Plurilinguismo europeo Il Trattato di Roma del 25 marzo 1957, atto

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Plurilinguismo europeo Il Trattato di Roma del 25 marzo 1957, atto
Plurilinguismo europeo
Il Trattato di Roma del 25 marzo 1957, atto costitutivo dell'allora
Comunità Economica Europea (CEE), diventata poi con il Trattato di
Maastricht del 7 febbraio 1992 Unione Europea (UE), fu stipulato da sei paesi
fondatori e cioè Italia, Francia, Germania, Belgio, Olanda, Lussemburgo; a
questo nucleo originario di stati si sono innanzitutto aggiunti, in quattro
successive fasi, ulteriori nove paesi.
Le date di tali primi ampliamenti sono le seguenti:
• 1 gennaio 1973 : Danimarca, Irlanda e Regno Unito
• 1 gennaio 1981 : Grecia
• 1 gennaio 1986 : Spagna e Portogallo
• 1 gennaio 1995 : Austria, Finlandia e Svezia.
Ne è così derivata la configurazione dell'Europa dei 15 che per quasi dieci
anni (dal 1 gennaio 1995 al 30 aprile 2004) ha contraddistinto l'assetto
istituzionale comunitario. Nel 1997 la Commissione prese in esame nuove
domande di adesione da parte di Paesi dell'Europa centrale e orientale e di Cipro
(si sarebbe poi aggiunta nel 1999 la candidatura di Malta) valutate sulla base dei
criteri definiti dal Consiglio europeo di Copenaghen nel 1993, che prevedono in
particolare la necessità per i paesi candidati di avere "istituzioni stabili, in grado
di garantire la democrazia, il principio di legalità, i diritti dell'uomo, il rispetto
delle minoranze e la protezione delle stesse". Il lungo e complesso iter del
negoziato si concludeva il 16 aprile 2003 ad Atene con la sottoscrizione del
trattato di adesione da parte di ulteriori 10 paesi che sono entrati a far parte
dell'UE il 1 maggio del 2004. Passiamo qui di seguito in rassegna i nuovi stati
membri raggruppandoli in base al tipo linguistico in essi dominante:
Polonia, Repubblica ceca, Slovacchia, Slovenia (paesi di espressione slava);
Estonia e Ungheria (paesi di lingua ugrofinnica);
Lettonia, Lituania (paesi linguisticamente baltici);
Cipro (l’adesione ha riguardato la sola comunità grecofona);
Malta (parlanti di lingua nativa semitica, esposti comunque a forte
anglofonia).
Un ulteriore traguardo del processo di costruzione dell’Europa unita si è
concretizzato con il 1 gennaio 2007, quando sono entrate a far parte
dell’Unione la Bulgaria e la Romania.
Allo stato attuale dunque l’Unione Europea comprende ben ventisette paesi che
ne arricchiscono la composizione plurilingue:
Tra le famiglie linguistiche rappresentate nell'Unione europea fino al 2004 era nettamente
maggioritario l'indoeuropeo ed in particolare nell'ambito indoeuropeo erano rappresentati i
gruppi romanzo, germanico e celtico, oltre al tipo ellenico; unica lingua non indoeuropea tra
quelle nazionali era il finnico, geneticamente riconducibile al gruppo ugrofinnico e in ultima
analisi alla famiglia dell’uralico.
Con l'adesione dei dodici nuovi paesi perfezionatasi tra il 1 maggio 2004 e il 1 gennaio 2007,
l'UE da una parte vede consolidarsi il primato indoeuropeo a seguito dell'introduzione di una
ulteriore lingua neolatina, il romeno, e di cinque nuove lingue slave (si tratta per la precisione
di tre varietà occidentali - ceco, slovacco e polacco - e di due meridionali, lo sloveno e il
bulgaro), e grazie all'ammissione di paesi di espressione baltica (rappresentati dalla Lituania e
Lettonia); infine viene anche potenziato il ruolo del greco (alla Grecia si è infatti affiancata la
comunità ellenofona di Cipro). Inoltre la nuova Europa garantisce anche crescenti spazi alle
lingue ugrofinniche (con l'ungherese e l'estone che vanno ad aggiungersi al finnico) ed apre
per la prima volta le porte dell'Unione ad una lingua di ceppo semitico, il maltese. Resta
tuttora sospeso il riconoscimento di una qualche forma di status al turco, nonostante
costituisca uno delle due lingue praticate a Cipro, poiché la tensione tra le due comunità ha
fatto sì che, almeno in un primo tempo, l'adesione dell'isola si sia risolta nell'ammissione
della sola comunità di lingua greca.
Regime linguistico dell'Unione Europea
Le lingue ufficiali
I trattati istitutivi dell'Unione (Roma 1957 e poi Maastricht 1992,
Amsterdam 1997 e ultimo quello approvato a Lisbona il 13 dicembre 2007)
riconoscono parità di diritti, nell’uso a tutti i livelli, e di effetti a tutte le lingue
nazionali dei Paesi aderenti, le quali sono considerate lingue ufficiali
dell’Unione stessa. Ciascun cittadino dei Paesi membri ha pertanto il diritto di
rivolgersi nella propria lingua a qualsiasi istituzione comunitaria e di riceverne
risposta nella stessa lingua. In aderenza a tale principio il Regolamento n. 1 che
stabilisce il regime linguistico della Comunità (adottato il 15 aprile 1958 e via
via integrato) recita che "le lingue ufficiali e le lingue di lavoro delle istituzioni
della Comunità sono la lingua bulgara, la lingua ceca, lingua danese, la lingua
estone, la lingua finlandese, la lingua francese, la lingua greca, la lingua inglese,
la lingua irlandese, la lingua italiana, la lingua lettone, la lingua olandese, la
lingua polacca, la lingua portoghese, la lingua rumena, la lingua spagnola, la
lingua svedese, la lingua tedesca e la lingua ungherese".
Ne discende che "i regolamenti e gli altri testi di portata generale sono
redatti nelle lingue ufficiali" e la comunicazione tra uno Stato membro e le
istituzioni avviene nella lingua di quello Stato.
L'originaria Europa dei 6, uscita dai trattati di Roma (1957) e
comprendente Italia, Francia, Germania e il cosiddetto Benelux (Belgio, Olanda,
Lussemburgo), prevedeva 4 lingue ufficiali, ossia italiano, francese, tedesco e
nederlandese.
Di pari passo con l'estensione della comunità a nuovi paesi, cresceva
anche il numero delle lingue ufficiali (dal 1972 si aggiungevano inglese e
danese; poi il greco; ed ancora lo spagnolo e il portoghese); il processo di
costruzione dell'unità europea ha conosciuto con l'inizio del 1995 un altro
consistente ampliamento, con l'adesione di tre nuovi stati (Austria, Finlandia,
Svezia) e l'incremento a 11 delle lingue ufficiali (alle nove precedenti si sono
aggiunti il finnico e lo svedese), creando così le premesse di ben 110
combinazioni interlinguistiche, destinate ad un ulteriore incremento collegato
con l'ingresso di nuovi 10 paesi.
Ecco l'elenco delle 11 lingue dell'Unione Europea che avevano status di
lingua ufficiale nel contesto dell'Europa dei quindici (tra parentesi l’anno di
adesione):
italiano, francese, tedesco, nederlandese (1957);
danese, inglese (1973);
greco (1981);
spagnolo, portoghese (1986);
finnico, svedese (1995).
La differenza tra il numero dei paesi membri (15) e il numero delle lingue
ufficiali (11) era data dalla mancata inclusione del lussemburghese e del
fiammingo (praticato in Belgio); non incideva neanche l'Austria, in quanto vi si
parla il tedesco già conteggiato come lingua della Germania. Era stato escluso
infine il gaelico d'Irlanda perché la stessa Irlanda aveva rinunciato a fare del
proprio idioma una lingua di rilevanza istituzionale (entrava nel novero delle
lingue ufficiali solo per la redazione di determinati testi come ad esempio i
trattati dell'UE).
L’ultimo allargamento dei paesi membri a 27 unità comporta di per sé
l’aggiunta di undici idiomi in più rispetto al recente passato, ossia ceco,
slovacco, polacco, sloveno, lituano, lettone, ungherese, estone, maltese, polacco
e romeno; ci attenderemmo perciò che le lingue suscettibili di riconoscimento
fossero cresciute da 11 a 22. Se le lingue ufficiali sono oggi 23 ciò dipende dal
fatto che tale status viene ora esteso anche al gaelico d'Irlanda (gaeilge), posto
sullo stesso piano di tutte le altre lingue dell'Unione in base a una decisione
assunta nel 2005 e diventata operativa con il 2007.
Le 23 lingue ufficiali dell'UE e le rispettive abbreviazioni sono le seguenti:
български (Bălgarski) - BG - Bulgaro
Čeština - CS - Ceco
Dansk - DA - Danese
Deutsch - DE - Tedesco
Eesti - ET - Estone
Elinika - EL - Greco
English - EN - Inglese
Español - ES - Spagnolo
Français - FR - Francese
Gaeilge - GA - Irlandese
Italiano - IT
Latviesu valoda - LV - Lettone
Lietuviu kalba - LT - Lituano
Magyar - HU - Ungherese
Malti - MT - Maltese
Nederlands - NL - Olandese
Polski - PL - Polacco
Português - PT - Portoghese
Română - RO - Rumeno
Slovenčina - SK - Slovacco
Slovenščina - SL - Sloveno
Suomi - FI - Finlandese
Svenska - SV - Svedese
I limiti delle pratiche plurilingui nelle istituzioni europee
In realtà il funzionamento delle istituzioni europee è assicurato da un
numero ben più ridotto di idiomi. Malgrado le solenni formulazioni non solo del
citato Regolamento 1/58 ma anche dell’articolo 1 della Risoluzione del
Parlamento Europeo del 19 gennaio 1995 (“Il Parlamento Europeo [...] riafferma
la propria adesione al principio delle parità delle lingue ufficiali e di lavoro di
tutti gli Stati dell’Unione”), la situazione de facto è un’altra. In ciascuna
sessione ufficiale delle istituzioni dell’Unione vengono previamente stabilite le
cosiddette ‘lingue di lavoro’, vere e proprie lingue procedurali cui si ricorre per
la cosiddetta comunicazione interna, ossia per la discussione informale che
prelude alla formazione del processo decisionale attraverso riunioni interne,
contatti intraistituzionali e interistituzionali, redazione di documenti preparatori
(cfr. Labrie 1993, p. 82; Gazzola 2006, p. 29).
Ma, invocando ragioni operative, nell'attività di molti organismi si è
ormai instaurata una prassi che restringe drasticamente le funzioni di lingua di
lavoro alle lingue praticate dalla maggioranza dei presenti, ossia principalmente
all'inglese, al quale seguono il francese e, in minor misura, il tedesco; sono in
ogni caso paradossalmente escluse da tale status lingue come spagnolo e
italiano, malgrado la loro secolare e prestigiosa tradizione.
Questa restrizione trova un ulteriore riscontro nelle pratiche
traduttologiche cui fanno ricorso le istituzioni comunitarie (lo ammetteva il
Vicepresidente della Commissione Europea Neil Kinnock,. nell’intervista
rilasciata Laura Mori; cfr. Mori 2004). Preso atto di un aumento esponenziale
delle possibili combinazioni interlinguistiche (rispetto alle 110 operanti fino ad
aprile 2004 le operazioni traduttive virtualmente necessarie sono oggi 506, pari
al prodotto di 23 lingue x 22 “incroci”), a questo punto i costi giudicati
insostenibili di una rete di traduzioni multiple che garantisca pari dignità a tutti
gli idiomi dell'Unione hanno indotto i responsabili istituzionali ad una serie di
accorgimenti, che, al di là del garantismo di facciata, semplificano il quadro di
riferimento operativo facendo sempre più spesso ricorso alle traduzioni ‘ponte’:
invece ad esempio di tradurre direttamente dal lettone in italiano, si traduce dal
lettone in inglese o francese e da tali lingue in italiano. Ma, attraverso tale
procedura, finisce con il consolidarsi la posizione delle lingue già forti e in
ultima analisi si amplifica e diffonde l'anglofonia: in effetti già adesso nella
maggior parte dei casi è a partire da versioni inglesi non ufficiali che vengono
condotte le traduzioni dei documenti nelle altre lingue; l'inglese funge spesso
cioè da "lingua franca intermédiare entre les différents autre langues
européennes".
In definitiva dalle pratiche linguistiche istituzionali “emerge la netta
distinzione tra ‘lingue ufficiali’ utilizzate nella comunicazione esterna, e ‘lingue
di lavoro’, utilizzate nella comunicazione interna” (Carli - Felloni 2006, p. 365).
Questa pesante e contraddittoria limitazione ha suscitato la comprensibile
reazione di autorevoli rappresentanti delle istituzioni linguistiche italiane, che
hanno assunto una netta presa di posizione nel documento dal titolo La parità
delle lingue nell’Unione europea e la questione delle “lingue di lavoro” redatto
nel 2002 da Francesco Sabatini, Presidente dell’Accademia della Crusca, e Carla
Marello, Segretaria dell’ASLI –Associazione per la Storia della Lingua italiana.
In tale testo1 si fa osservare che la prassi invalsa penalizza in particolare
gravemente l’italiano disconoscendo che la nostra lingua può far valere tutti i
requisiti in linea di principio validi per godere della prerogativa di lingua di
lavoro, ossia:
a) presenza del Paese interessato tra i fondatori dell’Unione;
b) consistenza demografica;
Reperibile
anche
via
internet
<http://www.accademiadellacrusca.it/Europa_plurilingue.shtml>
1
al
sito
c) apprezzabile diffusione della lingua al di fuori del Paese di appartenenza;
d) entità del contributo al bilancio comunitario;
e) antica ed estesa ricezione dei valori di civiltà di quel Paese nel tessuto
culturale europeo2.
E’ dunque pienamente condivisibile la denuncia di Carli - Felloni 2006 p. 385
secondo cui,
nel dominio del plurilinguismo istituzionale, “la politica linguistica europea
esibisce pertanto uno iato fra le dichiarazioni di intenti e la gestione concreta
delle situazioni plurilingui. Nelle dichiarazioni generali è chiaramente
riscontrabile un paradigma idealistico-rituale che mira alla pari dignità delle
lingue in nome di valori assoluti e astratti (lingua come patrimonio culturale,
identità collettiva et sim.)."
Considerazioni condivise e riaffermate anche da C. Marazzini, L'italiano
nell'epoca della globalizzazione, "Quaderns d’Italià" 8/9 (2003/2004) = La ricerca della
norma nei dialetti italiani e nelle lingue minoritarie / La recerca de la norma en els
dialectes italians i en les llengües minoritàries, Barcelona 2004, pp. 159.
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