raggi […]; è chiaro infatti che Gioventù Studentesca non può prescindere dai
raggi, perché è soltanto dai raggi che essa si attua».
Il bollettino si apre con una frase di Giussani, che avverte i ragazzi di un problema col quale dovranno fare i
conti: «Come i Magi nel loro viaggio, così per il nostro mondo, possiamo sentirci solitari. Il coraggio con cui
affrontiamo la nostra solitudine è il prezzo per creare la comunità».
Capitolo 8: Montini, la Missione cittadina e “Il senso religioso”, pp. 213-215
L’occupazione dell’Università Cattolica a Milano
Nella seconda metà degli anni Sessanta l’università si trova a essere l’epicentro di un rivolgimento sociale
profondo. Pier Alberto Bertazzi ricorda: «Nelle assemblee studentesche intervenivano tutti, anche quelli del
FUAN (i giovani fascisti), e il fenomeno sembrava veramente rappresentare la rivolta di un’intera
generazione che si rendeva conto, come d’improvviso, che non aveva ciò che desiderava».
Il punto di svolta si ha il 17 novembre 1967, quando l’aumento delle tasse all’Università Cattolica di Milano
provoca una protesta generalizzata tra gli studenti, sia tra quelli che partecipano alle preesistenti formazioni
politiche studentesche (INTESA, di impostazione cattolico-democristiana di sinistra, UGI social-comunista,
GLUI liberale e FUAN) sia tra i numerosi universitari attraversati da un forte disagio e tesi a un indistinto
ideale di giustizia e libertà.
In una bella giornata di sole di fine novembre si svolge una manifestazione davanti alla Cattolica (in
precedenza occupata contro l’aumento delle tasse e poi disoccupata), alla quale partecipa una massa di
studenti, tendenzialmente pacifici, in piazza Sant’Ambrogio, con poche file di carabinieri che bloccano
l’ingresso principale dell’ateneo. Bertazzi, presente con altri di GS e FUCI, perché è ancora la fase della
«condivisione del bisogno degli studenti», ricorda: «A un certo punto, da dietro le prime file vengono lanciati
alcuni pezzi di legno contro i carabinieri che, sorpresi dal gesto, reagiscono con una improvvisata e
disorganizzata “carica”. Tutti fuggono rapidamente perché la maggioranza dei presenti non ha alcuna
intenzione di fare sfociare in violenza quella manifestazione».
Sulle prime quella circostanza appare come un avvenimento del tutto inusuale e isolato, ma diventerà ben
presto la prima e la meno violenta di una serie di manifestazioni e di drammatiche guerriglie urbane che
scandiranno per lunghi anni la vita della città. «Al termine della manifestazione qualcuno propone di
organizzarsi meglio contro l’oppressione dell’autorità di qualunque tipo essa sia, perché impedisce
l’espressione della propria libertà; c’è chi si ritira deluso; e chi si trova confermato nel proprio desiderio di
libertà, ma anche nell’evidenza che quella non è la strada da percorrere per realizzarlo» dice Bertazzi.
Fin dalla prima ora molti universitari giessini della Cattolica si buttano nella mischia. Tra di essi c’è Renata
Livraghi, in GS dal 1965 (poi docente universitaria), che ricorda il disappunto di Giussani quando, insieme a
un’amica, si è recata nel suo studio in Università Cattolica per informarlo di avere aderito all’occupazione.
Non nasconde di essere rimasta contrariata, lei che pensava di aver interpretato al meglio l’invito a essere
presente nella realtà universitaria. Passeranno quarant’anni prima che la Livraghi si renda conto della verità
dell’atteggiamento assunto da Giussani in quella occasione.
Il 19 novembre 1967, appena due giorni dopo i fatti della Cattolica, Giussani parla al ritiro di Avvento del
Gruppo adulto: «Gli anni passati ci hanno educato, un po’ a frustate, un po’ sentendo il dolore di rami rotti
continuamente, ci hanno risvegliati e costretti a capire come, o prendiamo sul serio l’essenza della nostra
vocazione oppure tutti andremo a finire come alberi, come rami secchi». Le sue parole sono incalzanti: «Se
alla parola di Dio non si risponde – mi pare che sia una constatazione tremenda della mia esperienza di tanti
anni e personale e di contatto con tante persone –, essa si ritira; non bisogna lasciar scappare i tempi di Dio,
il tempo della misericordia, il tempo della sua iniziativa».
A questo punto entra di schianto l’eco dell’occupazione della Cattolica: «E così anche l’intelligenza della
situazione e delle cose da fare – che è un’intelligenza diversa, più acuta, perché è un’intelligenza dettata dal
punto di vista di Dio – ci è mancata così facilmente perché [Dio] non Lo attendiamo giorno e notte». Infatti,
«se Lo avessimo atteso giorno e notte, anche l’atteggiamento dei nostri nella loro convivenza all’Università
Cattolica sarebbe stato diverso; è stato così generoso, ma quanto vero?». Giussani si riferisce a coloro tra
gli universitari che hanno condiviso quella iniziativa: «La verità del gesto non nasce dalla scaltrezza politica»,
altrimenti «il nostro discorso si confonde con quello degli altri e diventa strumento del discorso degli altri.
Possiamo far le nostre cose e assumere come paradigma, senza che ce ne accorgiamo, quello di tutti, il
paradigma offerto da tutti gli altri. È dall’attenderLo giorno e notte che si distingue il nostro discorso, le nostre
azioni».
Ma se è dolorosa una «defezione tra di noi», continua Giussani, è «infinitamente ancora più equivoca, e
perciò più dolorosa, una presenza piena di compromesso, una presenza non vera». Non c’è disfattismo in
queste parole, dal momento che «Dio sa recuperare qualunque cosa, perché Dio è più potente anche della
nostra cattiveria. Ma quello che, almeno fenomenicamente, è defezione deriva decisamente dal fatto che
non Lo si è atteso giorno e notte; è una carenza di attesa, è una carenza di desiderio». Carenza di desiderio
vuol dire che «si desidera qualcosa d’altro più di questo. Magari non ce lo si dice esplicitamente, ma si
desidera qualcosa d’altro più di questo».
E allora, Giussani è perentorio, «non serviamo il movimento, sottraiamo al movimento, rubiamo al
movimento, anche se diventiamo assistenti universitari e magari ordinari universitari e facciamo una nuova
teoria sul marxismo; anche se andassimo a conquistare il mondo, diventa la nostra opera, diventa l’attesa
del nostro regno, se tutto quello che attendiamo non si esaurisce totalmente in quello che ci è stato dato, nel
fatto che ci è stato dato». Si abbandona, quindi, a un ricordo personale: «Il cardinale [Giovanni Colombo;
N.d.A.], la prima scuola di italiano che ci ha fatto, in prima liceo, ha introdotto subito la Divina Commedia:
“Nel mezzo del cammin di nostra vita…”. Ha fatto un lungo discorso di una mezz’ora per dire: immaginatevi
due che vanno nel deserto e che hanno una direttiva; se incominciano a scostarsi di un millimetro da quella
direttiva, e continuano a scostarsi di un millimetro, capite che dopo, a un certo punto, hanno perso la strada
completamente. Io mi ricordo questo paragone, che mi è rimasto impresso, anche perché io mi son reso
conto per la prima volta allora con chiarezza come sia impercettibile l’evolversi della nostra situazione. Così
che è sempre una presenza di spirito, come consapevolezza e come dominio di sé, che deve continuamente
recuperare le stonature e i fuorviamenti che istintivamente, naturalmente, avvengono». Nota, infatti, che, a
un certo punto, «uno si trova lontanissimo dagli altri e crede che lui si sia fatto la personalità, mentre ha
tradito qualche cosa, ha abbandonato qualche cosa. Crede che sia un’altra la sua strada, mentre l’ha
abbandonata, la strada».
Quindi ritorna sull’occupazione della Cattolica, indicando l’insegnamento da trarre: «Veramente siamo nella
condizione d’essere all’avanguardia, i primi di quel cambiamento profondo, di quella rivoluzione profonda
che non starà mai – dico: mai – in quello che di esteriore, come realtà sociale, pretendiamo avvenga»; infatti,
«non sarà mai nella cultura o nella vita della società, se non è prima […] in noi. […] Se non incomincia tra di
noi questo sacrificio di sé… Non un obolo da dare, ma […] una rivoluzione di sé, nel concepire sé […] senza
pre-concetto, senza mettere in salvo qualche cosa prima».
Molti universitari di GS presenti in Cattolica, sull’onda dei primi entusiasmi, si buttano d’impeto e in modo
incondizionato al seguito del gruppetto di ideologi che stanno egemonizzando il movimento degli studenti,
rammenta Giussani. Il fatto ha un riflesso immediato sui gruppi presenti nelle scuole medie superiori di
Milano e delle città vicine, perché quegli universitari ne sono spesso gli «incaricati», ossia i responsabili,
come riconoscerà Giussani: «Ebbe così il crisma dell’autorevolezza la decisione di saltare sul carro guidato
da Mario Capanna e da altri che insieme a lui avrebbero poi saldamente egemonizzato la vicenda del ’68
[…]. In tali circostanze, il “centro” di GS non fece altro che seguire le scelte compiute o giustificate da molti
responsabili dell’Azione Cattolica e della FUCI in tutta Italia compresi diversi cappellani di collegi e
dell’Università Cattolica».
Capitolo 14: Il Sessantotto, pp. 390-393
A Seregno con Claudia Mori
È il 9 marzo 1982; al Teatro San Rocco di Seregno, don Armando Cattaneo, parroco nella cittadina
brianzola, da alcuni anni organizza un incontro per la Quaresima. Davanti a un folto pubblico di giovani e di
adulti, annuncia: «C’è questa sera con noi don Luigi Giussani, arriverà anche Claudia Mori. Sia don Luigi sia
Claudia hanno accettato di venire solo a una condizione: che fosse un’esperienza religiosa. Claudia Mori
non voleva venire; ha accettato di venire quando ha detto: “Ah! Parlate di Gesù Cristo? Devo dare la mia
testimonianza su Gesù Cristo? Allora ok, ci sto”».
L’incontro viene introdotto dalla lettura di un brano dello scrittore siciliano Elio Vittorini. Questi aveva scritto
sulle pagine del Politecnico, subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale, che «Cristo può essere
molto importante anche solo come cultura». Carlo Bo, critico e saggista cattolico, gli aveva opposto il rifiuto
di questa riduzione di Cristo a mera figura umana di un grande della storia. Il brano che viene letto a
Seregno è la risposta di Vittorini a Bo: «Voi cattolici dovreste tener conto anche di coloro che “non credono”;
e vedere in Cristo non soltanto quello che può essere per voi, ma anche quello che può essere per coloro
che “non credono”; […] [Cristo] può essere molto importante solo come cultura. […] Tu mi rispondi che Cristo
non è cultura. […] Tu vedi, io uso le maiuscole scrivendo di Lui, come se anch’io credessi nella Sua divinità
oltre che alla Sua umanità. Nella mia infanzia in effetti ho creduto anch’io alla Sua divinità. Andavo a messa,
mi confessavo, mi comunicavo. Avevo già venti anni l’ultima volta che mi sono confessato e comunicato. Poi
ho smesso di credere nella Sua divinità, ma per cominciare a credere nella Sua umanità. Ora credo che
l’Uomo più grande esistito finora sulla terra sia Lui, e che nulla di quanto gli uomini hanno pur detto di più
nuovo e concreto, o anche di più utile dopo di Lui, sia stato ancora detto in contrasto con Lui […]. Sento che
Cristo non ha perduto importanza, dentro di me, da quando ho smesso di credere nella Sua divinità; e che,
anzi, ne ha guadagnata. Egli è diventato più importante per me, come cultura, di quello che prima non fosse,
per me stesso, come via dell’altra vita».
Giussani prende immediatamente la parola e dice che Vittorini «è commovente come cuore d’uomo, però
Cristo è un uomo che si è detto Dio». I termini del problema, e della discussione infinita che ha segnato tutta
la modernità, non potevano essere posti in modo più perentorio: se Cristo sia solo un grande genio
dell’umanità o se sia quello che ha detto di se stesso, cioè Dio. Tutto l’intervento di Giussani è il tentativo di
documentare la verità dell’affermazione secondo la quale Cristo è uomo e Dio: «Noi, distratti dalle vicende
quotidiane e dalla superficialità del nostro vivere, non realizziamo la sconfinata sproporzione, la lontananza
infinita che separa l’uomo da Dio. Ma un animo profondamente religioso, un genio religioso è colui che
questa sproporzione sente enorme e la insegna a tutti gli altri: che Dio solo è Dio. Così hanno fatto tutti i
grandi nomi della storia delle religioni, anche Buddha, anche Maometto. Mosè aveva un tale senso della
propria piccolezza davanti a Dio da supplicarlo che investisse della missione un altro al posto suo».
Giussani spiega che, unico al mondo, Cristo è un uomo che si dice Dio e in un istante proietta il pubblico di
Seregno indietro di duemila anni: «Chi è quotidianamente spettatore di cose così grandi, il gruppetto degli
amici, uomini e donne che lo seguono, sente nascere la domanda insopprimibile: chi è costui? Sanno donde
viene, conoscono sua madre, e i suoi parenti, tutto sanno di lui, ma è così sproporzionato il potere che
quell’uomo dimostra, egli è così grande e così diverso nella sua personalità che anche la domanda ha un
senso diverso: chi è mai costui?». È lo stesso interrogativo che gli rivolgeranno, esasperati, i suoi nemici:
«Fino a quando ci tieni col fiato sospeso? Di’ da che parte vieni e chi sei!».
Giussani commenta che conoscevano tutti i suoi dati anagrafici, ma non riuscivano a darsi una risposta
esauriente. La medesima domanda Gesù rivolgerà agli apostoli: «E voi chi dite che io sia?»; e Giussani,
rivolto alla platea di Seregno, dice: «Nessuna altra domanda che l’uomo possa pensare è più grave, più
grande e più decisiva di questa; tutta la vita nostra, come valore, dipende dalla risposta a questa domanda:
se egli sia esistito come uomo qualsiasi, o se egli esista come uomo-Dio».
Mentre pronuncia queste parole, Giussani sembra leggere un interrogativo sui volti di chi lo sta ascoltando, e
cerca di esplicitarlo: «Come possiamo rispondere a questa domanda noi che non siamo stati alle nozze di
Cana, che non abbiamo visto il paralitico guarire, che non abbiamo assistito al funerale di Nain, che non lo
abbiamo seguito per tre giorni nella steppa, dimenticando persino il cibo?». Il modo c’è, risponde, ed è alla
portata di ciascuno, perché «la compagnia che da Cristo è nata ha investito la storia: è la Chiesa, suo corpo,
cioè modalità della sua presenza oggi». Da questo può nascere «l’evidenza razionale, pienamente
ragionevole, che ci fa ripetere con certezza ciò che Lui, unico nella storia dell’umanità, disse di sé: Io sono la
via, la verità, la vita».
Dopo Giussani è la volta di Claudia Mori, che racconta: la religione «sia io che Adriano [Celentano, il marito,
cantautore, regista e attore; N.d.A.] l’abbiamo sempre vissuta in un modo molto semplice, la vita stessa ci
porta a incontrarLo ogni momento, e quindi i figli, vivendo insieme ai genitori, Lo incontrano in ogni momento
della giornata. Io penso che Gesù non si imponga mai. Io provengo da una famiglia tradizionalmente
credente, quindi fino a una certa età, verso i quattordici-quindici anni, la fede era un fatto automatico,
acquisito, senza troppo pensare a quello che poteva essere in realtà la fede. La mia fede di adesso l’ho
raggiunta in un modo difficoltoso, attraverso un’esperienza dolorosa: quando morì mio padre io, per la prima
volta, mi trovai di fronte alla morte, una cosa per me traumatica (anche perché avevo diciassette anni). Per
un paio d’anni non ho creduto più. Avevo già conosciuto Adriano, dopo un anno ci siamo sposati… volevo
sapere se dovevo andare avanti a vivere con la fede o senza fede. E in questo mi ha aiutato molto Adriano,
nel senso che anche lui si è posto questo problema, lui in un modo diverso e molto più bello perché, al
massimo della notorietà, si è chiesto chi doveva ringraziare; e questo mi sembra abbastanza anomalo,
perché quando uno è famoso, ha tutto, non si chiede mai chi deve ringraziare».
Claudia Mori concorda con Giussani sul fatto che il problema fondamentale è «chi è Lui?»; alla risposta non
si può arrivare «soltanto attraverso la dottrina (non perché questa non serva, ma a un certo punto la dottrina
va approfondita e personalizzata)». E questo, continua la Mori, è difficilissimo: «Io spesso non lo faccio, anzi
raramente, ma non perché non lo voglia fare, ma perché purtroppo il mondo di oggi ti porta un po’ a sviare, e
quindi questi incontri si dovrebbero fare più spesso».
A questo punto c’è una domanda del pubblico per Giussani: «Mi ha colpito, durante la sua meditazione,
l’averci ricordato come gli apostoli non capivano tutto, eppure sono stati con Lui. Ecco, è anche il problema
nostro: non Lo capiamo tutto, e come stare con Lui?». Risponde Giussani: «Mi pare che è proprio la
differenza fra i farisei e gli scribi e anche il popolo che li seguiva, e il nucleo di poveri di spirito che seguivano
invece Lui. La differenza profonda è qui: se guardiamo alla vita e alle cose con la pretesa che confermino
una nostra misura prestabilita, oppure se andiamo verso le cose, dentro le cose, con una apertura umile,
perché se c’è una cosa evidente è che la realtà è più grande di noi».
Quindi Giussani ritorna sull’intervento della Mori: «Io stasera vado via con una cosa preziosa, perché è una
testimonianza preziosa quella che ha dato la signora prima, dicendo che suo marito ha avuto come strada a
Dio la risposta alla domanda “chi ringraziare”. Ma un uomo che si pone di fronte alla vita con la domanda
“chi ringraziare”, quello è un grande uomo, cioè è un grande piccolo uomo, è un povero di spirito, come dice
il Vangelo, vede la verità». Domandano a Giussani se questo sia alla portata di chiunque, non soltanto di
uno alla Celentano, e lui risponde: «Chiunque, perché questo è realmente il gioco della nostra libertà.
Perché la nostra libertà non si esercita tanto nelle grandi scelte; la nostra libertà si pone, si decide come nel
chiaroscuro d’un atteggiamento verso la vita: verso la madre, il padre, la moglie, il marito, i bambini, il cielo,
la terra, il sole, la pioggia… è il modo con cui uno guarda le cose. Ecco, la libertà decide lì se spalancarci
oppure metterci il gomito di fronte al muso (dico ai ragazzi). La libertà è una scelta a livello, diciamo,
crepuscolare, a livello di penombra… non dico del subcosciente, ma la libertà, essendo un fenomeno
estremamente discreto nelle mosse, si decide proprio quasi senza che uno se ne accorga, e la decisione è
apertura verso la realtà, oppure chiusura alla realtà; pretesa di giudicare la realtà dal pancone delle proprie
misure, oppure stupore umile, anche sofferto, anche doloroso, di fronte a ciò che è, che non è nostro, che
diventa nostro se l’abbracciamo». Dal pubblico interviene una persona che si dice non credente e si rivolge a
Claudia Mori: «La sua fede mi sembra un po’ troppo superficiale. Vorrei sapere perché crede in Dio».
Giussani si intromette: «Aveva già risposto…». Claudia Mori, di rincalzo: «Tu mi hai chiesto perché credo in
Dio. Io ti chiedo: ma perché non dovrei credere in Dio?». D’impeto, Giussani esclama: «Perfetto!».
Capitolo 22: L’attentato a Giovanni Paolo II e i primi anni Ottanta, pp. 621-625
«Sono contento come quando avevo quindici anni»
Quella che negli ultimi anni si è formata attorno a Giussani è una vera e propria famiglia, composta dalle
persone che se ne prendono cura giorno e notte, chiamate a partecipare ai momenti di gioia e a quelli di
grande sofferenza; ne condividono la vita, così come egli partecipa a quella di chi gli è accanto. Sono: Anna
Maria Baldussi, Alba Bigoloni, Gisella Corsico, Federico Dendéna, Maria Grazia Figini, Massimiliano
Galimberti, Enrico Grugnetti, Jone (Juana Echarri), Amabile Lanfredini, Angela Levorini, Alberto Mapelli,
Luca Zarpellon.
Ricorda Zarpellon, infermiere: «Dei nostri genitori, figli, fratelli, nipoti o amici chiedeva sempre; si informava
su come stessero e quando veniva a sapere che uno di loro aveva un problema o una difficoltà, faceva
qualsiasi cosa per aiutarlo, si preoccupava come se fosse la persona a lui più vicina». Nel tempo Zarpellon
matura questa convinzione: «Per don Giussani noi della casa eravamo le persone che Dio gli aveva messo
accanto per accompagnarlo e sostenerlo nella malattia: e lui viveva questa compagnia ogni istante con
ognuno di noi, di giorno e di notte, come un continuo sì detto a Cristo».
Alberto Mapelli, un altro degli infermieri, ricorda che lo sguardo di Giussani su di loro, che vivevano
quotidianamente con lui, così come su ognuno di coloro che incontrava, era di preferenza: «Una sera,
mentre ero seduto al suo fianco per la cena, mi ha messo il braccio intorno al collo e rivolto agli altri ha detto:
“Vedete, Alberto è come se fosse mio amico da sempre”. Ero da pochi giorni con lui, e quel gesto, insieme
alle sue parole, mi lasciò nell’imbarazzo totale perché mi sentivo talmente piccolo e indegno al fianco di
quell’uomo che, senza averlo meritato, mi abbracciava totalmente fino al profondo del mio io. Un anno, per il
mio compleanno, mi scrisse un biglietto che diceva : “Padre Nostro, che ci porti nella profondità del tempo…
Auguri!”».
Con le persone della casa Giussani ama scherzare, per esempio attribuendo loro soprannomi a volte
inusuali. Un giorno Amabile Lanfredini si sente apostrofare bonariamente: «Scimmia! No, macaco! Ma un
macaco che dice: “Veni Sancte Spiritus, veni per Mariam”». «Anche negli scherzi» dice l’infermiera «don
Giussani non mancava mai di ricordarci chi eravamo e da che cosa erano definite le nostre persone.»
Nei molti anni di attività professionale Zarpellon non ricorda di avere visto persone soffrire come Giussani.
Ma per quest’ultimo «la sofferenza, pur essendo grande, non è stata un “inciampo”», come l’infermiere ha
modo di verificare dopo una lunga serie di notti tormentate; in un momento in cui i crampi gli concedono una
tregua, Giussani gli dice: «Sono contento come quando avevo quindici anni e se il Signore non mi avesse
dato da vivere quello che sto vivendo, non sarei così contento».
Una notte, segnata da forti dolori, Zarpellon sente affiorare dalle sue labbra un’invocazione, quasi un gemito:
«Ti prego, non provarmi troppo!»; allora «gli domandammo cosa potevamo fare per aiutarlo e quando riuscì
a parlare ci disse: “Statemi vicino, pregate, aiutatemi a pregare il Signore, aiutatemi a vincere il male”, e così
iniziammo la recita del Rosario».
Zarpellon continua coi ricordi: «La preghiera alla Madonna, a san Giuseppe e a san Riccardo era quotidiana.
Spesso durante il giorno, quando le sue condizioni glielo permettevano, lo portavamo a fare un giro in auto.
Durante il tragitto si recitava il Rosario o si cantava (a lui piaceva tantissimo sentire cantare) e sempre, prima
del rientro a casa, c’era la sosta presso una chiesa o una cappella. Giunti lì, se aveva la forza e aiutato, vi
entrava sostando alcuni minuti in preghiera, e se non riusciva diceva a noi che lo accompagnavamo di
entrare in chiesa e dire una preghiera per lui».
L’infermiere aggiunge: «Vi furono anche giorni lieti e sereni nei quali don Giussani riprendeva subito la sua
consueta vivacità e passione per ogni cosa che sentiva e accadeva: incontrava persone, si appassionava in
conversazioni a tavola, ascoltava attento e stupito quando gli raccontavamo fatti che ci erano successi». E
Grugnetti ricorda: «Uno dei momenti più simpatici della vita della casa, specialmente quando si era fuori
Milano, era l’arrivo alla sera di Luca e Alberto, o di Massimiliano. La prima cosa che il Gius chiedeva quando
ci si sedeva per la cena era di raccontare dei loro figli. Le avventure di Francesco, Marta, Gabriele e gli altri
diventavano, così, occasione di divertimento e anche di commozione». Un giorno Zarpellon si sente dire: «Io
darei la vita per i vostri figli».
Mapelli conferma: «Effettivamente era sempre attento alle nostre famiglie e ci chiedeva spesso dei nostri
figli. Ad ogni Pasqua non faceva mai mancare ai nostri bambini il dono di un uovo di Pasqua enorme,
sempre accompagnato da un pensiero». Ha conservato i seguenti. Per la Pasqua 2002: «Dall’oscurità in cui
sono avvolte le cose, cui pure l’uomo aspira, la fede fa scaturire speranza e gioia». Nel 2003: «Questo
giorno è consacrato al Signore vostro Dio; non fate lutto e non piangete! Perché questo giorno è consacrato
al Signore nostro; non vi rattristate, perché la gioia del Signore è la vostra forza (cfr. Ne 8, 9.10)». E per la
Pasqua 2004, l’ultima di Giussani: «È importante che la passione che ha avuto e che ha Cristo passi dentro
il nostro cuore».
Alla sera, quando Giussani si ritira nella sua stanza, le persone presenti in casa si raccolgono attorno a lui
per pregare. «A volte si recitava il Santo Rosario. Sempre si diceva la preghiera a san Giuseppe, a san
Pampuri, il Memorare e l’Inno alla Vergine» di Dante, ricorda sempre Zarpellon. Talvolta, «quando era
particolarmente stanco, seguiva coricato a letto con gli occhi chiusi e in silenzio; alla conclusione della preghiera, apriva gli occhi e ringraziava tutti». Capita spesso che qualcuno della casa si sieda accanto al letto e
gli legga alcune pagine di un libro: «Accadeva anche di notte ogni qual volta non riusciva a dormire. C’era
una lettura che prediligeva sopra ogni altra ed erano i tre volumi del PerCorso [Il senso religioso, All’origine
della pretesa cristiana e Perché la Chiesa; N.d.A.]. Quando si arrivava alla fine, si ricominciava da capo»
dice Zarpellon, «non saprei dire quante volte si è letto Il senso religioso». Altre volte, «ci raccoglievamo
attorno a lui e si cantava. E al mattino, al risveglio – che avveniva sempre prima del sorgere del sole –,
chiedeva di essere accompagnato allo scrittoio dove si immergeva nella silenziosa lettura del breviario».
Gisella Corsico conferma che «finché gli è stato possibile, don Giussani non ha mai disertato la lettura
quotidiana del breviario. Quando poi non stava bene, chiedeva a qualcuno della casa di leggerlo per lui ad
alta voce. E non era insolito vederglielo sfogliare avanti e indietro in questo o in quel momento della
giornata».
Sulla fedeltà alla lettura del breviario, Federico Dendéna ricorda: «Una notte mi chiese di leggere con lui le
lodi (erano le 2 di notte!) e poi di continuo l’ora media e i vespri perché così, disse, era sicuro di averle
recitate se nella giornata successiva non gli fosse stato possibile. A un certo punto, durante la lettura del
breviario mi disse: “Comunque questo è quello che mi educa più di tutto”; io gli chiesi: “I salmi?”, e lui: “No, il
breviario”, indicandolo col dito».
Dei soggiorni in Liguria Massimiliano Galimberti ricorda una consuetudine pressoché quotidiana: «Il
pomeriggio si usciva in macchina per recarsi al santuario mariano delle Porrine, una chiesetta incastonata
nelle colline, oltre Sanremo. Si saliva recitando il Rosario e giunti alla chiesetta ci si fermava fuori, perché
non riusciva a camminare e rare volte riuscì a entrarvi, si recitava il Salve Regina o il Memorare. In una di
queste occasioni vedemmo entrare una famiglia. Quando riprendemmo la strada ci disse: “Che la Madonna
ascolti prima le preghiere di quella madre e poi me”». Gisella Corsico rammenta: durante una visita al
santuario «don Giussani si rese conto che la chiesetta necessitava di qualche intervento di restauro. Da quel
giorno ci incaricò di consegnare all’anziano parroco delle offerte per la chiesa, senza mai rivelarne la
provenienza al sacerdote, che pure voleva conoscere il nome del benefattore». Giussani farà acquistare a
Milano una corona del Rosario in argento «per ornare la statua della Madonna conservata all’interno del
santuario».
Sono numerosi gli episodi che riguardano Giussani in Liguria nell’ultimo tratto della sua vita sacerdotale, così
come altri ne avevano segnato l’inizio quasi sessant’anni prima in quei luoghi di mare. Amabile Lanfredini
ricorda la volta in cui, in partenza da Milano, prepara le valigie di Giussani, una con gli indumenti, una coi
medicinali e una col necessario per la celebrazione della messa: «Arrivati in Liguria, mi accorsi di avere
dimenticato la stola. Appena lo seppe, don Giussani mi sgridò e mi fece telefonare a padre Emmanuel:
voleva da lui la dispensa per potere dire messa senza la stola, che si fece portare da Milano il giorno
successivo. Da allora non l’ho più dimenticata!».
In Liguria, per un certo periodo, un’altra meta degli spostamenti pomeridiani in auto è Bordighera: «Quando
era possibile» dice Gisella Corsico «facevamo sosta a un chiosco sul mare per consumare una bevanda.
Enrico Grugnetti, oltre al compito professionale, se ne vede assegnato da Giussani un altro, legato alla sua
bella voce: in casa e durante gli spostamenti in auto è a lui che domanda di intonare questo o quel canto. La
convivenza con Giussani, infatti, è costantemente segnata dal canto, come ricorda Galimberti: «Chiedeva
sempre che si cantasse. Spesso voleva che cantassimo gli stessi canti per lunghi periodi affinché potessero
imprimersi sempre più dentro di lui (Povera voce, i canti di Claudio Chieffo, e, gli ultimi tempi, Noi non
sappiamo chi era. Un giorno, ironizzando sulla mia voce stonata, disse rivolto a Enrico: “Questo canto è così
bello che potrebbe cantarlo anche Max”» (soprannome con cui è noto Massimiliano Galimberti). Insieme al
canto, la musica: «Durante le notti insonni, alcune volte voleva ascoltare la musica. Poi di giorno
commentava i brani e spesso erano quelli che uscivano a distanza di mesi nella collana “Spirto Gentil”». Una
notte Giussani dice a Massimiliano:
«Sono sessant’anni che ascolto i cori russi. Ho sempre desiderato che la nostra compagnia assomigliasse a
loro».
Di Giussani, Enrico Grugnetti dice: «Era un uomo con cui era facile essere amico, intimamente e
intensamente amico. Era sincero (sempre), si stupiva di tutto, entusiasta della vita in qualsiasi condizione,
generoso in modo estremo, umilissimo e paziente. Non ho mai visto una persona ridere col gusto con cui
rideva il Gius. Non ho mai visto nessuno come lui non lamentarsi mai del male (tanto) che provava a causa
della malattia. Non ho mai visto un uomo gustare una buona pietanza come faceva lui». Appena il Parkinson
glielo permette, lavora: «Non era mai distratto. Non ho mai visto pregare come pregava lui, attento, stupito di
quello che leggeva». Grugnetti conserva un’impressione fortissima di Giussani assorto a pregare:
«Nell’ultimo periodo della sua vita la preghiera coincideva col respiro stesso». L’aspetto per lui sorprendente,
nei tre anni trascorsi accanto a Giussani, è «la sua capacità di rendere partecipi gli altri di ciò che viveva.
L’eccezionalità della sua persona non creava tra lui e gli altri una distanza, al contrario ti faceva godere di
più dei canti o sosteneva la coscienza nella recita del Rosario. Ti faceva desiderare di vivere la vita come la
viveva lui». La frase che Giussani ripete più spesso a Grugnetti, in quegli ultimi mesi del 2004, quando le
parole diventano sempre più faticose a pronunciarsi, è questa: «Tu devi pregare la Madonna! Devi recitare
tutti i giorni la preghiera di Dante alla Madonna». L’infermiere ricorda: «Sapeva di avvicinarsi alla morte e mi
lasciava un semplice ed essenziale lavoro».
Dendéna sottolinea altri dati della vita quotidiana con Giussani, «dal semplice passeggiare al recitare il
breviario o il Rosario tutte le sere, dal chiacchierare e dal girare in macchina per Milano o verso Caravaggio.
Ripeteva spesso: “Io sono contento di quello che sono e di quello che ho”». Lo manifesta anche col buon
umore che esprime durante la giornata, per esempio, «fischiettando e canticchiando qualche canzone,
cercando di barare grossolanamente nel gioco delle carte per farci divertire. Quando si sentiva in forze
dettava lui stesso i ritmi delle giornate, suggerendo le cose da fare. Tutto in lui era dominato dalla coscienza
del Mistero che fa tutte le cose, di questo noi siamo stati testimoni».
La cosa che colpisce di più Dendéna è «la sua libertà nel guardare le persone per quello che sono». Una
notte, mentre si trova in Liguria, Giussani lo chiama ogni cinque minuti perché non riesce a prendere sonno,
è un periodo molto difficile e di notte dorme, sommando i vari intervalli di “sonno”, circa due ore: «Dopo
l’ennesimo cenno di chiamata, entrai in camera molto deciso e infastidito perché ero molto stanco (era la
terza notte di fila che facevo), e quindi reagii in quel modo davanti a don Giussani». Dopo essere stato
aiutato a sedersi sul bordo del letto, Giussani lo guarda e gli domanda che cosa non va. «Gli risposi che non
avevo nulla, ma che ero solo un po’ stanco. A quel punto mi guardò e con un dolce sorriso mi disse: “Guarda
che non si può capire il Mistero perché il Mistero è mistero”. Mi sentii come nudo; Giussani aveva colto
immediatamente il mio stato d’animo davanti alla sua salute: mi fermavo all’apparenza.»
Amabile Lanfredini aggiunge altri elementi dell’atteggiamento verso la quotidianità: «Obbediva con grande
umiltà alle persone che gli vivevano accanto e alle funzioni che erano loro affidate nella convivenza. Ed era
evidente che in quel modo obbediva al Mistero, perché si vedeva che, mentre faceva quel che doveva, si
sentiva al suo posto, e ne era rasserenato; anche nel sacrificio». E quando aveva bisogno di qualcosa (cibo,
abiti, prestazioni infermieristiche eccetera), «chiedeva semplicemente e riceveva tutto facendoti sempre
sentire importante, brava, qualificata, come chi aveva sempre fatto il meglio possibile. Valorizzava tutto e
tutti; per esempio, a tavola capitava di sentirlo esclamare: “Mai mangiato un riso così buono!”. E anche se
noi sapevamo che non era così, sentivamo che era il suo modo per dire: “Vai avanti, non ti fermare”».
Anche durante il mese di luglio 2004 i giorni sono segnati dalle difficoltà. E a Gisella Corsico che, vedendolo
sofferente, gli dice: «Gius, com’è dura la vita!», risponde: «La vita che non è vita, è dura». I disagi crescenti,
provocati dalla malattia, aprono subito e sempre in Giussani la strada al pensiero di Cristo: così, proprio in
quel periodo, fa pubblicare sulla rivista Tracce il testo del canto gregoriano Iesu dulcis memoria («O Gesù,
dolce memoria»), accompagnato da una sua breve meditazione. Invita a cantarlo nelle comunità di CL come
ricordo di un passato che ha prodotto il presente: «La verità della gioia del nostro cuore è data soltanto […]
da questo uomo di cui l’eccezionalità dell’umanità si è subito fatta palese, così che essa poteva essere
dimenticata rabbiosamente, surclassata da tanta distrazione, ma rimaneva nel cuore». Giussani si augura
che ogni giorno le parole del canto siano dette a Gesù, «nella confusione o nella chiarezza (non importa il
come)». E rivolgendosi direttamente a Cristo, lo prega così: «La Madonna ci aiuti a guardare questa tua
presenza, o Re, questa tua presenza, o Signore, così come ti guardava lei, così come ti guarda lei». Cristo,
infatti, «è il contenuto della felicità, cui tutto in noi ci fa aspirare».
Capitolo 38: L’ultima lettera al Papa e i cinquant’anni di CL (2004), pp. 1146-1152