La storia di Adele H.

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La storia di Adele H.
La storia di Adele H.
di François Truffaut
«Dove ti sei nascosto, /Amato, abbandonando me gemente? / Come il cervo fuggisti, / dopo avermi
ferita; / uscii invocandoti e te n’eri andato. / […] Cercando i miei amori / andrò sui monti e lungo le
riviere; / né coglierò mai i fiori, / né temerò le fiere, / e passerò oltre i forti e le frontiere». Le parole con
cui Giovanni della Croce apre il suo Cantico spirituale – una delle rappresentazioni poetiche più alte di
sempre della ferita, dello struggimento e della morte dell’anima per amore – richiamano quelle con cui
Adele H. dichiara che, nonostante la giovane età e gli impedimenti legati alla condizione del suo sesso,
ella varcherà mari e oceani e che da nulla si farà distrarre pur di raggiungere l’uomo di cui è innamorata.
Il riferimento a uno dei testi mistici più importanti della tradizione occidentale è tutt’altro che peregrino,
non solo perché la singolarità dell’oggetto amato – perché amo proprio questa persona? – è cosa a tal
segno mystikon, ‘misteriosa’ (dal verbo greco myein che significa ‘chiudere’, ‘tacere’) da poter essere
appena scandagliata solo dalla poesia, ma anche perché la poesia, e quella mistica in particolare, non
può ricorrere ad altro linguaggio per dire l’indicibile che non sia quello erotico. Non basta. Si è citato
Giovanni della Croce, ma sarebbe stato preferibile ricorrere ai testi delle mistiche cristiane perché l’atto
d’amore, nella sua essenza, è conosciuto soltanto dalla donna: infatti, la gratuità e, quindi, l’arrischio
dell’amore, il darsi-ritirandosi, la capacità di donarsi totalmente senza nulla esigere in contraccambio, in
una parola l’impotenza dinanzi alla logica di questo mondo, che è una logica fondata sul potere, sono
solo della donna. «Io non ti chiedo che una cosa: anche se non mi ami più, lasciati amare! Oh sì,
permettimi di amarti!», e ancora: «Si può amare qualcuno sapendo che tutto è spregevole in lui», dice
Adele al tenente Pinson in uno dei punti più intensi del film: queste o simili parole sarebbero
impensabili sulla bocca di un uomo.
Dal punto di vista concettuale, forse il merito maggiore che deve essere ascritto al capolavoro di
Truffaut è quello di mostrare, attraverso l’historie, da questo punto di vista davvero didascalica, di
Adele Hugo, il volto materno di Dio. Forse non è temerario affermare che il Dio cristiano ami proprio
come Adele. Contro l’immagine di un Dio-padre, e in quanto tale ‘potente’, come suggerisce il suo
stesso etymon, Adele oppone quella della totale oblazione, del perfetto abbandono, dell’assoluta
impotenza. Al Dio pater-potens rappresentato da Victor Hugo, che ancora abita nella Vecchia Europa,
confinato nello splendido isolamento di un’isola nel Canale della Manica, succede il Dio-madre, Adele,
che abbandona la terra dell’occasus per il Nuovo Mondo, perché a-oikos è Eros, sempre inquieto e
abituato a dormire «all’aperto davanti alle porte e per le strade» (Simposio, 203 d). Così, a un Dio che
giudica e condanna (le lettere del grande scrittore, sotto la fragile pellicola di un paternalismo
sciropposo, nascondono minacce, ricatti e ritorsioni), e che celebra la propria grandezza (paradigmatiche
sono le fotografie che mostrano le pompose esequie tributate dal popolo francese a Hugo), si sostituisce
un Dio che «da ricco [plousios] che era, si è fatto povero [eptocheusen] per voi, perché voi diventaste
ricchi della sua povertà» (2 Cor 8,9). E quella di Adele è proprio la storia di una kenosis, di una
progressiva trasformazione in ptochos, in una ‘miserabile’, per riprendere il titolo del romanzo che ha
dato fama perenne al suo illustre padre, ma in una accezione, se possibile, ancora più assoluta, in quanto
lo ptochos non è il semplice indigente, bensì colui che è totalmente, irriducibilmente povero, un rifiuto
rifiutato dagli stessi rifiuti della società.
Alla fine del film, Adele, coperta di stracci, si aggira, ormai prossima alla follia, per le viuzze di una
cittadina delle Barbados dove Pinson era stato trasferito con il suo reggimento. Torna alla mente la
pagina finale dell’Idiota di Dostoevskij: «E se in quel momento [il medico] fosse arrivato dalla Svizzera
per visitare […] quel suo antico paziente, certo anche lui […] avrebbe avuto un gesto di sconforto e
avrebbe detto, come allora: “Idiota!”». Ma ciò che per il mondo è idiozia, è sapienza agli occhi di Dio,
perché Dio «ha scelto ciò che nel mondo è stolto [to moron] per confondere i sapienti, […] ciò che è
debole [to asthenes] per confondere i forti, […] ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è
nulla per ridurre a nulla le cose che sono» (1 Cor 1,27-28). Come Myskin, così Adele sprofonda nella
follia: ella vivrà altri quarant’anni dopo la morte del padre, ospite in un clinica per alienati mentali, e
quando la morte la coglierà nel 1915, l’Europa sarà troppo distratta dalle tempeste d’acciaio della
Grande Guerra per accorgersene. Insomma, un breve fremito d’ali che scompare nella notte, è stata la
sua vita, un vero e proprio «racconto fatto da un idiota». Tuttavia, proprio qui sta l’originalità del film,
sempre che si segua il percorso interpretativo fin qui tracciato: Truffaut riesce a raccontare, con esiti
artistici sorprendenti, come «il lutto della parola dell’uomo per il Dio nascosto è lo stesso lutto di Dio»
(Cacciari), perché Dio e l’uomo sono ab-soluti, reciprocamente sciolti e reciprocamente coinvolti in un
terribile, angoscioso quant’altri mai arrischio, quello della libertà. È uno spaventoso lutto per Dio il fatto
che la sua parola non possa risuonare nella voce dell’amato, anche nella voce che con lui contende e che
persino lo bestemmia; ma lo stesso si può dire per l’uomo, il cui querelarsi può anche non incontrare la
parola di Dio. Resta soltanto la necessità di una peregrinazione senza fine «sui monti e lungo le riviere,
[…] oltre i forti e le frontiere», di un’interrogazione insonne, di un grido levato senza remissione alcuna
affinché l’Amato – sia esso uomo o Dio – risponda a colui che, gemente, lo invoca.
Andrea Panzavolta