QUADERNI di DIRITTO ECCLESIALE
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QUADERNI di DIRITTO ECCLESIALE
QUADERNI di DIRITTO ECCLESIALE claudia Ambroggi - [email protected] 2 Anno XXVIII - APRILE 2015 Matrimonio e questioni bioetiche Snellimento della prassi canonica in ordine alla dichiarazione di nullità del vincolo matrimoniale?/5 - I beni ecclesiastici: amministrazione e vigilanza - I beni ecclesiastici: soggetti e procedure claudia Ambroggi - [email protected] QUADERNI DI DIRITTO ECCLESIALE SOMMARIO 129 Editoriale 132 Sommari / Abstracts 135 Transessualismo e diritto matrimoniale di Paolo Bianchi 164 Fecondazione assistita eterologa e matrimonio canonico di Alessandro Giraudo 180 Maternità surrogata: profili canonistici matrimoniali di Adolfo Zambon 191 Risposte al questionario per il Sinodo Snellimento della prassi canonica in ordine alla dichiarazione di nullità del vincolo matrimoniale?/5 di Massimo Mingardi Corso residenziale di diritto canonico applicato. La curia diocesana: diritto e prassi. IV anno 198 La cronaca e le relazioni a cura di Gianluca Marchetti 202 I beni ecclesiastici: amministrazione e vigilanza di Adolfo Zambon 230 I beni ecclesiastici: soggetti e procedure di Francesco Grazian 247 Libri ricevuti PERIODICO TRIMESTRALE ANNO XXVIII N. 2 - APRILE 2015 DIREZIONE E REDAZIONE S.E.R. Card. F. Coccopalmerio, S.E.R. Mons. C. Redaelli, C. Azzimonti, P. Bianchi, E. Bolchi, G. Brugnotto, M. Calvi, R. Coronelli, F. Franchetto, A. Giraudo, F. Grazian, G. Marchetti, F. Marini, A. Migliavacca, M. Mingardi, E. Miragoli, G.P. Montini, M. Mosconi, P. Pavanello, A. Perlasca, A. Rava, S. Recchi, M. Rivella, D. Salvatori, G. Sarzi Sartori, G. Trevisan, B. Uggè, T. Vanzetto, M. Visioli, A. Zambon, E. Zanetti SEGRETERIA DI REDAZIONE Massimo Mingardi Via Riva di Reno, 57 40122 Bologna E-mail: [email protected] PROPRIETÀ Àncora S.r.l. Via G.B. Niccolini, 8 - 20154 Milano AMMINISTRAZIONE Àncora Editrice Via G.B. 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Occorre accogliere le persone con la loro esistenza concreta, saperne sostenere la ricerca, incoraggiare il desiderio di Dio e la volontà di sentirsi pienamente parte della Chiesa anche in chi ha sperimentato il fallimento o si trova nelle situazioni più disparate. Il messaggio cristiano ha sempre in sé la realtà e la dinamica della misericordia e della verità, che in Cristo convergono»1. Così la Relatio dell’Assemblea straordinaria del Sinodo dei vescovi dello scorso mese di ottobre metteva in luce come proprio il contesto contemporaneo ponga nuove sfide alla Chiesa nel suo servizio alla verità e alla misericordia. In tale contesto, almeno nelle società occidentali, le frontiere che le biotecnologie aprono, consentendo profonde trasformazioni del corpo umano e nuove modalità di manipolazione fin dal concepimento di una nuova vita, vengono ormai sentite non più come terre lontane e irraggiungibili, ma come i luoghi in cui si possono portare a compimento anche desideri e bisogni ritenuti in passato come irrealizzabili. Evidentemente la sfida muove prima di tutto in ambito etico, dove si tende a riconoscere non semplicemente come buono ciò che è possibile, ma a renderlo esigibile e quindi a configurare nuovi diritti. In molti contesti sociali si tende così ad annunciare e realizzare una serie di diritti che sono proprio conseguenza della possibilità di superare i limiti che la natura umana poneva e che le biotecnologie sembrano spostare sempre un po’ più al di là di ciò che si riteneva impossibile. È quanto si registra per la configurazione dei diritti riproduttivi e per una diffusa mentalità che vede nel figlio un diritto e non un dono, 1 Relatio Synodi, III Assemblea straordinaria del Sinodo dei vescovi, 18 ottobre 2014, n. 11. claudia Ambroggi - [email protected] 130 Editoriale così da richiedere e voler vedere riconosciuto il diritto di accedere a qualsiasi tecnica medica che consenta di compiere ciò che si ritiene dovuto. In modo simile si configura la richiesta di veder riconosciuti diritti che si acquisiscono con la mutazione del proprio sesso, tra cui, non ultimo, l’accesso al matrimonio. Dietro alle singole situazioni ci sono spesso profonde sofferenze, che in alcun modo sono da giudicare per non perdere di vista il totale rispetto di ogni persona e ancor di più dei drammi interiori o di coppia che possono aver segnato il cammino e le scelte di ciascuno. Ciononostante, la riflessione ecclesiale non può esimersi dal richiamare e riaffermare i valori che sono posti in gioco, riconoscendo che essi sono per il bene della persona: si tratta di doni preziosi che ci sono affidati perché su di essi si possano fondare e realizzare le scelte fondamentali della vita. Anche il diritto canonico, in diversi ambiti della propria riflessione, è sollecitato dalle sfide che le nuove frontiere delle biotecnologie, e le conseguenti posizioni etiche, suscitano e solleveranno con sempre maggiore forza nei nuovi contesti culturali della nostra epoca. La scelta nella redazione del fascicolo è stata di concentrare lo studio su alcune questioni bioetiche in rapporto al matrimonio canonico, così da approfondire le conseguenze sulla capacità e abilità alle nozze e sull’accertamento in ordine alla validità del consenso, lasciando sullo sfondo, come sempre, i risvolti che ne derivano per la preparazione e l’ammissione alle nozze, senza in alcun modo voler esprimere giudizi o condanne sulle persone e sulle situazioni. La parte monografica prende avvio in un primo articolo riprendendo in modo compiuto la questione, oggi ancor più complessa e delicata, della condizione transessuale. Il tema viene delineato nel confronto tra principi dell’antropologia cristiana e riflessioni biomediche e psicocliniche, e declinato nella valutazione della capacità matrimoniale di chi si accosti alla scelta coniugale prima o dopo aver compiuto l’intervento di sex reassignment surgery (Bianchi). In un secondo e terzo articolo si accostano invece due approfondimenti legati al tema della fecondazione assistita, che in passato la Rivista aveva già affrontato in una fase di prima diffusione di tali tecniche biomediche. Si è scelto, quindi, di ritornare sul tema e di concentrare la riflessione su due fattispecie che maggiormente possono presentare i tratti di tecniche oggi non più considerate straordinarie, ma che pongono gravi interrogativi in ordine alla consistenza del consenso matrimoniale. Sia per quanto attiene alla fecondazione assistita claudia Ambroggi - [email protected] Editoriale 131 eterologa (Giraudo), che per la maternità surrogata (Zambon), alla chiara posizione dell’insegnamento del Magistero, che ritiene tali modalità inaccettabili perché separano totalmente la procreazione dagli atti coniugali ed introducono una profonda ferità all’unicità della coppia, la riflessione degli Autori si concentra su come si debbano sempre tenere in conto l’effettiva volontà dei nubendi, ma soprattutto le modalità e i tempi in cui abbia preso corpo la decisione di vedere riconosciuto e compiuto il desiderio di un figlio con tali tecniche moralmente illecite. Ugualmente delicate sono le conseguenze in ordine ai legami genetici e sociali che la fecondazione assistita eterologa e la maternità surrogata fanno sorgere, con la possibilità di veder riconosciuti e delineati nuovi impedimenti matrimoniali tra il nascituro e le diverse figure “genitoriali” a cui egli si trova legato, individuando una possibile consanguineità “legale” e un eventuale specifico impedimento ex gestatione. In tutte e tre le tematiche affrontate, la riflessione vuole offrire un contributo di chiarezza rispetto alla verità dei principi bioetici e di ricerca di una misericordia verso le persone e le coppie che, senza mai poter cancellare tale verità, sappia bensì coniugarla nella convergenza che si compie in Cristo, così da non smarrire il significato profondo della nostra umanità creata. La seconda parte del fascicolo vede la prosecuzione dei contributi connessi ai Sinodi dei vescovi sulla famiglia, in questo fascicolo con un testo a cura di Mingardi, e la pubblicazione di alcune relazioni tenute ai corsi di diritto canonico applicato organizzati dalla redazione della Rivista. claudia Ambroggi - [email protected] QUADERNI DI DIRITTO ECCLESIALE Sommari / Abstracts ANNO XXVIII N. 2 - APRILE 2015 P. BIANCHI, Transessualismo e diritto matrimoniale canonico, pp. 135-163 Dopo alcune premesse volte a precisare il taglio dell’articolo e ad evitare malcomprensioni dello stesso, nonché dopo aver presentato alcune informazioni di carattere soprattutto clinico, ci si concentra sulla tematica dell’ammissione al matrimonio della persona classificabile come transessuale. Fatto un cenno al diritto italiano in merito, si sviluppa la considerazione della disciplina canonica, distinguendo la condizione del soggetto prima e dopo la cosiddetta operazione di riattribuzione del sesso. Prima di tracciare alcune sintetiche conclusioni, si fa pure cenno ad alcuni precedenti sul tema allo studio contenuti in sentenze della Rota Romana. After few premises that serve to specify the typology of the article and avoid its misinterpretation, that is, after having presented some data which is specifically clinical, the article focuses on the theme of admission for marriage of a person who is classifiable as transsexual. Subsequent to a short reference to Italian Law on the topic, the article develops canonical considerations, distinguishing between the condition of the person before and after the so called operation for gender reassignment. Before synthetically outlining several conclusions, the article refers also to some precedent cases on the theme under study, all featuring in judgements of the Roman Rota. A. GIRAUDO, Fecondazione assistita eterologa e matrimonio canonico, pp. 164-179 La riflessione prende le mosse dalle considerazioni etiche sulla fecondazione eterologa, confrontando le posizioni che ne giustificano la liceità in nome del diritto assoluto alla paternità/maternità con gli insegnamenti del Magistero cattolico, che invece evidenzia come si tratti di tecniche che ledono in profondità i beni del matrimonio. Alla luce di tali conside- claudia Ambroggi - [email protected] Sommari / Abstracts 133 razioni si affrontano le conseguenze che la riserva positiva o la semplice previsione di una fecondazione eterologa possono produrre in ordine alla validità del consenso coniugale. Si accostano infine i temi degli impedimenti matrimoniali e della filiazione legittima nel caso di figli generati con l’apporto del patrimonio genetico di figure terze rispetto coniugi. The reflection departs from ethical considerations regarding donor insemination, by confronting the positions that justify its legitimacy, in the name of the absolute right for fatherhood/motherhood, against those of the teachings of the Catholic Magisterium, which on the other hand emphasize how these are techniques which profoundly harm the goods of marriage. In light of such considerations, the resulting consequences are examined, of when a positive reservation or the simple forecasting of a donor insemination occur, and what they yield on the validity of the matrimonial consent. The themes of marriage impediments and legitimate sonship are considered in the case where children are generated through the assistance of third party genetic patrimony with respect to the couple. A. ZAMBON, Maternità surrogata: profili canonistici matrimoniali, pp. 180-190 La maternità surrogata interroga la riflessione canonistica, mettendo in luce la necessità di conoscere anzitutto le possibilità offerte dallo sviluppo scientifico e bioetico e dalla rete di comunicazione che caratterizza la società attuale. In particolare, il contributo presenta le conseguenze della maternità surrogata in ordine all’emissione di un valido consenso, specie sotto il profilo della simulazione e del dolo. Inoltre, presenta la possibilità di un nuovo impedimento, che sorge non dalla consanguineità o dall’adozione, bensì dalla gestazione, valutandone l’opportunità. Surrogate motherhood interrogates canonical reflection, by emphasizing the need to know, mainly, which possibilities are offered by scientific and bioethics developments and from a network of communication that characterizes today’s society. Particularly, this contribution presents the consequences of surrogate motherhood with respect to the exchange of a valid consent, especially in consideration of a possibility of simulation or deceit. Besides, it presents the possibility of a new impediment, which crops up not from consanguinity or adoption, but from surrogacy, and considers any such eventual opportunity of it. claudia Ambroggi - [email protected] 134 Sommari / Abstracts A. ZAMBON, I beni ecclesiastici: amministrazione e vigilanza, pp. 202-229 Il contributo si sofferma su tre nozioni-base, ossia quelle di bene ecclesiastico, di amministrazione e di vigilanza. Considerata la natura del corso, presso cui è stato presentato a modo di relazione, si intendono fornire alcuni elementi basilari attorno a questi tre concetti, senza entrare in fattispecie dettagliate, che saranno oggetto della riflessione successiva. Inoltre, l’attenzione è focalizzata soprattutto sulle realtà della diocesi e della parrocchia, oltre a quelle di altri enti sottoposti alla vigilanza del vescovo diocesano. The contribution dwells on three key concepts, that is, ecclesiastical good, administration and vigilance. Considered the nature of the course, during which the topic was presented in the form of a conference, it intends to offer some basic elements on these three concepts, without entering in detailed facts, that shall be object of a subsequent reflection. Furthermore, attention is focussed on the reality of the dioceses and parishes, besides other entities which fall under the vigilance of the diocesan bishop. F. GRAZIAN, I beni ecclesiastici: soggetti e procedure, pp. 230-246 L’articolo intende presentare e approfondire il concreto funzionamento, all’interno di una curia, di alcune procedure riguardanti i beni temporali, procedure che di solito coincidono con la richiesta di autorizzazione per il compimento di un atto di amministrazione che oltrepassa l’ordinaria amministrazione. Si cerca dunque di evidenziare soprattutto l’aspetto dinamico, cioè i passaggi da compiere, nel rapporto tra i vari uffici e tra le loro competenze, affinché una procedura (una pratica) giunga a compimento. The article intends to present and deepen the correct functioning, within the curia, of some procedures regarding temporal goods, which procedures usually coincide with the authorization request to fulfil an act of administration that goes beyond ordinary administration. The article, therefore, attempts to highlight the dynamic aspect, that is the necessary passages to be fulfilled, in the relationship between the various offices and their peculiar competences, so that a procedure (a praxis) is accomplished. claudia Ambroggi - [email protected] Transessualismo e diritto matrimoniale canonico Quaderni di diritto ecclesiale 28 (2015) 135-163 di Paolo Bianchi Premesse L’affrontare tematiche connesse al campo di quelli che oggi vengono chiamati bioetica o biodiritto – per indicare in modo sintetico le problematiche etiche e giuridiche che le possibilità offerte dalla ricerca scientifica e sperimentale fanno sorgere, secondo modalità inedite sino a poco tempo addietro – comporta di toccare anche il tema del cosiddetto transessualismo, ossia della condizione transessuale, precisamente nei suoi risvolti con l’ordinamento matrimoniale canonico1. Per facilitarne la successiva citazione, ma anche per offrire lo spunto per il reperimento di ulteriore bibliografia, si segnalano di seguito i lavori tenuti in maggiore considerazione nel presente studio: C. ATZORI, Il binario indifferente. Uomo e donna o GLBTQ?, Milano 2010; P.G. BIANCHI, Incapacitas assumendi obligationes essentiales matrimonii. Analisi della giurisprudenza rotale, particolarmente degli anni 1970-1982, Milano 1992; G. DELLA TORRE , Homosexualidad, in Diccionario General de Derecho Canónico [= DGDC], IV, Pamplona 2013, pp. 340-346; M.P. FAGGIONI, I disturbi della sfera sessuale. 2. Il transessualismo, in A A .VV., Dalla parte della vita. Itinerari di bioetica. II, a cura di E. Larghero - G. Zeppegno, Cantalupa (TO) 2008, pp. 475-403; M.P. FAGGIONI, I disturbi dell’identità di genere, in I DEM, Sessualità matrimonio famiglia, Bologna 2010, pp. 331-357; M.P. FAGGIONI, Il transessualismo. Questioni antropologiche, etiche e canonistiche, in «Antonianum» 75 (2000) pp. 277-310; J.A. F UENTES , Desviaciones de la sexualidad. Parafilias y transexualismo en las causas de nulidad matrimonial canónica, in «Ius Canonicum» 53 (2013) pp. 655-690; A. F UMAGALLI, Genere e generazione. Rivendicazioni e implicazioni dell’odierna cultura sessuale, in «La Rivista del Clero Italiano» 95 (2014) pp. 133-147; J.J. GARCÍA FAÍLDE , Trastornos psíquicos y nulidad del matrimonio, Salamanca 1999, pp. 403-411 e 413-415; G. GIUSTINIANO, Il fenomeno del transessualismo. Analisi medico-giuridica e giurisprudenza canonica, Roma 1998; W. H EYER , Paper genders. Il mito del cambiamento di sesso, Milano, 2013: il libro, alle pagine 123-167, riporta in appendice l’articolo di R.P. F ITZGIBBONS - P.M. S UT TON - D. O’L EARY, La psicopatologia della chirurgia di “riattribuzione del sesso”. Valutazione dal punto di vista medico, psicologico ed etico, contributo del 2009 scritto da un medico psichiatra, da uno psicologo e da una scrittrice (originale: The Psychopathology of “Sex Reassignment” Surgery Assessing Its Medical, Psychological, and Ethical Appropriateness, in «The National Catholic Bioethics Quarterly» Spring 2009, pp. 97-125); M. I MPER ATORI, Sfide filosofico-teologiche del corpo sessuato, in «La civiltà cattolica» 165 (2014) II, 236-248; U. NAVARRETE , Transexualismus et ordo canonicus, in «Periodica de re canonica» 86 (1997) 101-124; J. O TADUY, Transexualidad, in DGDC, VII, pp. 641-645; R. P ICARDI, Desviación sexual, in DGDC, III, pp. 267-274; E. T EJERO, ¿Imposibilidad de cumplir o incapacidad de asumir las obligaciones esenciales del matrimonio?, Pamplona 2005, pp. 1034-1037; G. ZUANAZZI, Psicologia e psichiatria nelle cause matrimoniali canoniche, Città del Vaticano 2006, pp. 218-221 e 235-243. 1 claudia Ambroggi - [email protected] 136 Paolo Bianchi Per impostare in modo corretto tale discorso e per evitare per quanto possibile equivoci, occorre porre in chiaro alcune premesse. Le riflessioni che si intendono sviluppare non intendono esprimere alcuna condanna, disprezzo o disistima per le persone che vivono la condizione transessuale. Di esse si rispettano la libertà, nella misura in cui tale condizione corrisponde a una loro scelta; nonché la sofferenza, laddove tali persone, proprio a causa della loro condizione, soffrano soggettivamente o vengano sottoposte a ingiuste discriminazioni, sfruttamenti, umiliazioni, irrisioni o violenze. Peraltro, per quanto la dimensione sessuale o, forse meglio, la sua natura sessuata sia importante per una persona 2, non occorre mai dimenticare che il valore della persona la trascende: in quanto essere umano la persona gode di una nativa dignità che deve essere riconosciuta e promossa 3. In una prospettiva cristiana, poi, la persona – qualsiasi sia la sua condizione, più o meno facile, più o meno problematica – va riconosciuta come creata e amata dal Signore, chiamata a santificarsi nel corso dell’esistenza, per mezzo del bene che le è possibile fare ma anche per mezzo delle croci che ne caratterizzano l’esperienza biografica, in vista della comunione definitiva col Signore. Questa sottolineatura appare decisiva perché, pur senza sottovalutare l’importanza della dimensione sessuale (e degli eventuali aspetti problematici che possono essere connessi ad essa), evita che tali problematiche esauriscano la considerazione (da parte di altri) e l’attenzione (da parte di se stessa) della persona, aprendole invece a orizzonti più ampi e comunque positivi. Le presenti riflessioni intendono dunque solo studiare, dal punto di vista del diritto canonico, la questione se e in che misura una condizione transessuale possa incidere sulla validità del matrimonio: sia quanto alla integrità (soggettiva e oggettiva) della volontà che è la causa efficiente del patto matrimoniale (cf can. 1057 § 2); sia sotto il profilo della idoneità di persone transessuali al consorzio di vita matrimoniale così come inteso dall’ordinamento canonico (cf can. 1055 § 1). Non vengono prese invece in esame altre problematiche pure importanti sotto un profilo canonico, quali l’ammissione all’ordine 2 G. GIUSTINIANO, Il fenomeno del transessualismo…, cit., pp. 14-20 offre delle riflessioni sul rapporto fra sessualità e persona: la sessualità è nella linea dell’essere, non dell’avere, concerne la persona sia nella sua unitotalità sia nella sua dimensione interpersonale, relazionale. 3 M.P. FAGGIONI, Il transessualismo…, cit., p. 309 conclude il suo primo studio sull’argomento significativamente intitolando l’ultimo paragrafo: «Il transessuale è una persona»; scelta che trova una esatta corrispondenza in M.P. FAGGIONI, I disturbi della sfera sessuale, cit., p. 400 e in M.P. FAGGIONI, I disturbi dell’identità di genere, cit., p. 356. claudia Ambroggi - [email protected] Transessualismo e diritto matrimoniale canonico 137 sacro, oppure la possibilità di ingresso in un istituto di vita consacrata o in una società di vita apostolica4. Collocandosi la presente riflessione in un orizzonte giuridico, occorre inoltre ribadire che – come ogni altro ordinamento giuridico – anche quello canonico possiede per così dire una propria identità: ossia esso ha dei fondamenti come si suol dire metagiuridici, che fanno cioè riferimento a un patrimonio ideale, filosofico (e nel caso anche religioso), che veicola una precisa visione antropologica. Non c’è dubbio che, in questa visione, le tematiche della relazione interpersonale, dell’affettività, dell’esercizio della sessualità, della procreazione abbiano un loro rilievo; e la loro trattazione giuridica non potrà che essere profondamente guidata da tali premesse ideali5. La neutralità del diritto è un mero mito6 ; mentre l’illusione di poterlo ridurre a pura procedura (presupponendo cioè che l’opera di qualsiasi legislatore possa prescindere da un determinato sistema di valori) significa di fatto consegnarlo alla prevalenza ideologica della maggioranza del momento o della fase storica. La tematica cui dedichiamo attenzione in questo contributo è resa oggi più complessa dal fatto che una condizione che solo fino a tre o quattro decenni fa era considerata pacificamente solo di carattere clinico, appare oggi passibile di una rilettura fortemente caratterizzata dalla cosiddetta cultura del gender, che propone una decostruzione del concetto di genere (maschile e femminile) ma alla fin fine di quello stesso di sesso, affidandolo alla libera e mutevole determinazione dell’individuo, senza che tale determinazione possa Per un primo inquadramento circa queste problematiche cf U. NAVARRETE , Transexualismus…, cit., pp. 117-124; J. O TADUY, Transexualidad, cit., pp. 644-645; M.P. FAGGIONI, Il transessualismo…, cit., pp. 304-309; M.P. FAGGIONI, I disturbi della sfera sessuale, cit., pp. 394-399; M.P. FAGGIONI, I disturbi dell’identità di genere, cit., pp. 351-355. 5 Una sintesi del pensiero della Chiesa cattolica sul significato della sessualità (pp. 659-662), anche con specifico riferimento alla questione del transessualismo e alla ideologia del gender che ne offre una sua particolare lettura (pp. 675-678), si può trovare in J.A. F UENTES , Desviaciones de la sexualidad…, cit.; circa la pervasività di tale corrente ideologica, si può per esempio vedere C. DELSOL , Contro il gender, “nuovo catechismo francese”, articolo apparso su Le Monde venerdì 31 gennaio 2014, riportato da Il foglio del 1° febbraio 2014, p. 1: sintesi in «Iustitia» 67 (2014) 73. Sulle implicazioni della cultura del gender vedi anche J.I. BAÑARES , Matrimonio, género y cultura, in «Ius Canonicum» 48 (2008) 415-431. 6 Come è un mito la pretesa neutralità della scienza, che dipende dai presupposti antropologici che guidano sia le domande di chi ricerca sia l’interpretazione dei dati e che non può pretendere di imporre le proprie precomprensioni ideologiche nascondendole appunto sotto la pretesa della scientificità. Su tale ingenua visione e sul corretto rapporto fra fede e scienza sia Benedetto XVI sia Papa Francesco hanno offerto delle importati riflessioni. Basti qui indicare i nn. 242-243 della Esortazione apostolica di Papa Francesco Evangelii gaudium. Sulla pretesa neutralità delle scelte legislative cf il contributo del giudice costituzionale M. CARTABIA , Avventure giuridiche della differenza sessuale, in «Iustitia» 64 (2011) 285-306. 4 claudia Ambroggi - [email protected] 138 Paolo Bianchi essere comparata con alcun criterio di oggettività o sottoposta ad alcun giudizio di valore7. Quanto infine alla concreta operatività dell’ordinamento canonico – per quanto questo si proponga come globalmente vincolante per tutti i cattolici latini (cf can. 11) e orientali (cf can. 1490 CCEO) e, anzi, anche per tutte le persone umane laddove però esso sia puramente dichiarativo del cosiddetto diritto divino: naturale, in quanto desunto dalla riflessione sulla struttura ontologica della realtà, e positivo, in quanto desunto da ciò che si ritiene conosciuto per rivelazione – nessuno de facto può essere oggi coattivamente obbligato a sottomettervisi. Tuttavia, non si potrà nemmeno pretendere che chi voglia porre atti riconosciuti da tale ordinamento (che quindi implicitamente riconosce, al quale dà in qualche modo importanza) non debba anche accettare la determinazione degli elementi essenziali degli istituti giuridici da quello effettuata. Così è anche per l’istituto matrimoniale e, di conseguenza, per i requisiti essenziali ai fini della validità del patto nuziale che dà vita a quel consorzio di tutta la vita ordinato al bene dei coniugi e della prole che è l’essenza del matrimonium in facto esse, del matrimonio stato o rapporto, che dir si voglia. Per una sintetica presentazione della cultura del gender e della sue implicazioni, cf A. F UMAGALLI, Genere e generazione…, cit.: questo Autore, nella parte conclusiva del suo studio, mette chiaramente in luce l’antropologia dualistica sulla quale si fonda la cultura del gender (pp. 146-147). Tali premesse antropologiche dualiste sono in modo ancora più ampio illustrate in M. I MPER ATORI, Sfide filosoficoteologiche…, cit., il quale risale al dualismo antropologico cartesiano (ma ultimamente platonico), in forza del quale, diversamente che nella tarda antichità che ne coltivava un concetto antropologicamente più completo e significativo, «all’alba della modernità la nozione di natura finisce invece per regredire ben al di qua della stessa sintesi classica, in quanto la natura, concepita ormai solo come materia inerte, viene sistematicamente opposta alla cultura e alla libertà umane» (p. 239). Tale separazione radicale fra natura e cultura finisce per avere un peso notevole sotto il profilo filosofico (e teologico): «Ed è proprio il peso di tale dualismo ad aver lungamente impedito all’uomo moderno di porsi la domanda circa la concreta incidenza della sua corporeità umana nella comprensione che egli ha di sé e del mondo nel quale vive corporalmente situato e condizionato. E quando l’essere sessuato dell’uomo e della donna cominciano finalmente a essere presi in considerazione dal pensiero occidentale, il peso della tradizione dualista porta quasi automaticamente a trasferire la distinzione sessuale sul terreno di una natura corporea già pensata in se stessa come antropologicamente insignificante, perché dominio ormai del solo approccio scientifico» […dove tali discipline appaiono] «pesantemente condizionate dal presupposto dualista dell’inincidenza filosofica della corporeità umana» (p. 240). Ed è proprio sulla base di questo indiscusso (e, invece, da discutersi) presupposto della radicale insignificanza del dato corporeo di cui l’essere umano è costituito che può reggersi, fino alle conseguenze più estreme, la proposta della cultura del gender. Il dualismo che sta alla base della teoria del gender è evidenziato anche da C. ATZORI, Il binario indifferente…, cit., pp. 67-68; come al dualismo di fondo di alcune concezioni attuali della sessualità accenna G. GIUSTINIANO, Il fenomeno del transessualismo…, cit., p. 16. Al dualismo che sottende a molte concezioni antropologiche attuali dedica attenzione anche M.P. FAGGIONI, Il transessualismo…, cit., pp. 291-292, il quale parla di «un’antropologia schizoide» dove si approda «a un sostanziale rifiuto del sesso come realtà data, fissa e stabilizzata, a favore del genere inteso come struttura flessibile» (p. 291, corsivi dell’Autore); analoghe considerazioni in M.P. FAGGIONI, I disturbi della sfera sessuale, cit., pp. 383-384 e in M.P. FAGGIONI, I disturbi dell’identità di genere, cit., pp. 339-340. 7 claudia Ambroggi - [email protected] Transessualismo e diritto matrimoniale canonico 139 Alcune nozioni circa il fenomeno allo studio Senza alcuna presunzione di esaurire un argomento così complesso, dal punto di vista scientifico ma non solo, appare opportuno chiarire alcune nozioni elementari alla base del discorso che si intende sviluppare. La questione della stessa identità sessuale del soggetto umano è una problematica dibattuta sia in campo filosofico che scientifico, due campi, peraltro e come già accennato, non rigidamente impermeabili l’uno rispetto all’altro. In alcuni casi si sottolineano di più gli aspetti biologici, corporei, comunque oggettivi; in altri casi si tendono a privilegiare maggiormente gli aspetti psicologici e financo sociali. La visione antropologica cristiana8 si pone in una posizione di equilibrio, nel senso che, pur riconoscendo le due dimensioni, non concepisce la possibilità di una loro radicale separazione: in particolare, non ritiene possibile che quella psicologica e sociale possa prescindere dal riconoscimento del dato corporeo. Questo è appunto un dato, una condizione nella quale la singola persona si trova e che non può plasmare per così dire ex novo sulla base di una propria scelta9. Quando si parla di elementi corporei della sessualità umana, è usuale distinguerli in tre livelli10 : a) il cosiddetto sesso genetico, dato dalla dotazione cromosomica del soggetto, dove una precisa coppia di cromosomi ne stabilisce l’identità sessuale; b) il sesso gonadico, dato dalla presenza dei testicoli nel maschio e delle ovaie nella femmina (che producono i rispettivi gameti ed ormoni sessuali), nonché dai cosiddetti organi genitali interni, come i dotti deferenti nel maschio, le tube e l’utero nella donna; c) il sesso fenotipico o genitale, che è Da questo punto di vista, il riferimento fondamentale resta l’istruzione Persona humana, emanata dalla Congregazione per la dottrina della fede, in data 21 dicembre 1975 (in A AS 68 [1976] pp. 7796). Si vedano anche le già richiamate annotazioni di J.A. F UENTES , Desviaciones de la sexualidad…, cit., pp. 659-662, quelle di U. NAVARRETE , Transexualismus…, cit., pp. 102-103 e quelle di J. O TADUY, Transexualidad, cit., p. 642. Di estremo interesse appare il libro del medico infettivologo dottoressa C. ATZORI, Il binario indifferente..., cit., per esempio pp. 9.41.47.98-99 che mostra come la strutturale armonia fra le due dimensioni e l’originario (ontologico) dimorfismo sessuale sono coerenti con le osservazioni scientifiche e le crescenti conoscenze in merito, per esempio in campo genetico e neurologico. 9 Cf in questo senso U. NAVARRETE , Transexualismus…, cit., pp. 101-102 e J. O TADUY, Transexualidad, cit., p. 642. A conclusioni analoghe giunge anche M.P. FAGGIONI, Il transessualismo…, cit., pp. 292294, che mette in luce l’irriducibilità della sessualità umana alla sola dimensione corporea così come a quella solamente psicologica; osservazioni riprese in M.P. FAGGIONI, I disturbi della sfera sessuale, cit., pp. 384-385 e in M.P. FAGGIONI, I disturbi dell’identità di genere, cit., pp. 340-341. 10 Cf per esempio J.J. GARCÍA FAÍLDE , Trastornos psíquicos…, cit., pp. 403-404 e J. O TADUY, Transexualidad, cit., p. 641. M.P. FAGGIONI, Il transessualismo…, cit., pp. 278-279 presenta un’articolazione più complessa: 1) sesso genetico; 2) sesso gonadico; 3) sesso ormonale; 4) sesso gonoforico (genitale interno o duttale); 5) sesso fenotipico (genitale esterno); 6) sesso somatico (corporeo o morfologico). 8 claudia Ambroggi - [email protected] 140 Paolo Bianchi quello caratterizzato dalla presenza dei genitali esterni e dallo sviluppo, che diviene maggiormente evidente con il progredire dell’età, dei cosiddetti caratteri sessuali secondari. Gli elementi psicologici e sociali sono invece quelli che, sempre col crescere dell’età e delle possibilità di comprensione del soggetto, fanno prendere consapevolezza alla persona della propria identità sessuale11, assumendo anche quei comportamenti che le diverse culture attribuiscono ad essa12. Il transessualismo (denominato anche disturbo dell’identità di genere) è un caso di disarmonia fra gli elementi corporei e psicosociali che costituiscono l’identità sessuale della persona: propriamente fra la totalità dei dati corporei e quello psicologico. Infatti, la condizione transessuale propriamente intesa è quella di un soggetto la cui identità sessuale è certa da un punto di vista genetico, gonadico e fenotipico, ma che avverte da un punto di vista psicologico la lacerante convinzione di appartenere al sesso opposto. Spesso le persone che vivono tale condizione si sentono come costrette in un corpo sbagliato, non corrispondente alle proprie convinzioni psicologiche13 e sperimentano il desiderio di sottoporlo ad una trasformazione. Oltre a convenire su questa descrizione, uno psichiatra molto noto in ambito canonistico offre pure un quadro clinico più completo del soggetto transessuale, che ruoterebbe attorno alle seguenti caratteristiche: a) irriducibile convinzione di appartenere al sesso opposto a quello fenotipico; b) idealizzazione dei caratteri del sesso cui si sente di appartenere e disprezzo per quelli opposti; c) rifiuto del corpo, soprattutto concentrato sugli organi genitali; d) struggente desiderio di modificazione del proprio corpo, con possibilità che tale intensa esigenza possa sfociare nel suicidio o in episodi di automutilazione; e) una sorta di narcisismo alla rovescia, consistente nell’occultare i caratteri Cf J.J. GARCÍA FAÍLDE , Trastornos psíquicos…, cit., p. 405, che chiama tale consapevolezza psicologica identità di genere. 12 Ciò che usualmente viene chiamato ruolo sessuale: cf per esempio J.J. GARCÍA FAÍLDE , Trastornos psíquicos…, cit., p. 405. M.P. FAGGIONI, Il transessualismo…, cit., pp. 279-283 mostra come nello sviluppo della identità di genere (tema su cui riprende, non senza alcune dovute precisazioni, le teorie di Money, un Autore che come si vedrà mostra non pochi aspetti problematici) interagiscano in maniera ineliminabile due fattori fondamenti: quello biologico e quello culturale-educativo. Cf anche M.P. FAGGIONI, I disturbi della sfera sessuale, cit., p. 377. 13 Convengono con questa descrizione del transessualismo propriamente detto J.J. GARCÍA FAÍLDE , Trastornos psíquicos…, cit., p. 406; P.G. BIANCHI, Incapacitas assumendi…, cit., p. 202; E. T EJERO, ¿Imposibilidad de cumplir…, cit., p. 1034; U. NAVARRETE , Transexualismus…, cit., pp. 105-106; J. O TA DUY, Transexualidad, cit., pp. 641 e 642; G. GIUSTINIANO, Il fenomeno del transessualismo…, cit., pp. 59-61, che lo distingue dalla semplice disforia di genere: ossia dalla sofferenza per la propria identità sessuale, ma senza la convinzione di appartenere a quella opposta e il desiderio di conformarsi ad essa. Stessa distinzione dalla disforia e stessa descrizione del transessualismo in M.P. FAGGIONI, Il transessualismo…, cit., pp. 284-285. 11 claudia Ambroggi - [email protected] Transessualismo e diritto matrimoniale canonico 141 sessuali sgraditi e nell’esaltare quelli che si avvertono coerenti con la propria convinzione interiore; f) atteggiamento tendenzialmente ostile verso la società, oggi attenuato dalla maggiore tolleranza verso tale fenomeno14. Se questa è la descrizione del transessualismo, appare subito chiaro che si debbano porre delle precise distinzioni da altre situazioni sia psicologiche sia fisiche. Fra le prime, ossia quelle psicologiche, occorre segnalare come la condizione transessuale non vada confusa con la omosessualità15 o con il travestitismo16, per quanto anche il soggetto transessuale possa avere comportamenti omosessuali o di travestimento. Infatti, per sé, il soggetto omosessuale non mette in discussione la propria identità sessuale, né avverte una frattura fra la dimensione corporea e la dimensione psicologica della propria sessualità: solo avverte attrazione erotica verso persone del proprio stesso sesso. Così, il travestirsi con abiti del sesso opposto non necessariamente è indicativo di una condizione transessuale, anche se tale comportamento potrà essere ricercato dal transessuale nello sforzo di far coincidere la propria apparenza esterna con quanto avverte interiormente; infatti, il travestimento potrebbe anche essere solo un espediente funzionale a raggiungere una maggiore eccitazione sessuale, da consumare poi in rapporti o eterosessuali oppure omosessuali, ma senza appunto mettere in discussione la propria identità sessuale17. Anche se la te14 Cf G. ZUANAZZI, Psicologia e psichiatria…, cit., pp. 236-237 e, in senso conforme, G. GIUSTINIANO, Il fenomeno del transessualismo…, cit., pp. 72-74; cf anche J. O TADUY, Transexualidad, cit., p. 642. 15 Per un primo orientamento, anche da un punto di vista canonico, e per bibliografia, cf G. DELLA TORRE , Homosexualidad, cit., pp. 340-346. Sottolineano la differenza fra omosessualità e transessualismo U. NAVARRETE , Transexualismus…, cit., pp. 110-111; J. O TADUY, Transexualidad, cit., p. 643; M.P. FAGGIONI, Il transessualismo…, cit., p. 284; M.P. FAGGIONI, I disturbi della sfera sessuale, cit., p. 378; M.P. FAGGIONI, I disturbi dell’identità di genere, cit., p. 333. Riferimenti sull’omosessualità, soprattutto in relazione alla sua genesi, dove agirebbero soprattutto fattori psichici e culturali, in G. GIUSTINIANO, Il fenomeno del transessualismo…, cit., pp. 51-55 e 75-80, dove il confronto fra omosessualità e transessualità è esteso, nel medesimo svolgimento di pensiero, anche al travestitismo. 16 Per il travestitismo, da un punto di vista clinico, cf G. ZUANAZZI, Psicologia e psichiatria…, cit., pp. 218-221 e M.P. FAGGIONI, Il transessualismo…, cit., p. 284; da un punto di vista anche canonico, si vedano invece J.J. GARCÍA FAÍLDE , Trastornos psíquicos…, cit., pp. 413-415; P.G. BIANCHI, Incapacitas assumendi…, cit., pp. 200-202; J.A. F UENTES , Desviaciones de la sexualidad…, cit., pp. 669-670; U. NAVARRETE , Transexualismus…, cit., pp. 111-112; J. O TADUY, Transexualidad, cit., p. 643. Secondo R.P. F ITZGIBBONS - P.M. S UT TON - D. O’L EARY, La psicopatologia…, cit., pp. 139-144, una categoria per certi aspetti vicina al travestitismo orientato al cambio di genere è quella dei cosiddetti transessuali autoginefili, che concerne solamente individui maschi sostanzialmente innamorati dell’immagine di se stessi come donne. G. GIUSTINIANO, Il fenomeno del transessualismo…, cit., pp. 55-59 descrive il travestitismo (appoggiandosi soprattutto agli studi di Benjamin) come un fenomeno difficilmente riducibile a una sola modalità e che può coprire in realtà una condizione transessuale, laddove presenti la convinzione di appartenere al sesso opposto al proprio e la tensione a volerlo modificare. 17 Evidenzia le citate differenze anche G. ZUANAZZI, Psicologia e psichiatria…, cit., p. 237, pur non senza segnalare la possibilità che esistano delle forme intermedie, nel senso che sarebbe un «reper- claudia Ambroggi - [email protected] 142 Paolo Bianchi matica del transessualismo ha ricevuto negli ultimissimi decenni una rilettura fortemente ideologizzata nel senso che subito si dirà, occorre pure distinguere quel fenomeno dal recente concetto di transgender o queer (che sta per strano, sregolato, bizzarro, eccentrico, curioso, non chiaro anche con uno specifico riferimento al tema della sessualità): quest’ultimo indica un movimento culturale e politico che rifiuta per sé ogni qualificazione clinica e pretende che l’identità sessuale sia determinata essenzialmente dalla scelta (anche transitoria) del soggetto. Ogni identità sessuale è negata al di là del desiderio del soggetto, che si fa pretesa legale e politica18. Fra le disarmonie che concernono invece la dimensione corporea della sessualità si collocano i possibili diversi stati della cosiddetta intersessualità. Essi possono derivare da disarmonie di vario tipo a livello di sessualità genetica, gonadica o fenotipica. Fra essi possono esservi disgenesie gonadiche, che presentano compromissioni a carico delle gonadi ma uno sviluppo dei genitali interni ed esterni ad esse coerenti: tale situazione si verifica per esempio nella sindrome di Klinefelter, dove la radice della disarmonia risale allo stesso livello genetico. Vi sono poi situazioni chiamate di pseudoermafroditismo, dove vi è uno sviluppo dei genitali esterni non corrispondente alla condizione genetica e gonadica, che sono invece univoche e fra loro coerenti. Infine vi sono casi di vero e proprio ermafroditismo, dove si ha la compresenza di gonadi sia maschili sia femminili e un’ambiguità anche a livello dei genitali esterni, che può addirittura condurre a una erronea attribuzione di sesso alla nascita19. La profonda diversità che to frequente una sorta di progressione dal feticismo al transessualismo attraverso il travestitismo e l’omosessualità femminiloide (o viriloide nelle donne)». 18 Cf C. ATZORI, Il binario indifferente…, cit., pp. 63-72, dove si espongono i contenuti e i riferimenti culturali di questo movimento. A p. 72 la sintesi dell’Autrice: «In estrema sintesi, nella teoria gender (GLBT-Q [Gay, Lesbian, Bisexual, Transexual/Transgender, Queer]) un “io” desiderante astratto, giocando sulla decostruzione dell’unitarietà della persona “reale”, e cioè frammentandone psichismo, biologia, linguaggio, ruoli, pretende di “definire” (contraddicendo internamente il suo stesso punto di vista secondo cui niente può essere definito) il proprio spazio prescindendo dalla significanza del BIOLOGICO, che oggettivamente lo struttura (e precede il suo pensiero)». Per L. PALAZZANI, Identità di genere come problema biogiuridico, in «Iustitia» 56 (2011) 157-173, fra essenzialismo e relativismo decostruzionista occorre recuperare la ricerca di un senso e di una finalità che sono intrinseci alla natura, favorendo un “divenire nell’essere” che non nega il dato di partenza della dualità e dell’opposizione sessuale, che è principio di identità della persona. DSM 5 dà la seguente definizione: «Transgender si riferisce all’ampio spettro di individui che si identificano in modo transitorio o persistente con un genere diverso da quello assegnato alla nascita» (p. 528 dell’edizione italiana). 19 In merito alle condizioni di intersessualità sul piano corporeo, cf G. ZUANAZZI, Psicologia e psichiatria…, cit., p. 238, con particolare riferimento alle note 107 e 108 e W. H EYER , Paper genders…, cit., p. 26; da un punto di vista canonico, cf U. NAVARRETE , Transexualismus…, cit., pp. 108-110 e J. O TADUY, Transexualidad, cit., pp. 642-643. Anche R.P. F ITZGIBBONS - P.M. S UT TON - D. O’L EARY, La psicopatologia…, cit., p. 127 distinguono chiaramente gli interventi correttivi di stati intersessuali dalla claudia Ambroggi - [email protected] Transessualismo e diritto matrimoniale canonico 143 sussiste fra la condizione transessuale e le diverse forme della cosiddetta intersessualità giustifica anche il diverso approccio terapeutico e il giudizio che se ne può dare anche sotto un profilo etico, con specifico riferimento alle terapie di carattere chirurgico. Infatti appare del tutto legittimo intervenire per ridurre chirurgicamente situazioni di ambiguità anatomica in condizioni di intersessualità: o nel senso di correggere eventuali difformità fenotipiche in dissonanza con il dato cromosomico e gonadico; o, nei casi di vero ermafroditismo, per armonizzare il più possibile gli elementi dissonanti della sessualità corporea. Si tratta, come detto, di interventi di carattere correttivo e che non possono essere equiparati ai pretesi cambi di sesso dei quali si dirà più sotto a proposito del transessualismo. Quanto a quest’ultimo, si deve ulteriormente dire che non vi è una spiegazione eziologica univoca del fenomeno, anche a livello scientifico20. A spiegazioni che privilegiano cause biologiche se ne alternano altre che ipotizzano fattori psicologici o sociali: è del tutto verosimile che alla base delle diverse ipotesi possano giocare anche le opzioni culturali dei singoli propugnatori delle stesse, in una tematica dove il confine fra ciò che è scientifico e ciò che è ideologico appare oggi alquanto assottigliato. Che la genesi del transessualismo rimanga tuttora incerta viene ammesso dai clinici, come il già citato Zuanazzi, sia sul fronte biologico che su quello psicologico21, per quanto lo stesso Autore ne tenti una interessante lettura fenomenologica, dove viene in evidenza «una frattura fra l’io e il corpo, tendendo il Leib ad assumere il carattere del Körper»22, ossia del corpo vissuto nella sua oggettività ed estraneità rispetto al soggetto che vive in esso; una cosiddetta chirurgia di riattribuzione del sesso, così come M.P. FAGGIONI, Il transessualismo…, cit., p. 284. La distinzione fra stati intersessuali e transessualismo è segnalata anche in M.P. FAGGIONI, I disturbi della sfera sessuale, cit., p. 378 e in M.P. FAGGIONI, I disturbi dell’identità di genere, cit., p. 333. 20 Vi si accenna in J.J. GARCÍA FAÍLDE , Trastornos psíquicos…, cit., p. 408, che sembra accettare un ruolo maggiore per i fattori psicosociali e un ruolo invece solo predisponente per quelli biologici; cf anche P.G. BIANCHI, Incapacitas assumendi…, cit., p. 202 e C. ATZORI, Il binario indifferente…, cit., pp. 30-32, che esclude un problema primariamente biologico e si orienta piuttosto nel senso di una multifattorialità; in questo senso, alle pp. 42-43 mette in luce una certa predisposizione a seguito di fattori familiari, ma senza determinismi nel senso di una pretesa immodificabilità, dal momento che alcuni Autori «hanno mostrato come i disordini dell’identità di genere tendono a perdere d’intensità con il fiorire della pubertà, se non vengono rafforzati dai genitori o da altre persone» (p. 72). Nel senso di una non confermata base genetica dei fenomeni allo studio, cf anche W. H EYER , Paper genders…, cit., p. 112 e R.P. F ITZGIBBONS - P.M. S UT TON - D. O’L EARY, La psicopatologia…, cit., p. 132. G. GIUSTINIANO, Il fenomeno del transessualismo…, cit., pp. 62-71, dopo aver escluso cause genetiche o comunque organiche del transessualismo, presenta diverse ipotesi con i conseguenti approcci di tipo terapeutico. 21 Cf G. ZUANAZZI, Psicologia e psichiatria…, cit., pp. 240-241. Segnala l’incertezza nelle spiegazioni eziologiche anche M.P. FAGGIONI, Il transessualismo…, cit., p. 286; così come in M.P. FAGGIONI, I disturbi della sfera sessuale, cit., p. 380 e M.P. FAGGIONI, I disturbi dell’identità di genere, cit., pp. 335-336. 22 Ibid., p. 239. claudia Ambroggi - [email protected] 144 Paolo Bianchi lettura che giunge a inquadrare il fenomeno transessuale, da un punto di vista psichiatrico, fra le idee prevalenti nell’ambito di un disturbo della identità di genere. Mentre più difficile risulta indicare con precisione dati epidemiologici23, appare dalla letteratura che l’epoca di insorgenza delle manifestazioni di transessualismo sia varia, potendo risalire ai primi periodi delle vita cosciente del soggetto, fino a verificarsi – almeno in maniera acuta e del tutto manifesta, sfociando nel cosiddetto coming out – in età assai adulta, talvolta anche a valle di esperienze importanti come il matrimonio e la generazione24. Anche i gradi di intensità con i quali il fenomeno si manifesta possono variare. Si può ipotizzare che sul grado di intensità dello stesso possano influire la presenza di altri disturbi, per esempio di carattere psicologico25 ; le condizioni di vita, più o meno favorevoli; l’accompagnamento educativo, che può aiutare a orientare le tensioni interiori a sublimarsi in percorsi di positivo impegno culturale, lavorativo o sociale. Sotto il profilo terapeutico – prescindiamo qui dalla questione se il transessualismo sia da considerare in sé una patologia o se alla terapia si giunga solo in quanto egodistonico, ossia fonte di sofferenza per il soggetto26 – si conoscono nella sostanza due approcci, non necessariamente alternativi. Il primo è quello psicologico, o meglio psicoterapico, che può aiutare il soggetto a vivere la sua difficile con23 J.J. GARCÍA FAÍLDE , Trastornos psíquicos…, cit., p. 406 segnala solo che il fenomeno del transessualismo sarebbe molto più diffuso in soggetti maschi. G. ZUANAZZI, Psicologia e psichiatria…, cit., p. 235 considera il transessualismo come un fenomeno raro, più diffuso nei maschi con una proporzione di cinque contro uno rispetto alle femmine. Dati più precisi in M.P. FAGGIONI, Il transessualismo…, cit., pp. 285-286, in M.P. FAGGIONI, I disturbi della sfera sessuale, cit., pp. 379-380 e in M.P. FAGGIONI, I disturbi dell’identità di genere, cit., pp. 334-335. Cf anche DSM 5, pp. 531-532 (edizione italiana). 24 Cf G. ZUANAZZI, Psicologia e psichiatria…, cit., p. 237. 25 Una, come si dice, comorbilità in senso psichiatrico è segnalata per esempio da J.J. GARCÍA FAÍLDE , Trastornos psíquicos…, cit., p. 407. 26 Diversamente dalla edizione precedente DSM IV TR ha abbandonato la terminologia di transessualismo, inserendo però la fattispecie nei disturbi di identità sessuale (302.85). DSM 5, se da un lato colloca il travestitismo (302.3) fra i disturbi parafilici, (pp. 816-819 dell’edizione italiana), né fra questi né fra le disfunzioni sessuali (pp. 493-525 dell’edizione italiana) effettua una trattazione del transessualismo, ma vi dedica un capitolo autonomo intitolato Disforia di genere (pp. 527-537 della edizione italiana), non entrando nella problematica filosofica e culturale del “genere” ma precisando che il Manuale «si concentra sulla disforia come problema clinico e non sull’identità in sé» (p. 528). IDC 10 continua invece a utilizzare, quale categoria diagnostica, il termine transessualismo (F64.0), collocandolo fra i disturbi dell’identità sessuale (cf pp. 207-208 dell’edizione italiana). Segnala correnti ideologiche volte ad estromettere tale condizione (come per esempio è già avvenuto per l’omosessualità) dall’ambito della patologia, anche psichica, J.A. F UENTES , Desviaciones de la sexualidad…, cit., p. 674, nota 42, commentando efficacemente che la scomparsa della categoria diagnostica non porterà comunque alla scomparsa della realtà che essa indica. Segnalano pure la tendenza alla depatologizzazione nella nosografia ufficiale C. ATZORI, Il binario indifferente…, cit., pp. 83-84 e W. H EYER , Paper genders…, cit., pp. 112-113. claudia Ambroggi - [email protected] Transessualismo e diritto matrimoniale canonico 145 dizione, soprattutto se praticato per tempo e con costanza. Il secondo approccio terapeutico è quello della cosiddetta sex reassignment surgery o riassegnazione (altrimenti detta riattribuzione) chirurgica del sesso – accompagnata da trattamenti ormonali – che è invece molto più dibattuto in campo anche solo clinico, sia sotto il profilo della liceità deontologica dell’intervento e dei criteri di ammissione allo stesso, sia sotto il profilo della sua idoneità ad essere effettivamente risolutivo della tensione interna vissuta dal soggetto27. Quello che deve essere però chiaro – e oggi ciò è ammesso anche da una parte di coloro che pure lo praticano28 – è che un tale intervento non realizza un effettivo cambio di sesso nella persona che lo subisce. La persona si sottopone anzi a una gravissima mutilazione della propria integrità corporea e alla costruzione artificiale di un’apparenza dei soli genitali esterni del sesso cui sente di appartenere; costruzione che interessa quindi il solo sesso fenotipico e che si pone invece in contrasto con quello genetico e gonadico. Descrivere, in conclusione, tale tipo di intervento come un reale cambio di sesso non appare corretto da un punto di vista anche solo strettamente scientifico: «Si parla impropriamente di cambiamento di sesso. In realtà la chirurgia non si rivolge all’essenza del fenomeno, che ha luogo a livello psichico: cambia solo alcune apparenze corporee e ovviamente non cambia il sesso, fondato sul patrimonio genetico. Non sempre la riuscita dell’intervento è felice e talvolta, dopo la trasformazione, sono sorti atteggiamenti rivendicativi e veri e propri sviluppi paranoici (mentre prima dell’intervento erano presenti atteggiamenti di persecuzione)»29. Così un altro Autore osserva: «Il risultato della cura Tale problematicità è segnalata da P.G. BIANCHI, Incapacitas assumendi…, cit., p. 204 e in nota 245 a p. 292, dove si dà la documentazione dell’affermazione. J.J. GARCÍA FAÍLDE , Trastornos psíquicos…, cit., p. 408 si esprime in modo piuttosto sfavorevole sulla prognosi. Che il successo della modificazione chirurgica del sesso fenotipico presenti «letture non univoche» viene segnalato anche da M.P. FAGGIONI, Il transessualismo…, cit., p. 289. 28 Il professor Aldo Felici, primario dell’unità operativa di chirurgia plastica dell’Ospedale San Camillo di Roma e responsabile del servizio per l’adeguamento fra identità fisica e identità psichica, ha dichiarato in una intervista di aver praticato più di 500 interventi su transessuali maschi e femmine. Pur essendo un propugnatore di tale approccio terapeutico, dichiara molto limpidamente: «Chi decide di operarsi si fa massacrare […] noi mutiliamo gravemente queste persone e asportiamo degli organi vitali […] Questi interventi non sono la soluzione del problema. Ma allo stato attuale sono l’unico modo per attutirlo e il mio obiettivo è il benessere del paziente». L’intervista è apparsa nel giornale City di mercoledì 6 maggio 2009, p.13. Osservazioni critiche a una tale impostazione nella prefazione di Italo Carta a W. H EYER , Paper genders…, cit., pp. 10 e 11, nonché in R.P. F ITZGIBBONS - P.M. S UT TON - D. O’L EARY, La psicopatologia…, cit., pp. 123 ss., in quanto tutto l’articolo è dedicato alla valutazione clinica ma anche etica di tale prassi chirurgica. 29 G. ZUANAZZI, Psicologia e psichiatria…, cit., p. 241. U. NAVARRETE , Transexualismus…, cit., p. 107 pure sottolinea che l’operazione non comporta una vera e ontologica mutazione della sessualità del soggetto. Così anche J. O TADUY, Transexualidad, cit., p. 642 efficacemente segnala che si tratta di un 27 claudia Ambroggi - [email protected] 146 Paolo Bianchi ormonale e della chirurgia demolitiva-ricostruttiva non è una nuova sessualità ma un falso sessuale»30. Peraltro, un argomento che nella pubblicistica viene lasciato per così dire piuttosto in secondo piano è quello relativo alla condizione di detti soggetti dopo l’operazione chirurgica. Potrebbe essere interessante conoscere più dettagliatamente quali siano le effettive ricadute dell’intervento sulla vita delle persone interessate, ossia se vi sia un effettivo guadagno quanto al loro equilibrio personale e quanto alla dimensione relazionale. Un notizia interessante in merito deriva dal libro di Chiara Atzori, che segnala come sia stato chiuso il dipartimento per le pratiche di riattribuzione del sesso, aperto presso la prestigiosa John Hopkins University negli Stati Uniti e dove furono attivi Harry Benjamin e John Money, due dei due “pionieri” di tale terapia 31. Di estremo interesse il fatto che questa Autrice riporta un articolo dello psichiatra che attuò tale chiusura e che formula un giudizio assai critico sugli esiti reali di dette terapie32. Un dato che appare alquanto significativo è la maggiore frequenza di suicidi o tentativi di suicidio in persone che hanno subito l’intervento di cosiddetta riattribuzione del sesso, rispetto alla popolazione di confronto33. riadattamento solo morfologico e non invece fisiologico del sesso del soggetto sottoposto all’intervento. W. H EYER , Paper genders…, cit., p. 26 – si noti bene, anche sulla base di una propria vicenda personale (cf pp.103-107) – afferma in modo molto netto: «L’assurdità di quanto ci viene chiesto, cioè credere che un chirurgo con un bisturi possa cambiare il genere di qualcuno, è la più grande truffa medica della nostra vita». 30 G. GIUSTINIANO, Il fenomeno del transessualismo…, cit., p. 21: alle pp. 20-24, anche con indicazioni bibliografiche, si offrono ulteriori considerazione etiche in merito a questo tipo di approccio terapeutico, completate poi alle pp. 82-84. 31 Cf C. ATZORI, Il binario indifferente…, cit., pp. 56-58. 32 Cf C. ATZORI, Il binario indifferente…, cit., pp. 115-127. Queste – riportate alle pp. 126-127 – le parole conclusive del dottor Paul McHugh, in un suo articolo apparso nel novembre 2004: «Sono stato testimone di una gran quantità di danni provocati dal cambiamento di sesso. I bambini trasformati in femmine provavano angoscia e tristezza quando avvertivano le loro inclinazioni naturali. I loro genitori solitamente vivevano con sensi di colpa per la loro decisione, giudicando se stessi con il senno di poi e a volte vergognandosi della fabbricazione, sia chirurgica che sociale, che avevano imposto ai loro figli. Per quanto riguarda gli adulti che venivano da noi dichiarando di avere scoperto la loro “vera” identità sessuale e di aver sentito parlare dell’operazione per cambiare sesso, noi psichiatri siamo stati distolti dallo studiare le cause e la natura dei loro problemi mentali preparandoli per l’operazione e per una vita nell’altro sesso. Abbiamo sprecato risorse tecniche e scientifiche e danneggiato la nostra credibilità professionale collaborando con la pazzia invece che cercare di studiarla, curarla e infine prevenirla». 33 Tutto il volume di W. H EYER , Paper genders…, cit., è dedicato a mostrare l’inefficacia dell’approccio (solo) chirurgico al problema del transessualismo, come si può osservare dall’alto tasso di suicidi fra coloro che si sono sottoposti all’intervento, dal pentimento per quanto fatto, dalla scomparsa dall’attenzione clinica dei soggetti passivi dell’operazione: cf pp. 19, 27-30 (dove si riferisce il famoso caso dei gemelli Reimer), 30-32, 37-38, 95-97, 117-120. Uno studio svedese conferma il dato relativo a suicidi e tentativi di suicidio. In tale studio sono state prese in considerazione 324 persone che si sono sottoposte in Svezia al detto intervento chirurgico (191 per passare da maschio a femmina e 133 da femmina a maschio) nel periodo compreso fra il 1973 e il 2003. Queste le conclusioni degli Autori, che traduco dall’Abstract di p. 1: «Le persone con transessualismo, dopo la riattribuzione del sesso, hanno un rischio considerabilmente maggiore, rispetto alla popolazione generale, di mortalità, claudia Ambroggi - [email protected] Transessualismo e diritto matrimoniale canonico 147 Cenni sulla situazione nel diritto italiano La legge 14 aprile 1982, n. 164 consente il trattamento (ormonale e chirurgico) volto ad allineare l’aspetto esterno – il sesso fenotipico – alle convinzioni interiori del soggetto, con la conseguente possibilità di rettifica dello stato civile ai sensi dell’articolo 454 c.c., nonché l’esercizio di prerogative connesse a tale nuovo stato, quali il contrarre matrimonio o la stessa genitorialità. Tale legge prevede un duplice passaggio: in primo luogo quello della autorizzazione al trattamento medico-chirurgico necessario all’adeguamento dei caratteri sessuali esterni (articolo 3), autorizzazione che viene concessa mediante sentenza del tribunale della residenza del richiedente (articolo 2). Il secondo passaggio è quello della autorizzazione alla rettifica dell’attribuzione di sesso, rilasciata sempre con sentenza dallo stesso tribunale (cf lo stesso articolo 2). Da notare che se la sentenza che autorizza la rettifica dell’attribuzione di sesso non ha effetti retroattivi, tuttavia essa provoca lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili di un matrimonio (rispettivamente civile o religioso trascritto agli effetti civili) celebrato in precedenza dal richiedente (cf articolo 4). Nelle due fasi della procedura che si sono sommariamente descritte partecipa il Pubblico ministero e il ricorso dell’attore va notificato (se vi sono) al coniuge e ai figli (cf articolo 2). Tale legge è stata criticata da più punti di vista. Le critiche che la vorrebbero ancora più concessiva si appuntano soprattutto su questi due aspetti: la necessità di approfondimenti clinici previsti all’articolo 2, mentre si vorrebbe bastevole la cosiddetta autodiagnosi; il fatto che il cambiamento del nome e del genere anche negli atti civili venga consentito solo dopo l’operazione chirurgica di adeguamento del sesso comportamento suicidario e morbidità psichiatrica. I nostri risultati indicano che la riattribuzione del sesso, per quanto possa alleviare la disforia di genere, può non essere sufficiente nel trattamento del transessualismo e deve suggerire una validata cura psichiatrica e somatica per questo gruppo di pazienti dopo la riattribuzione del sesso» (C. DHEJNE - P. L ICHTENSTEIN - M. BOMAN - A.L.V. JOHANSSON N. L ÅNGSTROM - M. L ANDÉN, Long-Term Follow-Up of Transsexual Persons Undergoing Sex Reassignment Surgery: Cohort Study in Sweden, in www.plosone.org, febbraio 2011, volume 6, issue 2, e16885, pp. 1-8). Si vedano anche i dati esposti in M.P. FAGGIONI, Il transessualismo…, cit., pp. 289-290 che portano a concludere «che la correzione chirurgica non è la panacea per i disagi dei transessuali, anche se in molti casi di vero transessualismo può determinare un miglioramento della situazione psicologica e permettere un più soddisfacente inserimento sociale» (p. 290); concetti che vengono ribaditi in M.P. FAGGIONI, I disturbi della sfera sessuale, cit., pp. 382-383, segnalando (come anche nel precedente contributo) che i dati relativi al periodo successivo all’intervento danno adito a letture non univoche. Da ultimo, appare utile richiamare anche quanto si legge in DSM 5: «Dopo la riassegnazione del genere, l’adattamento può variare e può persistere il rischio di suicidio» (p. 531 dell’edizione italiana). claudia Ambroggi - [email protected] 148 Paolo Bianchi fenotipico. A questo proposito vi sono (state) delle proposte di legge34 che hanno suggerito la cosiddetta “piccola soluzione”: ossia la possibilità di essere autorizzati (anche solo temporaneamente) al cambio del nome, senza l’intervento chirurgico che resterebbe la cosiddetta “grande soluzione”. Personalmente, con tutto il rispetto per il Legislatore dello Stato italiano35, ci sentiamo di condividere maggiormente il commento critico del professor Zuanazzi, che mette conto di riportare per intero: «A mio parere, il Legislatore dimentica il fatto fondamentale che l’uomo e la donna non sono tali perché possiedono particolari organi genitali, ma possiedono particolari organi genitali perché sono già ontologicamente maschio e femmina. Ogni cellula dell’uomo è maschile, ogni cellula della donna è femminile. L’intervento medico e chirurgico sul corpo di un uomo fabbrica davvero un corpo di donna, provvisto della specifica sensibilità femminile? E quello sul corpo di una donna fabbrica davvero un corpo di uomo, provvisto della specifica sensibilità maschile? Il trattamento, quando tutto va bene, è solo un palliativo che, in alcuni casi, permette al soggetto di soffrire di meno, non un atto propriamente terapeutico, risolutivo. Non sottovaluto certo il vissuto dell’individuo rispetto alla propria identità sessuale e al proprio corpo, specie quando tale vissuto si accompagna con un disagio psichico così grande da tradursi talvolta in comportamenti autolesivi, ma un cambiamento di sesso non è realizzabile. Gli interventi medici e chirurgici trasformano, togliendo organi sani, un corpo normale in un artefatto che non è più, nonostante le ardite manipolazioni, né maschile né femminile, bensì un corpo neutro, a cui è tolta la capacità di generare e che soltanto con mezzi artificiali può compiere la copula»36. La persona transessuale e il matrimonio canonico La valutazione della capacità matrimoniale di una persona transessuale dipende anzitutto ed essenzialmente dalla natura del matrimonio, così come compresa dall’ordinamento canonico. Un ordinamento che si pone in una prospettiva realista, non puramente positivista: ossia nel quale il diritto non è solo derivato dalla analisi tecnica delle norme di legge, ma precede la stessa legge, dovendo essere identificato nelle relazioni di giustizia iscritte nella realtà stessa 37. Proposta di legge n. 2939 del 1° luglio 2002 di Titti De Simone et alii. Rilievi critici sulla legge 164 del 1982, con indicazioni bibliografiche, anche in G. GIUSTINIANO, Il fenomeno del transessualismo…, cit., pp. 9-11. 36 G. ZUANAZZI, Psicologia e psichiatria…, cit., p. 243, corsivi dell’Autore. 37 Si veda, per esempio, l’articolo di E BAUR A , La realtà disciplinata quale criterio interpretativo giuridico della legge, in «Ius Ecclesiae» 25 (2012) 705-717: è il commento alla allocuzione di Benedetto XVI alla Rota Romana del 21 gennaio 2012. Sostiene una visione “realistica” del diritto, legata alla 34 35 claudia Ambroggi - [email protected] Transessualismo e diritto matrimoniale canonico 149 Quando si parla di matrimonio, in un contesto canonico, tale parola indica invero due realtà. La prima è il patto nuziale, ovvero il momento costitutivo della condizione coniugale, che usualmente viene denominato come matrimonium in fieri: matrimonio nel suo venire in essere. Di tale aspetto trattano il can. 1055 § 1, che lo definisce appunto come patto; il can. 1055 § 2, che lo denomina anche contratto; e il can. 1057, che dichiara il principio consensualistico, centrale in tutto il sistema matrimoniale canonico: il matrimonio cioè nasce dal consenso delle parti, atto libero di donazione reciproca, che esplica la sua piena efficacia laddove intercorre fra persone giuridicamente abili (non cioè interessate da impedimenti) e laddove viene prestato nelle forme previste. La seconda realtà evocata dalla parola matrimonio è quella del consorzio di vita, ossia del matrimonio stato o rapporto, che nella consuetudine canonistica viene denominato matrimonium in facto esse: esso viene descritto, nella sua essenza e nelle sue finalità istituzionali, nel can. 1055 § 1. Queste due realtà, per quanto logicamente distinguibili, sono strettamente connesse fra loro: anzi si potrebbe dire che il matrimonio in fieri è del tutto funzionale alla creazione del matrimonio in facto esse ed esaurisce ogni sua funzione giuridica e sociale nel darvi validamente vita. Per questo, nel momento genetico del matrimonio, devono esistere tutti i presupposti idonei a realizzare quella specifica relazione fra le persone che possa essere considerata veramente coniugale. Ora, secondo la visione antropologica che trova la sua espressione giuridica nell’ordinamento, la donazione di sé che dà vita alla relazione propriamente coniugale è quella della propria mascolinità e femminilità: è tale formalità che rende propriamente coniugale questo tipo di donazione interpersonale e matrimoniale la relazione che ne deriva. Per questo, la legge canonica esplicita che il patto coniugale avviene (e può avvenire) solo fra un vir e una mulier (cf il can. 1057 § 2) e che il consorzio di tutta la vita cui essi danno origine si stabilisce (e non può che stabilirsi) fra un vir e una mulier (cf il can. 1055 § 1). In modo assai chiaro si afferma che la eterosessualità, ossia la reale diversità sessuale fra i nubendi, appartiene non già solo all’ordine della abilità personale e nemmeno a quello della capacità soggettiva per contrarre, bensì al piano ancora anteriore (da un punto di vista ontologico ed assiologico) di un presupposto per la stessa esistendimensione giuridica iscritta nella realtà, superando la tentazione del positivismo, che in qualche modo la stessa codificazione avrebbe introdotto nel diritto della Chiesa. claudia Ambroggi - [email protected] 150 Paolo Bianchi za di una relazione giuridica coniugale38. I prescritti legali appena richiamati non sono dunque disposizioni puramente positive, che il Legislatore potrebbe mutare per modificate esigenze storiche o per pressioni di carattere culturale e sociale, ma sono la mera esplicitazione, nei suoi risvolti giuridici (cioè del giusto in sé dichiarato nella legge), di una concezione dell’uomo che appartiene al patrimonio dottrinale stabile della Chiesa 39, la quale ha il dovere di testimoniarlo, soprattutto quando esso viene messo in discussione; quando – come si esprime un Autore spagnolo rifacendosi a una suggestione di Goya, grande pittore di quella tradizione culturale40 – il sonno della ragione genera mostri, avendo perso il contatto con la realtà, con gli elementi di verità, e quindi anche di giustizia, che in essa ha immesso il Logos creatore, lo Spirito creatore41. La valutazione della capacità matrimoniale della persona transessuale dipende anche da due ulteriori variabili relative al soggetto, Cf J. O TADUY, Transexualidad, cit., p. 643. Lo ribadisce, al n. 224, il Compendio della dottrina sociale della Chiesa: «Di fronte alle teorie che considerano l’identità di genere soltanto come prodotto culturale e sociale derivante dall’interazione tra la comunità e l’individuo, prescindendo dall’identità sessuale personale e senza alcun riferimento al vero significato della sessualità, la Chiesa non si stancherà di ribadire il proprio insegnamento: “Spetta a ciascuno, uomo o donna, riconoscere ed accettare la propria identità sessuale. La differenza e la complementarità fisiche, morali e spirituali sono orientate al bene del matrimonio e allo sviluppo della vita familiare. L’armonia della coppia e della società dipende in parte dal modo in cui si vivono tra i sessi la complementarità, il bisogno vicendevole e il reciproco aiuto”. È questa una prospettiva che fa considerare doverosa la conformazione del diritto positivo alla legge naturale, secondo la quale l’identità sessuale è indisponibile, perché è la condizione oggettiva per formare una coppia nel matrimonio». 40 Cf J.A. F UENTES , Desviaciones de la sexualidad…, cit., p. 676. 41 Nel discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2008, nel contesto della esplicitazione di alcune implicazioni della pneumatologia, della teologia cioè dello Spirito Santo, Benedetto XVI ha toccato i risvolti dottrinali del tema di cui ci occupiamo in questo articolo: «Poiché la fede nel Creatore è una parte essenziale del Credo cristiano, la Chiesa non può e non deve limitarsi a trasmettere ai suoi fedeli soltanto il messaggio della salvezza. Essa ha una responsabilità per il creato e deve far valere questa responsabilità anche in pubblico. E facendolo deve difendere non solo la terra, l’acqua e l’aria come doni della creazione appartenenti a tutti. Deve proteggere anche l’uomo contro la distruzione di se stesso. È necessario che ci sia qualcosa come una ecologia dell’uomo, intesa nel senso giusto. Non è una metafisica superata, se la Chiesa parla della natura dell’essere umano come uomo e donna e chiede che quest’ordine della creazione venga rispettato. Qui si tratta di fatto della fede nel Creatore e dell’ascolto del linguaggio della creazione, il cui disprezzo sarebbe un’autodistruzione dell’uomo e quindi una distruzione dell’opera stessa di Dio. Ciò che spesso viene espresso ed inteso con il termine “gender”, si risolve in definitiva nella autoemancipazione dell’uomo dal creato e dal Creatore. L’uomo vuole farsi da solo e disporre sempre ed esclusivamente da solo ciò che lo riguarda. Ma in questo modo vive contro la verità, vive contro lo Spirito creatore. Le foreste tropicali meritano, sì, la nostra protezione, ma non la merita meno l’uomo come creatura, nella quale è iscritto un messaggio che non significa contraddizione della nostra libertà, ma la sua condizione. Grandi teologi della Scolastica hanno qualificato il matrimonio, cioè il legame per tutta la vita tra uomo e donna, come sacramento della creazione, che lo stesso Creatore ha istituito e che Cristo – senza modificare il messaggio della creazione – ha poi accolto nella storia della sua alleanza con gli uomini. Fa parte dell’annuncio che la Chiesa deve recare la testimonianza in favore dello Spirito creatore presente nella natura nel suo insieme e in special modo nella natura dell’uomo, creato ad immagine di Dio» (in A AS 101 [2009] pp. 53-54). 38 39 claudia Ambroggi - [email protected] Transessualismo e diritto matrimoniale canonico 151 ossia: a) in primo luogo, in relazione a se il matrimonio venga contratto prima o dopo l’intervento di sex reassignment surgery; b) in secondo luogo, in relazione al grado di gravità della condizione soggettiva, questione però che assume rilievo solo nel caso che la celebrazione delle nozze avvenga prima del detto intervento. Dalla considerazione congiunta di tutti i criteri sin qui esposti – quello dottrinale circa la natura del matrimonio e i due soggettivi appena richiamati – discende la possibilità di formulare le seguenti considerazioni. a) Prima dell’intervento di riassegnazione chirurgica del sesso Per quanto concerne la capacità al matrimonio del transessuale prima dell’operazione42, per esprimerci in modo sintetico, si deve ritenere che laddove la gravità della sua situazione faccia ragionevolmente prevedere uno sviluppo verso il cosiddetto coming out o comunque lasci presagire gravi difficoltà nel gestire il proprio ruolo di coniuge o di genitore non vada concessa l’ammissione alle nozze e, se celebrate, l’azione per farne riconoscere l’invalidità possa essere proposta per il can. 1095, 3°, ossia per l’incapacità di assumere obblighi matrimoniali essenziali; o anche per il can. 1095, 2°, ossia per la grave alterazione del giudizio pratico avuta nel contrarre le nozze. Infatti, il soggetto implicato in una grave condizione transessuale non potrebbe (anche prima dell’operazione) fare un vero dono coniugale di sé, ossia della propria mascolinità o femminilità che in realtà non riconosce e non accetta, che avverte come sbagliata e frustrante. Per l’intima dissociazione che avverte dentro di sé sarebbe arduo per tale persona vivere un consorzio eterosessuale di vita, con un coniuge che in realtà avverte come appartenente al proprio stesso sesso o, meglio, a quello cui egli sente di appartenere. Nello studio pubblicato nel 1992 raccoglievo attorno a tre nuclei l’incapacità matrimoniale del transessuale (prima dell’operazione)43 : a) quello della disponibilità sessuale perpetua, soprattutto in presenza di una forte tensione verso l’operazione di sex reassignment; b) quello della attitudine a vivere in modo umano la relazione intima con Ho trattato questo aspetto della questione in P.G. BIANCHI, Incapacitas assumendi…, cit., pp. 203207, commentando lavori, là presentati, di Graham e Perico, l’unica decisione rotale in materia di transessualismo, ossia la coram Pinto 14 aprile 1975 e i commenti ad essa fatti da Gil de la Heras, Weber, Aznar Gil, Graham, per la cui esposizione rimando a quel testo. 43 Cf P.G. BIANCHI, Incapacitas assumendi…, cit., pp. 206-207. 42 claudia Ambroggi - [email protected] 152 Paolo Bianchi l’altra parte, laddove essa non fosse vissuta che in modalità puramente strumentali rispetto alla proprie fantasie; c) quello della educazione della prole, che potrebbe essere compromessa dalla manifestazione della propria tensione interiore, per esempio giungendo a un coming out quanto alle modalità di abbigliamento e di comportamento, se non addirittura al passo irreversibile dell’intervento chirurgico. In tali termini, il soggetto risulterebbe incapace al matrimonio ai sensi del can. 1095, 3°44, laddove gli obblighi impossibili da assumersi sarebbero da riferirsi soprattutto alla ordinazione naturale del matrimonio al bene dei coniugi e della prole. Come accennato, tuttavia, la capacità del soggetto potrebbe essere messa in discussione sotto il profilo del difetto grave di discrezione di giudizio di cui al can. 1095, 2°, particolarmente laddove il matrimonio fosse stato contratto nella consapevolezza della propria transessualità, ma sottovalutandola o illudendosi che la scelta matrimoniale ne potesse produrre il superamento. In modo analogo si orienta un prestigioso canonista spagnolo e già Decano della Rota spagnola. Egli vede il soggetto transessuale, prima della operazione: a) incapace per il difetto di discrezione di giudizio, domandandosi: «chi appartiene a un sesso e detesta di appartenere a questo sesso e ossessivamente desidera appartenere all’altro sesso, come può essere in condizione di deliberare circa ciò che comporta il dono esclusivo e per sempre a questo sesso in una unione eterosessuale come la unione matrimoniale? e, se non è in condizione di effettuare questa deliberazione, come può autodeterminarsi liberamente per impegnarsi nei confronti di questo altro sesso e accettare questo altro sesso?»45 ; b) incapace pure ad assumere gli obblighi del matrimonio, proponendo i seguenti quesiti: «chi appartiene a un sesso e detesta di appartenere a questo sesso e ossessivamente desidera appartenere all’altro sesso, come può essere capace di assolvere i compiti essenziali e caratteristici del suo proprio sesso? come può rendersi possibile la piena comunione interpersonale eterosessuale propria del matrimonio?»46 ; c) ma anche come potenzialmente affetto da impotenza copulativa: infatti, pur potendo magari porre un atto sessuale con il proprio coniuge, non lo potrebbe attuare humano modo, se «non vede il partner nella realizzazione dell’atto più che come uno strumento delle sue fantasie di invertito sessuale»47. In senso conforme, cf G. GIUSTINIANO, Il fenomeno del transessualismo…, cit., p. 136. J.J. GARCÍA FAÍLDE , Trastornos psíquicos…, cit., p. 410 (traduzioni, anche in seguito, del sottoscritto). 46 L. cit. 47 L. cit. 44 45 claudia Ambroggi - [email protected] Transessualismo e diritto matrimoniale canonico 153 Un altro canonista spagnolo, Eloy Tejero, secondo la impostazione propria che lo caratterizza, attrae l’incapacità matrimoniale del soggetto transessuale nel difetto di consenso in senso proprio, sostenendo che tale persona non possiederebbe un impulso interiore efficace che lo possa spingere verso l’unione matrimoniale, caratterizzata dalla differenziazione sessuale48, al punto di non poter far proprio il matrimonio come progetto personale di vita. Un grande maestro della canonistica del secolo XX si mostra molto prudente in merito alla capacità matrimoniale del soggetto transessuale prima dell’operazione, affermando l’insussistenza di un criterio certo e universale in merito e orientando alla valutazione prudenziale in ogni singolo caso49. Secondo una analoga linea di prudenza si orienta anche Otaduy nel valutare la capacità matrimoniale del transessuale prima dell’intervento di sex reassignment surgery, anche se – avvicinandosi in questo alla posizione di Tejero – ipotizza che la confusione che caratterizza un tale soggetto in merito ai temi della mascolinità e della femminilità lo possa influenzare negativamente quanto alla capacità di intendere e di volere la vera natura del matrimonio50. Prudente è anche la valutazione di Faggioni, che ritiene «molto probabile» l’invalidità del matrimonio celebrato dal transessuale prima dell’operazione, puntando soprattutto sull’interiore conflitto presente nel soggetto e nella sua verosimile ricaduta sul dono reciproco dell’uomo e della donna e sulla sua irrevocabilità51. b) Dopo l’intervento di riassegnazione chirurgica del sesso Per quanto concerne la capacità al matrimonio del transessuale dopo l’operazione52, la valutazione dal punto di vista canonico appare in un certo senso più agevole. La persona che si trova in quelle condizioni non può essere ammessa alle nozze e – laddove esse siano celebrate – ne va in ogni caso riconosciuta l’invalidità per mancanza E. T EJERO, ¿Imposibilidad de cumplir…, cit., pp. 1034 e 1036. Cf U. NAVARRETE , Transexualismus…, cit., pp. 116-117. 50 Cf J. O TADUY, Transexualidad, cit., p. 644. 51 Cf M.P. FAGGIONI, Il transessualismo…, cit., p. 301. Cf anche M.P. FAGGIONI, I disturbi della sfera sessuale, cit., pp. 391-392 e M.P. FAGGIONI, I disturbi dell’identità di genere, cit., pp. 347-348. 52 Ho trattato questo aspetto della questione in P.G. BIANCHI, Incapacitas assumendi…, cit., pp. 207208, in sostanziale adesione alle tesi proposte da Graham e invece in chiaro dissenso da Ritty, per i motivi indicati in quel testo: in buona sostanza, tale Autore sosterrebbe che l’ammissione di un transessuale al matrimonio, dopo l’operazione, esalterebbe la visione relazionale del matrimonio stesso, superando una troppo sottolineata orientazione alla procreazione (nel caso, evidentemente impossibile). Condivide il giudizio critico sulla posizione di Ritty J. O TADUY, Transexualidad, cit., p. 643. 48 49 claudia Ambroggi - [email protected] 154 Paolo Bianchi di un presupposto essenziale ex cann. 1055 § 1 e 1057 § 2, i quali ribadiscono che il matrimonio non può che avvenire che fra un vir e una mulier. In tal caso, infatti, ci si troverebbe di fronte a due persone che per l’ordinamento canonico appartengono allo stesso sesso, che non viene in alcun modo modificato dall’intervento chirurgico53. García Faílde conviene su tale conclusione, affermando che, poiché l’operazione chirurgica e i trattamenti ormonali non cambiano la struttura cromosomica e gonadica e, quindi, la identità ontologica del sesso, fra le persone eventualmente interessate si darebbe quella che chiama «mancanza di vero matrimonio». Nello stesso passo del suo lavoro il prestigioso Autore sostiene che il transessuale a valle dell’operazione di sex reassignment surgery sarebbe pure incapace per grave difetto di discrezione di giudizio e per incapacità di assumere gli obblighi del matrimonio54. Per quanto, in astratto, tali affermazioni siano anche condivisibili, appare che esse siano in realtà superate da quella che fa riferimento alla mancanza di una vera differenziazione sessuale fra i due soggetti, che risulta del tutto assorbente e prevalente su ogni altra. A una considerazione ampia dei possibili motivi di invalidità matrimoniale – ossia comprensiva di impotenza copulativa, ma anche di difetti o vizi del consenso – invita Fuentes55, pure tenendo conto della distinzione essenziale fra il prima e il dopo l’eventuale operazione chirurgica. In particolare, si ritiene che un vero transessualismo si opponga al disegno di amore fra un uomo e una donna, alla possibilità di realizzare una vera donazione coniugale di sé. Sul tema della incapacità psichica, pur accennando ad altri possibili motivi di nullità, si orienta pure Zuanazzi56 : egli ritiene che il soggetto transessuale, prima dell’operazione, presentando una personalità disturbata dal dissidio fra sesso psichico e sesso morfologico, 53 Per quanto l’ordinamento canonico positivo non utilizzi questo termine di carattere tecnico – definendo un atto giuridico nullo piuttosto come irritus o invalidus – si potrebbe nel caso ipotizzare di trovarci di fronte a un atto addirittura inesistente, almeno sotto un profilo prettamente giuridico. Si vedano le precisazioni di E. BAUR A , Parte generale del diritto canonico. Diritto e sistema normativo, Roma 2013, pp. 108-109, dove, per spiegare il concetto di inesistenza giuridica di un atto, si risale a una contingenza storica pertinente al nostro tema: «La categoria dell’inesistenza degli atti fu introdotta dalla dottrina francese, per venire incontro alle conseguenze che l’applicazione rigida del principio pas de nullité sans texte poteva portare. Infatti, una volta promulgato il Codice napoleonico sorse la questione di come valutare il matrimonio tra persone dello stesso sesso, ipotesi non prevista, né sancita con la nullità, dal Codice civile francese; non potendo qualificarsi di nullo, si concluse che esso era inesistente» (p. 109). 54 Cf J.J. GARCÍA FAÍLDE , Trastornos psíquicos…, cit., pp. 410-411. 55 Cf J.A. F UENTES , Desviaciones de la sexualidad…, cit., pp. 679-681. 56 Cf G. ZUANAZZI, Psicologia e psichiatria…, cit., pp. 241-243. claudia Ambroggi - [email protected] Transessualismo e diritto matrimoniale canonico 155 nonché tendendo ad acquisire un comportamento contrario al sesso morfologico, non sarebbe in grado di stabilire una reale reciprocità sessuale con il coniuge. Per quanto concerne poi il soggetto dopo l’operazione, il clinico indugia sul tema dell’impotenza copulativa, giungendo però poi ad evidenziare la non reale differenza di sesso fra i due soggetti che volessero contrarre matrimonio, essendosi però uno dei due sottoposto a un intervento di sex reassignment surgery. Per quanto possano apparire alquanto crude, mette conto riferire alcune sue parole – per sé spese in tema di impotenza del soggetto che si vorrebbe trasformato da uomo in donna, ma che appaiono avere un significato più generale – che illustrano la fallacia della pretesa trasformazione. Facendo un confronto con interventi ricostruttivi su donne affette da atresia vaginale, Zuanazzi afferma: «Ma si può porre un’equivalenza tra la ricostruzione di una vagina nel caso di atresia e la trasformazione richiesta dal transessualismo? Si deve osservare che nel primo caso si attua davvero la correzione di un apparato genitale alterato che in tale modo riacquista la propria funzione; nel secondo, invece, si procede ad una sostituzione artificiosa dopo aver tolto l’organo naturale sano. Per assicurare un’intimità sessuale non è sufficiente una cavità qualsiasi, anche se posta tra vescica e retto e capace di ricevere il membro virile. La vagina ha il suo significato funzionale non solo perché è fatta in un determinato modo e posta in un preciso luogo […]»57. Un’argomentazione analoga presenta anche Faggioni che insiste molto nella mancanza di quella che chiama qualitas heterosexualis della persona che si è sottoposta all’intervento chirurgico di riassegnazione del sesso, mettendo anche in luce come la vigente codificazione canonica abbia sottolineato proprio la caratteristica della eterosessualità come un prerequisito essenziale in relazione al matrimonio. Giustamente questo approccio viene considerato assorbente rispetto a qualsiasi altro nella valutazione della abilità al matrimonio di una persona in dette condizioni58. 57 Ibid., p. 242. In chiara assonanza, cf U. NAVARRETE , Transexualismus…, cit., pp. 106 e 115; nonché G. GIUSTINIANO, Il fenomeno del transessualismo…, cit., pp. 23-24. 58 M.P. FAGGIONI, Il transessualismo…, cit., pp. 297-300, una trattazione che viene riesposta in M.P. FAGGIONI, I disturbi della sfera sessuale, cit., pp. 388-391 e in M.P. FAGGIONI, I disturbi dell’identità di genere, cit., pp. 344-347. Da notare che questo Autore affaccia – in tutti i contributi citati (di seguito citiamo dal primo, perché i tre testi sono nella sostanza corrispondenti) – anche un’ulteriore ipotesi, che trova in considerazioni del passato più o meno recente degli echi per così dire prodromici: ossia se l’avvenuto intervento chirurgico (pur non mutando ontologicamente la natura maschile o femminile di un soggetto) non debba comportare lo scioglimento del matrimonio eventualmente già contratto (ivi, pp. 301-304). Tuttavia, anche alla luce delle attuali conoscenze, la questione rimane aperta, non potendosi affermare che il soggetto, dopo l’operazione, abbia mutato sesso: «Forse è più prossimo claudia Ambroggi - [email protected] 156 Paolo Bianchi Navarrete ritiene che, a seguito della operazione, il transessuale non potrebbe essere ammesso alle nozze59 per i motivi che renderebbero invalido il suo matrimonio. Quanto a questi, ne individua tre: 1) la mancanza di equilibrio psichico necessaria al consenso, dimostrata dal fatto stesso di essersi sottoposto all’intervento; 2) la mancanza di una reale differenza sessuale fra i soggetti contraenti; 3) l’impotenza copulativa, essendo i loro organi genitali esterni, costruiti artificialmente, non idonei a una vera unione coniugale60. Si è già espressa l’opinione che la seconda di tali ragioni sia quella in assoluto prevalente e maggiormente cogente. Analoga considerazione può essere fatta per la posizione di Giustiniano, che vede due ragioni di impossibilità al matrimonio per il transessuale sottopostosi all’intervento di riattribuzione del sesso, ossia: 1) il fatto che «manca nella relazione interpersonale il connotato della eterosessualità», e 2) il fatto che «il mutamento di sesso priva il soggetto della capacità copulativa così come è richiesta dal diritto matrimoniale canonico»61. Anche Otaduy, rifacendosi ad Autori come Navarrate, Pompedda e Graham, considera invalido il matrimonio contratto da un transessuale dopo l’operazione per una serie di motivi: 1) l’impotenza copulativa; 2) l’assenza di una vera, non solo fittizia, diversità sessuale fra i coniugi; 3) l’incapacità di assumere gli obblighi del matrimonio a causa della anomalia dimostrata dal fatto stesso dell’operazione subita; 4) le possibili fattispecie normative di errore semplice o doloso62. Resta da aggiungere che, come pur fugacemente segnalato esponendo le posizioni di alcuni Autori, il matrimonio di una persona transessuale potrebbe proporre, da un punto di vista canonico, la sussistenza di altri capi di nullità matrimoniale. Ciò è certamente vero; tuttavia sembra opportuno precisare che nelle ipotesi maggiormente considerate sin qui (soprattutto quelle della incapacità psichica e della radicale mancanza di diversità sessuale dopo l’operazione) la nullità discende per così dire direttamente dalla condizione del soggetto, al vero dire che il transessuale operato continua ad essere l’uomo o la donna di prima, benché affetti [sic] da un grave disturbo psichico e con un corpo mostruosamente mutilato» (p. 304). 59 Cf U. NAVARRETE , Transexualismus…, cit., pp. 112-113. 60 Cf ibid., pp. 114-116. 61 G. GIUSTINIANO, Il fenomeno del transessualismo…, cit., p. 123; a p. 126, riprendendo la prima motivazione della incapacità matrimoniale del transessuale, l’Autore precisa che la sua condizione «esclude il carattere eterosessuale dell’amore coniugale», mentre sul tema dell’impotenza torna alle pp. 129-136. Il tema è ripreso a p. 147. 62 Cf J. O TADUY, Transexualidad, cit., pp. 643-644. claudia Ambroggi - [email protected] Transessualismo e diritto matrimoniale canonico 157 per profili che immediatamente si oppongono alla donazione e alla relazione coniugale; in altri casi invece, la condizione transessuale rappresenterebbe soltanto una condizione di fatto che potrebbe integrare uno degli elementi costitutivi di altre fattispecie legali di nullità matrimoniale. Così, per esempio, nel caso che una tendenza transessuale consolidata venisse nascosta all’altra parte, ciò rappresenterebbe una qualità oggetto di induzione dolosa in errore ai sensi del can. 1098. Qualora oggetto del dolo omissivo fosse invece l’avventa trasformazione fisica a seguito dell’operazione63, se pure e senza dubbio il caso potrebbe rientrare nell’ambito dello stesso vizio del consenso, si ritiene tuttavia che si presenterebbe come assorbente la radicale mancanza di differenza sessuale fra i due soggetti. Così, la consapevolezza di una tendenza transessuale potrebbe stare alla base anche di un difetto volontario del consenso, quale una esclusione della prole o della indissolubilità, per esempio riservandosi il soggetto di perseguire la propria tensione al cambio sia di morfologia sessuale fenotipica sia di stile di vita. Ma, come si pensa appaia chiaro, in questi casi la condizione transessuale del soggetto resta al semplice livello di una qualità personale o di una circostanza motiva dell’atto di volontà, senza esplicare una diretta, immediata, efficacia in relazione alla tematica matrimoniale. La giurisprudenza rotale Per quanto concerne la giurisprudenza vi sono decisioni che si occupano soprattutto del fenomeno del travestitismo64. L’unica sentenza rotale che si sia occupata anche sotto il profilo del fatto del caso di un transessuale65 resta la coram Pinto 14 aprile 197566. In tale decisione i fenomeni del travestitismo e del transessualismo sono visti come G. GIUSTINIANO, Il fenomeno del transessualismo…, cit., pp. 159-160 critica in questo senso l’articolo 5 della legge italiana n. 164 del 18 aprile 1982, il quale prevede che «Le attestazioni di stato civile riferite a persona della quale sia stata giudizialmente rettificata l’attribuzione di sesso sono rilasciate con la sola indicazione di nuovo sesso e nome», una protezione che potrebbe indurre una dinamica di slealtà nel processo di formazione della volontà matrimoniale dell’altra persona coinvolta nella relazione. 64 Precisamente le coram DAVINO, 6 giugno 1972, in RRDec. LXIV, pp. 340-345; la coram DI F ELICE , 8 aprile 1978, in «Il diritto ecclesiastico» 89/II (1978) 18-24 e, più recentemente, la coram GIANNECCHI NI , 21 febbraio 1995, in RRDec. LXXXVII, pp. 156-164 nonché la coram MONIER , 21 giugno 1996, in RRDec. LXXXVIII, pp. 486-493. 65 Salvi difetti nella ricerca del sottoscritto nei volumi pubblicati delle decisioni rotali e nella rivista «Quaderni dello Studio Rotale». G. GIUSTINIANO, Il fenomeno del transessualismo…, cit., pp. 104-111 considera solo le decisioni coram P INTO 14 aprile 1975 e coram DI F ELICE 8 aprile 1978, la quale ultima, come indicato, si occupa per sé del travestitismo. 66 Cf coram P INTO, 14 aprile 1975, in RRDec. LXVII, pp. 228-237. 63 claudia Ambroggi - [email protected] 158 Paolo Bianchi diversi, anche se collocati su di una scala di continuità, potendo essere considerati «sindromi d’una stessa condizione psicopatologica di fondo, cioè di disorientamento e di incertezza di ruolo relativamente al sesso e al genere»67. La gravità di tali fenomeni viene commisurata sulla base della scala di orientamento sessuale di Benjamin, i cui due gradi superiori (il V e il VI) sono caratterizzati da una viva tensione alla cosiddetta operazione di conversione, tensione manifestata in modo concreto fino a estremi parossistici quali tentativi di suicidio e automutilazione68. La capacità al matrimonio di tali soggetti viene rapportata a quella di garantire l’oggetto formale essenziale del patto nuziale, per cui «per quanto concerne il matrimonio, poiché si tratta di un contratto il cui oggetto formale essenziale consiste nel diritto agli atti per sé idonei alla generazione della prole, l’abilità a contrarlo dipende dalla potenza rispetto alla copula carnale perfetta»69. Tuttavia – per i transessuali che si collocano negli ultimi due gradi della scala di orientamento sessuale sopra ricordata – può anche verificarsi non tanto un difetto del consenso come atto psicologico, ma una situazione per cui «risulta chiaro che il matrimonio dei transessuali, anche nei casi nei quali siano capaci di una copula coniugale perfetta, è invalido laddove risulti provato che al tempo della celebrazione delle nozze fossero incapaci di trasmettere ed accettare il diritto sul corpo in perpetuo»70. In altre parole, l’incapacità di tali soggetti sarebbe quella di garantire specificamente la perpetuità del diritto che costituisce l’oggetto formale del consenso. Tale prospettazione, senza dubbio ancora valida oggi, deve tener conto di alcune puntualizzazioni desumibili anche dal testo normativo ora vigente soprattutto in relazione: all’humano modo (cf can. 1061 § 1) secondo cui la relazione sessuale va vissuta; alla possibilità di orientamento del matrimonio ad bonum coniugum (cf can. 1055 § 1), anche attraverso una sessualità vissuta in modo non gravemente pericoloso e immorale; alle esigenze minimali Coram P INTO, 14 aprile 1975, cit., p. 230, n. 5. Cf ibid., p. 231, n. 6. Al di là del valore descrittivo della scala proposta, studi più recenti mettono in discussione la visione antropologica e la qualità etica di tale Autore: cf W. H EYER , Paper genders…, cit., pp. 21-23, come anche quelle di Alfred Kinsey (pp. 19-21) e John Money (pp. 23-32), paladini della cosiddetta rivoluzione sessuale e personalmente sostenitori della pedofilia. 69 Traduzione del sottoscritto del seguente testo originale: «matrimonium quod spectat, cum agatur de contractu cuius obiectum formale essentiale est ius ad actus per se aptos ad prolis generationem, habilitas ad ipsum contrahendum pendet a potentia ad copulam carnalem perfectam» (ibid., p. 232, n. 7). 70 Ecco il testo, sopra proposto in nostra traduzione: «patet matrimonium transexualium, etiam in casibus in quibus copulae coniugalis perfectae capaces sunt, irritum esse ubi comprobetur tempore celebrationis nuptiarum incapaces fuisse tradendi et acceptandi ius in corpus in perpetuum» (ibid., p. 234, n. 8). 67 68 claudia Ambroggi - [email protected] Transessualismo e diritto matrimoniale canonico 159 della prole (cf cann. 1055 § 1 e 1136). In questa linea, possono essere proposte alcune considerazioni che il sottoscritto prospettava già alcuni anni addietro e che si sono già più sopra sintetizzate71. Peraltro, si deve considerare – secondo un ragionamento che potrebbe essere definito a fortiori quanto allo schema argomentativo – che le sentenze più recenti in tema di travestitismo appaiono piuttosto proclivi a ritenere il soggetto psichicamente incapace al matrimonio72. Tale proclività a riconoscere l’incapacità anche per le situazioni soggettive relative ai gradi più bassi della scala di valutazione di Benjamin, fa desumere un orientamento giurisprudenziale favorevole a un analogo giudizio per i gradi più alti della scala, secondo quella conclusione per altro già assunta da Pinto nella sentenza del 1975 ex professo dedicata al transessualismo. Conclusioni Le conclusioni che, dal punto di vista del diritto matrimoniale canonico, possiamo trarre dal nostro studio sono le seguenti: 1) la persona transessuale, dopo l’operazione di sex reassignment surgery è incapace al matrimonio per la radicale mancanza di diversità sessuale rispetto alla persona che vorrebbe sposare. Non va quindi ammessa alle nozze e, laddove esse siano state ugualmente celebrate successivamente all’operazione, il patto nuziale va dichiarato invalido, Questo comunque il testo cui facciamo riferimento: «(d)ovendo delineare delle conclusioni circa i possibili capitoli di incapacità al compimento degli obblighi essenziali del matrimonio da parte del transessuale prima della operazione per la trasformazione dei genitali esterni, pensiamo di poterli indicare come segue: a) incapacità alla disponibilità sessuale perpetua (lo ius in corpus in perpetuum di Pinto), nel caso di una viva e operativa tensione (già al momento del consenso) al sex reassignment, nel qual caso verrebbe appunto meno l’elemento della perpetuità di tale disponibilità; b) incapacità a vivere in “modo umano” la relazione sessuale con l’altra parte, sulla base del criterio già più sopra indicato (la capacità alla relazione oggettuale) e con la pure ricordata cautela di una possibile sovrapposizione di questa ipotesi con quella della incapacità propriamente consensuale; c) incapacità al ruolo genitoriale proprio del sesso di appartenenza [...]. Si potrebbe [...] ipotizzare la pratica impossibilità di evitare un danno educativo alla prole, attraverso il proprio comportamento divenuto manifesto o attraverso il disturbo derivante dalla tensione, magari a un certo punto attuata, al sex reassignment» (P.G. BIANCHI, Incapacitas assumendi..., cit., pp. 206-207). 72 La coram GIANNECCHINI del 21 febbraio 1995 si mostra propensa a ritenere il travestitismo «un vero e grave disturbo o anomalia» («veram ac gravem perturbationem vel anomaliam») e che esso «devia e stravolge il consenso dal suo oggetto» («immutat et avertit consensum a suo obiecto»: cit., p. 159, n. 5); la coram MONIER del 21 giugno 1996 considera che «un altro indizio circa la personalità dell’uomo va visto nel travestitismo, con carenza di senso morale» («alterum signum viri personalitatis in transvestitismo videtur, cum sensus moralis carentia»: cit., p. 491, n. 10); una situazione questa che, assieme all’alcolismo e al disturbo in senso globale della personalità, porta a concludere che «l’uomo convenuto fu incapace di prestare e di assumere una decisione nel consenso matrimoniale con una sufficiente deliberazione, a causa di gravi e antecedenti disturbi psichici» («virum conventum incapacem fuisse praestandi ac eliciendi cum sufficienti deliberatione iudicium in matrimoniali consensu propter graves et antecedentes psychicas perturbationes»: cit., p. 492, n. 12). 71 claudia Ambroggi - [email protected] 160 Paolo Bianchi anche a iniziativa del promotore di giustizia alle condizioni espresse dal diritto73. 2) la domanda di matrimonio proposta da un soggetto transessuale prima dell’operazione di rettifica chirurgica del sesso va accuratamente vagliata, esercitando i poteri concessi dal diritto all’ordinario nel can. 107774. L’esito di tale approfondimento potrà essere duplice: a) l’ammissione alle nozze nel caso la condizione clinica risulti non grave o dubbia75 ; b) la non ammissione alle nozze nel caso la situazione si mostri grave. Infatti, in questo secondo caso, il matrimonio potrebbe con grande probabilità risultare nullo – con la conseguente possibilità di proporre la relativa azione anche semmai da parte del promotore di giustizia – o per le incapacità di cui ai nn. 2° e 3° del can. 1095 o per altri difetti o vizi del consenso come meglio illustrato nella argomentazione sopra svolta. La gravità della condizione al momento delle nozze potrà poi anche essere apprezzata indiziariamente ex post alla luce per esempio delle condotte del soggetto, quali il modo di abbigliarsi e di interagire con gli altri o la tendenza attiva alla operazione chirurgica76. 3) l’operazione di sex reassignment surgery resta gravemente illecita da un punto di vista morale77 e giuridico (canonico), consistendo in un atto di disposizione circa il proprio corpo che sfugge alle possibilità del soggetto, che si sottopone a una grave e irreversibile mutilazione. Potrà essere tollerata (mai però attivamente proposta o caldeggiata) laddove la tensione psichica che la persona interessata vive sia così intensa da poter rappresentare un grave pericolo per la sua salute psichica o per la sua stessa vita78. Cf il can.1674, 2° e l’articolo 92, 2° DC. Non ci può arrestare alla affermazione di alcuni Autori che il parroco non avrebbe il potere di esigere un approfondimento clinico. Ciò è vero, ma ciò che esula dalle competenze del parroco rientra in quelle che il diritto attribuisce all’ordinario. 75 Cf in questo senso anche U. NAVARRETE , Transexualismus…, cit., p. 113. 76 In un senso analogo anche U. NAVARRETE , Transexualismus…, cit., p. 117. 77 R.P. F ITZGIBBONS - P.M. S UT TON - D. O’L EARY, La psicopatologia…, cit., pp. 156-163 discutono esplicitamente le obiezioni di carattere etico alla sex reassignment surgery. 78 Contestano che l’operazione possa essere considerata propriamente una necessità medica W. H EYER , Paper genders…, cit., pp. 51. 61. 89-93 e R.P. F ITZGIBBONS - P.M. S UT TON - D. O’L EARY, La psicopatologia…, cit., p. 161. G. GIUSTINIANO, Il fenomeno del transessualismo…, cit., p. 8, solleva un interrogativo su «la reale terapeuticità dell’intervento chirurgico demolitivo-ricostruttivo in funzione di un equilibrio psico-fisico sufficientemente stabile». Nelle conclusioni, dopo aver affermato che la legge 164/1982 rende oggi problematico sostenere che l’operazione di riattribuzione del sesso sia un atto di disposizione del proprio corpo vietata dall’articolo 5 del Codice civile (p. 153), riprende la problematica della valutazione morale dell’intervento. Dopo aver delineato due diversi approcci – uno che la ritiene in ogni caso illecita, perché comporta l’asportazione di organi sani e perché esita in una 73 74 claudia Ambroggi - [email protected] Transessualismo e diritto matrimoniale canonico 161 4) in caso di avvenuta operazione, potrebbe essere opportuna l’annotazione sul registro di Battesimo della nuova identità della persona, a tutela della sua buona fama e dell’intimità personale; tuttavia, senza che ciò comporti alcuna (anche solo implicita) ammissione che per l’interessato sia avvenuto un vero cambio di sesso e, quindi, che si sia verificata una modifica dello stato canonico del soggetto. In questo senso ha disposto, per quanto concerne la situazione italiana, una Notificazione della Presidenza della Conferenza episcopale nazionale79. Tali conclusioni, soprattutto quanto ai limiti al matrimonio per la persona transessuale che devono essere riconosciuti nell’ordinamento canonico, non devono essere lette come “discriminazioni”80, ma piuttosto come il riconoscimento che ciascuno ha nella vita doni e vocazioni diversi, come anche “croci” diverse da portare. Per quanto il matrimonio sia riconosciuto dall’ordinamento canonico come un diritto della persona (cf il can. 1058), esso non è un mutilazione dell’individuo (p. 154); e una invece che, basandosi «su un’interpretazione estensiva del concetto di terapeuticità applicando il principio di totalità», la ritiene lecita quando rappresenti l’unico modo per liberare il soggetto da una angoscia invincibile (pp. 154-155), si orienta (salvo errore di comprensione) verso una posizione decisamente sfavorevole alla liceità dell’intervento, in quanto esso «rappresenta una grave alterazione della natura originaria espressa anche e soprattutto mediante un tipo particolare di corporeità» (p. 156). Anche M.P. FAGGIONI, Il transessualismo…, cit., pp. 294-297 discute ampiamente i pro et contra dell’intervento chirurgico dal punto di vista morale. Si orienta a un generale giudizio sfavorevole circa la sua liceità, anche se lo ammette alla stregua di una cura palliativa in casi dove il non eseguirlo potrebbe portare a conseguenze estreme. Ciò con l’avvertenza che l’intervento non cura la malattia (psichica) di base e con il rischio anzi che «l’intervento correttivo si presenti in realtà quasi come un’attuazione del sentimento psicotico del transessuale» (p. 297). Le medesime argomentazioni e conclusioni vengono riesposte in M.P. FAGGIONI, I disturbi della sfera sessuale, cit., pp. 385-387 e in M.P. FAGGIONI, I disturbi dell’identità di genere, cit., pp., 341-344. 79 Con lettera 21 gennaio 2003 (protocollo 72/03), poi pubblicata nel «Notiziario della Conferenza Episcopale Italiana» 37 (2003) 35-36 è stata trasmessa ai Vescovi italiani una Notificazione in merito alla eventuale iscrizione nei libri parrocchiali di un avvenuto riconoscimento, in sede civile, di un “cambio di sesso”. Tale notificazione proibisce qualsiasi correzione o variazione in detti registi: «Infatti, atteso che la mutata condizione del fedele agli effetti civili circa l’identità anagrafica non ne modifica la condizione canonica – maschile o femminile – definita al momento della nascita, sul Registro dei Battesimi non può essere apportata alcuna variazione in seguito all’avvenuto intervento per il cambiamento di sesso. Tuttavia, a motivo di eventuali situazioni che si potrebbero presentare in futuro per tali fedeli, si ritiene necessario che a margine dell’Atto di Battesimo venga annotato tale intervento unicamente per quanto attiene agli effetti civili della mutata condizione del fedele, indicando al riguardo la data e il numero di protocollo della Sentenza del Tribunale Civile competente e/o del documento rilasciato dall’Ufficio dello Stato Civile. In ogni caso è opportuno che il parroco competente conservi tutta la documentazione, allegandola alla pagina del Registro dei Battesimi. L’annotazione di cui sopra, ovviamente, non potrà essere fatta valere dalla persona interessata per avviare l’istruttoria ai fini di un eventuale futuro matrimonio da celebrare nella forma concordataria». 80 Nota acutamente M. I MPER ATORI, Sfide filosofico-teologiche…, cit., p. 237, che sulla base della attuale cultura queer (la versione estrema di quella del gender) e delle esigenze strategiche del discorso pubblico e del politically correct, «sul piano giuridico, verrà poi introdotta la categoria dei presunti “nuovi diritti”, fondandola su un’automatica equivalenza tra “deviante” sul piano sociologico e “discriminato” sul piano giuridico, in perfetta sintonia con quel clima di società liquida che, almeno prima della grave crisi economica che stiamo attualmente attraversando, sembrava dover caratterizzare tutte le società cosiddette “avanzate”». claudia Ambroggi - [email protected] 162 Paolo Bianchi diritto assoluto. La stessa norma che sancisce il solenne riconoscimento del cosiddetto ius connubii ammette che vi possano essere delle proibizioni provenienti dallo stesso diritto: tutti possono contrarre matrimonio qui iure non prohibentur, afferma il medesimo can. 1058. Quanto poi all’esercizio di tale diritto, non va disatteso che anche i diritti più importanti vanno esercitati nel rispetto del bene della collettività ecclesiale, dei diritti altrui e dei propri doveri verso gli altri (cf il can. 223 § 1): e, nel caso del matrimonio, vengono in primo piano i diritti del coniuge e della prole81. Peraltro, come ha con grande acutezza richiamato Benedetto XVI nella sua allocuzione alla Rota Romana del 22 gennaio 201182, il diritto al matrimonio non può essere ridotto alla pretesa di una mera celebrazione, che comunque debba trovare soddisfacimento: il diritto al matrimonio sussiste solo laddove vi sia la disponibilità a celebrare un vero matrimonio; esso consiste nella possibilità di celebrare l’autentico matrimonio, così come inteso dalla dottrina e dalla disciplina della Chiesa. Né va dimenticato – come già si è peraltro richiamato fin dalle premesse di questo articolo – che l’ordinamento canonico presuppone una visione antropologica, che la disciplina non può contraddire, soprattutto laddove le disposizioni del diritto non siano puramente positive, disciplinari, ma profondamente coinvolgenti la dottrina stessa, come per esempio in riferimento alle fondamentali strutture antropologiche, quali quelle coinvolte nella tematica della quale ci siamo occupati. L’esprimere la concezione antropologica retrostante all’ordinamento canonico è un atteggiamento di correttezza e di onestà: il non poterlo fare – senza incorrere in sanzioni in senso proprio o metaforico – non potrebbe che confermare la presenza, nella nostra situazione culturale, di quella che efficacemente è stata denominata l’intolleranza dei tolleranti83. W. H EYER , Paper genders…, cit., p. 101 segnala che le posizioni del coniuge e della prole sono del tutto trascurate dall’attivismo del movimento GLBT-Q: «Viene qui introdotto un punto importante. Si considera raramente l’impatto psicologico sui figli o sulla moglie quando il marito si sottopone all’intervento chirurgico. Troppo spesso la famiglia non è preparata a questo evento sconvolgente». 82 In A AS 103 (2011) pp. 109-110, n. 4. Tale passo della allocuzione è richiamato anche da J.A. F UENTES , Desviaciones de la sexualidad…, cit., pp. 678-679 alla nota 54. 83 Tale espressione è stata più volte usata dal Papa Benedetto XVI. Che l’ipotesi paventata non sia puramente fantastica, lo si può comprendere anche solo considerando la proposizione numero 56 del documento finale della recente Assemblea straordinaria del Sinodo dei vescovi, un’assemblea che, data la sua rappresentatività a livello mondiale, ha certo una conoscenza non superficiale delle cose: «È del tutto inaccettabile che i Pastori della Chiesa subiscano delle pressioni in questa materia e che gli organismi internazionali condizionino gli aiuti finanziari ai Paesi poveri all’introduzione di leggi che istituiscano il “matrimonio” fra persone dello stesso sesso». 81 claudia Ambroggi - [email protected] Transessualismo e diritto matrimoniale canonico 163 Accoglienza verso le persone, infine, non è l’assecondare ogni loro desiderio: ma aiutare ogni singolo individuo a porsi di fronte alla realtà della propria condizione esistenziale e a vivere al meglio possibile la sua chiamata alla santità, riconoscendone tutti gli aspetti positivi al di là delle condizioni problematiche, che non vanno tuttavia ignorate, né trattate con equivoca ambiguità 84. Non distinguere le diverse situazioni personali in nome di un falso egualitarismo vuol dire alla fin fine ingannare le persone stesse, non già promuoverne la dignità85. PAOLO BIANCHI Piazza Fontana 2 20122 Milano Una interessantissima analisi sulla lotta ai “nemici” della cultura gender e sui suoi mezzi – compresa la creazione di una neolingua ormai adottata nella comunicazione pubblica e pure in documenti politically correct di rilevanza anche sopranazionale – si può trovare in C. ATZORI, Il binario indifferente…, cit., pp. 73-79. Si veda anche R.P. F ITZGIBBONS - P.M. S UT TON - D. O’L EARY, La psicopatologia…, cit., pp. 163-165. 85 Molto interessanti appaiono le considerazioni che si possono leggere in un contributo del Cardinale Angelo Scola in vista del Sinodo dei vescovi dell’ottobre 2014, sui temi del matrimonio e della famiglia, considerazioni che toccano da vicino il nostro tema: «Nel quadro di una antropologia adeguata è decisivo considerare attentamente l’esperienza comune, integrale ed elementare, che ogni uomo è chiamato a vivere per il fatto stesso di esistere in un corpo sessuato. Si tratta anzitutto di comprendere tutto il peso della singolarità della differenza sessuale. Una delle radici della crisi del matrimonio nasce proprio dal misconoscimento di questa dimensione fondamentale dell’esperienza umana: ogni uomo è situato come singolo entro la differenza sessuale. Ed è necessario riconoscere che questa non può mai essere superata. Misconoscere l’insuperabilità della differenza sessuale significa confondere il concetto di differenza con quello di diversità. Al binomio identità-differenza la cultura contemporanea sostituisce spesso il binomio uguaglianza-diversità. La giusta promozione dell’uguaglianza tra tutte le persone, soprattutto tra l’uomo e la donna, ha spesso condotto a considerare come discriminante la differenza. L’equivoco sta nel fatto che differenza e diversità non sono, a ben vedere, sinonimi. Denominano, almeno dal punto di vista antropologico, due esperienze umane profondamente dissimili. In questa sede ci può aiutare il ricorso all’etimo originario dei due vocaboli. La parola diversità ha la sua radice nel latino di-vertere. Identifica, normalmente, il muoversi del soggetto in un’altra direzione rispetto ad un altro soggetto. Diversi quindi sono due o più soggetti autonomi che possono entrare in relazione o andare in direzioni opposte, restando nella loro autonoma soggettività. La diversità mette pertanto in campo la relazione interpersonale. Al contrario, ciò che sperimentiamo nella differenza indica una realtà intrapersonale. È qualche cosa che riguarda la persona singola nella sua identità costitutiva. Differenza proviene dal verbo latino dif-ferre che, nel suo livello più elementare, indica portare altrove, spostare. L’apparire di un individuo dell’altro sesso “mi porta altrove”, “mi sposta” (differenza). Ogni singolo si trova iscritto in questa differenza ed ha sempre di fronte a sé l’altro modo, a lui inaccessibile, di essere persona. La dimensione sessuale è interna alla singola persona, ne indica la costitutiva apertura all’altro sesso. Il riconoscimento della differenza è fattore decisivo per pervenire ad una adeguata coscienza di sé. Si può capire perché la differenza sessuale, il cui carattere insuperabile è originario e non derivato, non possa essere, come tale, foriera di alcuna discriminazione» (A. S COLA , L’antropologia e l’eucaristia. Note del card. Scola su matrimonio e famiglia in vista dell’Assemblea straordinaria [del Sinodo dei Vescovi sulla Famiglia], in «Il Regno - Attualità» 59 [2014] p. 541. 84 claudia Ambroggi - [email protected] Fecondazione assistita eterologa e matrimonio canonico Quaderni di diritto ecclesiale 28 (2015) 164-179 di Alessandro Giraudo La Rivista ha già affrontato il tema della fecondazione assistita in relazione con il diritto matrimoniale canonico in un ampio articolo che dava ragione sia delle varie tecniche sia delle conseguenze che il loro utilizzo comporta non solo per la validità del consenso1. Il tema, allora affrontato e da diversi autori ripreso in numerosi interventi2, resta ad oggi di attualità, soprattutto per il perfezionarsi delle tecniche e il diffondersi di una mentalità che le ritiene rispondenti ad una sorta di diritto ad avere il figlio desiderato, allargando ulteriormente lo spettro dei soggetti di tale diritto in quanto non più riconoscibile solo ai coniugi infecondi ma anche a single o a coppie omosessuali. Lo scopo che ci prefiggiamo è quello di riprendere alcune delle questioni che specificamente la fecondazione assistita eterologa pone all’ordinamento canonico e al matrimonio, esulando da tutte le altre situazioni oggetto della riflessione morale, così da raccogliere quanto già la dottrina canonica abbia avuto modo di indicare e quanto rimanga di problematico nella riflessione e nella valutazione delle conseguenze sulla validità del consenso coniugale. Cf P. M ALCANGI, Tecniche di fecondazione artificiale e diritto matrimoniale canonico, in QDE 11 (1998) 406-432. 2 Cf M. GUIDA , Riflessi giuridici della fecondazione artificiale nel diritto matrimoniale canonico, in «Apollinaris» 76 (2003) 183-201; G. DALLA TORRE , L’esclusione della prole e la fecondità assistita, in A A .VV., Prole e matrimonio canonico, Città del Vaticano 2003, pp. 167-177; G. BONI, Aids ed esclusione del bonum prolis, in A A .VV., Prole e matrimonio canonico, cit., pp. 179-259; M. WEGAN, Esclusione del bonum prolis e fecondazione artificiale, in «Quaderni dello Studio Rotale» 15 (2005) 93-122; I. ZUANAZZI, Valori fondamentali del matrimonio nella società di oggi: la filiazione, in A A .VV., Matrimonio canonico e realtà contemporanea, Città del Vaticano 2005, pp. 175-211; F. CATOZZELLA , L’esclusione del bonum fidei e del bonum prolis nei casi di fecondazione artificiale, in A A .VV., Il bonum fidei nel diritto matrimoniale canonico, Città del Vaticano 2013, pp. 259-278; I. ZUANAZZI, La filiazione nel diritto canonico della famiglia, in Famiglia e diritto nella Chiesa, a cura di M. Tinti, Città del Vaticano 2014, pp. 117-172. 1 claudia Ambroggi - [email protected] Fecondazione assistita eterologa e matrimonio canonico 165 La valutazione bioetica e magisteriale sulla fecondazione assistita eterologa La riflessione bioetica riguardo alla fecondazione assistita eterologa, cioè quella in cui si utilizza il patrimonio genetico di almeno una figura esterna alla coppia che accede alla fecondazione artificiale, muove i propri passi su alcune direttrici e, in primo luogo, sul rapporto tra sessualità e procreazione, e quindi sul ruolo dell’intervento del medico nel compimento dell’atto generativo. In quest’ambito si fronteggiano, da una parte, le posizioni favorevoli a qualsiasi tipo di intervento che permetta il libero accesso per tutti ad ogni tecnica riproduttiva e la soddisfazione del desiderio di maternità/paternità per chiunque e, dall’altra, quelle che pongono l’accento sulla dignità della persona umana e quindi sulla necessità di evitare tecniche che riducano il concepimento ad un atto impersonale e altamente artificiale3. In secondo luogo, il confronto tra le varie posizioni si pone sulle motivazioni che consentono l’accesso alle tecniche di fecondazione artificiale. Si afferma, così, la libertà di scelta che pone sullo stesso piano tecniche naturali ed artificiali di concepimento a prescindere dall’accertamento della sterilità o infecondità della coppia, e consente la determinazione della scelta per motivazioni strettamente soggettive che esulino dalla condizione di chi vuole accedere alla fecondazione assistita, dall’età, dalla presenza di una relazione matrimoniale, imponendo come unici criteri l’accertamento della capacità di responsabilità di chi chiede di avere un figlio e, nel caso di tecniche eterologhe, la garanzia dell’anonimato del donatore e il rispetto della privacy sulle tecniche utilizzate4. Tali posizioni sono fortemente criticate da chi, invece, pone al centro della valutazione etica delle tecniche di fecondazione il valore della famiglia fondata sul matrimonio, la responsabilità procreativa non limitata esclusivamente alla generazione del figlio ma alla possibilità di assicurargli la bigenitorialità eterosessuale, e la necessità di evitare l’indebita moltiplicazione di figure genitoriali laddove si attuano tecniche eterologhe, così da consentire al nascituro di poter vivere nelle condizioni più favorevoli allo sviluppo della propria identità personale5. Proprio in riferimento alla fecondazione eterologa si può sottolineare come Cf F. D’AGOSTINO - L. PALAZZANI, Bioetica. Nozioni fondamentali, Brescia 2007, pp. 82-83. Cf ibid., pp. 84-85. 5 Cf ibid., pp. 87-89. 3 4 claudia Ambroggi - [email protected] 166 Alessandro Giraudo «la bioetica nella prospettiva della “responsabilità procreativa” ritiene problematico il fenomeno della plurigenitorialità […]: nella misura in cui si ritiene doveroso il riconoscimento del diritto di colui che nascerà a conoscere le proprie origini genetiche (non solo per ragioni mediche, al fine di conoscere eventuali malattie genetiche ereditarie, ma anche e soprattutto psicologiche-antropologiche), si creerebbe una inevitabile confusione che potrebbe generare incertezza nel processo di identificazione del soggetto. Inoltre la donazione del gamete non è considerata assimilabile a qualsiasi altra donazione (ad esempio, la donazione del sangue o di un organo): chi dona un gamete mette a disposizione metà del proprio patrimonio genetico, dando vita ad un nuovo essere umano; si tratta di un gesto che implica una responsabilità nei confronti di chi nasce»6, con i risvolti alquanto problematici che si possono delineare nel caso di donazione eterologa del seme maschile, che determinerebbe «una asimmetria nella coppia: solo la madre ha un vincolo genetico, mentre il padre, pur non avendolo, lo ritiene così irrinunciabile da acconsentire di essere sostituito da un donatore (anche, a volte, per sensi di colpa nei confronti del desiderio di maternità insoddisfatto della moglie). Seppur inizialmente la situazione pare essere accettata dalla coppia, spesso può emergere una conflittualità psicologica (ne sono conferma empirica e giuridica i casi di richiesta di disconoscimento di paternità): il padre tende a vivere la donazione di gamete come un “adulterio biologico”, avvertendo anche un sentimento di rivalità e competizione nei confronti del donatore, che rende ancora più difficile l’elaborazione del “lutto” della propria sterilità e porta spesso a sentire la paternità non genetica come estraneità rispetto al legame madre/figlio»7. Da un punto di vista maggiormente giuridico, si può considerare come nel dibattito contemporaneo si tenda ad indicare nel diritto alla fecondazione assistita un diritto umano all’interno dell’ampia categoria di quelli che vengono chiamati i “diritti riproduttivi”. Tale diritto, se si valuta la fecondazione artificiale sullo stesso piano di quella naturale e come semplice alternativa ad essa, tende ad essere inteso come un diritto fondamentale ed anche assoluto8. Viceversa, nel caso si consideri l’accesso alle tecniche di fecondazione assistita come “terapia” ad una condizione di sterilità della coppia, tale diritto conserva un carattere relativo quand’anche se ne riconoscesse un valore fondamentale, ponendo nello stesso tempo l’accento sul fatto Ibid., pp. 86-87. Ibid., p. 88. Per uno studio sintetico delle diverse scuole di pensiero che identificano nella fecondazione artificiale un diritto assoluto, cf P. I AGULLI, Diritti riproduttivi e fecondazione artificiale, Milano 2013, pp. 56-88. 6 7 8 claudia Ambroggi - [email protected] Fecondazione assistita eterologa e matrimonio canonico 167 che l’atto procreativo avviene in un contesto relazionale che inevitabilmente chiede di far interagire numerosi e spesso contrastanti diritti: ne consegue che non si possa indicare il diritto ad un figlio come “assoluto” né per una coppia di genitori né per un single9. La posizione del Magistero cattolico sulla fecondazione assistita si delinea già a partire dal 1987 con l’istruzione Donum vitae [=DV] della Congregazione per la dottrina della fede, in cui la valutazione delle varie tecniche riproduttive artificiali si ispira a quel personalismo che il Vaticano II aveva posto al centro della riflessione sulla dignità della persona umana10. In riferimento alle tecniche eterologhe, che l’istruzione precisava da intendersi nel caso in cui la fecondazione avvenga «a partire da gameti provenienti almeno da un donatore diverso dagli sposi, che sono uniti in matrimonio»11, muovendo dal duplice principio che la procreazione responsabile sia tale solo nel matrimonio e che la fedeltà coniugale comporti «il reciproco rispetto del loro diritto di diventare padre e madre soltanto l’uno attraverso l’altro»12, la valutazione morale era indicata in modo netto e preciso: «La fecondazione artificiale eterologa è contraria all’unità del matrimonio, alla dignità degli sposi, alla vocazione propria dei genitori e al diritto del figlio ad essere concepito e messo al mondo nel matrimonio e dal matrimonio. Il rispetto dell’unità del matrimonio e della fedeltà coniugale esige che il figlio sia concepito nel matrimonio; il legame esistente tra i coniugi attribuisce agli sposi, in maniera oggettiva e inalienabile, il diritto esclusivo a diventare padre e madre soltanto l’uno attraverso l’altro. Il ricorso ai gameti di una terza persona, per avere a disposizione lo sperma o l’ovulo, costituisce una violazione dell’impegno reciproco degli sposi e una mancanza grave nei confronti di quella proprietà essenziale del matrimonio, che è la sua unità. La fecondazione artificiale eterologa lede i diritti del figlio, lo priva della relazione filiale con le sue origini parentali e può ostacolare la maturazione della sua identità personale. Essa costituisce inoltre una offesa alla vocazione comune degli sposi che sono chiamati alla paternità e maternità: priva Cf ibid., pp. 88-106. «Dio, che è amore e vita, ha inscritto nell’uomo e nella donna la vocazione a una partecipazione speciale al suo mistero di comunione personale e alla sua opera di Creatore e di Padre. Per questo il matrimonio possiede specifici beni e valori di unione e di procreazione senza possibilità di confronto con quelli che esistono nelle forme inferiori della vita. Tali valori e significati di ordine personale determinano dal punto di vista morale il senso e i limiti degli interventi artificiali sulla procreazione e sull’origine della vita umana. Questi interventi non sono da rifiutare in quanto artificiali. Come tali essi testimoniano le possibilità dell’arte medica, ma si devono valutare sotto il profilo morale in riferimento alla dignità della persona umana, chiamata a realizzare la vocazione divina al dono dell’amore e al dono della vita» (DV, intr., n. 3). 11 DV, II, nota *. 12 DV, II, n. 1. 9 10 claudia Ambroggi - [email protected] 168 Alessandro Giraudo oggettivamente la fecondità coniugale della sua unità e della sua integrità; opera e manifesta una rottura fra parentalità genetica, parentalità gestazionale e responsabilità educativa. Tale alterazione delle relazioni personali all’interno della famiglia si ripercuote nella società civile»13. I principi e le valutazioni, ora brevemente richiamati, sono stati ripresi nei successivi documenti magisteriali14, ribadendo l’illiceità morale di tutti quegli interventi che non sono volti alla cura dell’infertilità, cioè non consentono alla coppia di porre «atti coniugali con esito procreativo, senza che il medico debba interferire direttamente con l’atto coniugale stesso»15, o dissociando completamente la procreazione dagli atti coniugali16, in quanto «la Chiesa […] ritiene eticamente inaccettabile la dissociazione della procreazione dal contesto integralmente personale dell’atto coniugale: la procreazione umana è un atto personale della coppia uomo-donna che non sopporta alcun tipo di delega sostitutiva. […] La Chiesa riconosce la legittimità del desiderio di un figlio, e comprende le sofferenze dei coniugi afflitti da problemi di infertilità. Tale desiderio non può però venir anteposto alla dignità di ogni vita umana, fino al punto di assumerne il dominio. Il desiderio di un figlio non può giustificarne la “produzione”»17. L’insegnamento morale del Magistero giunge, quindi, a negare ogni giustificazione al riconoscimento o alla determinazione di un “diDV, II, n. 2. Tra gli altri documenti, l’enciclica Evangelium vitae ricordava come «le varie tecniche di riproduzione artificiale, che sembrerebbero porsi a servizio della vita e che sono praticate non poche volte con questa intenzione, in realtà aprono la porta a nuovi attentati contro la vita […] esse sono moralmente inaccettabili, dal momento che dissociano la procreazione dal contesto integralmente umano dell’atto coniugale» (GIOVANNI PAOLO II, enciclica Evangelium vitae, 25 marzo 1995, n. 14), mentre il Catechismo della Chiesa Cattolica [= CCC] richiamava che «le tecniche che provocano una dissociazione dei genitori, per l’intervento di una persona estranea alla coppia (dono di sperma o di ovocita, prestito dell’utero) sono gravemente disoneste. Tali tecniche (inseminazione e fecondazione artificiali eterologhe) ledono il diritto del figlio a nascere da un padre e da una madre conosciuti da lui e tra loro legati dal matrimonio. Tradiscono “il diritto esclusivo [degli sposi] a diventare padre e madre soltanto l’uno attraverso l’altro”» (CCC 2376). 15 C ONGREGAZIONE PER LA DOT TRINA DELLA FEDE , istruzione Dignitas personae [=DP], 8 settembre 2008, n. 13. 16 È il caso delle tecniche di ICSI, con cui nella fecondazione in vitro si inietta nel citoplasma di un ovocita un singolo spermatozoo: «Come la fecondazione in vitro, della quale costituisce una variante, l’ICSI è una tecnica intrinsecamente illecita: essa opera una completa dissociazione tra la procreazione e l’atto coniugale. Infatti anche l’ICSI “è attuata al di fuori del corpo dei coniugi mediante gesti di terze persone la cui competenza e attività tecnica determinano il successo dell’intervento; essa affida la vita e l’identità dell’embrione al potere dei medici e dei biologi e instaura un dominio della tecnica sull’origine e sul destino della persona umana. Una siffatta relazione di dominio è in sé contraria alla dignità e all’uguaglianza che dev’essere comune a genitori e figli. Il concepimento in vitro è il risultato dell’azione tecnica che presiede alla fecondazione; essa non è né di fatto ottenuta né positivamente voluta come l’espressione e il frutto di un atto specifico dell’unione coniugale”» (DP 17). 17 DP 14. 13 14 claudia Ambroggi - [email protected] Fecondazione assistita eterologa e matrimonio canonico 169 ritto al figlio”, neppure per realizzare un umanamente comprensibile desiderio di paternità o maternità18, in quanto «il figlio non è qualcosa di dovuto, ma un dono. Il “dono più grande del matrimonio” è una persona umana. Il figlio non può essere considerato come oggetto di proprietà: a ciò condurrebbe il riconoscimento di un preteso “diritto al figlio”. In questo campo, soltanto il figlio ha veri diritti: quello di “essere il frutto dell’atto specifico dell’amore coniugale dei suoi genitori e anche il diritto a essere rispettato come persona dal momento del suo concepimento”»19. L’ampiezza delle questioni, di cui abbiamo cercato di dare ragione seppur in modo sintetico, ci ricorda come le considerazioni bioetiche e giuridiche sul valore, la giustificazione etica e la liceità legale della fecondazione artificiale, portino con sé gravi conseguenze nel caso in cui si perda di vista proprio l’insieme dei valori e dei diritti che entrano in gioco, con il rischio di assimilare acriticamente un sentire comune che tende a giustificare il ricorso a tali tecniche a partire dalla sofferenza che inevitabilmente si ingenera in chi pensa di essere ingiustamente privato di quel diritto ad un figlio come completamento della propria esistenza. Si tratterà ora di verificare come, richiamando quanto già in diversi autori è stato evidenziato, le tecniche di fecondazione assistita eterologa pongano molti problemi in riferimento al matrimonio canonico e come non sia sempre facile il passaggio dalla chiarezza della posizione magisteriale all’applicazione delle norme codiciali. Fecondazione assistita eterologa e simulazione del consenso matrimoniale In mancanza di sentenze rotali pubblicate che abbiano specificamente affrontato casi in cui si sia valutata o compiuta la fecondazione eterologa, ci limitiamo a considerazioni sintetiche sui principi dottrinali e sui mezzi di prova in sede di accertamento giudiziale della validità del consenso coniugale. In tal senso, non si può non condividere l’affermazione di Navarrete sul fatto che l’ordinamento giuridico non possa legittimare o staCf PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE , Compendio della dottrina sociale della Chiesa, n. 235. 19 CCC 2378. 18 claudia Ambroggi - [email protected] 170 Alessandro Giraudo bilire come obbliganti comportamenti contrari alla morale20, per cui è evidente che l’accesso alla fecondazione eterologa non possa in alcun modo essere ricompreso nelle modalità con cui i coniugi assumono ed attuano l’apertura della comunità di tutta la vita alla generazione della prole, avendo ben chiaro che nell’ordinamento canonico non può mai delinearsi uno specifico ius ad prolem21. Nello stesso tempo la fecondazione assistita eterologa pone una grave ferita all’unicità del matrimonio, per cui potrebbe essere configurabile l’esclusione del bonum fidei22 e, per alcuni autori, anche del bonum coniugum23. Ma per valutare la consistenza del consenso coniugale di una coppia che abbia posto in essere, o si sia riservata il diritto di utilizzare, la fecondazione eterologa, sarà sempre necessario valutare la configurazione di un atto positivo della volontà e non semplicemente la presenza di una mera previsione o una mentalità che possa accettare come possibile, e quindi buono, l’utilizzo anche di queste tecniche per portare a compimento il desiderio, non altrimenti attuabile, di avere un figlio24. La volontà in riferimento al bonum prolis Nel nostro mondo occidentale, viste anche le modifiche apportate alle legislazioni statali e gli interventi di organismi e movimenti di pensiero a livello internazionale, la fecondazione eterologa non è più intesa come metodo “straordinario”, ma spesso diviene cura “ordinaria” della sterilità 25 o infecondità della coppia. La possibile valutazione della positività della fecondazione eterologa da parte dei nubendi deve però entrare nel consenso coniugale e quindi nella volontà con cui hanno ponderato e assunto, o escluso, l’ordinazione alla prole del matrimonio. Si tratta delle fattispecie già ben identificate in Cf U. NAVARRETE , Novae methodi technicae procreationis humanae et ius canonicum matrimoniale, in «Periodica de re morali, canonica, liturgica» 77 (1988) 99. Cf G. DALLA TORRE , L’esclusione della prole…, cit., p. 172; G. BONI, Aids ed esclusione…, cit., p. 250; M. WEGAN, Esclusione del bonum prolis…, cit., p. 112; I. ZUANAZZI, Valori fondamentali del matrimonio…, cit., p. 208; F. CATOZZELLA , L’esclusione del bonum fidei…, cit., p. 271. 22 Cf F. CATOZZELLA , L’esclusione del bonum fidei…, cit., pp. 274-276. 23 Cf ibid., p. 277. 24 Cf U. NAVARRETE , Novae methodi…, cit., p. 98. 25 «La “sterilità” viene generalmente definita come l’incapacità di una coppia di concepire dopo aver trascorso un certo periodo di tempo [circa 18 mesi] avendo rapporti di normale frequenza e senza usare alcun tipo di contraccezione. Nel linguaggio medico italiano, si considera invece l’infertilità come l’incapacità di avere figli sani e vitali, per ragioni legate alla ripetizione di episodi abortivi o alla reiterazione di mal conformazioni fetali incompatibili con la vita» (C. F LAMIGNI, La procreazione assistita, Bologna 2011, p. 9). 20 21 claudia Ambroggi - [email protected] Fecondazione assistita eterologa e matrimonio canonico 171 dottrina nella riserva, da parte di entrambi o di uno dei due, del diritto ad utilizzare tecniche che contraddicono quella donazione reciproca che obbliga a generare esclusivamente con l’apporto dei gameti del proprio coniuge, che sono contrarie all’unità tra procreazione ed intimità coniugale, e che sono considerate nella valutazione morale come gravemente illecite26. L’accertamento della volontà dei nubendi dovrà evidentemente ricostruire ciò che effettivamente è stato valutato in vista delle nozze, e quindi il grado di consapevolezza sui motivi che hanno giustificato un’eventuale riserva del diritto ad accedere alla fecondazione eterologa, e quale sia stata la reale conoscenza, e non solo un’ipotetica previsione, sulle tecniche di fecondazione assistita e sul loro significato morale. Fatti salvi i casi di conclamata e conosciuta condizione clinica che sia di impedimento alla generazione di un figlio o all’utilizzo del rapporto coniugale per il concepimento, nella maggior parte dei casi la valutazione della possibilità di accedere alle tecniche di fecondazione assistita potrebbe prendere corpo solo durante il tempo del matrimonio al sorgere di effettivi problemi di sterilità o infecondità. In tal caso occorrerà valutare con molta attenzione, in sede di accusata nullità del consenso, come la presa in considerazione della possibilità o il rifiuto di accedere alla fecondazione eterologa sia stato inteso dai coniugi in ordine alla personale apertura alla prole o come ulteriore indizio di una netta, e magari pre-nuziale, chiusura verso la generazione dei figli. Sarà quindi necessario ricostruire ciò che i nubendi abbiano inteso, considerato, voluto o rifiutato, tenendo ben presente che non si tratta semplicemente di dedurre la nullità dall’immoralità delle tecniche eterologhe. Allo stesso modo, si dovrà prendere in considerazione con attenzione quanto la diversità dell’invasività della tecnica abbia influito sulla personale decisione e volontà dell’uomo o della donna di quella specifica coppia in quella situazione: ogni valutazione generica si presta al limite di non permettere di ricostruire quale sia stata l’effettiva e positiva volontà dei nubendi. 26 Cf I. ZUANAZZI, Valori fondamentali del matrimonio…, cit., pp. 206-207. claudia Ambroggi - [email protected] 172 Alessandro Giraudo La volontà in riferimento al bonum fidei Lo stesso ragionamento vale per i casi in cui l’accesso o la programmazione della fecondazione eterologa possa essere indice di una volontà escludente il bonum fidei. Già Navarrete indicava come l’immoralità della fecondazione eterologa, in quanto atto che ferisce l’unità del matrimonio, richiedesse una considerazione diversa nell’ambito giuridico sotto questa specifica dimensione rispetto alle considerazioni morali27. La posizione maggioritaria degli autori, invece, ritiene che la volontà positiva e pre-nuziale di accedere alla fecondazione eterologa sia una modalità di esclusione del bonum fidei perché violazione dell’unicità della relazione coniugale e quindi della fedeltà 28. Anche in questo caso riteniamo che non sia inutile ricordare come tale positiva volontà di accedere alla fecondazione eterologa debba essere appurata ricostruendo in modo approfondito la consapevolezza e le considerazioni che in epoca pre-nuziale la coppia, o il singolo che si sia riservato il diritto di accedere a tale tecnica moralmente illecita, abbia avuto e messo in atto in vista della scelta matrimoniale. Allo stesso modo, la scelta di aver donato i propri gameti, sia da parte dell’uomo che della donna, per consentire ad altri di accedere alla fecondazione eterologa è una circostanza che va valutata con molta attenzione, in quanto potrebbe essere stata fatta a prescindere dal preciso progetto coniugale ora accusato di nullità e non sia per nulla indizio di una radicata e positiva volontà simulatoria, salvo applicare automatismi che sono contrari all’antropologia cristiana e alla ricerca della verità. Viceversa, la scelta di donare i propri gameti durante la vita matrimoniale è un fatto da circostanziare con cura, sia nei tempi, sia nelle modalità con cui si è sviluppato e nelle ragioni che lo hanno sostenuto, così da non attribuire un valore “retroattivo” ad una volontà che può avere preso forma nel corso della vita coniugale e da motivazioni che nulla hanno a che vedere con il significato che il coniuge abbia dato e dia al valore e all’impegno della fedeltà. 27 28 Cf U. NAVARRETE , Novae methodi…, cit., pp. 102-103. Cf F. CATOZZELLA , L’esclusione del bonum fidei…, cit., pp. 277-278. claudia Ambroggi - [email protected] Fecondazione assistita eterologa e matrimonio canonico 173 La volontà in riferimento al bonum coniugum Ancora più complessa è la valutazione dell’eventuale esclusione del bonum coniugum da parte di chi positivamente si riservi di procreare esclusivamente attraverso la fecondazione eterologa, o preveda di utilizzare tale tecnica nel caso di impossibilità a generare in modo naturale o con una fecondazione omologa il figlio desiderato. Se si può condividere il ragionamento di chi individua nella fecondazione eterologa una frattura di quella comunione di vita che è ordinata proprio al bonum coniugum e di come tale ordinazione sia strettamente connessa con il bonum prolis29, nel caso concreto bisognerà valutare con grande attenzione come effettivamente l’assunzione di una volontà aperta, o esclusiva, verso la fecondazione eterologa abbia posto in gioco una qualche strumentalizzazione del coniuge, e dove, invece, si rischi di attribuire ai coniugi nella loro concreta vicenda una concezione e dei principi del tutto estranei al loro sentire e al loro volere. Se la coscienza dei due, infatti, ritenne come cosa buona l’accesso alla fecondazione artificiale eterologa perché considerata esclusivamente come strumento che rende possibile il raggiungimento di quella realizzazione personale e di coppia che si sente non compiuta in mancanza di un figlio, come si potrà attribuire loro una positiva volontà di usare del bene cercato e voluto per abusare dell’altro in vista del conseguimento di un proprio bene contrario al bonum coniugum? Non si vuole con questo attribuire valore moralmente lecito e buono alla fecondazione eterologa, ma neppure applicare una sorta di presunzione di positiva esclusione del bonum coniugum a chi abbia accostato e valutato a partire da altri principi etici, o prescindendo da essi, l’accesso a tale tecnica di fecondazione assistita. Sarà, quindi, necessario scandagliare con attenzione, e circostanziare, le motivazioni di quel desiderio inappagato di maternità e/o paternità, per riconoscere l’effettiva o implicita volontà di chi abbia posto come riserva, o solo come possibilità, l’accesso alla fecondazione eterologa, mentre è da considerarsi in modo diverso l’accesso effettivo o la presa in considerazione di tale tecnica solo dopo le nozze e in conseguenza della successiva scoperta di un’inattesa incapacità generativa. 29 Cf ibid., p. 277. claudia Ambroggi - [email protected] 174 Alessandro Giraudo Alcune considerazioni circa la prova della volontà escludente In tutte queste fattispecie nel processo di dichiarazione di nullità, accanto alla valutazione delle confessiones giudiziali o extra-giudiziali dei coniugi, ci si potrà imbattere facilmente nella mancanza di una qualche confessio raccolta da terzi, posta la complessità dei temi e la delicatezza degli argomenti. Non sarà quindi facile ricostruire l’effettiva volontà pre-nuziale e le motivazioni che la determinarono senza un’attenta ponderazione dei fatti e delle circostanze che possono evidenziare non solo la credibilità, ma il legame tra la volontà espressa, soprattutto in sede giudiziale, e le scelte concrete della coppia. Nella valutazione della prova indiretta molto peso sarà da attribuire, come sempre, alla consistenza delle causae simulandi, da scandagliare anche nella loro ambiguità, perché potranno apparire assolutamente deboli nel momento in cui rivelassero una convinta apertura e un radicato desiderio di maternità e/o paternità tale da voler abbracciare anche una tecnica così lontana da ciò che è l’essenza dell’ordinazione del matrimonio al bonum coniugum e all’apertura al bene della prole, e carica di una radice di infedeltà che può restare in gran parte dei soggetti del tutto sottintesa o sottovalutata. Le circostanze richiederanno ugualmente adeguati riscontri sia nella documentazione clinica, ove si siano realizzati uno o più tentativi di cura della sterilità e di accesso a tecniche di fecondazione assistita, sia nei tempi e nei modi con cui le parti sono giunte alla consapevolezza dell’impossibilità di generare un figlio senza il ricorso alle tecniche eterologhe, e quindi possono effettivamente aver valutato in modo riflesso e positivo tale scelta e possono aver quanto meno previsto non solo in modo astratto la possibilità, ma addirittura aver posto una positiva riserva nell’utilizzo esclusivo di tale modalità di fecondazione. Su questi temi eticamente complessi, la lontananza, anche solo per indifferenza, dalla pratica della vita ecclesiale o dalla fede, può diventare il terreno su cui poggiare e sviluppare valutazioni morali molto lontane dagli insegnamenti del Magistero, il più delle volte ignorati o, se conosciuti, ritenuti inadeguati allo sviluppo moderno e alle possibilità offerte dalla scienza e dalla tecnica. Resta pur sempre vero che tali valutazioni dovranno entrare nel consenso matrimoniale in modo positivo, e quindi sarà da considerare ciò che i coniugi avranno voluto per la loro unione e per quali ragioni, anche solo affettive o di sentire condiviso, siano giunti non solo ad una generica conside- claudia Ambroggi - [email protected] Fecondazione assistita eterologa e matrimonio canonico 175 razione sulla bontà dell’accesso alla fecondazione eterologa, ma alla volontà di ritenerlo buono per loro e per il loro matrimonio. Fecondazione assistita eterologa ed errore doloso Già Navarrete elencava alcune qualità dell’uomo o della donna che possono turbare gravemente la vita coniugale, secondo il dettato del can. 1098, e che hanno riferimento diretto, o indiretto, proprio con la fecondazione eterologa: «– Vir qui semen dedit alicui “deposito seminis”, nec postea illud retraxit, quamvis nondum adhibitum sit; – a fortiori si semen iam adhibitum sit, cum probabiliter vir hac via pluries pater devenit; – vir qui directe semen dedit ad aliquam mulierem foecundandam, præsertim si praegnans effecta est; – vir qui semen dedit ad foecundandum ovulum in vase vitreo, praesertim si ovulum reapse foecundatum est; – a fortiori, si embryones “surperflui” ex processu foecundationis in vase vitreo, congelati conservantur; – mulier quae foecundata est ex semine deprompto ex “deposito seminis” vel ex semine directe “dato”; – mulier quae ovulum dedit ut extra eius corpus quocumque modo foecundaretur»30. Si tratta ovviamente di qualità che devono essere taciute in modo doloso con lo scopo di contrarre matrimonio inducendo in errore il futuro consorte, perché, se conosciute già prima delle nozze, pur potendo gravemente perturbare la vita coniugale, sono state in qualche modo valutate e accolte dall’altro e non possono essere oggetto dell’errore doloso. Riguardo invece alla sterilità, Navarrete riteneva che solo nella sua accezione giuridico-canonica essa possa costituire una qualità della persona che sia oggetto dell’errore doloso invalidante il consenso matrimoniale, per cui «errori doloso nullum momentum invalidans agnoscitur, si error versetur circa sterilitatem sensu illo medico, biologico, genetico sumptam, nimirum si generatio obtineri potest quibuscumque adhibiti mediis, etiam moraliter illicitis, vitae periculosis vel extraordinariis»31. 30 31 U. NAVARRETE , Novae methodi…, cit., pp. 94-95. Ibid., p. 94. claudia Ambroggi - [email protected] 176 Alessandro Giraudo Riteniamo, però, che proprio le riflessioni evidenziate in precedenza riguardo alla fecondazione eterologa e al suo rapporto con le proprietà essenziali e l’ordinazione naturale del matrimonio, diano ragione sufficiente per ritenere che l’errore doloso, indotto a scopo di matrimonio come previsto dal can. 1098, da parte di chi sia a conoscenza della propria sterilità a cui con certezza non sia possibile porre rimedio se non con l’utilizzo di gameti da parte di una figura esterna alla coppia, possa riguardare una qualità che per sua natura sia tale da turbare gravemente la vita coniugale, e sia perciò in grado di invalidare il consenso nuziale. Fecondazione assistita eterologa ed impedimenti matrimoniali Come già Navarrete enunciava e argomentava in modo chiaro ed esaustivo in riferimento a tutte le tecniche di fecondazione assistita 32, la fecondazione eterologa non può intendersi una modalità di consumazione per chi sia incapace a porre l’atto sessuale, per cui in alcun modo può essere considerata una modalità di superamento dell’impotentia coeundi del can. 1084, quand’anche possa essere utilizzata dalla coppia per generare un figlio che non si potrebbe altrimenti concepire. Riguardo, invece, all’impedimento di consanguineità del can. 1091 § 1, ci sembra evidente che, se il criterio della consanguineità non sia da ricercarsi nella gestazione o nella paternità sociale, ma bensì sia da rintracciarsi nel patrimonio genetico33, l’utilizzo dei gameti di uno o addirittura di due soggetti esterni alla coppia di sposi uniti con un matrimonio canonico che socialmente si assumeranno il compito della paternità e maternità del figlio generato tramite una fecondazione eterologa pone gravi problemi, sia per quanto riguarda la definizione dell’impedimento in ambito canonico, sia soprattutto per la prova dell’eventuale consanguineità genetica posto che ordinariamente le disposizioni civili in materia impongono l’anonimato assoluto per il donatore. È bene ricordare che nel caso di una fecondazione eterologa ci sia consanguineità, e il conseguente impedimento matrimoniale, tra il figlio e coloro da cui questi abbia ricevuto il patrimonio genetico, 32 33 Cf ibid., cit., pp. 83-86. Cf ibid., cit., pp. 91-92. claudia Ambroggi - [email protected] Fecondazione assistita eterologa e matrimonio canonico 177 mentre non c’è consanguineità con il genitore o i genitori che non abbiano potuto offrire i propri gameti in vista della generazione. Quindi, nel caso in cui si sia ricorso ai gameti di un solo soggetto terzo rispetto ai due coniugi, il figlio così concepito sarebbe consanguineo con i donatori, ma sarebbe affine a norma del can. 109 con l’altro genitore non donatore della coppia, nei cui confronti sarebbe vincolato dall’impedimento matrimoniale del can. 1092. Viceversa, nel caso che i gameti provengano da due donatori esterni alla coppia, la consanguineità sorgerebbe solo con chi ha fornito il patrimonio genetico e non ci sarebbe alcun impedimento matrimoniale tra quel figlio e i suoi genitori “sociali”, non essendo configurabile neppure l’impedimento di parentela legale del can. 1094. Richiamando, quindi, quanto già in passato è stato oggetto di ampia riflessione34, pensiamo che possa essere utile che la Suprema autorità, a norma del can. 1075, articoli un nuovo impedimento matrimoniale che, in modo analogo all’impedimento di consanguineità per i rapporti “genetici” che vengono a stabilirsi con i donatori di gameti esterni alla coppia, sia riferito nei confronti dei genitori sociali uniti in matrimonio canonico, con i quali si crea quel legame di “parentela” frutto della scelta di cercare quel figlio, dell’assunzione della responsabilità di generarlo e del susseguente impegno alla sua crescita ed educazione, anche se concepito con tecniche che, seppur immorali, furono ritenute dagli sposi stessi come indispensabili e buone: si tratterebbe di una sorta di “consanguineità legale”. Ugualmente da considerare sarebbe la consanguineità genetica nella linea collaterale, cioè quella che lega tutti coloro che sono stati generati a partire dai gameti di un unico soggetto donatore, e la consanguineità “legale” nella linea collaterale, dove nuovamente può venire a mancare qualsiasi legame genetico ma resta un significativo legame “familiare” o parentale, indubbiamente di natura diversa, con i consanguinei dei genitori “sociali”. Resta evidentemente il problema di come appurare la presenza di una consanguineità genetica o di quella “legale” sia nella fase di preparazione al matrimonio, dove il parroco deve poter avere elementi per escludere la presenza di impedimenti dirimenti alla valida celebrazione delle nozze, sia in fase di un eventuale processo, in cui si debba accertare la nullità o per l’inabilità matrimoniale per diritto naturale di chi sia soggetto di consanguineità solo genetica con un 34 Cf P. M ALCANGI, Tecniche di fecondazione…, cit., pp. 428-432. claudia Ambroggi - [email protected] 178 Alessandro Giraudo figlio mai conosciuto avendo soltanto donato i propri gameti o con un fratello nato in un contesto assolutamente ignoto, o per l’eventuale inabilità matrimoniale per diritto positivo per il genitore “sociale” rispetto al figlio generato non con il proprio contributo genetico, o per altri familiari a cui quel figlio sia legato dalle normali relazioni di una familiarità sociale. Proprio la diffusione delle tecniche eterologhe, e la possibilità di accedervi anche con le agevolazioni che alcune legislazioni hanno ormai consentito, potrebbero essere ragioni sufficienti per motivare l’attenta valutazione e riformulazione dell’impedimento di consanguineità nelle due fattispecie, di diritto naturale per quanto attiene il legame genetico e di diritto positivo per quanto riguarda il ruolo sociale di genitore in un matrimonio valido, pur non mancando aspetti problematici sul fatto che in questo modo si possa configurare una giustificazione indiretta di una modalità immorale di generare un figlio. Fecondazione assistita eterologa e filiazione legittima Alcuni autori hanno, infine, messo in luce come la fecondazione eterologa ponga molti problemi anche riguardo all’istituto della filiazione legittima, in quanto quel figlio, essendo generato con il patrimonio genetico di almeno un soggetto terzo alla coppia, e quindi non legato dal vincolo coniugale, è di fatto sempre illegittimo dal punto di vista delle disposizioni canoniche35. Posto che nell’ordinamento canonico non sono previste conseguenze, almeno a livello di diritto universale, in base all’essere figlio legittimo o illegittimo, la questione della filiazione legittima può essere intesa nella dimensione di riconoscere e tutelare la necessità per ogni figlio di una famiglia e di quelle relazioni indispensabili alla sua crescita ed educazione integrale. Ci sembra, quindi, di poter condividere la necessità di una sorta di favor filiationis che consenta il riconoscimento di una legittimità che sorge anche solo dall’assunzione dell’impegno genitoriale da parte di chi è socialmente riconosciuto come tale anche se non legato geneticamente al figlio, in analogia con quanto avviene nel caso dell’adozione36. Ancora una volta, non si tratta di un’indiretta giustificazione giuridica di un atto moralmente Cf U. NAVARRETE , Novae methodi…, cit., pp. 103-106; F. CATOZZELLA , L’esclusione del bonum fidei…, cit., p. 267; I. ZUANAZZI, La filiazione nel diritto canonico…, cit., pp. 138-147. 36 Cf I. ZUANAZZI, La filiazione nel diritto canonico…, cit., pp. 144-146. 35 claudia Ambroggi - [email protected] Fecondazione assistita eterologa e matrimonio canonico 179 illecito come la fecondazione eterologa, ma la necessità che anche nell’ordinamento canonico si riconoscano e abbiano tutela i doveri e i diritti che sono espressione della ricchezza di valori propri del rapporto genitori – figli, che, seppur attraverso questo tipo di tecnica, la coppia di sposi unita con un matrimonio canonico ha voluto assumersi portando a compimento il desiderio di generare un figlio. Conclusioni Il taglio dell’articolo, che muoveva dalla valutazione etica della fecondazione eterologa, ci ha permesso di accostare e richiamare in sintesi alcuni temi che già in diverso modo la dottrina canonica e morale hanno delineato, ricordando come il mutato contesto sociale del nostro mondo occidentale richieda una maggiore attenzione al fenomeno ed una adeguata riflessione. Le questioni affrontate inevitabilmente invitano ad una rinnovata attenzione dei casi che si possono incontrare nella pastorale familiare, nell’accompagnamento delle coppie alla scelta matrimoniale, nella formazione degli operatori pastorali, perché cresca l’educazione ai principi morali che giustificano la valutazione della fecondazione eterologa come atto gravemente disordinato e contrario ai beni essenziali e all’ordinamento stesso del matrimonio. Ugualmente, nella valutazione giudiziale dei casi in cui si giunga ad accusare la nullità del consenso a partire dall’accesso a tecniche di fecondazione eterologa, la riflessione ci invita a porre maggiore attenzione ai fatti di quella vicenda, per confrontarsi in modo corretto con la decisione della coppia di riservarsi un diritto, programmare o semplicemente accedere all’utilizzo di questa specifica tecnica di fecondazione assistita. Molto più vasti e complessi sono invece i problemi che pongono i casi di inabilità matrimoniale conseguente ad un legame di consanguineità genetica o la valutazione di un’eventuale “consanguineità legale”, posto che l’accesso alla fecondazione eterologa stia già diventando nel nostro mondo occidentale un fatto considerato normale o addirittura un diritto da esigere, con il conseguente moltiplicarsi di situazioni che per ora restano solo complicati casi di studio. A LESSANDRO GIRAUDO Via Porta Palatina 7 10122 Torino claudia Ambroggi - [email protected] Maternità surrogata: profili canonistici matrimoniali Quaderni di diritto ecclesiale 28 (2015) 180-190 di Adolfo Zambon Lo sviluppo della bioetica e delle conoscenze relative all’inizio e alla fine della vita che stanno caratterizzando questi anni, pone la riflessione etica e giuridica di fronte a fatti sempre nuovi, con i quali confrontarsi per saper fornire una risposta adeguata e pertinente, rispettosa dei principi dell’antropologia cristiana. Uno di questi ambiti è fornito dalla maternità surrogata, che presenta alcune peculiarità rispetto alla fecondazione artificiale (sia omologa che eterologa) e che quindi interpella il giurista per la sua peculiarità. La terminologia Con il termine maternità surrogata si intende una situazione specifica in cui, indipendentemente da chi fornisce il materiale genetico, la gestazione viene portata avanti da una donna diversa rispetto a colei che fungerà da madre sociale1. In particolare, «la maternità surrogata consiste nella possibilità che una donna offra (gratuitamente) o affitti (con remunerazione) il proprio utero per la gestazione di uno o più embrioni: è la madre surrogata (detta anche aggiuntiva, per contratto diretto o intermediazione, per delega, affitto, commissione, prestito o locazione d’utero). Va distinto il caso della madre “portante” (solo gestazionale) o la madre “sostitutiva” (che dona il gamete, in genere fecondato con il seme del marito della coppia committente, e porta in gestazione l’embrione)»2. Abbiamo anche altre terminologie usate per fare riferimento al fenomeno della maternità surrogata. Per la madre portante, ossia che Cf D. M ILANI, L’inizio della vita nel diritto canonico, in D. ATIGHETCHI - D. M ILANI - A.M. R ABELLO, Intorno alla vita che nasce. Diritto ebraico, canonico e islamico a confronto, Torino 2013, p. 160. 2 F. D’AGOSTINO - L. PALAZZANI, Bioetica. Nozioni fondamentali, Brescia 2007, p. 89. 1 claudia Ambroggi - [email protected] Maternità surrogata: profili canonistici matrimoniali 181 accoglie un bambino concepito da altri, con l’impegno di consegnarlo a una coppia determinata a nascita avvenuta, si usa anche il termine di madre surrogata gestazionale, oppure di madre gestazionale, portatrice, in affitto o prestito. Per la madre sostitutiva che, invece, attraverso la fecondazione dei suoi ovociti ha concepito un embrione, lo porta in grembo e dopo la nascita lo consegna a una coppia con la quale è stato stretto un accordo previo, si parla anche di madre su commissione3. Altri termini usati sono «madre portante» e «madre surrogata»4, «madre in affitto» e «affitto del ventre»5, «maternità di sostituzione»6 oppure ancora fecondazione extracorporea «con prestito momentaneo di utero» o «con prestito momentaneo di utero e donazione di ovocita»7. A partire da tale descrizione, si comprende come siano possibili diverse fattispecie, accomunate da una «frammentazione della figura materna in una serie di figure femminili fra loro indipendenti e tutte, a diverso titolo, “materne”»8. Così, la madre genetica può essere distinta dalla madre gestazionale e dalla madre sociale (che poi terrà il bambino); oppure la madre genetica e gestazionale può coincidere, distinguendosi dalla madre sociale; la madre genetica e sociale può coincidere, distinguendosi tuttavia dalla madre gestazionale; la madre gestante può essere estranea alla coppia committente o essere parente, amica o conoscente di uno dei due genitori sociali9. Potremmo anche giungere a una fattispecie in cui abbiamo una triplice figura materna (genetica, gestazionale e sociale), accanto a una duplice figura paterna (genetica e sociale). Questo comporta evidentemente una riflessione (e indicazioni legislative) su chi debba intendersi come genitore10. M.P. FAGGIONI, Maternità surrogata. Un nuovo impedimento?, in «Periodica de re canonica» 102 (2013) 280-281. 4 M.L. DI P IETRO, La fecondazione artificiale: aspetti scientifici, in Progresso biomedico e diritto matrimoniale canonico, a cura di C. Zaggia, Conselve (PD) 1992, p. 19. 5 A. T R ABUCCHI, Nuove metodiche di intervento sulla vita umana: aspetti civilistici, in Progresso biomedico e diritto matrimoniale canonico, cit., p. 194. 6 Cf H. FR ANCESCHI, Il contenuto del bonum prolis e del bonum fidei alla luce del fenomeno della procreazione artificiale, in «Ius Ecclesiae» 10 (1998) 242. 7 P. M ALCANGI, Tecniche di fecondazione artificiale e diritto matrimoniale canonico, in QDE 11 (1998) 410-411. 8 M.P. FAGGIONI, Maternità surrogata…, cit., p. 279. 9 Cf F. D’AGOSTINO - L. PALAZZANI, Bioetica…, cit., p. 89, nota 26. 10 Un autore prospetta anche la possibilità di tre figure paterne e quattro figure materne, considerando non solo l’aspetto genetico e sociale, ma anche quello giuridico: «Dopo la rivoluzionaria scoperta del DNA e delle tecniche di riproduzione medicalmente assistita, i concetti tradizionalmente unitari di maternità e paternità hanno subìto una scomposizione: si può avere una madre o un padre giuridici, nella misura in cui tra lei o lui e il figlio sia sorto un iuris vinculum nei termini su descritti, biologici, 3 claudia Ambroggi - [email protected] 182 Adolfo Zambon L’elemento comune che contraddistingue le diverse fattispecie è dato dalla presenza di una donna che porta in gestazione, come madre portante o come madre sostitutiva, un embrione per conto di terzi. Ci soffermeremo quindi soprattutto su tale aspetto, con specifico riferimento al matrimonio, senza addentrarci negli elementi implicati in un eventuale ricorso alla fecondazione omologa o eterologa, già oggetto di uno specifico contributo in questo numero della rivista. In tale prospettiva, non si prende in considerazione la ectogenesi, ossia la «possibilità di costruire un utero artificiale che ospiti la gestazione extracorporea dell’embrione», vuoi in modo parziale vuoi in modo totale11. La maternità surrogata e l’oggetto del consenso: possibili esclusioni di realtà essenziali del consenso L’istruzione della Congregazione per la dottrina della fede, del 22 febbraio 1987, Donum vitae, affronta il tema della maternità sostitutiva, affermandone chiaramente l’illiceità anche in relazione al matrimonio. Nello specifico, infatti, afferma che essa non è moralmente lecita «per le medesime ragioni che portano a rifiutare la fecondazione artificiale eterologa: è contraria, infatti, all’unità del matrimonio e alla dignità della procreazione della persona umana. La maternità sostitutiva rappresenta una mancanza oggettiva di fronte agli obblighi dell’amore materno, della fedeltà coniugale e della maternità responsabile; offende la dignità e il diritto del figlio ad essere concepito, portato in grembo, messo al mondo ed educato dai propri genitori; essa instaura, a detrimento delle famiglie, una divisione fra gli elementi fisici, psichici e morali che le costituiscono» (II, A, 3). Passando al piano giuridico, il principio fondamentale di cui tener conto nel valutare l’influsso dell’intenzione di ricorrere alla qualora sia stata lei a partorire il figlio ovvero sia stato lui a fecondare la madre a seguito di un rapporto sessuale, genetici, qualora sia stato l’ovulo di lei ad essere fecondato o il seme di lui a fecondare, sociali, qualora lei o lui abbia o eserciti di fatto la potestà genitoria sul figlio. È possibile che tutti i requisiti si trovino riuniti in una stessa persona, così come è possibile che un figlio abbia tre padri – visto che un padre biologico è necessariamente anche un padre genetico, mentre è escluso il reciproco per il caso di inseminazione artificiale –, oppure abbia quattro madri – visto che la pratica dell’affitto d’utero e l’inseminazione eterologa rendono possibile che ci sia una madre biologica e una diversa madre genetica –» (A. DIURNI, Storia e attualità della filiazione in Europa, in «Il diritto di famiglia e delle persone» 36 [2007], fasc. 3, pag. 1403). L’articolo nel suo complesso offre una sintetica presentazione dell’evoluzione del diritto civile in materia di filiazione e i tentativi posti dalla legislazione civile per favorire la chiarezza in tale ambito (cf ibid., pp. 1397-1431). 11 F. D’AGOSTINO - L. PALAZZANI, Bioetica…, cit., p. 89. claudia Ambroggi - [email protected] Maternità surrogata: profili canonistici matrimoniali 183 maternità surrogata nel proprio concreto matrimonio è riconosciuto in dottrina «come contenuto nel fatto che la traditio-acceptatio propria del patto coniugale comporta non soltanto il diritto-obbligo agli atti coniugali, ma racchiude altresì il diritto-obbligo di non procreare se non dal seme del coniuge, ad anzi soltanto attraverso la copula compiuta in modo naturale, anche se coadiuvata da mezzi moralmente leciti, non pericolosi né straordinari, atti a rendere più facile la fecondazione»12. Questo va riferito non solo alle situazioni in cui si intenda ricorrere alla fecondazione omologa o eterologa, ma anche qualora si intenda avere «il diritto di usare il seme del marito, se la moglie è sterile, per fecondare un’altra donna, così tuttavia che i figli siano ritenuti giuridicamente come propri di entrambi i coniugi, sia che ciò avvenga gratuitamente sia pagando una somma alla madre per i servigi prestati; [...] il diritto di prendere in prestito l’utero di altra donna per fare gestare in esso i figli dei coniugi»13. Nello specifico, diversi possono essere i profili da prendere in esame qualora una persona intenda ricorrere alla maternità sostitutiva al momento dello scambio del consenso, anche se non sempre e immediatamente sembra identificabile in modo univoco la proprietà o elemento essenziale che viene escluso. In questo ha rilevanza, infatti, la volontà del nubente, che intende fare ricorso alla maternità surrogata a partire dalle proprie finalità o intenzioni oppure con una volontà viziata. È superfluo inoltre ricordare che l’intenzione di ricorrere alla sola maternità surrogata per avere un figlio deve essere presente al momento del consenso e non successivamente, una volta scoperta l’impossibilità di avere figli oppure sorga un rifiuto a vivere la gravidanza. In ogni caso, emerge come «contraggono […] invalidamente coloro che si riservano, con un atto positivo di volontà, che può avere la forma di condizione, di condizione pattuita o M.F. POMPEDDA , Nuove tecniche di intervento sulla vita umana e diritto matrimoniale canonico, in Progresso biomedico e diritto matrimoniale canonico, cit., p. 157. «È indubbio che canonicamente possono essere accettati soltanto quei metodi di fecondazione artificiale, e quindi conseguire significato e importanza giuridica, i quali: a) siano in sé o nei mezzi moralmente leciti; b) non comportino pericolo di vita (e neppure grave pericolo per la salute); c) non costituiscano un mezzo straordinario» (ibid., p. 163). 13 Ibid., p. 157. Cf U. NAVARRETE , Novae methodi technicae procreationis humanae et ius canonicum matrimoniale, in «Periodica de re morali, canonica, liturgica» 77 (1988) 97. 12 claudia Ambroggi - [email protected] 184 Adolfo Zambon riserva mente retenta, il diritto di procreare ricorrendo al seme di una terza persona o all’utero di una donna diversa dalla madre genetica del nascituro. Così facendo, infatti, i nubenti escludono una proprietà essenziale del matrimonio e introducono un elemento contrario alla sua sostanza e natura (in particolare contrario al bonum coniugum e al bonum prolis). Essi non possono determinare arbitrariamente l’oggetto del patto coniugale istituito dal Creatore sin dal principio, alla cui realizzazione e perfezionamento, con lo scambio del consenso, impegneranno irrevocabilmente tutta la loro vita»14. Nell’individuazione della proprietà o elemento essenziale escluso con l’intenzione di ricorrere alla maternità surrogata, è condivisa la previsione della fattispecie dell’esclusione della prole15. Circa l’esclusione della fedeltà, con riferimento alla fecondazione artificiale eterologa, alcuni autori ritengono che non sia presente16, altri invece la vedono possibile17. Infatti, in tal caso, «oltre la scissione della intima unità tra atto matrimoniale e fecondità, tra fine unitivo e fine procreativo, c’è una radicale violazione dell’esclusività della donazione matrimoniale che, se già al momento della celebrazione del matrimonio formava parte del progetto matrimoniale soggettivo, intacca radicalmente lo stesso consenso»18. In ogni caso, sembra sia rilevante considerare gli aspetti psicologici e fisici implicati in una madre portante, che comportano un coinvolgimento interpersonale significativo, e portano a ritenere venga escluso anche il bene della fedeltà. A maggior ragione, questo va preso in considerazione qualora si faccia riferimento non solo a una madre portante, ma anche a una madre sostitutiva. Non sembrano neppure potersi escludere motivi legati all’esclusione del bonum coniugum, qualora la volontà sia diretta non a creare una comunione di vita, bensì all’avere un figlio ad ogni costo, senza curarsi delle conseguenze possibili nell’altro coniuge. Una possibile esclusione del bonum coniugum, oppure una simulazione totale, potrebbe configurarsi qualora una persona intenda unirsi in matrimonio per costringere la propria futura moglie a una prassi di surrogazione di maternità, magari in vista di un possibile compenso. P. M ALCANGI, Tecniche di fecondazione artificiale…, cit., p. 416. Cf U. NAVARRETE , Novae methodi technicae…, cit., p. 103. Cf Ibid., pp. 102-103; P. M ALCANGI, Tecniche di fecondazione artificiale…, cit., p. 419. 17 Cf H. FR ANCESCHI, Il contenuto del bonum prolis…, cit., pp. 250-252; P. MONETA , Procreazione artificiale e diritto matrimoniale canonico, in I D., Communitas vitae et amoris, Pisa 2013, pp. 167-168. 18 H. FR ANCESCHI, Il contenuto del bonum prolis…, cit., p. 252. 14 15 16 claudia Ambroggi - [email protected] Maternità surrogata: profili canonistici matrimoniali 185 Possiamo infine avere delle situazioni specifiche in cui la donna è già stata madre portante o sostitutiva, aspetti questi taciuti con dolo (can. 1098) all’altra parte. Si sarebbe in presenza di una qualità che può perturbare gravemente la comunità di vita coniugale in alcune situazioni, quali: «– la donna che ha prestato l’utero per la gestazione di un figlio di altri, sia gratuitamente sia dietro compenso […] – la donna che ha prestato l’utero in tal senso, che dal proprio ovulo e dal seme “donato” (senza copula) genera un figlio col patto di non ritenerlo come proprio, ma di cedere tutti i propri diritti agli altri, e generalmente al padre del nascituro e alla di lui moglie; – la donna che ha dato il proprio ovulo, fecondato “in vitro” ad altri per la gestazione, sia gratuitamente, sia dietro compenso»19. Si tratta evidentemente di qualità che per sua natura può perturbare gravemente la vita coniugale, per cui, verificata l’esistenza degli altri elementi richiesti per il dolo (can. 1098), il matrimonio è nullo20. Infine, senza ricorrere a letture deterministiche, la frantumazione delle figure materne – che avviene nel ricorso alla maternità surrogata – potrebbe comportare delle conseguenze sul nascituro, «che vivrebbe l’abbandono della madre gestazionale e si troverebbe in una situazione confusa con più figure di riferimento nel suo processo di identificazione»21. Pur non essendo «possibile oggi prevedere quali possano essere le conseguenze future sul bambino che nascerà», anche per mancanza di studi psicologici sull’argomento sufficientemente motivati, emerge sempre «la possibilità che tale situazione possa turbare il processo delicato di identificazione antropologica, psicologica ed esistenziale del bambino»22, con conseguente possibile influsso nello sviluppo della personalità della persona nata da madre surrogata, e con eventuali conseguenze in ordine alla capacità di emettere un valido consenso. In altre parole, potrebbe esserci una «alterazione dei rapporti parentali-filiali», che «può essere di ostacolo al bambino sia nell’individuare la propria identità biologica e giuridica sia nella maturazione psicologica», dovendosi distinguere tra genitori genetici e genitori so19 M.F. POMPEDDA , Nuove tecniche di intervento…, cit., p. 169. Cf U. NAVARRETE , Novae methodi technicae…, cit., p. 95. 20 Cf ibid., pp. 95-96. 21 F. D’AGOSTINO - L. PALAZZANI, Bioetica…, cit., p. 90. Gli autori presentano anche le conseguenze della frantumazione della figura materna sia sulla madre surrogata che sulla madre sociale. 22 L. cit. claudia Ambroggi - [email protected] 186 Adolfo Zambon ciali o giuridici23, senza considerare «le connessioni vitali intrauterine da un’altra persona (la madre in affitto)»24. Un nuovo impedimento ex gestatione? Il diritto matrimoniale attuale non prevede un impedimento specifico al matrimonio tra la madre portante e i figli che le sono nati o tra i figli che hanno in comune la stessa madre portante. In tali casi non sussiste, infatti, l’impedimento di consanguineità. Questo si fonda sulla comune origine: genitori sono quelle persone dalle quali provengono i gameti dalla cui unione sorge una nuova vita. Infatti, «nella Tradizione occidentale, l’elemento essenziale della consanguineitas era ritenuto, come dice la parola stessa, la comunanza di sangue»25. Posto che il fondamento della consanguineità consiste nella comune origine genetica, tale impedimento non risulta riferibile alla maternità sostitutiva, salvo il caso della madre sostitutiva, in cui la madre gestante sia anche la madre genetica 26, in quanto viene a mancare la comune origine genetica 27. In modo positivo, infatti, «per stabilire la relatio di consanguineità non è rilevante stabilire se il nuovo essere è stato procreato in modo naturale o artificiale, se attraverso una unione sessuale o senza di essa, se la gestazione è avvenuta in modo normale o no, ma è necessario stabilire la provenienza dei gameti che hanno dato origine al nuovo essere umano. Dobbiamo chiederci, insomma, chi sono le persone che, attraverso i loro gameti, hanno dato origine a quella creatura»28. È stata anche proposta una comparazione tra maternità surrogata e adozione. Infatti, anche nella situazione in cui un minore viene 23 E. S GRECCIA , La fecondazione artificiale di fronte all’etica: la prospettiva personalistica, in Progresso biomedico e diritto matrimoniale canonico, cit., p. 64. 24 Ibid., p. 65. 25 M.P. FAGGIONI, Maternità surrogata…, cit., p. 284. Sull’impedimento di consanguineità, per un primo approfondimento, si veda: K. BOCCAFOLA , Gli impedimenti relativi ai vincoli etico-giuridici tra le persone: affinitas, consanguinitas, publica honestas, cognatio legalis (cann. 1091 - 1094), in Diritto matrimoniale canonico, a cura di A. Bonnet - C. Gullo, I, Città del Vaticano 2002, pp. 555-568. 26 «Non ci sono dubbi sulla consanguineità – a nostro avviso – […] nel caso della madre surrogata su commissione che ha fatto un figlio, su commissione di un’altra donna, attraverso l’uso del seme del marito di questa. Questa madre surrogata è, a tutti gli effetti, la madre naturale del neonato e soddisfa, fra l’altro, la condizione dell’averlo anche partorito secondo l’effato che “mater semper certa est”» (M.P. FAGGIONI, Maternità surrogata…, cit., p. 298). 27 Cf U. NAVARRETE , Novae methodi technicae…, cit., pp. 90-92. «Diverso è il caso della maternità gestazionale. Qui non si può parlare di consanguineità perché non c’è relazione genetica specifica fra madre gestazionale e neonato. Tanto meno si può parlare di parentela legale perché il legame fra madre gestazionale e neonato non sorge da adozione in senso stretto ed è ben diversa dalla relazione adottiva» (M.P. FAGGIONI, Maternità surrogata…, cit., pp. 298-299). 28 Ibid., p. 287. claudia Ambroggi - [email protected] Maternità surrogata: profili canonistici matrimoniali 187 adottato, «la genitorialità biologica è qui separata dalla genitorialità psicologica e legale»29. Non si deve tuttavia dimenticare che «nell’adozione non esiste alcun rapporto fisico o naturale fra adottante e adottato, mentre la madre gestazionale ha un vincolo naturale anche se non di consanguineità con il generato. In secondo luogo, nell’adozione i genitori accolgono il bimbo in seno alla loro famiglia stabilendo con lui vincoli affettivi e sociali, mentre invece la madre gestazionale si impegna a separarsi dal bimbo portato in grembo e da lei partorito. Su queste basi è possibile differenziare la maternità surrogata dalla adozione di embrione (adozione prenatale)»30 . Altri studiosi hanno equiparato la figura della madre sostitutiva a quella della “nutrice”, assimilando la nutrizione con la gestazione dell’embrione o del feto, e osservando come la madre gestante differisce solo accidentalmente dalla tradizionale donna “nutrice”, in quanto entrambe nutrono un figlio non loro31. È stato tuttavia osservato come la relazione intercorrente tra il fanciullo nato e la nutrice non sia identica, sotto il profilo biologico, psicologico e anche culturale, a quella sussistente tra gestante e feto durante il suo sviluppo. In effetti, sorge «un rapporto veramente di vita, e non soltanto di nutrizione dall’esterno, in soggetto già nato, tra la donna che porta avanti la gestazione, sia pure di embrione cui lei non ha dato il proprio ovulo, e l’embrione stesso fino alla completa maturazione di esso, ossia fino al parto»32. Inoltre, dalla psicologia ricaviamo come «tra la gestante e il nascituro, nel periodo della gravidanza, si instaura un dialogo, benché sul piano dell’inconscio, che poi perdura anche dopo la nascita, un dialogo nel quale vi è realmente uno scambio di pensiero, di affettività, di psiche»33. In effetti, «la donna chiamata per plasmare alla vita l’embrione altrui […] è, rispetto al figlio che nascerà, la donna che gli ha Ibid., p. 295. Ibid., p. 299, in nota. «Illa enim mulier [mater substituta], ex hypothesi, non est mater seu “genitrix” illius pueri, sed tantum “nutrix” quae illum in proprio utero inde ab initio vitae embryonariae nutrivit illumque gestavit usque ad tempus partus. Casus non differt, nisi accidentaliter, ab illo quo mulier “nutrix” est sensu traditionali; id est, mulier quae nutrit proprio lacte puerum qui non est eius, sed aliorum»: U. NAVARRETE , Novae methodi technicae…, cit., p. 92. È utile osservare come «tanto la madre gestazionale quanto la balia nutrono, sia pure secondo modalità e tempi diverse, un figlio altrui e questa circostanza instaura fra la donna e il neonato una particolare relazione fisica senza consanguineità. Nel diritto islamico l’allattamento stabilisce, pertanto, un impedimento matrimoniale vero e proprio e i fratelli di latte sono assimilati, per molti versi, ai fratelli di sangue. L’impedimento derivante dalla parentela di latte si trova anche in alcune Chiese orientali, specie africane»: M.P. FAGGIONI, Maternità surrogata…, cit., p. 302. 32 M.F. POMPEDDA , Nuove tecniche di intervento…, cit., p. 176. 33 Ibid., p. 176. 29 30 31 claudia Ambroggi - [email protected] 188 Adolfo Zambon dato la vita»34. In altre parole, «la gravidanza non si esaurisce infatti nell’offrire un ambiente favorevole alla crescita del bambino ma si sostanzia in un processo di interazione che nel caso della maternità surrogata ha come protagonisti esclusivi la madre sostitutiva e il “figlio affidato”, lasciando fisiologicamente di lato la madre futura»35. In effetti, il rapporto che si instaura durante la gestazione è caratterizzato da una «intensa interrelazione tra madre e figlio», così come «il rapporto prolungato di interazione della madre verso il feto [… ha] un forte impatto sulla salute del feto e sulla sua stessa crescita psichica».36 Tutte queste considerazioni portano ormai a proporre «un impedimento fra la “madre sostituta” e il figlio gestato nel suo utero, ed ancora fra coloro che sono stati gestiti nello stesso utero ma non sono legati da un impedimento di consanguineità»37. Infatti, se dall’adozione sorge un impedimento dirimente tra tutti coloro che sono uniti, in linea retta o nel secondo grado della linea collaterale, da parentela legale sorta da adozione (can. 1094), in modo ancora più evidente risulta necessario, qualora la fattispecie diventi più numerosa, porre un impedimento che sorge dalla gestazione38. In modo specifico, «dal momento che la gestazione e il parto sono elementi altamente significativi della maternità, anche se non si può parlare di maternità genetica e, quindi, di consanguineità, tuttavia la madre gestazionale svolge un ruolo tipicamente materno che non si può sottovalutare: la madre gestazionale presenta il caso di una madre non consanguinea. Si potrebbe parlare di una nuova forma di cognatio e, per essere più precisi, di cognatio ex gestatione. Il Legislatore potrebbe prendere in considerazione la opportunità di introdurre un nuovo impedimento matrimoniale (can. 1075 §2), prodotto dalla sola gestazione del concepito, e diverso dalla “consanguinitas” (can. 1091) e dalla “cognatio legalis ex adoptione orta” (can. 1094). L’eventuale impedimento dirimente della cognatio ex gestatione non potendosi considerare di diritto A. T R ABUCCHI, Nuove metodiche di intervento…, cit., p. 195. D. M ILANI, L’inizio della vita nel diritto canonico, cit., p. 160; cf M.P. FAGGIONI, Maternità surrogata…, cit., p. 299. 36 F. D’AGOSTINO - L. PALAZZANI, Bioetica…, cit., p. 92. 37 M.F. POMPEDDA , Nuove tecniche di intervento…, cit., p. 177; cf U. NAVARRETE , Novae methodi technicae…, cit., p. 93; P. M ALCANGI, Tecniche di fecondazione artificiale…, cit., pp. 430-431. 38 Cf U. NAVARRETE , Novae methodi technicae…, cit., p. 93. L’autore conclude il suo contributo precisando come «Si usus “matris substitutae” multum augeretur, fortasse oporteret ut impedimentum dirimens statueretur inter mulierem gestantem et puerum gestatum, atque inter pueros et puellas in eodem utero gestatos; impedimentum inquam simile impedimento cognationis legalis ex adoptione ortae» (p. 107). Osserva, tuttavia, che i casi non sono ancora così numerosi da ritenere necessario un intervento del legislatore. Essendo trascorsi più di 25 anni da queste affermazioni, resta necessario valutare se nelle situazioni attuali si richieda una valutazione diversa. 34 35 claudia Ambroggi - [email protected] Maternità surrogata: profili canonistici matrimoniali 189 divino, sarebbe dispensabile, anche se il Legislatore potrebbe stabilire de iure che esso non sia dispensabile (can. 1078 § 3)»39. Tale impedimento, che può essere stabilito dalla sola autorità suprema nella Chiesa (can. 1075 § 2), non comporterebbe in alcun modo il riconoscimento della liceità del ricorso alla maternità surrogata. Infatti, la costituzione di un impedimento non sarebbe dare riconoscimento morale a determinate pratiche o comportamenti, quanto piuttosto «constatare l’esito di essi e […] dare quindi una collocazione giuridica a fatti pur derivati da operazioni contrarie alle norme morali»40. Inoltre, visto il moltiplicarsi di casi e la progressiva evoluzione in materia del diritto civile e della giurisprudenza, potrebbe essere utile porre tale impedimento, armonizzabile con il sistema vigente degli impedimenti canonici41, favorendo in tal modo un quadro antropologico coerente e rispettoso dell’autentica realtà coniugale. Infatti, «il diritto matrimoniale canonico, come qualunque altra realtà giuridica profondamente agganciata alla realtà umana, sarà sempre più costretto a confrontarsi con la mentalità, le aspettative, i mutamenti del costume familiare e sociale, causati dalla crescente diffusione della procreazione artificiale: diffusione che difficilmente, come l’esperienza insegna, verrà arrestata dalla condanna del Magistero ufficiale della Chiesa […]. Nonostante questa condanna, il canonista dovrà quindi necessariamente interrogarsi sui delicati problemi che l’uso della procreazione artificiale farà sorgere nell’applicazione concreta del diritto matrimoniale, così come è avvenuto e continua a verificarsi per altri comportamenti umani – quali il divorzio, l’aborto, la contraccezione – che, pur riprovati dalla Chiesa, hanno avuto e vanno, purtroppo, assumendo crescente rilievo nel costume sociale»42. Un’altra possibile difficoltà riguarda la possibilità (o meno) fornita dalla legge civile per determinare la rintracciabilità non solo dei donatori di gameti, ma anche delle madri surrogate, tenuto anche conto che «riguardo alla maternità surrogata, la giurisprudenza è M.P. FAGGIONI, Maternità surrogata…, cit., p. 300. M.F. POMPEDDA , Nuove tecniche di intervento…, cit., p. 178. Inoltre, «il diritto canonico non può fare a meno di prendere atto di situazioni delicate come queste legate alla genesi della vita umana, anche se le stesse si sono verificate attraverso l’impiego di metodiche di procreazione ritenute illecite dalla dottrina della Chiesa. Anzi, poiché il giudizio etico di illiceità è già stato chiaramente espresso dal magistero della Chiesa, spetta all’interprete assumere provvedimenti in merito e affrontare, nell’interesse della comunità dei fedeli, queste nuove fattispecie, regolamentandone gli effetti» (P. M ALCANGI, Tecniche di fecondazione artificiale…, cit., p. 431). 41 Cf M.P. FAGGIONI, Maternità surrogata…, cit., pp. 304-305. 42 P. MONETA , Procreazione artificiale…, cit., pp. 163-164. 39 40 claudia Ambroggi - [email protected] 190 Adolfo Zambon disomogenea e il diritto positivo in continua ridefinizione»43. Ma qui ci poniamo nell’ambito della conoscibilità di un possibile impedimento, più che dell’esistenza del medesimo. Sembra quindi che, rispetto al passato, la situazione è sufficientemente matura per porre tale impedimento, attesa anche la pertinenza a questioni concernenti i temi ultimi della vita, nelle quali si riflette in modo decisivo una determinata visione del mondo e delle cose, e in cui l’evoluzione degli ultimi anni – specie nell’ambito dell’etica secolare – ha portato a «una sorta di “esplosione” delle posizioni in campo, quasi che non esistesse più una linea guida condivisa nello svilupparsi del pensiero e del giudizio»44. In tale contesto, influiscono, tra l’altro, alcuni motivi fondamentali45, che vale la pena ricordare. Anzitutto, abbiamo la velocità dell’evoluzione nell’ambito della biogenetica, che non consente una «sedimentazione tra accadimento e metabolizzazione dell’accaduto», con conseguente difficoltà a interpretare le nuove possibilità nel contesto di un quadro di riferimento condiviso. In secondo luogo è presente una frammentazione dei riferimenti personali, unita alla possibilità di conoscenza e di relazione globale, fino a portare a una visione relativa dei diversi punti di vista etici. In terzo luogo, è presente una secolarizzazione della sessualità, che sembra spesso ridursi a «un mero bisogno evaso, come tanti altri ed effimeri, dal mercato». Infine, influisce la visione del tempo senza prospettive future, limitandosi il tutto a quanto riguarda il singolo individuo, senza altre considerazioni globali. A DOLFO Z AMBON Via Visinoni, 4/c 30174 Zelarino – Venezia M.P. FAGGIONI, Maternità surrogata…, cit., p. 289. A. Z ANOT TI, Introduzione, in D. ATIGHETCHI - D. M ILANI - A.M. R ABELLO, Intorno alla vita che nasce…, cit., p. 1. 45 Cf ibid., pp. 1-3. 43 44 claudia Ambroggi - [email protected] Risposte al questionario per il Sinodo Quaderni di diritto ecclesiale 28 (2015) 191-197 Snellimento della prassi canonica in ordine alla dichiarazione di nullità del vincolo matrimoniale?/5 La domanda in preparazione al Sinodo dei vescovi straordinario dell’ottobre 2014, che ha dato il via a questa serie di contributi, ha conosciuto nel corso dei mesi successivi importanti sviluppi: nell’agosto 2014 è stata costituita dal Sommo Pontefice una commissione incaricata di studiare la questione1, il tema è stato ripreso nella Relatio Synodi a conclusione del Sinodo 2014, ai nn. 48-492 e riappare anche nel nuovo questionario in vista del Sinodo ordinario dell’ottobre 20153. Nello stesso tempo, sono iniziate a circolare alcune proposte di modifica dei processi di nullità, tra le quali possiamo richiamare l’adozione di una procedura amministrativa al posto dell’attuale procedura giudiziale, l’abolizione dell’obbligo della doppia sentenza conforme e il passaggio dal tribunale collegiale al giudice unico. Mentre la prima di queste ipotesi è già stata affrontata – e sono state sollevate perplessità – nella riflessione proposta da P. Bianchi4, può essere utile riflettere sulle altre due. Il criterio di valutazione con cui confrontarsi per capire se questi cambiamenti siano opportuni è l’esplicita affermazione, contenuta nella comunicazione dell’istituzione della commissione di studio sopra richiamata, che lo scopo deve essere «di preparare una proposta di riforma del processo matrimoniale, cercando di semplificarne la procedura, rendendola più snella e salvaguardando il principio di indissolubilità del matrimonio». Analogamente il Sommo Pontefice, ricevendo il 5 novembre 2014 i partecipanti a un corso organizzato Cf Per la riforma del processo matrimoniale canonico, in «L’Osservatore Romano», 21 settembre 2014, p. 1. 2 Cf http://www.vatican.va/roman_curia/synod/documents/rc_synod_doc_20141018_relatio-synodi-familia_it.html (accesso: 1° febbraio 2015). 3 Cf n. 37, in http://www.vatican.va/roman_curia/synod/documents/rc_synod_doc_20141209_lineamenta-xiv-assembly_it.html (accesso: 1° febbraio 2015). 4 Cf P. BIANCHI, Snellimento della prassi canonica in ordine alla dichiarazione di nullità del vincolo matrimoniale?/2, in QDE 27 (2014) 316-317. 1 claudia Ambroggi - [email protected] 192 Massimo Mingardi dalla Rota Romana, ha ribadito che «c’è tanta gente che ha bisogno di una parola della Chiesa sulla sua situazione matrimoniale, per il sì e per il no, ma che sia giusta. […] la madre Chiesa deve fare giustizia e dire: “Sì, è vero, il tuo matrimonio è nullo — No, il tuo matrimonio è valido”»5. Occorre dunque chiedersi se le modifiche ora proposte, e che evidentemente rappresenterebbero per chi le propone uno snellimento delle procedure di nullità (nel primo caso perché si eliminano dei gradi di giudizio, nel secondo caso perché – incaricando della singola causa un solo giudice anziché tre – il tribunale riesce ad espletare, a parità di personale impiegato, un numero più elevato di cause), siano rispettose del criterio di salvaguardia dell’indissolubilità del matrimonio, ovvero siano tali da rispettare l’esigenza che vengano date decisioni “giuste”, secondo quanto sopra ricordato. Va rilevato che mentre la dinamica con cui la causa si evolve nei successivi gradi di giudizio è rilevabile statisticamente, e quindi esistono parametri oggettivi che si possono assumere per fare la verifica, il valore aggiunto del giudizio collegiale rispetto alla decisione del giudice unico è sperimentabile solo nel segreto della sessione decisoria, e quindi su questo tema è solo possibile fidarsi di quanto riferiscono i giudici che concretamente operano nelle cause dì nullità, a parte alcune ovvie considerazioni di buonsenso che possono essere proposte. Con riferimento dunque alla prima delle due proposte, accogliendo la quale verrebbe meno l’obbligatorietà della doppia decisione conforme attualmente richiesta ai sensi del can. 1684 affinché la sentenza sia esecutiva, e quindi già la sentenza affermativa di primo grado consentirebbe l’accesso a nuove nozze se essa non viene appellata entro i termini di legge, possono essere considerati due aspetti. Il primo consiste nel verificare quale percentuale di cause affermative in primo grado di giudizio venga poi confermata in secondo grado, al fine di accertare se statisticamente il giudizio di appello risulti sostanzialmente pleonastico o se incida significativamente nel modificare l’esito finale della causa. Dalle sentenze rotali pubblicate si rileva che esiste addirittura il caso di successivi Turni rotali che decidono in maniera difforme l’uno dall’altro, a testimonianza di quanto possa essere complessa, almeno in alcuni casi, la definizione di una 5 Questione di giustizia, in «L’Osservatore Romano», 6 novembre 2014, p. 8. claudia Ambroggi - [email protected] Snellimento della prassi canonica in ordine alla dichiarazione di nullità…?/5 193 causa di nullità. Ma per rimanere ai livelli che potremmo definire usuali di un iter di nullità, è possibile vedere, per esempio a livello dei tribunali ecclesiastici regionali italiani, quante sono le conferme. Il sito internet dei tribunali6 offre, sebbene non per tutti i tribunali di appello operanti in Italia per le cause di nullità matrimoniale, dei dati statistici che, al momento della stesura di queste note, si riferiscono all’attività giudiziaria dell’anno 2013 per come è stata presentata all’apertura dell’anno giudiziario 2014. I dati ivi pubblicati concernono cinque tribunali di appello. Il tribunale lombardo nel 2013 ha deciso 223 cause di appello che erano affermative in primo grado, e di queste 154 sono state ratificate con decreto, mentre 69 erano state rimesse alla via ordinaria di giudizio e di esse 35 si sono concluse con sentenza negativa; quindi, con un po’ di approssimazione, si può dire che un terzo delle cause affermative pervenute non è stato passibile di conferma immediata, e ben il 17% ha poi avuto un esito difforme da quello del primo grado. Al tribunale ligure, su 167 cause pervenute nel grado di appello, 17 sono state decise in modo difforme dalla decisione di primo grado (il 10%). Il tribunale triveneto, su 81 cause decise nel 2013 in grado di appello, ne ha confermate con decreto 66 mentre 15 erano state rinviate alla via ordinaria (il 18-19%) e di queste 6 hanno avuto decisione negativa (il 7%). Il tribunale etrusco ha deciso 181 cause, delle quali 165 sono state ratificate e 16 hanno percorso la via ordinaria, di cui 10 sono state confermate e 6 hanno avuto esito negativo (il 4%). Il tribunale campano ha deciso in appello 533 cause, di cui 459 ratificate con decreto e 43 decise con processo ordinario (8%), senza che sia desumibile quante sono state poi affermative e quante negative. Al di là del fatto che non tutti i tribunali elaborano le statistiche nel medesimo modo, e questo spiega il modo parzialmente difforme di proporre i dati, sembra di poter concludere che in circa un 20% delle cause provenienti dal primo grado non è possibile al tribunale superiore di raggiungere la certezza morale sulla pura base degli atti di primo grado, e in circa un 10% dei casi la decisione di appello rovescia quella di primo grado. Sembra difficile ritenere irrisorie percentuali di questo genere. Questo spaccato fotografa la situazione italiana, ma non ovunque la situazione è questa; altrove le percentuali di conferma del secondo Cf http://www.siti.chiesacattolica.it/pls/siti/consultazione.mostra_pagina?id_pagina=945 (accesso: 1° febbraio 2015); da quella pagina si accede, ove esistente, al sito del singolo tribunale ecclesiastico regionale, dove è possibile rinvenire i dati che vengono riportati nel testo. 6 claudia Ambroggi - [email protected] 194 Massimo Mingardi grado rispetto al primo sono più elevate, e raggiungono in alcuni casi la quasi totalità delle cause. Se anche fosse così, non se ne potrebbe comunque dedurre che l’esame di secondo grado sia superfluo, così come – per fare un’analogia – il fatto che gli esami presenti ai diversi livelli dei percorsi scolastici e accademici sia superato dalla stragrande maggioranza degli studenti non significa che gli esami siano inutili e rappresentino uno spreco di tempo e di energie per chi vi è coinvolto, in quanto è ragionevole ritenere che il buon livello degli studenti derivi precisamente dalla consapevolezza che esiste un momento di verifica, e che se gli esami non ci fossero il livello di preparazione degli studenti rischierebbe di essere alquanto inferiore. Ma si potrebbero individuare ulteriori riscontri. L’estensore di queste note, in vista di una relazione (che verrà a suo tempo pubblicata) da tenere nel 2014 all’annuale corso che la Rivista organizza per gli operatori dei tribunali, ha recensito le sentenze rotali finora pubblicate in tema di esclusione della dignità sacramentale del matrimonio. Su sei cause esaminate, tutte conclusesi negativamente almeno in riferimento a questo capo, ben quattro erano state affermative in primo grado, e sono poi state rovesciate in secondo grado (che in tre casi è stato emesso da un tribunale locale e poi confermato in Rota, nel caso restante direttamente in Rota). A meno di ritenere eccessivamente rigoroso il Tribunale Apostolico (ma in realtà si è visto che in tutti i casi di appello in sede locale già un tribunale di appello inferiore aveva contraddetto il giudizio di primo grado), bisogna concludere che è stato il tribunale di primo grado a giungere troppo frettolosamente a una decisione affermativa. Se non ci fosse stato l’obbligo di una seconda decisione conforme per rendere esecutiva la sentenza, quante di queste cause affermative in primo grado sarebbero state effettivamente appellate? Avremmo avuto quattro casi su sei di “falso affermativo”. Si comprende dunque come il mantenimento del requisito della doppia decisione conforme incida significativamente sull’esito della causa, e sia importante per evitare il rischio – al di là delle intenzioni di chiunque, su cui non è lecito fare supposizioni e che vanno pregiudizialmente ritenute sincere – di avallare di fatto un divorzio cattolico. Per inciso, in questi quattro casi su sei di “falso affermativo” tre riguardavano cause non italiane, e sono precisamente le tre cause il cui esito è stato contraddetto da un tribunale di appello locale; per cui si smentisce, almeno in riferimento a questo piccolo campione, l’impressione che fuori d’Italia ci sia più unanimità tra primo e secondo grado di quanta ce ne sia presso i tribunali ecclesiastici italiani. claudia Ambroggi - [email protected] Snellimento della prassi canonica in ordine alla dichiarazione di nullità…?/5 195 Peraltro, ed è la seconda considerazione da fare circa la questione dell’obbligo della doppia decisione conforme, non si deve dimenticare che esiste già una procedura abbreviata per l’esame in secondo grado delle cause giudicate affermativamente in primo, e – se ci sono i presupposti per procedere con tale modalità – il giudizio di secondo grado si risolve in modo rapido e con un onere di lavoro limitato. Il grado di appello diventa veramente impegnativo, in termini di tempo e di risorse da impiegare, se il processo di primo grado è stato svolto in modo approssimativo e quindi deve essere integrato mediante il ricorso alla via ordinaria. Pertanto, a conclusione di tutto il percorso, sembra di dover dire che in relazione ai due (o talvolta tre) gradi di giudizio la via da intraprendere, per una soluzione che snellisca l’iter processuale, non è eliminare l’istanza di controllo, ma svolgere accuratamente il processo di primo grado, cosicché l’esame in grado di appello possa risolversi, appunto, in una verifica di quanto già avvenuto (e in questo senso si è chiamata subito sopra questa fase “istanza di controllo” sia pure con intenti non riduttivi della sua portata), senza bisogno di ricominciare tutto da capo. L’altra innovazione proposta per una semplificazione del processo di nullità matrimoniale che qui consideriamo è l’abbandono del tribunale collegiale a favore del giudice unico. Su questo tema, come detto, non esistono riscontri statistici, in quanto l’eventuale diversità di giudizio sulla causa da parte dei giudici componenti il collegio rimane confinata nel segreto della sessione decisoria e non se ne ha conoscenza all’esterno. Quanti ricoprono l’ufficio di giudici, tuttavia, sanno bene quanto sia proficuo il confrontarsi tra loro sul merito della causa, e sanno anche come sia possibile, in caso di giudizi non convergenti, che uno di loro (o talvolta anche due!) venga convinto dalle argomentazioni proposte dai colleghi e muti il proprio orientamento (cf can. 1609 § 4). Questo non è indice di superficialità, ma deriva dall’oggettiva complessità che non di rado le cause di nullità hanno. Sotto un altro profilo, è facilmente immaginabile quanto sia rasserenante per il singolo membro del collegio poter condividere con altri due giudici (anzi con altri cinque, se si considerano i due gradi di giudizio) l’onere della decisione, senza doversi assumere in modo esclusivo la responsabilità di una valutazione così rilevante come è quella del riconoscimento di nullità di un matrimonio. Si potrebbe dire ancora di più. Chi scrive è stato personalmente coinvolto in una causa di primo grado che, dopo appello rivolto diret- claudia Ambroggi - [email protected] 196 Massimo Mingardi tamente alla Rota Romana e dopo che un Turno di tre Uditori aveva ritenuto di non poter confermare per decreto la sentenza di primo grado, è stata decisa con una sentenza, recentemente pubblicata, emessa da un collegio di cinque giudici (e, per inciso, sono stati risolti affermativamente più capi di quanto fosse avvenuto in primo grado). Presumibilmente, il tribunale apostolico ha ritenuto che quella causa fosse troppo complessa per essere giudicata solo da un collegio di tre persone, e l’ha affidata all’esame di cinque. Desta dunque quanto meno meraviglia il fatto che, mentre a livello della Rota Romana – e nonostante la competenza che hanno i Prelati Uditori – non ci si fa scrupolo di sottoporre una causa al giudizio anche di cinque o di sette giudici7, per i tribunali locali si voglia instaurare, come prassi generalizzata, che la decisione sia affidata a un giudice unico. È importante sottolineare che quel che creerebbe problema sarebbe proprio l’instaurazione di una prassi generalizzata di questo tipo, perché per provvedere a singole situazioni locali basta applicare la legislazione canonica vigente, senza la necessità di alcuna innovazione: infatti il can. 1425 § 4 già prevede che, nei territori in cui non è possibile costituire in primo grado di giudizio il collegio, la conferenza episcopale possa permettere al vescovo diocesano di affidare le cause a un giudice unico chierico, finché perdura la situazione di impossibilità. Opportunamente, la responsabilità della scelta è affidata – secondo un sano principio di sussidiarietà – alla valutazione prima della conferenza dei vescovi e poi dei singoli vescovi diocesani, e già nella Chiesa la prassi è diffusa in molti luoghi. Inoltre, è doveroso rilevare che, tanto maggiormente quanto più la causa è ben istruita, ai giudici che non hanno l’onere della stesura della sentenza (così come a quelli cui è affidato l’esame di secondo grado) è richiesto un compito relativamente limitato, e sembra veramente di poter dire che non c’è proporzione tra l’onere tutto sommato circoscritto che ad essi è richiesto e il vantaggio che deriva dal loro intervento in ordine all’accuratezza e alla serietà della decisione. A più riprese è emerso dalle precedenti considerazioni come il momento decisorio, in primo e ancor di più in secondo grado, possa essere risolto celermente e senza scrupoli di coscienza per i giudici, Ipotesi non soltanto prevista in astratto dall’art. 18 § 3 delle Norme rotali vigenti (cf A AS 86 [1994] 514), ma che evidentemente viene concretamente attuata, come dimostra il caso specifico citato nel testo. 7 claudia Ambroggi - [email protected] Snellimento della prassi canonica in ordine alla dichiarazione di nullità…?/5 197 se l’istruttoria per la raccolta delle prove è stata ben condotta. Quando invece l’istruttoria è superficiale o approssimativa, i rischi sono notevoli, sia qualora la causa proceda comunque approdando a una decisione non adeguatamente fondata, sia qualora i giudici ritengano di non poter decidere sulla base degli elementi a disposizione e richiedano un supplemento istruttorio, il che può avvenire in primo grado (mediante un cosiddetto dilata) come in secondo (attraverso il rinvio all’esame ordinario). In queste ultime eventualità, davvero i tempi di svolgimento della causa e l’impiego di risorse da parte del tribunale si dilatano a dismisura, con riflessi penalizzanti sia per le parti in causa sia per il tribunale che è investito di un consistente surplus di lavoro. Se ne deduce pertanto che massima cura dovrebbe essere messa nell’adeguata conduzione dell’istruttoria, che – almeno a personalissima opinione di chi scrive – appare davvero essere lo snodo essenziale dell’intero iter processuale, in grado di influire in modo determinante sia sulla rapidità di svolgimento del processo sia sulla correttezza della decisione giudiziale. Alla luce di queste ultime riflessioni, non si può non rilevare il dato, un po’ singolare, che le proposte di modifica processuale finora avanzate si concentrino sulla fase decisoria dell’iter, trascurando le altre, e tra queste la fase istruttoria a cui si è appena fatto cenno, che invece potrebbero giovarsi di alcuni interventi correttivi. Per esempio, in alcuni tribunali si riscontra una crescente conflittualità delle parti, con istanze istruttorie quantitativamente spropositate a scopo esclusivamente dilatorio e con il rischio, se esse non vengono integralmente accolte, di trovarsi davanti a un ricorso al collegio che comporta, ancora una volta, un aggravio sia di tempo (e quindi di durata della causa) sia di impiego di energie per le persone coinvolte. Una piccola innovazione, capace però di snellire l’iter delle cause di nullità più conflittuali, potrebbe essere l’inibizione del ricorso al collegio contro le decisioni riguardanti la moderazione dell’istruttoria, limitando al più la possibilità di replica a una rimostranza motivata a colui – preside o ponente – che ha rifiutato l’ammissione di una prova. Ci sembra che su questa linea possano muoversi più efficacemente eventuali modifiche tese a una maggiore celerità delle cause, conservando al delicatissimo momento della decisione tutte le garanzie da cui oggi è tutelato, compresi il collegio di tre giudici e la necessità della doppia decisione conforme. a cura di Massimo Mingardi claudia Ambroggi - [email protected] Quaderni di diritto ecclesiale 28 (2015) 198-201 La cronaca e le relazioni Anche nell’anno 2012 il corso residenziale di diritto canonico applicato organizzato dalla redazione della rivista Quaderni di diritto ecclesiale, col patrocinio della Facoltà di Diritto canonico della Pontificia Università Gregoriana e dell’editrice Ancora di Milano, si è svolto, da lunedì 20 a giovedì 23 agosto, con una durata leggermente ridotta, nella consueta e accogliente cornice della Domus Pacis di Assisi. Al centro dei lavori alcune tematiche di carattere amministrativo relative ai beni ecclesiastici. Collaudato ormai lo schema degli incontri: relazione da parte di un esperto, lavoro di gruppo e quindi restituzione assembleare. La competenza non solo teorica, ma anche pratica dei relatori, per lo più impegnati nelle cancellerie delle curie diocesane, unita al confronto nei gruppi di studio e quindi alla possibilità di condivisione a livello assembleare, ha consentito a tutti i partecipanti di fare un’esperienza certamente proficua e arricchente. Di grande aiuto, d’altra parte, è stata la presenza di un gruppo di corsisti particolarmente attivo e motivato che molto ha contribuito alla riuscita del corso stesso. I partecipanti, a seconda del loro ufficio e ministero ovvero dei loro interessi, sono stati divisi in quattro gruppi: il primo, composto soprattutto da vicari generali, era guidato da mons. Adolfo Zambon e da mons. Giuliano Brugnotto; il secondo, dove prevalente era la presenza di economi diocesani e di collaboratori degli uffici amministrativi delle curie diocesane, era accompagnato da don Francesco Grazian e da mons. Massimo Mingardi; infine due gruppi di cancellieri e operatori di cancelleria guidati rispettivamente da mons. Marino Mosconi e don Gianni Trevisan e da don Gianluca Marchetti e don Matteo Visioli. In un clima di grande fraternità e amicizia non sono mancati momenti di convivialità come la cena di gala presso la stessa Domus Pacis; così come, ogni giorno, ci si è ritrovati per la celebrazione della liturgia delle ore e della S. Messa. Per quanto concerne le relazioni proposte il corso è iniziato sotto i migliori auspici: S.E. il card. Velasio De Paolis, già presidente della claudia Ambroggi - [email protected] La cronaca e le relazioni 199 Prefettura degli affari economici della Santa Sede, insigne canonista e di molti apprezzato professore, ci ha onorato con la sua presenza e la sua vasta e approfondita conoscenza del diritto canonico. Nella sua prolusione – che non viene pubblicata sulla rivista –, il porporato non solo ha mostrato la sua competenza nella materia, ma soprattutto ha saputo trasmettere quella sensibilità pastorale e attenzione all’uomo e all’evangelizzazione che è a fondamento del ministero del canonista. Così, ancor prima di entrare in alcuni specifici rilievi circa il rapporto beni temporali e Chiesa, tema tra l’altro sul quale il card. De Paolis può vantare numerosissimi e approfonditi studi, egli ha saputo suggerire piste di riflessione per un rinnovato riposizionamento del diritto in genere e di quello canonico in specie all’interno di una visione complessiva e integrale dell’uomo e della Chiesa. La relazione ha quindi esposto, in modo sintetico ed essenziale, il tema delle realtà temporali nell’Antico Testamento, nell’esempio e nell’insegnamento di Gesù, nella vita delle prime comunità cristiane, nei padri della Chiesa e infine nel magistero della Chiesa. Sono state quindi affrontate questioni decisive come quelle relative alla definizione di bene ecclesiastico e alle ragioni per le quali la Chiesa ha diritto ad usare dei beni temporali in ordine al conseguimento dei suoi fini propri. Il relatore ha poi approfondito due peculiari aree tematiche: quella delle finalità dei beni temporali della Chiesa e quella della titolarità degli stessi beni. Stimolanti infine alcune annotazioni circa la canonizzazione della legge civile nell’ambito dell’amministrazione dei beni temporali, che comunque si deve attenere sempre al principio secondo il quale la legge civile canonizzata non deve essere contro il diritto divino e comunque vige «a meno che il diritto canonico non disponga diversamente» e quelle relative ad alcune norme canoniche significative come il rispetto della volontà dei fedeli e il rapporto tra superiore e amministratore. Martedì mattina mons. Adolfo Zambon, all’epoca del corso direttore dell’ufficio nazionale per i problemi giuridici della CEI, ha tracciato il quadro complessivo del tema oggetto dei lavori del corso soffermando l’attenzione su alcune categorie come quelle di: bene ecclesiastico, persone fisiche e giuridiche e il loro rapporto con i beni, persone giuridiche private. La relazione è quindi continuata analizzando il concetto di amministrazione in genere e in specie: amministrazione ordinaria, amministrazione straordinaria, gli atti di maggiore importanza (can. 1277), gli atti di alienazione e quelli potenzialmente peggiorativi (cann. 1291-1295) claudia Ambroggi - [email protected] 200 Gianluca Marchetti e si è conclusa con alcune annotazioni sui principi della buona amministrazione e sul compito della vigilanza. Nel pomeriggio del 21 agosto, il cancelliere della curia di Verona, don Francesco Grazian, nella sua relazione, si è invece soffermato sui soggetti e soprattutto sulle procedure dell’amministrazione. Per quanto riguarda i soggetti, in particolare: il vescovo e l’ordinario diocesano, il consiglio diocesano per gli affari economici, il collegio consultori, il consiglio presbiterale, l’ufficio amministrativo diocesano, l’economo, l’ufficio beni culturali e la cancelleria. Nella seconda parte della sua relazione, don Grazian ha fornito alcune interessanti annotazioni su quali procedure utilizzare e a chi riferirsi nel caso di atti di straordinaria amministrazione e di atti di alienazione. Mercoledì 22 agosto, in mattinata, mons. Marino Mosconi, cancelliere della curia arcivescovile di Milano, ha messo a disposizione dei corsisti un quadro articolato e completo del complesso tema del sostentamento del clero e dell’istituto diocesano sostentamento del clero [= IDSC]. Dopo aver indicato i riferimenti giuridici, il relatore ha puntualmente analizzato i temi di maggior rilievo: l’iscrizione al sistema nazionale di sostentamento del clero, i sacerdoti aventi diritto alla remunerazione e iscritti all’IDSC, i criteri di iscrizione all’IDSC e le convenzioni (per esempio nei casi in cui un presbitero secolare svolge il proprio ministero in una diocesi diversa da quella di incardinazione). Si è quindi soffermato sull’entità del sostentamento del clero e del contributo richiesto ai singoli enti: determinazione della remunerazione e dei punti aggiuntivi e contributo al sostentamento da parte delle parrocchie e degli altri enti. Altri argomenti trattati sono stati: il sostentamento del clero in condizioni di uscita del servizio ministeriale (pensione integrativa, abbandono del ministero); il provvedimento dell’ordinario con cui si determina annualmente l’importo della remunerazione dovuta dai diversi enti, gli eventuali ricorsi contro i provvedimenti dell’IDSC. Infine mons. Mosconi ha focalizzato l’attenzione sullo stesso IDSC sottolineando in modo particolare: l’obbligo di costituzione e l’identità, lo statuto con gli adempimenti richiesti per la sua approvazione e le eventuali modifiche, le modalità per la nomina degli organi di governo del medesimo istituto, le modalità per la designazione dei membri dei consigli di amministrazione e dei revisori dei conti, la vigilanza e le licenze dell’ordinario e quindi i rapporti con l’istituto centrale sostentamento clero. Nel pomeriggio di mercoledì 22 agosto mons. Giuliano Brugnotto, docente di diritto canonico e cancelliere della curia diocesana di Treviso, ha trattato il tema dei beni culturali e di quelli «di interesse liturgico». claudia Ambroggi - [email protected] 201 La cronaca e le relazioni In primo luogo sono state specificate alcune nozioni di base come quella di res sacra, cose preziose, beni di interesse liturgico e quindi quella di beni culturali. Chiarimento necessario per affrontare il tema dei soggetti competenti in materia di beni di interesse liturgico: Sede Apostolica, vescovo diocesano, conferenza episcopale. Preziose e utili alcune indicazioni pratiche circa alcuni uffici di curia come l’ufficio liturgico diocesano e quello per i beni culturali e l’arte sacra. Un’ultima annotazione è stata dedicata alla questione della verifica dell’interesse culturale dei beni immobili di proprietà degli enti ecclesiastici. Ha concluso il corso, giovedì 23 agosto in mattinata, la relazione di don Gianluca Marchetti, cancelliere della curia diocesana di Bergamo, dedicata al tema delle offerte, delle tasse e dei tributi. In modo semplice ed essenziale sono state analizzate le disposizioni codiciali in materia di: offerte per la celebrazione e l’applicazione di Sante Messe, Messe iterate e plurintenzionali, legati per la celebrazione di Messe, offerte in occasione dell’amministrazione di sacramenti e sacramentali, offerte finalizzate in giornate prescritte (collette), questue, tributi ordinari e straordinari. A CURA DI GIANLUCA M ARCHETTI claudia Ambroggi - [email protected] Quaderni di diritto ecclesiale 28 (2015) 202-229 I beni ecclesiastici: amministrazione e vigilanza Il titolo proposto per la presente relazione permette di incentrare l’attenzione attorno a tre nozioni-base, ossia quelle di bene ecclesiastico, di amministrazione e di vigilanza. Considerata la natura del corso, si intendono fornire alcuni elementi basilari attorno a questi tre concetti, senza entrare in fattispecie dettagliate, che saranno oggetto della riflessione successiva. Inoltre, l’attenzione sarà focalizzata soprattutto sulle realtà della diocesi e della parrocchia, oltre a quelle di altri enti sottoposti alla vigilanza del vescovo diocesano, proprio a partire dalla proposta del corso e dai partecipanti al medesimo. I beni ecclesiastici Le persone fisiche e giuridiche e il loro rapporto con i beni Il rapporto con i beni è insito nella vita di qualsiasi persona. Ogni persona umana, nel suo agire, infatti, si rapporta con i beni terreni, ricercati come necessari o almeno utili per la propria esistenza e per il perseguimento di determinati obiettivi. Questo vale non solo per le persone fisiche, ma anche per le persone giuridiche, ossia per un insieme di persone o di cose ordinato a un fine, corrispondente alla missione della Chiesa, che trascende il fine dei singoli (cf can. 114 § 1). Le persone giuridiche, come quelle fisiche, sono soggetti di obblighi e di diritti, corrispondenti alla loro natura (cf can. 113 § 2)1, che trascendono, anche in questo, le singole persone fisiche che ne fanno parte o a cui vengono imputate peculiari responsabilità, come nel caso degli amministratori per una fondazione. 1 «Si tratta di organismi per mezzo dei quali la Chiesa agisce istituzionalmente per il conseguimento delle proprie finalità. Più propriamente, esse sono enti ideali, a sostrato reale, che servono come forme giuridiche di unificazione e di concentrazione di diritti e obblighi – distinti e diversi dalla somma dei diritti e degli obblighi dei membri che le compongono –, per il perseguimento potenziato e prolungato nel tempo di interessi umani» (A. PERLASCA, I beni delle persone giuridiche private [can. 1257 § 2], in QDE 12 [1999] 380). claudia Ambroggi - [email protected] I beni ecclesiastici: amministrazione e vigilanza 203 Anche le persone giuridiche, come le persone fisiche, si relazionano necessariamente con i beni. Questi sono, infatti, necessari per il raggiungimento delle proprie finalità. Anzi, nel caso specifico delle pie fondazioni autonome, i beni costituiscono il substrato necessario e ineludibile della loro stessa esistenza, dal momento che la fondazione è una «massa di beni» (can. 1303 § 1, 1°) ordinata a un fine «attinente ad opere di pietà, di apostolato o di carità sia spirituale sia temporale» (can. 114 § 2). La soggettività della persona giuridica comporta un peculiare aspetto anche in relazione ai beni. Infatti, la persona giuridica «è titolare di doveri e di diritti, che non coincidono né rappresentano la semplice somma dei doveri e dei diritti di coloro che ne sono membri o che, comunque, costituiscono il sostrato umano sul quale essa si radica. La persona giuridica ha dunque una capacità giuridica sua propria. Ha altresì la capacità di agire, cioè la prerogativa di esercitare, attraverso i legittimi rappresentati e a norma degli statuti, i diritti che le sono propri»2. Le persone giuridiche possono essere private o pubbliche (cf can. 116 § 1). Queste ultime sono costituite dalla competente autorità ecclesiastica per adempiere, a nome della Chiesa, il compito loro affidato in vista del bene pubblico (cf can. 116 § 1), come l’insegnamento della dottrina cristiana o l’incremento del culto pubblico o altre finalità spirituali cui non si sia sufficientemente provveduto mediante iniziative private (cf can. 301). La distinzione appena ricordata è fondamentale, in quanto solo i beni delle persone giuridiche pubbliche sono beni ecclesiastici, che quindi sono retti dai canoni del libro V del Codice, oltre che dai propri statuti, se presenti (cf can. 1257 § 13). Tale specificità non sorprende. Infatti, i beni terreni sono strumentali al raggiungimento delle finalità proprie della persona giuridica; i fini propri per cui la Chiesa cattolica ha il diritto nativo di acquistare, possedere, amministrare e alienare i beni temporali sono ordinare il culto divino, provvedere a un onesto sostentamento del clero e degli altri ministri, esercitare le opere di apostolato sacro e di carità (cf can. 1254). Si coglie immediatamente la stretta correlazione tra I D., La capacità patrimoniale degli istituti religiosi, in QDE 22 (2009) 121. «Bona temporalia omnia quae ad Ecclesiam universam, Apostolicam Sedem aliasve in Ecclesiam personas iuridicas publicas pertinent, sunt bona ecclesiastica et reguntur canonibus qui sequuntur, necnon propriis statutis». 2 3 claudia Ambroggi - [email protected] 204 Adolfo Zambon la natura e le finalità delle persone giuridiche pubbliche e i fini propri del richiamato diritto nativo ai beni da parte della Chiesa cattolica4. Infatti, «l’ecclesialità, comune a tutti questi beni, deriva dalla destinazione ai fini propri della Chiesa. Questo, però, non impedisce che la proprietà appartenga esclusivamente a ciascuno degli enti singolarmente considerati»5. La qualifica di bene ecclesiastico è fondamentale, in quanto i beni delle «persone giuridiche ricevono la qualifica di beni ecclesiastici (can. 1257 § 1), il che comporta che tutti i detti beni vengono assoggettati ad un controllo e ad una vigilanza specifica (cf. can. 1276), più intensa rispetto a quella sui beni delle persone giuridiche private. Gli atti di straordinaria amministrazione sono sottoposti ad autorizzazioni preventive (cf. can. 1277), ogni anno tali persone devono presentare all’autorità ecclesiastica competente un rendiconto dell’amministrazione dei loro beni (cf. can. 1287 § 1), ecc. In questo modo tutti questi beni vengono ricondotti ad una certa unità: sono beni della Chiesa, e questa vuole che siano custoditi, che non escano dal patrimonio della Chiesa e, infine, che siano usati per finalità confacenti la natura della Chiesa»6. In sintesi, a partire dal soggetto che ne è titolare, si possono identificare tre tipologie di beni: a) i beni della persona fisica, che sono beni privati; b) i beni appartenenti a una persona giuridica privata; c) i beni di una persona giuridica pubblica. Solo questi ultimi sono beni ecclesiastici7. Già il Codice pio-benedettino stabiliva che «bona temporalia, sive corporalia, tum immobilia tum mobilia, sive incorporalia, quae vel ad Ecclesiam universam et ad Apostolicam Sedem vel ad aliam in Ecclesia personam moralem pertineant sunt bona ecclesiastica» (can. 1497 § 1). Tuttavia, proprio a partire dalla stretta relazione tra bene ecclesiastico e finalità propria della Chiesa, è stato osservato come «non mancavano Autori – pochi per la verità – i quali affermavano che con l’espressione beni ecclesiastici s’intende far riferimento a tutti i beni materiali o immateriali, immobili o mobili destinati immediatamente o mediatamente al conseguimento dei fini della Chiesa, cioè destinati al soddisfacimento degli scopi di culto e dei bisogni dei religiosi – chiese, arredi sacri ecc. – o al sostentamento degli ecclesiastici ed a procurare i mezzi necessari per l’esercizio del culto – fondi rustici, denaro, ecc.» (A. PERLASCA, Personalità giuridica e aspetti patrimoniali, in «Ius Ecclesiae» 22 [2010] 57). 5 PONTIFICIO CONSIGLIO PER I TESTI LEGISLATIVI, Nota esplicativa La funzione dell’autorità ecclesiastica sui beni ecclesiastici, 12 febbraio 2004, in «Communicationes» 36 (2004) 24-32, n. 1. Il numero 2 della medesima nota riafferma il principio secondo cui «la proprietà appartiene alle singole persone giuridiche». 6 L. NAVARRO, Considerazioni riguardo al ruolo della personalità giuridica nell’ordinamento canonico, in «Ius canonicum», volumen especial 1999, Escritos en honor de Javier Hervada, p. 133. 7 «La qualifica di “ecclesiastico” riferita a un bene è dunque tecnica, e da assumersi in senso stretto: indica l’appartenenza di un determinato bene a una persona morale o a una persona 4 claudia Ambroggi - [email protected] I beni ecclesiastici: amministrazione e vigilanza 205 Le Res sacrae Accanto ai beni ecclesiastici esistono specifiche categorie di beni che, pur non essendo tali, quindi non appartenenti a una persona morale o a una persona giuridica pubblica, sono destinatari di specifiche indicazioni, anche vincolanti. In questo caso, si considera esplicitamente la natura stessa del bene, non tanto la persona che ne ha il dominio o il possesso. Ci si può riferire, in particolar modo, alle res sacrae8, che non sono necessariamente beni ecclesiastici, potendo essere di proprietà di persone fisiche oppure di persone giuridiche private9. Si pensi, a titolo esemplificativo, a un calice o a un’immagine sacra, di proprietà di una persona giuridica privata o di un privato. Altri esempi possono essere ricavati dai cann. 1222 § l, qualora si tratti di chiesa o cappella di proprietà di privati, e 1269. Per tali res sacrae il Codice prevede una peculiare restrizione nel campo della prescrizione acquisitiva. Infatti, solo se già di proprietà di privati possono essere acquisite tramite la prescrizione da altri privati, pur senza adibirle a usi profani. Se tali beni, invece, appartengono a una persona giuridica pubblica, questi possono essere acquistati «soltanto da un’altra persona giuridica ecclesiastica pubblica» (can. 1269). Alla base di tale disposizione sta «precisamente il significato di fede, o l’antichità – e quindi la testimonianza storica – oppure la destinazione al culto – mediante la dedicazione o la benedizione – che fondano e giustificano i dettami codiciali»10. Quanto detto motiva anche la richiesta, per l’alienazione di ex voto donati alla Chiesa o di oggetti preziosi di valore storico o artistico, della licenza della Santa Sede, prescindendo dal valore economico degli stessi. giuridica pubblica, cioè ad un’entità che, in forza della stessa disposizione divina (persona morale), o costituita dal diritto oppure dalla competente autorità ecclesiastica (persona giuridica), svolge nomine Ecclesiae compiti di rilevanza istituzionali, coinvolgendo, benché non direttamente, la responsabilità dell’autorità ecclesiastica. Ciò spiega e giustifica la particolare intensità dei controlli previsti dal diritto: mediante la vigilanza sui beni, si verifica, almeno in qualche modo, l’attività del soggetto giuridico cui essi appartengono» (A. PERLASCA, La capacità patrimoniale degli istituti religiosi, cit., pp. 124-125). 8 Sull’argomento si rinvia al contributo di G. BRUGNOTTO, I beni culturali e quelli di interesse liturgico, di prossima pubblicazione nella rivista. 9 «La qualifica di res sacra o pretiosa non è sostitutiva o comprensiva della qualifica di bene ecclesiastico. In pratica vi può essere un bene ecclesiastico che è anche una res pretiosa o sacra, ma vi possono essere res pretiosae o sacrae che non sono beni ecclesiastici» (A. PERLASCA, I beni delle persone giuridiche private…, cit., p. 390). 10 Ibid., p. 391. claudia Ambroggi - [email protected] 206 Adolfo Zambon Altre disposizioni presenti a partire dalla peculiare tipologia di beni riguardano, a titolo esemplificativo, quanto disposto per le offerte della Santa Messa (cf cann. 945-958). Di fatto si è alla presenza di «limitazioni pubbliche della proprietà privata»11, anche se in realtà sembra configurarsi solo un «potere morale»12, dal momento che oggettivamente mancano i mezzi e le modalità concrete per conoscere tempestivamente tali alienazioni e per esigere, di conseguenza, quanto prescritto dalla legislazione codiciale. Le persone giuridiche private Nell’ordinamento canonico i beni delle persone giuridiche private non sono beni ecclesiastici. Questo tuttavia non esclude che tali persone giuridiche operino ugualmente «sotto la vigilanza dell’autorità ecclesiastica»13 competente. Tale vigilanza si radica nella «dimensione ecclesiale» di detti enti, in quanto «essi sono destinati al perseguimento di fini ecclesiali, appartengono a soggetti eretti in persona giuridica dalla competente autorità della Chiesa e per questo sono sotto il controllo e la vigilanza della stessa»14. Questo giustifica la situazione peculiare dei loro beni, che «non sono beni ecclesiastici nel senso tecnico del termine ma non sono neppure beni completamente estranei alla missione della Chiesa, e, quindi, alla sua legittima autorità. Le persone giuridiche private, infatti, benché non inserite nell’organizzazione ufficiale della Chiesa, sono propriamente Chiesa. Sorge così il diritto di vigilanza da parte dell’autorità ecclesiastica J.P. SCHOUPPE, Elementi di diritto patrimoniale canonico, Milano 20082, p. 47. L’autore esemplifica la distinzione tra bene ecclesiastico e res sacra nei seguenti termini: «la categoria canonica di bene ecclesiastico non deriva dalla classificazione quale res sacra ma dalla natura (pubblica o meno) della persona giuridica ecclesiastica titolare. Un calice appartenente a un sacerdote o facente parte del materiale di una cappella privata, ad esempio, sarà un bene sacro privato. Comunque, la relazione col culto attribuisce loro una peculiare dignità che il diritto canonico tutela, anche nei confronti della legge civile, per mezzo di un regime amministrativo proprio. Si parla di limitazioni pubbliche della proprietà privata» (L. cit.). 12 A. PERLASCA, I beni delle persone giuridiche private…, cit., p. 390. 13 V. DE PAOLIS, I beni temporali della Chiesa, Bologna 20112, p. 44. 14 Ibid., p. 123. A partire da tale caratteristica dei beni della persona giuridica privata, non manca chi suggerisce la terminologia, a mio avviso non totalmente soddisfacente, di «bene ecclesiale privato». La scelta di tale espressione intenderebbe esprimere «adeguatamente la natura di questi mezzi: anche se non gestiti ufficialmente in nome della Chiesa, devono essere adoperati per scopi ecclesiali, a norma degli statuti propri, e sotto la vigilanza dell’autorità ecclesiastica competente» (J.P. SCHOUPPE, Elementi di diritto patrimoniale canonico, cit., p. 38). Su tale proposta, cf V. DE PAOLIS, I beni temporali della Chiesa, cit., pp. 43-44. 11 claudia Ambroggi - [email protected] I beni ecclesiastici: amministrazione e vigilanza 207 sulle persone giuridiche private, in particolare, sull’adeguamento delle loro attività patrimoniali ai fini ecclesiastici»15. Il legame con l’autorità ecclesiastica si evidenzia nella stessa concessione della personalità giuridica. Infatti, «tali beni sono pur sempre destinati al conseguimento delle finalità della Chiesa. Precisamente per il fatto che la personalità giuridica privata è sempre concessa dall’autorità ecclesiastica sulla scorta di valutazioni di opportunità e necessità, si giustifica il controllo e la vigilanza che quest’ultima esercita sui beni stessi»16. Lo stesso riconoscimento dello statuto, pur in mancanza di concessione della personalità giuridica privata (come può accadere per una associazione privata di fedeli), rende manifesto il legame con l’autorità ecclesiastica e la sua conseguente attività di vigilanza (cf can. 325 § 117). Gli stessi statuti, infatti, «non sono semplice volontà privata, ma sono espressione di un unum sentire con la Chiesa, essendo approvati da parte delle competenti autorità ecclesiastiche»18. I medesimi statuti, poi, reggono la persona giuridica privata, e a essi bisogna fare riferimento per quanto riguarda i beni temporali. Questi, infatti, sono amministrati in base agli statuti propri di ciascuna persona giuridica, e non dai canoni del libro V del Codice di diritto canonico, a meno che non sia disposto espressamente altro (cf can. 1257 § 2)19. L’aA. PERLASCA, I beni delle persone giuridiche private…, cit., p. 389. Ibid., p. 384. 17 «L’associazione privata di fedeli amministra liberamente i beni che possiede, secondo le disposizioni degli statuti, salvo il diritto dell’autorità ecclesiastica competente di vigilare perché i beni siano usati per i fini dell’associazione». Relativamente agli enti delle associazioni senza personalità giuridica e, in generale, ai «beni degli enti non personificati», in effetti, «non si può non vedere nell’ordinamento canonico l’esistenza di alcune realtà che, anche se non sono formalmente personificate, sono soggetti di rapporti giuridici, hanno obblighi e diritti (così viene stabilito esplicitamente dal can. 310 per le associazioni private). E tali realtà godono di beni temporali per il raggiungimento dei loro fini. Ora, il legislatore non si è preoccupato di conferire un regime concreto a tali beni, per cui non rimane che la necessità di valutare prudenzialmente, nelle concrete fattispecie, le situazioni di giustizia che su di essi si vengono a creare. Certamente, l’ambita sicurezza nel traffico giuridico richiederebbe forse qualcos’altro, qualche specificazione, ma giova anche ricordare che la sicurezza legale lavora spesso contro la necessaria autonomia, restringe, per così dire, gli ambiti di libertà. La flessibilità caratteristica dell’ordinamento della Chiesa permette la sopravvivenza di “contraddizioni” di questo genere, che manifestano anche la sua vitalità» (J. M IÑAMBRES, I beni ecclesiastici: nozione, regime giuridico e potere episcopale [cann. 1257-1258], in A A.VV., I beni temporali della Chiesa, Città del Vaticano 1999, p. 14). 18 A. PERLASCA, I beni delle persone giuridiche private…, cit., p. 387. 19 Sul significato del termine expresse si rinvia a J.P. SCHOUPPE, Elementi di diritto patrimoniale canonico, cit., p. 41: «I termini “nisi expresse aliud caveatur” devono intendersi in senso ampio, giacché “expresse” è distinto da “esplicite”. Per introdurre un’eccezione espressa, basterebbe 15 16 claudia Ambroggi - [email protected] 208 Adolfo Zambon zione di vigilanza, in particolare quella svolta sulla corretta amministrazione, comporta, pertanto, la necessità di prestare attenzione particolare agli statuti di tali persone giuridiche, soprattutto su tali aspetti specifici. Un ulteriore compito cui prestare attenzione è la devoluzione dei beni conseguente all’estinzione dell’ente. È stato osservato che «un punto al quale spesso non si presta soverchia attenzione nella redazione e nell’approvazione degli statuti è il destino dei beni in caso di estinzione dell’ente. Per le persone giuridiche pubbliche non ci sono problemi in quanto il can. 123 stabilisce che i beni, i diritti patrimoniali e gli oneri – salvi sempre la volontà dei fondatori e degli offerenti, come pure i diritti acquisiti – sono regolati dal diritto e dagli statuti: se questi tacciono essi vanno alla persona giuridica immediatamente superiore (per esempio, i beni di una parrocchia legittimamente soppressa vanno alla diocesi). Per le persone giuridiche private invece – recita lo stesso can. 123 – “la destinazione dei beni e degli oneri patrimoniali è retta dagli statuti propri”. È quindi del tutto ovvia l’importanza di indicare negli statuti delle persone giuridiche private la destinazione dei beni in caso di estinzione dell’ente. Anzi, sarebbe bene indicare esplicitamente l’ente al quale si intendono devolvere i beni in caso di estinzione: in genere si tratta di enti che svolgono attività identiche o simili a quelle dell’ente interessato»20. Particolare attenzione dovrebbe esserci anche per gli statuti delle associazioni private di fedeli, in quanto anche queste possono avere dei beni con «finalità ecclesiale». Infatti, «il can. 215 riconosce ai fedeli il diritto di costituire liberamente e di dirigere associazioni “che si propongano un fine di carità o di pietà, oppure l’incremento della vocazione cristiana nel mondo”. […] I loro beni non sono ecclesiastici ma, in quanto sono al servizio delle finalità associative, hanno una qualche dimensione ecclesiale. Essi devono quindi essere amministrati a norma degli statuti e l’autorità ecclesiastica deve vigilare perché siano effettivamente destinati per i fini istituzionali; in modo par- una qualsiasi manifestazione della volontà del legislatore, sia implicita che esplicita. In questo senso, ogni norma destinata alle persone giuridiche in genere soddisfa il requisito della formulazione codiciali “expresse”. Esempi di applicazione di norme codiciali alle persone giuridiche private sono, fra l’altro, il potere del vescovo diocesano di imporre un tributo per il seminario anche alle persone giuridiche private, tranne in qualche fattispecie (cf. can. 1263). Si pensi anche all’autorizzazione episcopale per organizzare una questua (cf. can. 1265) e alla presunzione secondo cui qualsiasi offerta fatta al superiore o all’amministratore è destinata all’ente (cf. can. 1267)». 20 A. PERLASCA, I beni delle persone giuridiche private…, cit., pp. 392-393. claudia Ambroggi - [email protected] I beni ecclesiastici: amministrazione e vigilanza 209 ticolare sottostanno alla vigilanza dell’ordinario i beni ricevuti in favore di cause pie (can. 325). In caso di estinzione, i beni devono essere devoluti a norma degli statuti, salvi i diritti acquisiti e la volontà degli offerenti (can. 326)»21. Le persone giuridiche precedenti il Codice vigente Sembra opportuno, prima di concludere questa parte, accennare alla situazione delle persone giuridiche preesistenti l’entrata in vigore del Codice del 1983. Infatti, il Codice pio-benedettino non prevedeva la distinzione tra persona giuridica pubblica e privata. Beni ecclesiastici erano considerati quelli appartenenti alla Sede Apostolica o ad altra persona morale nella Chiesa (can. 1497 § 1). «Non erano invece ritenuti beni ecclesiastici quelli appartenenti ad associazioni ecclesiastiche, che, pur approvate dall’autorità della Chiesa, non fossero state erette in persona morale, benché la stessa autorità si riservasse una certa competenza su tali beni, a motivo dei fini spirituali che dette associazioni perseguivano»22. In linea generale, con specifico riferimento alle persone giuridiche (morali) preesistenti il Codice vigente, è stato affermato che «dovrebbe trattarsi di persone giuridiche pubbliche, sottoposte ai controlli dell’autorità ecclesiastica previsti per questa tipologia di soggetti. Si dovrà, però, valutare caso per caso, attraverso un sereno confronto con la competente autorità ecclesiastica, se, alla luce della nuova possibilità offerta dal CIC del 1983, non sia più opportuno, in ragione delle finalità effettivamente perseguite o delle modalità di azione esperite, passare dalla personalità giuridica pubblica a quella privata»23. V. DE PAOLIS, I beni temporali della Chiesa, cit., p. 125. Ibid., p. 42. 23 A. PERLASCA, Personalità giuridica e aspetti patrimoniali, cit., p. 56. Per completezza, si accenna alla Circolare n. 28 del Comitato per gli enti e i beni ecclesiastici e per la promozione del sostegno economico alla Chiesa cattolica, del 1° marzo 1999, avente per oggetto Indirizzi per la definizione della condizione giuridica delle confraternite. La Circolare prende in considerazione la situazione giuridica (dal punto di vista civile e canonico) delle confraternite aventi fine di culto civilmente riconosciuto oppure aventi fine di assistenza e beneficenza, oppure aventi fine di culto non ancora riconosciuto formalmente. Soffermandosi sulla seconda tipologia, al n. 4 la Circolare ricorda che «le confraternite fino all’entrata in vigore del nuovo codice erano qualificate come persone giuridiche pubbliche: non solo perché il codice pio-benedettino non prevedeva le associazioni private, ma anche per la ragione specifica che esse avevano come fine l’incremento del culto pubblico e non potevano essere erette se non con formale decreto dell’autorità ecclesiastica competente (cf. cann. 707-708 del codice del 1917)». Dopo aver accennato alla distinzione tra associazioni pubbliche e private introdotta dal Codice vigente, si afferma «la possibilità di qualificare come associazioni private di fedeli talune 21 22 claudia Ambroggi - [email protected] 210 Adolfo Zambon Si potrebbe quindi porre, qualora ci fossero gli elementi, il «problema della riqualificazione secondo le categorie dell’attuale ordinamento canonico delle persone morali costituite nel regime del CIC del 1917 e tuttora esistenti»24. L’amministrazione dei beni ecclesiastici Il concetto di amministrazione La capacità giuridica di agire, nell’ambito dei beni temporali, della Chiesa universale, della Sede Apostolica, delle Chiese particolari e di tutte le altre persone giuridiche, pubbliche e private, è descritta dal can. 1255 tramite quattro verbi: acquistare, possedere, amministrare e alienare. I primi tre titoli del libro V (il quarto è dedicato alle pie volontà in genere e pie fondazioni) riprendono tali termini: l’acquisto dei beni (titolo I), la loro amministrazione (titolo II), i contratti e specialmente l’alienazione (titolo III). Non si riprende in modo specifico il “possedere”, in quanto è l’esito dell’acquisto di un bene e il presupposto dell’amministrazione. L’amministrazione di un bene si pone tra due azioni: la sua acquisizione e la sua alienazione. Pertanto, l’amministrazione «in senso rigoroso, si distingue sia dall’acquisto dei beni che dalla loro alienazione: essa ha infatti per oggetto i beni ecclesiastici di cui è titolare la persona giuridica che li ha legittimamente acquisiti. Questi non sono ecclesiastici e non possono pertanto essere amministrati finché non appartengono alla Chiesa, direttamente o attraverso la sede apostolica, oppure per il tramite delle molteplici persone giuridiche pubbliche (cf. can. 1257, § l)»25. L’acquisto di un bene dice, quindi, relazione a un bene che si intende far entrare nel dominio del soggetto, mentre l’amministrazione fa riferimento a un bene che è già entrato nel patrimonio di un determinato soggetto giuridico. Acquisto e amministrazione non sono tuttavia disgiunte. Infatti, all’acquisto segue la possibilità/necessità di amministrare il bene. Inoltre, l’acquisto, a titolo oneroso, di un bene richiede alcune confraternite che in passato erano state qualificate pubbliche, sempreché esse abbiano le connotazioni proprie dell’associazione privata (cf. cann. 298-311 e 321-326)», esplicitandone le eventuali conseguenze nell’ordinamento canonico, specie «qualora la confraternita abbia una propria chiesa». 24 A. PERLASCA, Personalità giuridica e aspetti patrimoniali, cit., p. 56. 25 V. DE PAOLIS, I beni temporali della Chiesa, cit., p. 175. claudia Ambroggi - [email protected] I beni ecclesiastici: amministrazione e vigilanza 211 scelte amministrative previe, quali l’utilizzo di alcune risorse per poter procedere all’acquisto. Proprio per tale stretto legame tra acquisto e amministrazione, «nella pratica, l’acquisto viene considerato un atto di amministrazione, anche se straordinaria, quando è al di là di certi limiti»26. Anche un atto di alienazione non coincide con l’amministrazione, in quanto rappresenta l’esito finale di un processo decisionale concernente la non conservazione della proprietà di un determinato bene che, quindi, dopo l’alienazione, non è più oggetto di attività di amministrazione da parte della specifica persona giuridica che ne aveva il possesso. Poste tali precisazioni, nella presente comunicazione ci soffermeremo sugli atti di amministrazione in senso lato, comprendendo quindi sia gli atti di acquisto sia quelli di alienazione, nella misura in cui riguardano sia l’amministrazione dei beni sia il compito di vigilanza dell’ordinario. Oltre a quanto appena detto, si deve anche ricordare che «il termine “amministrare” non è univoco»27. Infatti, ha una «duplice valenza semantica». La prima si riferisce, nell’ambito del potere di giurisdizione, a quella funzione propria dell’autorità ecclesiastica di porre atti di governo nel rispetto della legge; la seconda, nell’ambito economico, indica l’azione che mira a conservare, far fruttare e migliorare il patrimonio28. Le due accezioni del termine, più che opporsi nella loro valenza, si richiamano tra loro. Infatti, anche «l’amministrazione dei beni rientra nel campo del potere di governo. La nozione di amministrazione è di fatto presentata come “governo delle cose”, accanto al governo delle persone»29. Gli atti di amministrazione ordinaria e straordinaria Nell’amministrazione dei beni si possono porre atti di amministrazione ordinaria o straordinaria (cf can. 1277). Questi ultimi oltrepassano i limiti e le modalità dell’amministrazione ordinaria (cf can. 1281). Spetta agli statuti stabilire quali siano gli atti di straordinaria amministrazione; se questi non li specificano, oppure in assenza di statuti, «spetta al Vescovo diocesano, udito il consiglio per gli affari economici, determinare tali atti per le persone a lui soggette» (can. 1281 § 2). La Conferenza Epi- Ibid., p. 177. J.P. SCHOUPPE, Elementi di diritto patrimoniale canonico, cit., p. 14. 28 Cf PONTIFICIO CONSIGLIO PER I TESTI LEGISLATIVI, Nota esplicativa La funzione dell’autorità ecclesiastica…, cit., n. 4. 29 V. DE PAOLIS, I beni temporali della Chiesa, cit., p. 71. 26 27 claudia Ambroggi - [email protected] 212 Adolfo Zambon scopale, invece, stabilisce quali atti debbano ritenersi di amministrazione straordinaria per la diocesi. L’espressione “amministrazione ordinaria” indica quell’insieme di attività, di spettanza dell’amministratore, che concerne la «gestione normale e priva di rischi per la stabilità patrimoniale dell’ente»30, ossia la «gestione quotidiana»31 dei beni dell’ente. Volendo specificare alcuni criteri per individuare un atto di amministrazione straordinaria, che quindi supera i limiti e le modalità dell’amministrazione ordinaria, si possono indicare «la quantità, i rischi di perdita; l’incidenza che l’atto può avere sulla sostanza o solamente sui frutti; pericoli sulla stabilità dello stesso patrimonio; la natura della cosa oggetto dell’atto di amministrazione e del servizio che viene prestato; la modalità e la complessità del negozio; il valore della cosa; la durata dei tempi di esecuzione; l’incertezza dei risultati economici; la consistenza patrimoniale, economica e finanziaria della stessa persona giuridica ecc.»32. Per favorire la certezza giuridica, e la retta amministrazione, è fondamentale che tali atti siano ulteriormente specificati nel diritto proprio o negli statuti o comunque dall’autorità competente. Ne consegue che è necessario prestare attenzione alla formulazione degli statuti, che, se presenti, devono specificare con precisione quali siano gli atti di straordinaria amministrazione. Anche la corretta formulazione del decreto del vescovo diocesano, di cui al can. 1281 § 2, che stabilisce gli atti di straordinaria amministrazione per le persone giuridiche a lui soggette, aiuta a garantire la corretta amministrazione dell’ente e la funzione di vigilanza propria del vescovo diocesano. L’Istruzione in materia amministrativa della Conferenza Episcopale Italiana [= IMA], al n. 66, esplicita alcuni atti di straordinaria amministrazione che sarebbe opportuno inserire nel decreto del vescovo diocesano, al fine di garantire un «criterio uniforme» tra le singole diocesi. L’allegato c) della medesima Istruzione, inoltre, specifica ulteriormente tali atti di straordinaria amministrazione, che possono utilmente essere inseriti nel decreto di cui al can. 1281 § 2, ponendo anche peculiare attenzione agli istituti diocesani per il sostentamento del clero. Si ricorda, inoltre, che per porre validamente un atto di straordinaria amministrazione si J.P. SCHOUPPE, Elementi di diritto patrimoniale canonico, cit., p. 141. Il corsivo è nel testo. V. DE PAOLIS, I beni temporali della Chiesa, cit., p. 182. 32 L. cit. 30 31 claudia Ambroggi - [email protected] I beni ecclesiastici: amministrazione e vigilanza 213 richiede l’autorizzazione scritta dell’ordinario del luogo (cf can. 1281 § 1), allegando il parere del consiglio per gli affari economici dell’ente, che quindi deve essere preliminarmente consultato dall’amministratore dell’ente medesimo. Per quanto riguarda la diocesi, la determinazione degli atti di straordinaria amministrazione è affidata alla Conferenza Episcopale. In tal modo, «la determinazione sarà più facilmente rispondente alle situazioni locali e potrà essere più duttile al mutare delle circostanze e dunque più adeguata alle concrete esigenze»33. Per l’Italia, il testo cu riferirsi è costituito dalla Delibera n. 37, del 21 settembre 199034. Per porre tali atti, si richiede il consenso del consiglio per gli affari economici e del collegio dei consultori (can. 1277). Si ricorda, infine, che «l’invalidità o inefficacia canonica non può essere opposta a terzi che non ne fossero a conoscenza quando derivi da limitazioni dei poteri di rappresentanza o da omissioni di controlli canonici che non risultino dal codice di diritto canonico o dal registro delle persone giuridiche (cf. art. 18 della legge n. 222/1985)» (IMA 75). Gli atti di maggiore importanza Il can. 1277 fa riferimento, per la diocesi, anche agli atti di maggiore importanza. Nonostante pareri diversi35, sembra potersi affermare che si tratta di specifici atti all’interno dell’ordinaria amministrazione36. Tali Ibid., p. 196. La delibera, pubblicata in «Notiziario della Conferenza Episcopale Italiana» [= NCEI] 24 (1990) p. 205, stabilisce: «Gli atti di straordinaria amministrazione, diversi da quelli previsti dai canoni 1291, 1295 e 1297, per la diocesi e le altre persone giuridiche eventualmente amministrate dal Vescovo diocesano sono determinati come segue: a) l’alienazione di beni immobili, diversi da quelli che costituiscono per legittima assegnazione il patrimonio stabile della persona giuridica, di valore superiore alla somma minima fissata dalla delibera n. 20 [attualmente fissata in e 250.000,00]; b) la decisione di nuove voci di spesa rispetto a quelle indicate nel preventivo approvato, che comportino una spesa superiore alla somma minima fissata dalla delibera n. 20; c) l’inizio, il subentro o la partecipazione in attività considerate commerciali ai fini fiscali; d) la mutazione di destinazione d’uso di immobili di valore superiore alla somma minima fissata dalla delibera n. 20, determinando il valore dell’immobile attraverso la moltiplicazione del reddito catastale per i coefficienti stabiliti dalla legislazione vigente in Italia; e) l’esecuzione di lavori di costruzione, ristrutturazione o straordinaria manutenzione per un valore superiore alla somma minima fissata dalla delibera n. 20». 35 Cf, per esempio, J.P. SCHOUPPE, Elementi di diritto patrimoniale canonico, cit., p. 139. L’autore, infatti, distingue tra atti di ordinaria amministrazione, atti di ordinaria amministrazione, atti di alienazione e assimilati, atti di maggiore importanza. 36 «Ci sembra molto più corretto affermare, sulla scia della dottrina precedente, che si tratta di atti di amministrazione ordinaria, ma che hanno una particolare procedura dal momen33 34 claudia Ambroggi - [email protected] 214 Adolfo Zambon atti vanno definiti «attento statu economico dioecesis», lasciando quindi spazio «alla prudenza del Vescovo, che deve decidere tenendo conto della situazione economica della diocesi»37. Il fatto che il Codice non indichi alcun criterio specifico circa la determinazione di tali atti non può far ritenere che «ci si trovi di fronte a una “lacuna legis”, perché il canone, pur non definendo quali siano gli atti di “maggiore rilievo”, specifica comunque che essi rientrano nell’ambito dell’“ordinaria amministrazione”». Piuttosto, si è preferito lasciare «una certa discrezionalità», in quanto, nell’ambito degli atti di ordinaria amministrazione, «non tutti gli atti sono da considerarsi di lieve entità, a volte, alcuni di essi, pur essendo al di fuori della straordinarietà, possono modificare lo stato economico e patrimoniale della diocesi o della persona giuridica, perché sono da ritenersi di grande importanza. Mediante questo criterio può verificarsi che negozi giuridici di poca importanza per un ente ecclesiastico, assumono grande rilevanza per un altro, perché modesto, o perché si è creata in esso una situazione economica instabile»38. Lo stesso can. 1277 stabilisce che per porre tali atti di maggiore importanza il vescovo diocesano deve udire il consiglio per gli affari economici e il collegio dei consultori, agendo in modo conforme a quanto previsto dal can. 127 per la richiesta del parere. A tal proposito, è opportuno osservare che il consiglio per gli affari economici «ha particolarmente il compito di evidenziare gli aspetti tecnici, economico-finanziari dell’atto che il vescovo intende porre»; il collegio dei consultori, invece, ha il compito particolare «di valutare gli aspetti pastorali dello stesso. L’atto di amministrazione infatti non può non avere anche risvolti di quest’ultimo tipo». Inoltre, «il vescovo può necessitare del parere o del consenso di altri enti, gruppi oppure di singole persone, in base al diritto universale, a quello proprio o alle tavole di fondazione. Anche in questi casi trova applicazione il can. 127»39. to che, proprio all’interno della categoria di atti di amministrazione ordinaria, hanno una maggiore importanza dato lo stato economico della persona giuridica. Del resto il c. 1277 li oppone agli atti di amministrazione straordinaria» (V. DE PAOLIS, Negozio giuridico «quo condicio patrimonialis personae iuridicae peior fieri possit» [cf. c. 1295], in «Periodica de re canonica» 83 [1994] 497, nota 2). Cf inoltre I D., I beni temporali della Chiesa, cit., p. 183. 37 A. LONGHITANO, L’amministrazione dei beni: la funzione di vigilanza del Vescovo diocesano (cann. 1276-1277 CIC), in A A.VV., I beni temporali della Chiesa, Città del Vaticano 1999, p. 100. 38 A. VIZZARRI, L’amministrazione dei beni ecclesiastici, in A A.VV., I beni temporali della Chiesa, a cura del Gruppo italiano docenti di diritto canonico, Milano 1997, pp. 77-78. 39 V. DE PAOLIS, I beni temporali della Chiesa, cit., p. 197. claudia Ambroggi - [email protected] I beni ecclesiastici: amministrazione e vigilanza 215 Gli atti di alienazione e quelli potenzialmente peggiorativi Oltre agli atti di amministrazione ordinaria e straordinaria, appena ricordati, ci sono gli atti di alienazione e quelli potenzialmente peggiorativi della situazione patrimoniale dell’ente (cf cann. 1291-1295). A tal proposito, è utile porre tre premesse. La prima è costituita dalla distinzione del concetto di alienazione rispetto a quello di amministrazione, inteso in senso proprio o stretto, come evidenzia la stessa sistematica del libro V, che colloca in due titoli diversi l’amministrazione e l’alienazione. Oltre al fatto che il Codice regola, in modo diverso, l’alienazione rispetto agli atti di straordinaria amministrazione, occorre considerare che «la legislazione relativa all’alienazione […] risponde a esigenze diverse rispetto a quella stabilita per gli atti di amministrazione straordinaria. Con l’alienazione, qualora questa non sia fatta nei confronti di un’altra persona giuridica canonica pubblica, i beni cessano di essere ecclesiastici e ritornano al campo profano, cioè non sono più al servizio della Chiesa. Da questo punto di vista, la legislazione in proposito è nata in funzione proprio di proibire l’alienazione dei beni ecclesiastici. Una caratteristica di questi è infatti la sacralità e perciò l’inalienabilità. Con il passare del tempo si è tuttavia riconosciuta la necessità che, in alcuni casi, i beni ecclesiastici possano essere alienati: ciò deve però avvenire sotto il controllo dell’autorità superiore e a determinate condizioni. Si è in tal modo progressivamente formato quel sistema normativo circa l’alienazione dei beni ecclesiastici che, pur con diverse innovazioni, rimane anche nel vigente Codice. Essa è riportata sotto il titolo “I contratti e specialmente l’alienazione” (cann. 1290-1298). In questo caso, la Chiesa non “canonizza” semplicemente la legge civile, ma dà proprie disposizioni normative»40. Inoltre, «a chi obiettava perché nel can. l254, § l fosse stato aggiunto anche il verbo “alienare”, la Commissione per la revisione del Codice rispose che tale introduzione era dovuta precisamente al fatto che l’amministrare non include l’alienare. Diversa, inoltre, è la regolamentazione degli atti di amministrazione, anche straordinaria, rispetto a quelli di alienazione. Il can. 1277 prevede la determinazione degli atti di amministrazione straordinaria per la diocesi da parte della conferenza episcopale e il can. 1281, § 2 da parte del vescovo diocesano per le persone giuridiche a lui soggette; 40 Ibid., pp. 184-185. claudia Ambroggi - [email protected] 216 Adolfo Zambon per l’alienazione invece vi provvede il can. l292. Per quest’ultima, poi, è prevista anche la necessità della licenza, oltre certi limiti, della stessa Santa Sede; tale requisito non esiste invece per gli atti di amministrazione anche se straordinaria. È necessario pertanto che sull’alienazione si faccia non solo un discorso a parte, ma anche più ampio, data la speciale regolamentazione contenuta nel Codice»41. La seconda premessa è costituita dal fatto che l’alienazione, per la quale è richiesta la licenza per la validità dell’atto, deve riguardare un bene facente parte del patrimonio stabile della persona giuridica pubblica, il cui valore supera la somma minima stabilita dalla Conferenza Episcopale per la propria regione (can. 1292 § 1)42. Infine, il concetto di alienazione può essere inteso in senso stretto o in senso lato: «in senso stretto esso si realizza ogniqualvolta si trasferisce il dominio diretto su di un bene da una persona giuridica canonica pubblica ad un altro titolare. In senso lato quando, pur senza realizzarsi un trasferimento di dominio diretto sulla cosa, si concede un diritto reale sulla stessa, per modo che il dominio diretto ne risulti diminuito»43. Il Codice fa riferimento a entrambi i significati del concetto di alienazione: il can. 1291 riguarda l’alienazione in senso stretto, mentre il can. 1295 l’alienazione in senso lato. I cann. 1291-1294 presentano i requisiti che devono essere osservati non solo per l’alienazione, ma anche in qualunque affare che intacchi il patrimonio della persona giuridica peggiorandone la situazione44. È opportuno precisare che non tutti gli atti di straordinaria amministrazione rientrano tra quelli che potenzialmente possono peggiorare la situazione patrimoniale dell’ente, ma solamente «quelli che hanno delle somiglianze con l’alienazione, nel senso anche che si riferiscono a beni che fanno parte del patrimonio stabile e che hanno per oggetto un diritto reale»45. A partire da questo, è possibile specificare che Ibid., p. 242. Resta in facoltà al vescovo far rientrare tra gli atti di straordinaria amministrazione, di cui al can. 1281 § 2, l’alienazione di beni mobili o immobili di qualunque valore o di un valore inferiore alla somma minima stabilita dalla Conferenza episcopale. 43 A. PERLASCA, Alienazioni e altri atti potenzialmente pregiudizievoli nei monasteri sui iuris e negli istituti religiosi di diritto pontificio (can. 638 § 4), in QDE 22 (2009) 144-145. 44 Cf V. DE PAOLIS, I beni temporali della Chiesa, cit., p. 248. 45 A. PERLASCA, Alienazioni e altri atti potenzialmente pregiudizievoli…, cit., p. 146. 41 42 claudia Ambroggi - [email protected] I beni ecclesiastici: amministrazione e vigilanza 217 «non trattandosi di un criterio teorico, occorrerà esaminare il negozio e valutare in concreto se sia effettivamente in grado di peggiorare il patrimonio della persona giuridica. Non basterebbe, in conseguenza, un pericolo puramente potenziale derivato da elementi accidentali all’atto stesso (come può verificarsi, ad es., in qualsiasi atto di acquisto). Possiamo, invece, pensare a numerosi e assai vari atti che, senza costituire un’alienazione propriamente detta, sono suscettibili di limitare il patrimonio (costituzione d’una servitù su una proprietà ecclesiastica o, inversamente, rinuncia ad una servitù attiva su beni altrui) o di metterlo in pericolo (dazione ipotecaria d’un bene ecclesiastico, accettazione d’una successione gravata da importanti oneri, assunzione di personale per lavorare al servizio di una persona giuridica titolare di un patrimonio limitato, ecc.)»46. Si tratta, quindi, di una situazione patrimoniale della persona giuridica che può peggiorare non solo a causa di un atto di alienazione, ma anche a motivo di altri negozi giuridici onerosi con cui si cedono vantaggi vincolanti che ne peggiorano la situazione patrimoniale, come è la concessione di una servitù, di un usufrutto, oppure un’ipoteca47. Il Codice, nel titolo dedicato ai contratti e in particolare all’alienazione, fa esplicito riferimento alla locazione: benché non faccia sorgere diritti reali, può essere un negozio peggiorativo della situazione patrimoniale della persona giuridica, a seconda delle circostanze e dei luoghi. Per questo, il can. 1297 rinvia alla Conferenza Episcopale stabilire norme per la locazione dei beni della Chiesa. Nella situazione italiana, si rinvia alla delibera n. 38, del 21 settembre 199048, a partire dalle «circostanze J.P. SCHOUPPE, Elementi di diritto patrimoniale canonico, cit., pp. 145-146. Cf A. PERLASCA, Commento al can. 1295, in Codice di diritto canonico commentato, a cura della Redazione di QDE, Milano 20093, p. 1028. Per la contrazione di debiti, cf V. DE PAOLIS, I beni temporali della Chiesa, cit., p. 248. Sul concetto di atto potenzialmente peggiorativo, si rinvia alle pagine 258-281 del medesimo volume. 48 La delibera n. 38, pubblicata in NCEI 24 (1990) 206, stabilisce: «art. 1. Per la valida stipulazione di contratti di locazione di immobili di qualsiasi valore appartenenti a persone giuridiche pubbliche soggette al Vescovo diocesano, ad esclusione dell’Istituto per il sostentamento del clero, è necessaria la licenza scritta dell’Ordinario diocesano. art. 2. Per la valida stipulazione di contratti di locazione di immobili appartenenti all’Istituto diocesano per il sostentamento del clero, di valore superiore alla somma minima fissata dalla delibera n. 20, è necessaria la licenza scritta dell’Ordinario diocesano. art. 3. Per la valida stipulazione di contratti di locazione di immobili appartenenti alla diocesi o ad altra persona giuridica amministrata dal Vescovo diocesano, di valore superiore alla somma minima fissata dalla delibera n. 20, è necessario il consenso del consiglio per gli affari economici e del collegio dei consultori, eccetto il caso che il locatario sia un ente ecclesiastico. art. 4. Il valore dell’immobile da locare è determinato moltiplicando il reddito catastale per i coefficienti stabiliti dalla legge vigente in Italia». 46 47 claudia Ambroggi - [email protected] 218 Adolfo Zambon di diritto e di fatto che si verificano in Italia in materia locativa e che possono dare origine a conflitti tra locatore e conduttore. Si tenga conto che, in caso di vendita, un immobile locato subisce un deprezzamento» (IMA 67). Si deve inoltre ricordare che sono sottoposti a necessità della licenza non solo i casi in cui il peggioramento dello stato patrimoniale sia certo. Infatti, se così fosse, l’autorità competente a concedere la licenza «sarebbe chiamata non più ad un controllo, ma solamente ad avallare o meno i casi di sicuro peggioramento. Il che invece è quanto positivamente si vuole escludere con il controllo; esso esiste proprio per verificare che i negozi giuridici che sono di tale natura che possono anche compromettere la situazione patrimoniale di una persona giuridica, di fatto non la danneggiano. Il controllo, se deve esserci e perché abbia senso, ha proprio la funzione di impedire, fin dove è possibile, che si compiano negozi, a causa dei quali “condicio patrimonialis personae iuridicae peior fit”»49. Volendo fornire uno sguardo sintetico a quanto finora detto, si può dire che «oltre agli atti di amministrazione ordinaria, esistono quelli di amministrazione straordinaria che il Codice regola sotto il titolo dell’amministrazione dei beni ecclesiastici. Esiste poi una categoria di atti che il Codice regola in modo specifico, distintamente da quelli di amministrazione straordinaria, in quanto il loro scopo è quello di preservare, mediante un particolare controllo tra cui anche l’intervento della Santa Sede, il patrimonio stabile della persona giuridica: sono gli atti di alienazione, sia in senso stretto o proprio che in senso improprio o lato. Questi atti, al limite, possono anche essere chiamati di amministrazione straordinaria, ma devono essere ricondotti a una speciale categoria, in quanto hanno per oggetto, in un modo o nell’altro, il patrimonio stabile e sono pertanto fatti oggetto di una particolare regolamentazione. Il Codice, di fatto, li distingue dagli atti di amministrazione straordinaria in genere. Li indica, anzi, con un’altra denominazione e li regola in modo proprio e autonomo. In particolare, la Santa Sede in forza del diritto universale non ritiene opportuno intervenire negli atti di amministrazione straordinaria in genere. 49 M. M ARCHESI, La Santa Sede e i beni ecclesiastici, in A A.VV., I beni temporali della Chiesa, Milano 1997, p. 126, citato in A. PERLASCA, Alienazioni e altri atti potenzialmente pregiudizievoli…, cit., pp. 145-146, nota 15. claudia Ambroggi - [email protected] I beni ecclesiastici: amministrazione e vigilanza 219 Reputa però necessario tale intervento quando si tratta di atti che toccano il patrimonio stabile»50. I criteri dell’amministrazione Sembra opportuno specificare anche alcuni aspetti specifici riferiti alla corretta amministrazione dei beni della Chiesa. In primo luogo, è opportuno ricordare i cinque criteri di amministrazione elencati al n. 190 del Direttorio per il ministero pastorale dei vescovi “Apostolorum Successores”, della Congregazione per il clero51: – criterio della competenza pastorale e tecnica, per usufruire del contributo di persone competenti oltre che oneste, esempio di trasparenza nell’amministrazione; – criterio della partecipazione, coinvolgendo nelle decisioni gli organismi di partecipazione presenti, quali il consiglio presbiterale per la diocesi e il consiglio per gli affari economici nella parrocchia; – criterio ascetico, ossia capacità di essere moderati e disinteressati, fiduciosi nella divina provvidenza e generosi con chi è nel bisogno; – criterio apostolico, utilizzando i beni come strumento al servizio dell’evangelizzazione e della catechesi; – criterio della diligenza del buon padre di famiglia, responsabile e capace nel condurre l’amministrazione. Tale diligenza indica l’attenzione, la prudenza, la perizia richiesta all’uomo medio per svolgere, in via normale, una certa attività (cf can. 1284 § 1). Essa, quindi, varia in rapporto all’importanza di ciò che si deve compiere e vale a evitare sia la trascuratezza sia inutili sensi di colpa e rimorsi di coscienza. Il secondo aspetto è relativo alla trasparenza nell’amministrazione. A tal proposito, una nota dell’Episcopato italiano Sostenere la Chiesa per servire tutti, pubblicata il 4 ottobre 200852 a vent’anni dall’entrata a regime V. DE PAOLIS, I beni temporali della Chiesa, cit., p. 281. Cf I D., Negozio giuridico «quo condicio patrimonialis…, cit., pp. 527-528. 51 Il testo fa specifico riferimento al vescovo e alla diocesi. Si ritiene, tuttavia, che fornisca criteri significativi per ogni amministratore di beni ecclesiastici. 52 Il testo è reperibile in NCEI 42 (2008) 112-122. 50 claudia Ambroggi - [email protected] 220 Adolfo Zambon del nuovo sistema di finanziamento della Chiesa e di sostentamento del clero, afferma: «Amministrare i beni della Chiesa esige chiarezza e trasparenza. Ai fedeli che contribuiscono con le loro offerte, agli italiani che firmano per l’otto per mille, alle autorità dello Stato e all’opinione pubblica abbiamo reso conto in questi anni di come la Chiesa ha utilizzato le risorse economiche che le sono state affidate. Siamo fermamente intenzionati a continuare su questa linea, cercando, se possibile, di essere ancora più precisi e dettagliati. Nelle nostre comunità si è sviluppata infatti una mentalità gestionale più attenta e una maggiore sensibilità all’informazione contabile. Su questo fronte, tuttavia, dobbiamo ancora crescere: ogni comunità parrocchiale ha diritto di conoscere il suo bilancio contabile, per rendersi conto di come sono state destinate le risorse disponibili e di quali siano le necessità concrete della parrocchia, perché sia all’altezza della sua missione» (n. 10). I beni ecclesiastici vanno amministrati rettamente, come esige la loro natura stessa, a norma delle leggi ecclesiastiche53, secondo i fini per cui alla Chiesa è lecito possedere e a partire dagli ordinamenti della Chiesa (cf Presbyterorum ordinis 17). Infatti, «personalmente inserito nella vita della comunità e responsabile di essa, il sacerdote deve offrire anche la testimonianza di una totale “trasparenza” nell’amministrazione dei beni della comunità stessa, che egli non tratterà mai come fossero un patrimonio proprio, ma come cosa di cui deve rendere conto a Dio e ai fratelli, soprattutto ai poveri» (Pastores dabo vobis 30) 54. 53 IMA 59 ricorda come la retta amministrazione dei beni ecclesiastici «non può comunque sottrarsi alle esigenze di una sana organizzazione», come riassunto in alcuni adempimenti previsti dal Codice: la redazione del verbale di consegna e riconsegna dei beni, compresi quelli culturali, con relativo inventario (cf can. 1283, 2°); l’accensione di idonee garanzie contro i rischi, tramite assicurazioni (cf can. 1284 § 2, 1°); la tenuta delle scritture contabili (cf can. 1284 § 2, 7°); la presentazione dello stato di previsione (cf can. 1284 § 3); la presentazione del rendiconto annuale all’ordinario del luogo (cf can. 1284 § 2, 8°; 1284 § 3) e, secondo le norme del diritto particolare, del rendiconto ai fedeli delle offerte da loro ricevute (cf can. 1287 § 2); catalogazione e conservazione dei documenti (cf can. 1284 § 2, 9°). 54 «Vorrei soffermarmi in particolare sul valore della trasparenza, perché, a mio giudizio, dovrebbe costituire oggi il criterio-guida nell’amministrazione dei beni. [...] Se di onestà e correttezza non mette punto neppure parlare, trovandoci all’interno di una realtà costituita dai principi genetici della parola di Dio e dei sacramenti della salvezza, tali atteggiamenti di fondo devono oggi tradursi anche in una limpida trasparenza di gestione, sia “ad intra” sia “ad extra”. Oggi se ne sente più che mai l’esigenza: la trasparenza e la visibilità hanno grande rilevanza etica» (L. M ISTÒ, La responsabilità del vescovo nell’amministrazione dei beni ecclesiastici, con particolare riferimento alla situazione della Chiesa italiana, in A A.VV., L’esercizio dell’autorità claudia Ambroggi - [email protected] I beni ecclesiastici: amministrazione e vigilanza 221 In terzo luogo, si richiama l’importanza di un’amministrazione capace di una testimonianza di sobrietà. La semplicità di vita e la povertà riguardano anzitutto la modalità concreta con cui la Chiesa vive. Infatti, come affermato al n. 2 del documento della CEI Sovvenire alle necessità della Chiesa, «il discorso sulle risorse economiche di cui la Chiesa abbisogna, pur necessario, non può contraddire, anzi deve profondamente intrecciarsi con l’imperativo evangelico e con la virtù cristiana della povertà, che valgono non soltanto per i singoli fedeli, ma anche per la realtà istituzionale e per le modalità d’azione della Chiesa medesima»55. Lungi dal portare alla sciatteria, questo implica una oculata gestione delle risorse e la cura dei beni di cui si è amministratori. A titolo esemplificativo, si riporta quanto affermato da IMA 115 con specifico riferimento al parroco (e ai sacerdoti che vi abitano), invitando ad aver cura degli immobili della parrocchia: «Il parroco ha l’obbligo di conservare gli immobili di proprietà della parrocchia con la diligenza del buon padre di famiglia. A tale riguardo è fondamentale programmare ed eseguire una corretta manutenzione ordinaria di tutti gli immobili (tinteggiatura, verniciatura, sostituzione delle parti usurate, controlli periodici, ecc.). La manutenzione ordinaria trascurata comporta, con il trascorrere del tempo, la necessità di intervenire in modo straordinario e spesso molto oneroso sugli immobili». nella Chiesa. Riflessioni a partire dall’esortazione apostolica «Pastores gregis», a cura di A. Cattaneo, Venezia 2004, p. 118). 55 A tal proposito, non si può non ricordare il n. 8 della costituzione apostolica conciliare Lumen gentium: «Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa è chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza. Gesù Cristo “che era di condizione divina... spogliò se stesso, prendendo la condizione di schiavo” e per noi “da ricco che era si fece povero”: così anche la Chiesa, quantunque per compiere la sua missione abbia bisogno di mezzi umani, non è costituita per cercare la gloria terrena, bensì per diffondere, anche col suo esempio, l’umiltà e l’abnegazione. Come Cristo infatti è stato inviato dal Padre “ad annunciare la buona novella ai poveri, a guarire quei che hanno il cuore contrito”, “a cercare e salvare ciò che era perduto”, così pure la Chiesa circonda d’affettuosa cura quanti sono afflitti dalla umana debolezza, anzi riconosce nei poveri e nei sofferenti l’immagine del suo fondatore, povero e sofferente, si fa premura di sollevarne la indigenza e in loro cerca di servire il Cristo». claudia Ambroggi - [email protected] 222 Adolfo Zambon La funzione della vigilanza Nell’ultima parte del contributo si intende specificare cosa si intende per vigilanza dell’ordinario, e della Santa Sede. È noto, infatti, che spetta all’ordinario vigilare con cura sull’amministrazione di tutti i beni appartenenti alla persone giuridiche pubbliche a lui soggette (cf can. 1276 § 1), eventualmente tramite speciali istruzioni entro i limiti del diritto universale e particolare (can. 1276 § 2) 56. A tal proposito, IMA 2257 ricorda che l’ordinario diocesano può emanare, «secondo l’opportunità, […] istruzioni (cfr cann. 34, 1276 § 2) per chiarire e precisare i modi e i tempi di attuazione delle leggi in materia di beni ecclesiastici, entro i limiti del diritto universale, particolare, concordatario e di derivazione pattizia con effetto per tutte le persone giuridiche a lui soggette: potrebbe rivelarsi utile, ad esempio, un’istruzione che presenti in modo organico tutte le licenze richieste nella diocesi per compiere atti di amministrazione straordinaria. Il Vescovo diocesano, d’altro canto, all’interno del suo compito di magistero e di guida pastorale, può offrire indicazioni di carattere generale in materia amministrativa, rivolgendosi, ad esempio, ai parroci, ai membri dei consigli per gli affari economici, agli amministratori delle persone giuridiche a lui soggette. Può anche forni- «Per raggiungere lo scopo di “ordinare” l’amministrazione dei beni, il legislatore mette in mano all’ordinario lo strumento giuridico della istruzione, vale a dire una disposizione normativa propria della potestà esecutiva (congruente quindi con il soggetto, l’ordinario, che deve emetterla) che rende chiara una disposizione di legge e determina i procedimenti nell’eseguirla (cf. can. 34 § 1). L’ordinamento dell’amministrazione dei beni che il vescovo, in quanto ordinario, deve fare, consiste dunque nel chiarire le disposizioni della legge universale o particolare e nel determinare le procedure di attuazione di tali disposizioni nei confronti dei beni ecclesiastici che si “muovono”, giuridicamente parlando, nell’ambito della sua circoscrizione» (J. M IÑAMBRES, I beni ecclesiastici…, cit., p. 18). 57 Un’ulteriore esemplificazione è fornita da Redaelli: «Quali possono essere le istruzioni in materia amministrativa? Se ne possono ipotizzare di diverse tipologie. Potrebbero esserci delle istruzioni destinate a chiarire in modo generale la legislazione concernente i beni temporali, facendo attenzione a coordinare le norme provenienti da diverse fonti […]. Un altro tipo di istruzione potrebbe avere come oggetto le procedure da seguire nel richiedere un’autorizzazione da parte degli amministratori degli enti e insieme le procedure da attuare, da parte degli uffici competenti (Ufficio amministrativo, Economo diocesano), per istruire le pratiche da sottoporre all’esame dell’ordinario o del Collegio dei consultori e del Consiglio per gli affari economici e quindi del vescovo. Anche un “manuale” per la corretta amministrazione delle parrocchie, destinato ai parroci e ai membri dei consigli per gli affari economici parrocchiali, si presenterebbe come una vera e propria istruzione. Naturalmente le Istruzioni saranno tanto più efficaci, quanto più saranno corredate da modelli e fac-simili per le diverse circostanze (modelli di domande di autorizzazione, schemi per contabilità e bilanci, fac-simile di diverse tipologie contrattuali, ecc.)» (C. R EDAELLI, La responsabilità del Vescovo diocesano nei confronti dei beni ecclesiastici, in QDE 4 [1991] 327-328). 56 claudia Ambroggi - [email protected] I beni ecclesiastici: amministrazione e vigilanza 223 re indirizzi più specifici sulla gestione dei beni ecclesiastici, nel rispetto dell’autonomia e della responsabilità di chi regge le diverse persone giuridiche, avvalendosi della competenza e del parere del consiglio diocesano per gli affari economici e del collegio dei consultori». La funzione di vigilanza indica, dal punto di vista etimologico, «l’azione di chi non si lascia vincere dal sonno e veglia per prestare attenzione a determinati fatti o comportamenti; in senso traslato significa la diligenza che si pone nel vigilare, perché quest’azione diventi efficace»58. Nel testo codiciale il dovere della vigilanza è riferito a diversi soggetti59 e con vari significati, tra cui rientra anche l’esercizio della giurisdizione sull’amministrazione dei beni degli enti privati o pubblici (can. 325 § 1; 1276 § 1) 60. Con specifico riferimento alla vigilanza nell’amministrazione dei beni, si precisa che la vigilanza è distinta dall’amministrazione61. Infatti, i beni «appartengono alla persona giuridica che li ha legittimamente acquistati» (can. 1256). Anche la loro amministrazione «spetta a chi regge immediatamente la persona cui gli stessi beni appartengono, a meno che non dispongano altro il diritto particolare, gli statuti, la legittima consuetudine» (can. 1279 § 1). A tal proposito, è utile ricordare che il vescovo diocesano ha piena responsabilità anche amministrativa nei confronti dell’ente diocesi, coadiuvato in questo dal consiglio per gli affari economici e dall’economo62. Contemporaneamente, e a un livello diverso, ha A. LONGHITANO, L’amministrazione dei beni…, cit., p. 83. Longhitano così li esplicita: «Il dovere della vigilanza è riferito a diversi soggetti: – autorità in genere, senza ulteriori specificazioni (can. 305 § 1, 323; 325 § 1) – un semplice sacerdote delegato dal Vescovo (can. 235 § 2) – Vescovo o Ordinario (can. 259 § 1; 392 § 1; 615; 806; 810 § 2; 823 § 1; 957; 1276; 1301 § 2; 1302) – Conferenze Episcopali (can. 810 § 2) – Metropolita (436 § 1, l°) – parroco (528 § 2; 914; 922) – superiori religiosi (642) – amministratori dei beni ecclesiastici (1284 § 2) – Segnatura Apostolica (can. 1445 § 3, 1°) – Santa Sede (can. 305 § 2; 838 § 2)» (ibid., pp. 83-84). 60 Sempre Longhitano esplicita tali significati: «Nel contesto di questi canoni il verbo “vigilare” assume significati diversi: – osservare attentamente, seguire da vicino (can. 235 § 2) – essere diligenti nell’esercizio del proprio ufficio (1284 § 2, 1°) – esercitare l’autorità in genere (can. 259 § 2; 323 § 2; 392 § 2; 436 § 1, 1°; 528 § 2; 642; 823 § 1; 914; 922; 957; 1301 § 2; 1302 § 2; 1445 § 3, 1°) – esercizio della propria giurisdizione su enti (privati o pubblici) che hanno una propria autonomia (can. 305; 615; 806; 810 § 2; 838 § 2) – esercizio della propria giurisdizione sull’amministrazione dei beni degli enti privati o pubblici (can. 325 § 1; 1276 § 1)»: ibid., p. 84. 61 Cf PONTIFICIO CONSIGLIO PER I TESTI LEGISLATIVI, Nota esplicativa La funzione dell’autorità ecclesiastica…, cit., n. 5, lett. a. 62 Cf cann. 373; 393; 492-494; 1277. 58 59 claudia Ambroggi - [email protected] 224 Adolfo Zambon una responsabilità nei confronti delle persone giuridiche a lui soggette, senza tuttavia esserne amministratore in senso proprio63. Il compito della vigilanza è descritto come «un potere sulle persone e sui beni e interviene a tutela di un pubblico interesse»64. La vigilanza «comprende il diritto di ispezione, di esigenza dei conti, di stabilire le modalità di una corretta ed ordinata amministrazione, di dare la licenza per alcuni atti amministrativi di una certa gravità o rilevanza (cfr. cann. 1277, 1281, 1285, 1292)»65. La necessità della vigilanza «è determinata dalla natura stessa dei beni ecclesiastici e dal loro carattere pubblico e perciò non deve essere concepita come limitazione dell’autonomia degli enti ma come garanzia dei medesimi, anche in relazione a eventuali conflitti di interesse tra l’ente e chi agisce a suo nome»66. Il legame tra vigilanza e natura dei beni ecclesiastici richiama il «principio della concentricità» che caratterizza i beni ecclesiastici, che sono beni della Chiesa, con una «profonda unità nei fini ecclesiali», facenti capo a una molteplicità di soggetti, uniti tra di loro da vincoli gerarchici67. Oltre a questo, si evidenzia «una ragione di cautela e di prudenza, per cui da una parte si evita che i beni siano messi 63 Cf C. R EDAELLI, La responsabilità del Vescovo diocesano…, cit., pp. 317-335. L’autore illustra la figura del vescovo quale amministratore dei beni della diocesi, per poi presentare l’impegno del vescovo nell’ordinare l’ambito dei beni ecclesiastici in riferimento alla comunione ecclesiale e il suo compito di vigilanza sull’amministrazione dei beni. 64 A. LONGHITANO, L’amministrazione dei beni…, cit., p. 91. 65 PONTIFICIO CONSIGLIO PER I TESTI LEGISLATIVI, Nota esplicativa La funzione dell’autorità ecclesiastica…, cit., n. 5, lett. a. 66 Ibid.¸ n. 5. 67 Cf V. DE PAOLIS, I beni temporali della Chiesa, cit.,. pp. 73-74. L’autore scrive: «I beni ecclesiastici sono caratterizzati dal principio della concentricità. Ciò deriva dal fatto che essi, in quanto beni della Chiesa, hanno una profonda unità nei fini ecclesiali. Dal momento però che appartengono a persone giuridiche diverse, individuano una molteplicità di soggetti. Questi ultimi sono sempre enti giuridici, che agiscono a nome e per conto della Chiesa, perseguono fini ecclesiali e, in forza dell’erezione in persona giuridica, hanno il diritto ai beni. Tra le diverse persone giuridiche esiste una profonda unità, ma c’è anche una dipendenza gerarchica: al vertice di tutte, opera la sede apostolica, con l’ufficio primaziale o petrino del sommo pontefice, organo rappresentativo della Chiesa universale. Il diritto pertanto di acquistare, ritenere, amministrare e alienare i beni è un diritto che si possiede e si esercita a norma del diritto della Chiesa (cf. can. 1255). Il dominio su di essi, che appartiene a ogni persona giuridica, è posto sotto la suprema autorità del sommo pontefice (cf. can.1256), il quale è il supremo amministratore e dispensatore dei beni ecclesiastici (cf. can. 1273). Al di sotto di tale autorità, nell’ambito del diritto e delle proprie competenze, operano poi gli ordinari, sia diocesani che religiosi (cf. can.1276), i quali hanno la vigilanza sui beni delle persone giuridiche a loro soggette». claudia Ambroggi - [email protected] I beni ecclesiastici: amministrazione e vigilanza 225 in pericolo disperdendoli e, dall’altra, si garantisce la non introduzione di abusi che possano adombrare la missione della Chiesa»68. IMA 24 presenta in modo dettagliato la modalità di espletamento del dovere di vigilanza, da parte del vescovo diocesano, verso le persone giuridiche a lui soggette69. In primo luogo si pone la vigilanza sull’amministrazione ordinaria dei beni: «l’esame del rendiconto annuale (cfr cann. 1284 § 2, 8°, 1287 § 1) e dell’eventuale preventivo, che può essere richiesto dal diritto particolare (cfr can. 1284 § 3); la cura del subentro di nuovi amministratori, che può offrire l’occasione per una verifica più approfondita e di carattere complessivo (cfr can. 1283); un esame generale della situazione dei beni della persona giuridica in occasione della visita pastorale (cfr cann. 396-398). Altri interventi riguardano, invece, gli atti di amministrazione straordinaria e si esplicitano nell’attuazione dei cosiddetti controlli canonici, che hanno rilevanza civile». In secondo luogo, si ricorda «l’esercizio della potestà esecutiva attraverso la produzione di atti amministrativi singolari (cfr cann. 35ss.: tra questi, ad esempio, la licenza per gli atti di straordinaria amministrazione); altri, pur essendo riconducibili alla potestà esecutiva, non comportano un esercizio formalizzato della stessa (ad esempio, l’esame dei bilanci e le ispezioni amministrative)». Infine, si osserva che l’esercizio della vigilanza «può comportare, in circostanze particolari, la necessità di intervenire sugli amministratori con atti precettivi (cfr can. 49) e anche con provvedimenti di natura disciplinare (cfr can. 1377), non esclusa nei casi più gravi la rimozione dall’ufficio (cfr cann. 192-193, 1740ss., in particolare can. 1741, 5°)»70. A. VIZZARRI, L’amministrazione dei beni ecclesiastici, cit., p. 88. Cf, inoltre, A. LONGHITANO, L’amministrazione dei beni…, cit., p. 96. L’autore distingue tre modalità di esercizio della vigilanza del vescovo: di carattere generale (come la visita alla diocesi, la visione del registri di amministrazione), di carattere occasionale (come le licenze per singoli atti), di supplenza nell’amministrazione. 70 Si accenna, inoltre, a quella peculiare forma di vigilanza costituita dalla supplenza, come contemplata nel can. 1279 § 1, «che prevede “il diritto dell’Ordinario di intervenire in caso di negligenza dell’amministratore”. Si tratta di una possibilità che va attentamente valutata prima di essere attuata, visto che deroga al principio generale […] e tenuto conto soprattutto del rischio di ledere la buona fama (cf c. 220) dell’amministratore o degli amministratori. Pre68 69 claudia Ambroggi - [email protected] 226 Adolfo Zambon La licenza richiesta per porre un determinato atto non comporta un coinvolgimento della persona giuridica che concede la licenza nella responsabilità dell’atto. Infatti, «in Diritto canonico per licenza si intende la concessione fatta dall’autorità competente ad un soggetto per esercitare una facoltà od un diritto di cui egli è già titolare, ma l’esercizio del quale, per motivi di interesse pubblico, è condizionato a un controllo “esterno” al diritto stesso. In realtà, le licenze, e altri interventi amministrativi di questo tipo, non implicano l’assunzione in proprio del contenuto del progetto per il quale la licenza o il nulla osta sono stati rilasciati»71. L’oggetto del controllo e della vigilanza verte, infatti, «sia sulla conformità degli atti con i principi costitutivi ed i principi informatori del diritto patrimoniale (congruenza con i fini ecclesiali, esigenze di giustizia nell’adempimento della volontà del donatore, spirito di povertà e di corresponsabilità “comunionale” ...) che sull’adempimento delle norme canoniche di gestione patrimoniale di ambito universale, particolare e statutario (nella misura in cui esistano)»72. supposto della supplenza dell’Ordinario è, infatti, una dichiarazione di negligenza di chi ha la responsabilità amministrativa dell’ente. Sulla base di questa dichiarazione, l’Ordinario può sostituirsi agli amministratori o “in toto”, compiendo cioè tutti gli atti loro spettanti, o, più spesso, parzialmente, attuando quindi il singolo atto o quell’insieme di atti trascurati da chi amministra la persona giuridica (un esempio di intervento specifico dell’Ordinario potrebbe essere la promozione di un’azione a tutela dei diritti dell’ente in caso di urgenza e di inazione degli amministratori: è il caso specificamente previsto dal c. 1480, par. 2). L’intervento suppletivo dell’Ordinario si configura ovviamente come un provvedimento di natura temporanea, perché o la negligenza riguarda solo alcuni atti, posti i quali la persona giuridica può continuare ad essere amministrata dai propri responsabili non negligenti in tutti gli altri adempimenti, o la negligenza è di carattere generale: nel qual caso occorrerà procedere, sulla base del diritto e degli statuti dell’ente, alla sostituzione degli amministratori» (C. R EDAELLI, La responsabilità del Vescovo diocesano…, cit., p. 335). 71 PONTIFICIO CONSIGLIO PER I TESTI LEGISLATIVI, Nota esplicativa La funzione dell’autorità ecclesiastica…, cit., n. 12. Il testo continua affermando: «Quando la Santa Sede accorda la licenza per un’alienazione di beni ecclesiastici, essa non si assume le eventuali responsabilità economiche relative all’alienazione, ma soltanto garantisce che l’alienazione è congruente con le finalità del patrimonio ecclesiastico. La responsabilità derivata dal suo intervento si riferisce esclusivamente al retto esercizio della potestà della Chiesa. La licenza, dunque, di cui ora si tratta non è un atto di dominio patrimoniale, bensì di potestà amministrativa mirante a garantire il buon utilizzo dei beni delle persone giuridiche pubbliche nella Chiesa». È evidente che lo stesso ragionamento vale anche per un superiore inferiore alla Santa Sede, che concede la licenza necessaria per porre un atto di amministrazione straordinaria o di alienazione. 72 J.P. SCHOUPPE, Elementi di diritto patrimoniale canonico, cit., p. 161. claudia Ambroggi - [email protected] I beni ecclesiastici: amministrazione e vigilanza 227 La licenza, quindi, non è un «mandato» per lo svolgimento di un determinato atto, ma piuttosto «un atto di controllo preventivo», che non comporta l’assunzione di responsabilità in relazione a esso73, o meglio «un atto previo all’atto di amministrazione o di alienazione che la competente autorità intende porre»74. Si osserva, sul punto, una progressiva chiarificazione rispetto al Codice pio-benedettino. Questo, infatti, al can. 100 § 3 equiparava la persona morale al minore75, con la conseguenza che una eventuale licenza data dall’autorità ecclesiastica competente figurava come completamento essenziale della volontà. In tal caso, «l’intervento dell’autorità “tutoria”, attraverso per esempio la licenza per compiere determinati atti, veniva considerato come elemento essenziale per avere la piena volontà della persona morale (cf c. 89)»76. L’attuale comprensione della persona giuridica, quale soggetto nel diritto canonico di obblighi e di diritti che corrispondono alla sua natura (cf can. 113 § 2), senza limitazioni a questa soggettività, aiuta a specificare l’autonomia dell’ente e il ruolo di vigilanza dell’autorità ecclesiastica distinto da quello di amministrazione. Sia la licenza richiesta che il parere o il consenso degli organi consultivi, quali il consiglio per gli affari economici della persona giuridica o i due consiglieri che coadiuvano l’amministratore nel suo compito (cf can. 1280), non fanno venire meno l’imputabilità dell’atto a chi concretamente lo pone, e non a coloro che hanno dato il consenso o il parere. Questi ultimi esprimono, per ciò che compete loro, una partecipazione nella responsabilità all’atto stesso. Tutto questo, comunque, si presenta come «un requisito dell’atto giuridico (cf. can. 124), necessario per la validità dello stesso (cf. can. 127)»77. Va osservato che il can. 1292 § 4 V. DE PAOLIS, I beni temporali della Chiesa, cit., p. 251. Ibid., p. 74. 75 «Persona moralis, non secus ac persona physica, potest esse subiectum omnium iurium, exceptis iis tantummodo quae natura sua personalitatem physicam supponunt omnino. […] Quae tamen capacitas iuridica non est proprio et stricto sensu plena ac perfecta. Sane omnes personae morales inistitutionis humanae peculiaribus limitationes coarctantur, ratione boni publici, in exercitio iurium suorum; at simul favoribus quibusdam gaudent, cum minoribus aequiparentur (can. 100 § 3)» (F.M. CAPPELLO, Summa iuris canonici in usum scholarum concinnata, Editio sexta accurate recognita, I, Romae 1961, p. 188). 76 C. R EDAELLI, La responsabilità del Vescovo diocesano…, cit., p. 332; cf F. COCCOPALMERIO, Diritto patrimoniale della Chiesa, in Il diritto nel mistero della Chiesa, a cura del Gruppo italiano Docenti di Diritto Canonico, IV, Roma 1980, pp. 28-29. 77 V. DE PAOLIS, I beni temporali della Chiesa, cit., p. 74. «Da quanto fin qui indicato sembra che si debbano desumere le seguenti conclusioni in ordine al coinvolgimento nella responsabilità oggettiva del Vescovo, o comunque del Superiore competente, in merito agli atti amministrativi compiuti da un rappresentante legale degli enti ecclesiastici a lui soggetti. Se il legale 73 74 claudia Ambroggi - [email protected] 228 Adolfo Zambon ammonisce coloro che sono chiamati a dare il parere o il consenso per l’alienazione a darlo solo dopo essere stati informati esattamente (exacte fuerint edocti) sia dello stato economico della persona giuridica di cui si propone l’alienazione dei beni, sia di eventuali altre alienazioni già fatte. Perché ciò sia possibile è necessario che l’autorità competente trasmetta previamente agli interessati tutta la documentazione necessaria. A integrazione della comprensione di tale norma è opportuno richiamare anche il can. 127 § 3, che invita coloro che partecipano alle decisioni a dare il proprio parere o consenso con sincerità e a mantenere, se lo richiede la gravità della materia, il segreto. Quanto appena affermato può riferirsi non solo agli organismi consultivi dell’ente che pone l’atto di amministrazione o alienazione, ma anche agli organismi consultivi per l’autorità che concede la licenza, quali il consiglio diocesano per gli affari economici e il collegio dei consultori per il vescovo diocesano. Prima di concludere, si ricorda che molti enti ecclesiastici, in specie fondazioni di culto, oltre agli istituti diocesani per il sostentamento del clero (cf art. 19 dello Statuto-tipo dell’Istituto diocesano per il sostentamento del clero), prevedono nel loro statuto l’esistenza di un organo di controllo, denominato anche con altri termini, quali, per esempio: collegio dei revisori, collegio sindacale, collegio dei probiviri. Spesso, inoltre, gli statuti specificano che tra i membri di tale organo di controllo almeno un componente sia iscritto all’albo dei revisori dei conti. I componenti di tale organo di controllo, quando presente, adempiono il loro compito secondo le finalità previste dallo statuto dell’ente medesimo, dal momento che la normativa civile non indica, per gli enti ecclesiastici, le competenze, la composizione, i diritti, gli obblighi e le responsabilità di tale organo di controllo78. Un organo di controllo virtuoso è composto da persone rappresentante agisce nel proprio ambito di competenza, le sue eventuali negligenze non sono imputabili al suo superiore. Se il rappresentante legale porta a compimento un negozio giuridico contro le direttive del superiore, all’insaputa di questi, la responsabilità dell’atto non può essere imputata al superiore. Se il rappresentante legale agisce con la licenza prescritta del superiore falsificando la documentazione così da indurre in errore la buona fede, il superiore non può essere incolpato. Se il rappresentante legale, manifestando chiaramente i suoi propositi non corretti, agisce con la licenza prescritta del superiore diverrebbe logico un suo coinvolgimento di responsabilità. Va infine precisato che una cosa è la responsabilità delle persone, un’altra quella dell’ente» (PONTIFICIO CONSIGLIO PER I TESTI LEGISLATIVI, Nota esplicativa La funzione dell’autorità ecclesiastica…, cit., nota 14). Al riguardo, si ricorda la specificità dell’ente ecclesiastico come riconosciuto anche dall’allegato n. 1, punto n. III, dello Scambio di Note con Allegati 1 e 2 tra la Repubblica Italiana e la Santa Sede costituente un’intesa tecnica interpretativa ed esecutiva dell’Accordo modificativo del Concordato lateranense del 18 febbraio 1984 e del successivo Protocollo del 15 novembre 1984, 10 aprile – 30 aprile 1997: «Le norme approvate con il Protocollo del 15 novembre 1984, nella parte relativa agli enti ecclesiastici civilmente 78 claudia Ambroggi - [email protected] I beni ecclesiastici: amministrazione e vigilanza 229 oneste, riservate e in grado di svolgere professionalmente un compito non invasivo dell’autonomia degli amministratori e contemporaneamente di sostanziale salvaguardia della correttezza e della continuità nel tempo dell’ente ecclesiastico. Contemporaneamente, non si esclude che i componenti tale organismo di controllo possano instaurare una corretta e proficua relazione non solo con il consiglio di amministrazione e con il personale dell’ente, ma anche con l’ordinario diocesano, nei confronti del quale, quando possibile, è utile accompagnare le proprie relazioni con un colloquio esplicativo preventivo o successivo alla stesura della relazione annuale. In tale modo questo organismo di controllo, che si pone a salvaguardia e tutela dell’ente, può fornire ulteriori elementi utili agli amministratori per una retta amministrazione, e all’ordinario nel suo esercizio di vigilanza. A DOLFO ZAMBON riconosciuti recano una disciplina che presenta carattere di specialità rispetto a quella del codice civile in materia di persone giuridiche. In particolare, ai sensi dell’articolo 1 delle norme predette e in conformità a quanto già disposto dall’articolo 7, comma 2, dell’Accordo del 18 febbraio 1984, gli enti ecclesiastici sono riconosciuti come persone giuridiche agli effetti civili nel rispetto delle loro caratteristiche originarie stabilite dalle norme del diritto canonico. Non sono pertanto applicabili agli enti ecclesiastici le norme dettate dal codice civile in tema di costituzione, struttura, amministrazione ed estinzione delle persone giuridiche private». claudia Ambroggi - [email protected] Quaderni di diritto ecclesiale 28 (2015) 230-246 I beni ecclesiastici: soggetti e procedure Il presente intervento intende presentare e approfondire il concreto funzionamento, all’interno di una curia, di alcune procedure riguardanti i beni temporali, procedure che di solito coincidono con la richiesta di autorizzazione per il compimento di un atto di amministrazione che oltrepassa l’ordinaria amministrazione. Cercheremo dunque di evidenziare soprattutto l’aspetto dinamico, cioè i passaggi da compiere, nel rapporto tra i vari uffici e tra le loro competenze, affinché una procedura (una pratica) giunga a compimento. L’intento non è di essere esaustivi, ma di far emergere gli aspetti nodali e le attenzioni giuridiche sostanziali da curare affinché sia garantita la correttezza del processo, e quindi la sua legalità. Va anzitutto notato che non si possono opporre aspetti formali e aspetti sostanziali: il rispetto delle procedure formali (interpellanza degli uffici competenti, rilascio dei documenti previsti con le formalità richieste, ecc.) salvaguarda gli aspetti sostanziali, che, nel caso in questione, sono soprattutto legati alla tutela non solo del bene ecclesiastico in quanto tale, ma del suo utilizzo per le finalità dell’ente che li possiede (cf can. 1254). Tra i due aspetti, formale e sostanziale, può esserci una sana tensione, che però deve evitare i due estremi: l’enfatizzazione burocratica (occorre quindi domandarsi e aver presente a cosa serve ogni documento e ogni passaggio) e l’approssimazione, che spesso sconfina nell’abuso (perché una procedura giuridica sia buona occorre anche che sia correttamente compiuta). L’inquadramento presentato nella precedente relazione, in riferimento alla diversa tipologia di atti, costituisce evidentemente una premessa ineludibile. Parlando di procedure, va infine tenuta presente l’estrema varietà delle situazioni e delle modalità in cui gli uffici di curia operano: si tratterà soprattutto, e questo è lasciato al lavoro di gruppo che seguirà, di individuare se e come i parametri formali e sostanziali che cercheremo di evidenziare, sono riconoscibili e sono rispettati nelle varie prassi. claudia Ambroggi - [email protected] I beni ecclesiastici: soggetti e procedure 231 Premesse È opportuno richiamare alcune brevi premesse: Autonomia amministrativa dell’Ente Rappresenta un principio fondamentale, sancito e voluto così già a partire dal CIC 1917, il fatto che la soggettività amministrativa spetti all’ente cui i beni appartengono1. Ciò determina un fondamentale punto di partenza, che individua anzitutto la distinzione tra due azioni sui beni: l’amministrazione e la vigilanza (a volte chiamata anche amministrazione intermedia2), con le conseguenti distinte competenze che ne conseguono. Se all’amministratore va lasciata la giusta autonomia perché possa amministrare, egli, da parte sua, dovrà essere dotato di una sufficiente competenza ed essere chiaro e trasparente nell’amministrazione (cf can. 1284 §§ 1-2). La richiesta e l’ottenimento di licenze e di autorizzazioni non lo libera mai dalla responsabilità che cade (e resta) anzitutto su di lui. Dall’altro lato il corretto esercizio del compito/potere di vigilanza richiede trasparenza nei criteri di esercizio della stessa, verifica costante (che non deve mai diventare, né essere interpretata, come sospettosità) ed assistenza qualificata. Amministrare i beni: cosa significa? Amministrare significa in un certo senso esercitare un’arte, quella di saper utilizzare bene i beni, cioè saperli utilizzare per i fini dell’ente. Non solo i beni vanno custoditi, ma vanno utilizzati per i fini per cui sono posseduti. Anche quando si tratta di beni che vengono utilizzati commercialmente, al fine di generare risorse economiche, va sempre ricordato che la finalità ultima è pastorale, per cui i beni non possono mai diventare il fine ultimo di un ente giuridico ecclesiale. Atti di amministrazione ordinaria e non Dal punto di vista dottrinale, soprattutto nel passato, si sono accesi interessanti dibattiti sulla natura e i confini tra i vari atti che riguardano i 1 2 Cf can. 1255. Cf J.P. SCHOUPPE, Elementi di diritto patrimoniale canonico, Milano 1997, pp. 148ss. claudia Ambroggi - [email protected] 232 Francesco Grazian beni temporali. È chiaro però che chi amministra ha bisogno anzitutto di conoscere il limite della propria azione e, al di sopra di esso, quali adempimenti gli sono chiesti per gli atti che li esigono. Le tre tipologie di atti, già evidenziati nella relazione precedente, costituiscono un punto di riferimento essenziale: amministrazione ordinaria, atti che superano i limiti della amministrazione ordinaria (detti anche atti di amministrazione straordinaria), alienazione. Tralasciamo per ora la categoria di atti di maggior importanza, che è riservata all’ente diocesi. Certamente, dato di partenza imprescindibile è costituito dal decreto vescovile che individua gli atti di amministrazione straordinaria3. Alcuni atti eccedono per loro natura l’amministrazione straordinaria, indipendentemente dalla “quantità” di impegno economico che possono prevedere (per esempio una servitù, o una locazione a lungo tempo, o l’utilizzo di prodotti o servizi bancari complessi o fortemente condizionanti, variazioni sostanziali di finalità di un bene, ecc.). Sta di fatto che una chiara individuazione degli atti di amministrazione straordinaria rappresenta un buon punto di partenza anche per poter esercitare bene la vigilanza, e quindi per la individuazione dei soggetti competenti a compiere le varie procedure. Beni culturali Una categoria particolare è rappresentata dai cosiddetti beni culturali, categoria poco usata nel diritto canonico, assai usata nel diritto civile4. Essendo ritenuti tali, sappiamo che molti dei nostri beni sono soggetti da parte dello Stato a tutele proprie previste dalla legge. Di conseguenza, sia a livello parrocchiale sia a livello diocesano, gli atti che riguardano tali beni prevedono procedure proprie. Qui ci interessa solamente richia- Il Codice, pur dando al can. 1281 § 1 un criterio “teorico” dell’atto che supera la ordinaria amministrazione (qui finem et modum ordinariae adimnistrationis excedunt), chiede al § 2 che tali atti vengano positivamente identificati. Sono in essere vari modelli, alcuni molto sintetici, altri molto dettagliati. Qualche diocesi ha scelto criteri più teorici, altre molto pratici, alcune elenchi sintetici, altre il più possibile dettagliati ed esaustivi. Va tenuta presente la grande differenza di estensione, e non solo, tra le varie diocesi. Cf V. DE PAOLIS, L’amministrazione dei beni temporali, Bologna 1995, pp. 146-148; F. GRAZIAN, La nozione di amministrazione e di alienazione nel codice di diritto canonico, Roma 2002, pp. 200-221. 4 Solo una volta compare il termine, in modo indiretto, nel Codice (can. 1283, 2°). Troviamo invece nel diritto canonico la categoria di bene insigne per preziosità e/o per storia, l’ex voto o la res sacra: cf V. DE PAOLIS, L’amministrazione…, cit., pp. 16-18; J.P. SCHOUPPE, Elementi…, cit., pp. 44-51; F. GRAZIAN, La nozione…, cit., pp. 32-36. 3 claudia Ambroggi - [email protected] I beni ecclesiastici: soggetti e procedure 233 marlo e ricordare che un apposito ufficio in diocesi ha competenza sulle attività che li riguardano. Soggetti Passiamo quindi alla individuazione dei soggetti che “ruotano” attorno alla amministrazione dei beni temporali. Sono molti: persone, enti ed uffici; sono sia interni che esterni alla curia; sono ecclesiastici e civili. Ci soffermiamo sui soggetti che sono interessati a questo scopo in curia. Se la curia si è dotata dello statuto, i compiti dei singoli uffici sono già là richiamati. Tali compiti devono essere però in accordo con il diritto universale e con le indicazioni date anche, secondo le deleghe ricevute, dalla Conferenza Episcopale Italiana. Scorriamoli brevemente. Il vescovo e l’ordinario diocesano: competenze in campo amministrativo Al vescovo diocesano spetta la responsabilità ultima, sia per quanto riguarda l’amministrazione dell’ente diocesi, sia per quanto riguarda il compito di vigilanza sull’amministrazione dei beni degli enti a lui sottoposti (parrocchie, enti in diocesi, ecc.). Il primo compito è esercitato, per l’ordinaria amministrazione, dall’economo. Il secondo compito è delegato, in parte, all’ordinario del luogo (vicario generale o vicario amministrativo), o può essere affidato all’economo5. Al vescovo spettano alcuni compiti fondamentali, in via soprattutto legislativa, ma anche esecutiva: individuare le modalità di compimento dell’amministrazione ordinaria, se non determinate dagli statuti (cf can. 1281 § 2), dare norme per il consiglio degli affari economici parrocchiale (cf can. 537), erigere l’istituto diocesano per il sostentamento del clero, il fondo di cui al can. 1274, con statuto e organismi propri, fissare o organizzare le varie collette e tributi. Attraverso lo statuto di curia o attraverso istruzioni amministrative, il vescovo potrà regolare modalità e procedure dell’amministrazione dei beni. La vigilanza, oltre alla determinazione degli atti di cui al can. 1281 § 2 (amministrazione straordinaria), si esercita soprattutto attraverso decreti, licenze e interventi in via suppletiva, ma anche con visite sul luogo. Non sempre il vescovo rappresenta l’ultima istanza di vigilanza, in 5 Cf can. 1278. claudia Ambroggi - [email protected] 234 Francesco Grazian quanto alcuni atti, come vedremo, hanno bisogno anche dell’intervento della Santa Sede. In via generale, si può dire che per gli atti di amministrazione straordinaria (can. 1281 § 2) la licenza spetta all’ordinario del luogo, quindi al vescovo diocesano o al vicario generale o anche al vicario amministrativo (in via ulteriormente subordinata). Per le alienazioni e gli atti equiparati, ma di beni appartenenti al patrimonio stabile e il cui valore superi la cifra minima stabilita, è previsto l’intervento del vescovo diocesano, a cui si aggiunge, se si supera la cifra massima, quello della Santa Sede6. Il consiglio diocesano per gli affari economici [= CDAE] Il CDAE collabora con il vescovo nella gestione economica della diocesi (cf cann. 492-493). In questo senso il CDAE è coinvolto sia nel compito di amministrazione dei beni della diocesi, sia nel compito di vigilanza. È opportuno che tale distinzione sia ben spiegata ai membri, sia in riferimento alla diversa tipologia di atti che si vanno a compiere, sia alla diversa modalità dell’intervento: una cosa è amministrare e una cosa è vigilare. La cancelleria deve verificarne la corretta costituzione, a norma del can. 493 (composizione, durata, ecc.). In riferimento alle direttive e alla vigilanza nell’amministrazione dei beni diocesani, si rimanda a quanto verrà detto più avanti. Va ricordato anche che spetta al CDAE: a) dare il parere per imporre tributi diocesani ordinari e straordinari (cf can. 1263); b) dare il parere per l’indicazione degli atti di amministrazione straordinaria (cf can. 1281 § 2); c) dare il parere per questioni relative alle fondazioni (cf cann. 1305 e 1310 § 2). Circa l’amministrazione dei beni della diocesi, oltre al consenso per gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, per i quali si rimanda pure a quanto verrà detto dopo, vanno ricordati i seguenti compiti: a) predisporre il bilancio preventivo della diocesi, secondo le indicazioni del vescovo, e stabilire il modo di realizzarlo (cf can. 493); b) approvare il rendiconto annuale dell’economo sulle spese ed entrate effettive (cf cann. 493-494); 6 Si rimanda, per una disamina più articolata e completa, a J.P. SCHOUPPE, Elementi…, cit., pp. 163-167. claudia Ambroggi - [email protected] I beni ecclesiastici: soggetti e procedure 235 c) assumere altre competenze che il vescovo riterrà opportuno affidargli, in relazione alla corretta gestione del bilancio; d) dare il parere per nominare e rimuovere l’economo diocesano (cf can. 494 § 1); e) dare l’assenso in caso di rinuncia dell’istanza in giudizio da parte del vescovo (cf can. 1524 § 2); f) dare o il parere o l’assenso se questo è previsto dagli statuti di enti soggetti o non soggetti al vescovo diocesano per il compimento di atti che superano l’ordinaria amministrazione (cf cann. 1281 § 2 e 1292 § 2)7. Il collegio dei consultori Il collegio dei consultori è emanazione del consiglio presbiterale, anche se, una volta costituito, rimane in carica indipendentemente da esso. Si rimanda, circa la sua costituzione, al can. 502 § 1. In riferimento alla materia economica, il Codice stabilisce che il vescovo deve ascoltarne il parere per nominare e rimuovere l’economo diocesano (cf can. 494 §§ 1-2) e per compiere gli atti di maggior importanza (cf can. 1277). È invece necessario il suo assenso negli stessi casi stabiliti per il consiglio degli affari economici, cui si rimanda. Occorre però ricordare che l’apporto dei due organismi è diverso: il collegio dei consultori darà un apporto pastorale a differenza del CDAE che darà una valutazione economica. Il consiglio presbiterale Anche il consiglio presbiterale ha alcuni compiti in materia economica, che consistono nel dare il parere al vescovo diocesano quando egli debba: a) erigere, sopprimere, modificare in modo rilevante le parrocchie (cf can. 515 § 2); b) stabilire norme per la destinazione delle offerte ricevute dai fedeli o dai sacerdoti nello svolgimento di qualche incarico (cf can. 531); c) autorizzare la costruzione di chiese (cf can. 1215 § 2); 7 Cf ibid., pp. 167-170. claudia Ambroggi - [email protected] 236 Francesco Grazian d) ridurre ad uso profano non indecoroso chiese non più adibite al culto divino (cf can. 1222 § 2); e) imporre tributi e tasse (cf can. 1263) 8. Ufficio amministrativo diocesano Esso ha il compito di sovrintendere, assistere, coordinare tutte le operazioni di vigilanza sull’amministrazione dei beni ecclesiastici che sono soggetti al vescovo, sotto l’autorità o del vescovo stesso o di chi da lui è delegato per tali compiti. Ma solitamente esso anche assiste l’economo e il vescovo nell’amministrazione dei beni della diocesi. A sua volta esso si compone di varie persone e spesso di sotto-uffici, che fanno comunque capo al delegato del vescovo per la vigilanza, che può essere, come richiamato, una figura a sé, oppure lo stesso economo diocesano (cf can. 1278). Solitamente vi si trovano: ufficio di segreteria, ufficio tecnico, ufficio legati, archivio amministrativo. Si avvale di altri uffici e persone, interni od esterni alla curia, come l’ufficio beni culturali, l’ufficio legale, la ragioneria, i consulenti commerciali e tributari, ecc. La definizione e la regolamentazione di questi uffici dovrebbe essere contenuta nello statuto di curia, o nel regolamento, o almeno nell’atto costitutivo dello stesso. Economo ed ufficio economato Si rimanda al Codice (can. 494 § 1) e alla dottrina9 per la scelta dell’economo e la durata di questo ufficio. Le mansioni sono varie, in quanto possono essere limitate o estese dal vescovo diocesano10. L’economo sovrintende alla amministrazione ordinaria dei beni della diocesi, che egli amministra in modo dipendente e non autonomo, in quanto sottostà sia al vescovo, sia alle indicazioni del CDAE (cf can. 494 § 3). L’economo può amministrare direttamente alcuni enti sprovvisti di un economo proprio (cf cann. 1278 e 1279 § 2)11. Anche se la figura dell’economo e quella del vicario per l’amministrazione coincidessero nella Cf ibid., p. 173. Cf ibid., pp. 170-171. 10 L’Istruzione in materia amministrativa della Conferenza Episcopale Italiana, nella redazione del 1° aprile 1992, lo definiva al n. 23 «figura aperta». 11 In questi casi, avverte J.P. SCHOUPPE, Elementi…, p. 171, dovrà affidare ad altri i compiti di vigilanza. 8 9 claudia Ambroggi - [email protected] I beni ecclesiastici: soggetti e procedure 237 stessa persona, si tratterebbe comunque di ruoli e di azioni ben distinte. Per non moltiplicare le figure, alcune diocesi affidano al vicario generale, in collaborazione con l’economo, il compito della vigilanza. L’economo infatti agisce sub auctoritate episcopi nell’amministrazione ordinaria dei beni della diocesi. Il vicario per l’amministrazione compie invece azioni di vigilanza; segue le pratiche di autorizzazione che gli enti soggetti all’autorità del vescovo chiedono. Circa l’amministrazione dei beni della diocesi, va ricordato che l’economo deve presentare annualmente al CDAE il bilancio consuntivo delle entrate e delle uscite (cf can. 494 § 4). Solitamente nelle diocesi non estese all’economo viene affidato anche il compito della vigilanza sui beni degli enti soggetti al vescovo diocesano. Se invece a tale incarico è deputata un’altra persona, e/o un altro ufficio, occorrerà chiarire le competenze, ma soprattutto i rapporti tra i due ruoli e i due uffici12. Di conseguenza l’ufficio “economato” può avvalersi delle stesse persone dell’ufficio amministrativo. Collegati a questo ufficio possono essercene altri: tesoreria, ragioneria, ufficio tecnico, ecc. Si avvale anche di altri uffici, interni od esterni della curia, come sopra. Ufficio (per i) beni culturali In questi ultimi anni tale ufficio è stato investito di notevoli competenze ed incaricato di varie operazioni, condotte a livello nazionale, come la inventariazione, che sta ancora continuando. Suo compito in particolare è l’individuazione, la valorizzazione e la custodia dei beni culturali della diocesi e degli enti ecclesiastici sul suo territorio. Spetta a questo ufficio anche il contatto con gli uffici competenti della Soprintendenza. Si tratta di un ufficio che deve per sua natura lavorare a stretto contatto con l’ufficio amministrativo e con l’economato: per esempio, se viene introdotta nell’ufficio beni culturali una pratica (per esempio un restauro cospicuo di un dipinto o di un’opera d’arte, ecc.), esso deve interessare subito l’ufficio amministrativo per la verifica della sostenibilità economica dell’operazione; viceversa se una pratica di tal genere viene introdotta all’ufficio amministrativo, sarà quest’ultimo a interessare La vigilanza sull’amministrazione dei beni della diocesi ha già infatti una sua procedura, indicata dal diritto universale. Nello stesso tempo alcune azioni di vigilanza possono avere una ricaduta sull’andamento economico della diocesi. 12 claudia Ambroggi - [email protected] 238 Francesco Grazian l’ufficio beni culturali, per quanto di sua competenza, onde ottenere le dovute autorizzazioni dopo le debite verifiche. Si trovano ampie descrizioni degli atti e delle autorizzazioni che a livello civile devono essere compiuti sui beni culturali delle parrocchie e della diocesi, meno indicazioni sui compiti specifici che l’ufficio deve avere in quanto ufficio di curia. Collegata all’ufficio beni culturali è anche la commissione arte sacra, che pure è chiamata a dare proprie e specifiche valutazioni e approvazioni. La cancelleria La cancelleria solitamente lavora a margine delle procedure riguardanti la materia economica. Il motivo è in parte legato alla competenza che i cancellieri pensano di non avere riguardo alle problematiche relative ai beni temporali. Sovente, inoltre, gli uffici amministrativi sono già carichi di adempimenti, e rischiano di avvertire il ruolo della cancelleria come un’ulteriore disbrigo, se non un’intrusione. È emblematica, a riguardo, la protocollazione, che di solito è a sé stante. Ma vanno precisate opportunamente alcune cose. Alla cancelleria è affidato il compito di esercitare una vigilanza giuridica sulle procedure. Il suo giudizio, in re oeconomica, raramente può essere di merito, ma è importante che sia di forma. Spesso infatti, come ricordato all’inizio, dietro l’inadempimento formale può nascondersi un abuso, salvo il bisogno di non burocratizzare inutilmente le pratiche. In qualche diocesi questo compito è assunto da un ufficio specifico, quello di protocollo, che non ha il mero compito di attribuire dei numeri ad una pratica o a dei documenti, e di archiviarli, ma di identificare il tipo di pratica, individuando di conseguenza la corretta procedura da compiere, seguendone poi l’iter. Stando alle indicazioni CEI (Istruzione in materia amministrativa del 2005, n. 65), il dispositivo finale del vescovo, per quanto attiene gli atti che eccedono l’ordinaria amministrazione della diocesi, deve essere redatto per iscritto e controfirmato dal cancelliere. Il coordinamento tra i vari uffici va infine svolto dal moderator curiae che in questo senso ha un compito specifico di coordinamento e di cura del corretto svolgimento delle pratiche. claudia Ambroggi - [email protected] I beni ecclesiastici: soggetti e procedure 239 (Eventuali) altri uffici In relazione alla prassi e alla tradizione delle curie, altri uffici possono essere predisposti in riferimento all’amministrazione dei beni della diocesi, o al compito di vigilanza. Oltre al già richiamato ufficio legale, ci potrebbe per esempio essere uno specifico ufficio personale. Oppure potrebbero essere costituiti uffici ad hoc, per determinate operazioni ad tempus (per esempio censimenti, ecc.). Spetta al moderator curiae identificarne i compiti ed integrarne l’attività. Spetta alla cancelleria sovrintendere (ed eventualmente urgere) la legittimità giuridica del loro operato. Devono infatti essere costituiti con iter specifico, a partire dall’atto costitutivo del vescovo. I due compiti distinti dell’economo, qualora a lui venisse affidata in delega anche la vigilanza sull’amministrazione dei beni degli enti soggetti alla vigilanza da parte del vescovo (come per esempio le parrocchie), anche se sono chiari dal punto di vista teorico, non sempre lo sono dal punto di vista pratico. Egli anzitutto amministra i beni dell’ente diocesi (o equiparati), e come tale si limita alla amministrazione ordinaria. Per gli atti eccedenti (che possono essere suggeriti da lui stesso, ma anche essere proposti dal vescovo, o dal consiglio per gli affari economici, o da altri soggetti), deve egli stesso attenersi alle procedure previste dal diritto. Il compito della vigilanza, come già richiamato, è invece di indirizzo e di verifica, e può spaziare in vari campi, dal controllo dei bilanci, a quello della verifica del funzionamento dei consigli degli affari economici parrocchiali, alle indicazioni e alle autorizzazioni per il compimento degli atti eccedenti l’amministrazione ordinaria degli stessi enti. A volte invece le due figure sono distinte: l’economo si occupa dell’amministrazione dei beni della diocesi, il vicario generale o il vicario episcopale per l’amministrazione si occupa della vigilanza. In ogni caso non vanno confusi i due ruoli! Procedure Atti che oltrepassano l’amministrazione ordinaria degli enti soggetti al vescovo Nel caso in cui l’amministratore di un ente soggetto al vescovo diocesano debba compiere un atto che supera l’amministrazione ordinaria cosa deve fare? Contatto previo. È opportuno anzitutto che vi sia un contatto previo con l’ufficio competente della curia (solitamente l’ufficio amministrativo, claudia Ambroggi - [email protected] 240 Francesco Grazian ma anche ufficio beni culturali)13, per comunicare l’intenzione di avviare le procedure per il compimento dell’atto e per indicarne sommariamente le motivazioni. Il contatto previo è necessario se l’atto è particolarmente complesso e oneroso. Può invece essere omesso se l’atto è circoscritto e di immediata individuazione. L’ufficio aiuterà ad inquadrare la natura dell’atto e indicherà la documentazione da acquisire e da produrre. Va qui ricordato che in ogni caso l’ente che intende compiere un atto che supera l’ordinaria amministrazione non deve prendere impegni con nessuno. Se impegni devono essere presi devono essere unilaterali14. Molto spesso atti preparatori ad una operazione di questo tipo (per esempio un progetto, una verifica tecnica) disposti senza passaggi previ (il preventivo), sono già essi stessi atti di amministrazione straordinaria! Soprattutto se l’atto è complesso, l’ufficio amministrativo può compiere una verifica di massima, proprio per non impegnare la parrocchia a procedere nella preparazione delle formalità di un atto che si sa già in partenza che non verrà mai autorizzato. Se l’atto è complesso, esso può avere più fasi (autorizzazione per lo studio, per la presentazione del progetto, per il compimento). Va anche verificato se l’amministratore, presentando l’intenzione di compiere un atto, ha interessato gli organismi di corresponsabilità propri. Presentazione della formale domanda. Tale atto è fondamentale e spesso complesso. La domanda deve contenere, oltre alla richiesta formale, alcuni elementi indispensabili, come l’indicazione precisa dell’atto o degli atti da compiere, le motivazioni, la copertura finanziaria e altri documenti correlati, che ne dimostrino la fattibilità. Altri elementi possono diventare necessari (per esempio se il vescovo stabilisce la necessità del parere o del consenso del consiglio parrocchiale per gli affari economici). Come si comporta la curia? Se l’atto è semplice, l’ufficio competente (ufficio amministrativo) darà una risposta in tempi brevi. Se l’atto è complesso dichiarerà l’accettazione della domanda e indicherà sommariamente i passaggi che essa dovrà compiere per l’approvazione o meno. È comunque importante che l’ufficio amministrativo compia una prima verifica della documentazione inoltrata e comunichi immedia- 13 Il contatto può essere informale se la diocesi è piccola, o avere una sua formalità se la diocesi è più ampia e articolata. 14 Cf ECONOMI DELLE GRANDI DIOCESI, La gestione e l’amministrazione della Parrocchia, Bologna 2008, p. 61. Si porta l’esempio di una disponibilità ad acquistare un bene che si pensa di alienare. claudia Ambroggi - [email protected] I beni ecclesiastici: soggetti e procedure 241 tamente all’ente se mancano o non sono completi o corretti alcuni documenti. a) Atti di amministrazione straordinaria Se l’atto supera l’amministrazione ordinaria, ma non è tra quelli di alienazione già regolamentati, è sufficiente la licenza dell’ordinario diocesano. A volte il vescovo, per non appesantire di competenze se stesso o il vicario generale, stabilisce una distinzione tra operazioni di amministrazione straordinaria, lasciando all’economo e/o al vicario episcopale la risposta per tutti o alcuni atti di amministrazione straordinaria15. b) Atti per cui la licenza dell’ordinario è richiesta dal diritto universale Va ricordato che, indipendentemente dal decreto vescovile, per molti atti è prevista già dal diritto universale la licenza dell’ordinario: contestazione di liti attive e passive in foro civile, impiego di denaro eccedente alle spese (cf can. 1284 § 2, 6°)16, rifiuto di offerte (cf can. 1267 § 2), accettazione di offerte gravate da modalità di adempimento che comunque non peggiorino la situazione patrimoniale, locazione di immobili superiore a 250.000 euro. Ci si può chiedere: vi sono atti che per loro natura sono da considerarsi eccedenti l’ordinaria amministrazione? Alcuni autori sostengono di sì17. In pratica è più difficile rispondere, in quanto, essendo dal diritto richiesta una formale indicazione, si può invocare l’ignoranza o il dubbio di diritto o di fatto. A volte potrebbe accadere che alcuni atti di amministrazione straordinaria vengano autorizzati dall’economo. Questo può accadere per esempio per piccole autorizzazioni di spesa, o fidi esigui, pur eccedenti l’ordinaria amministrazione, dove non è coinvolto nessun ente esterno alla parrocchia. La piena correttezza di tali azioni può essere però assicurata quando vi sia formale mandato e trasparente informazione. 16 Per la problematicità della formulazione di questo numero, cf A. PERLASCA, Commento al can. 1284, in Codice di diritto canonico commentato, a cura della Redazione di QDE, Milano 20093, pp. 1020-1021. 17 Cf V. DE PAOLIS, L’amministrazione…, cit., p. 147. 15 claudia Ambroggi - [email protected] 242 Francesco Grazian c) Atti di alienazione o ad essi assimilati Evitando la discussione, pur interessante, a riguardo della natura e della individuazione di tali atti, si può dire che alcuni atti di alienazione, ed altri che vengono ad essa equiparati, vengono identificati e regolamentati a parte dal Codice. Ovviamente non si parla di qualsiasi alienazione, ma della alienazione ex cann. 1291 e 1292 (alienazione del patrimonio stabile e dentro limiti stabiliti) e dei negozi ad essa assimilati (quelli che possono peggiorare la situazione patrimoniale, ex can. 1295). La particolarità di questi atti consiste, dal punto di vista delle autorizzazioni, nel fatto che per il loro compimento è necessaria la licenza del vescovo diocesano, ma previo consenso del CDAE e del collegio dei consultori. Solo però se superano la cifra minima (attualmente 250.000 euro), ma sono sotto quella massima (1 milione di euro). Sono compresi anche i negozi che possono peggiorare la situazione patrimoniale, se rientrano nei due citati parametri. Si aggiunge invece la necessità dell’autorizzazione della Santa Sede, quando le dette alienazioni e atti peggiorativi superano la cifra massima stabilita. La Santa Sede procede solo se ha già la licenza del vescovo diocesano, secondo quanto indicato sopra, licenza che quindi costituisce conditio sine qua non per poter procedere. Sono richieste le stesse licenze anche nel caso di ex voto o di cose preziose per arte e per storia (cf can. 1292 § 2). In questo caso non vi è indicazione di cifre. Una questione particolare si è creata a riguardo: i notai a volte applicano nella identificazione di tali beni semplicemente la V.I.C. (verifica di interesse culturale) redatta dalla soprintendenza competente, con la conseguenza che a volte per alienare beni esigui sia circa il valore economico, sia circa il valore storico/culturale, viene dagli stessi notai richiesta la licenza della Santa Sede. E per le altre alienazioni (non del patrimonio stabile, sotto la cifra minima)? Esse possono (o dovrebbero) essere integrate negli atti di amministrazione straordinaria. È sufficiente in questi casi quindi la licenza dell’autorità prevista per l’amministrazione straordinaria. Altrimenti costituiscono atto di amministrazione ordinaria. Come si procede? Si presuppone che l’economo (o il vicario per l’amministrazione) sia a conoscenza della situazione. In questo caso sarà lui a presentare ai due consigli (CDAE e collegio dei consultori) i termini della questione. Dovrà distinguere tra presentazione (il più possibile oggettiva) e il proprio parere personale. L’intervento dei due consigli dovrebbe essere su due piani diversi: valutazione tecnico-economica per claudia Ambroggi - [email protected] I beni ecclesiastici: soggetti e procedure 243 il primo, valutazione pastorale per il secondo. Potrebbe esserci un rinvio tra i due (in realtà un po’ complesso) oppure la decisione, in determinate situazioni, di una convocazione unitaria. Trattandosi di consigli dati al vescovo, spetta poi allo stesso, in caso di discordanza, provare a superare la dialettica18. Vale la pena che almeno il collegio dei consultori sia presieduto dal vescovo? Indipendentemente dalla risposta a questa domanda si ritiene opportuno che il vescovo sia a conoscenza delle licenze (almeno le più onerose) che stanno per essere concesse o negate. L’atto finale è costituito dal decreto del vescovo. Si tratta di un’autorizzazione. Può trattarsi di una negazione della autorizzazione. Può trattarsi di una autorizzazione modale o condizionata o limitata. Trattandosi di un decreto del vescovo, si possono applicare le norme per il ricorso. Procedimenti di atti che oltrepassano l’amministrazione ordinaria della diocesi Sempre all’interno della curia, toccando spesso gli stessi soggetti (persone e uffici), ma con significato, procedure e limiti diversi, si svolgono anche le procedure di compimento degli atti che oltrepassano l’amministrazione ordinaria della diocesi. Tali procedure hanno lo scopo di creare comunque un sistema di vigilanza anche per l’amministrazione dei beni della diocesi, favorendo quindi un processo di “dialettica” interna, se così possiamo chiamarlo, dove soggetti distinti da chi solitamente compie l’atto, esprimano una valutazione sulla bontà o opportunità dello stesso. Possiamo dire che ai due poli di tale procedimento stanno l’economo e il vescovo. Al centro stanno gli uffici competenti e i due consigli detti sopra (CDAE e collegio dei consultori). Nel caso della diocesi si introduce un nuovo concetto, e cioè quello di atto di maggior importanza (cf can. 1277). L’individuazione di questi atti dovrebbe essere fatta dal diritto particolare, e cioè dal vescovo stesso, tenuto presente il profilo economico-finanziario della propria diocesi. Non mi risulta che siano molte le diocesi che si sono date questo strumento. Ci può essere il rischio concreto che gli atti che riguardano i beni della diocesi non vengano discussi in questi consigli. Il canone invece ribadisce che tutti gli atti di maggior importanza passino dalla valutazione dei due consigli. L’elenco degli atti di amministrazione straordinaria deve essere indicato dalla Conferenza Episcopale Italiana, che lo ha fatto attraverso la 18 Cf J.P. SCHOUPPE, Elementi…, p. 172. claudia Ambroggi - [email protected] 244 Francesco Grazian delibera n. 37 del 18 aprile 1985, con modifiche del 21 settembre 1990; a ciò si aggiungono anche in questo caso atti già determinati dal diritto canonico: locazione di immobili sopra la somma massima (cf can. 1297), eccetto che il locatario sia un ente ecclesiastico. In questo caso dunque non è richiesta la licenza della Santa Sede. Da dove inizia la procedura? Nel caso della diocesi e del compimento degli atti eccedenti l’amministrazione ordinaria, l’iniziativa potrebbe venire dall’economo stesso, che suggerisce un atto di amministrazione straordinaria o di alienazione per il bene economico della diocesi stessa, ma la richiesta potrebbe anche partire dal vescovo, e non è raro che ciò avvenga. Potrebbe partire da un soggetto terzo (per esempio l’ufficio beni culturali, oppure da altri uffici o enti). In ogni caso deve essere fatta propria dal vescovo, e va condivisa tra vescovo ed economo, che devono essere inizialmente d’accordo sulla opportunità di compiere tale atto. Anche se vi è stata e vi è un discussione a riguardo, la titolarità della amministrazione straordinaria appartiene al vescovo e quindi il punto di partenza formale proprio di questi atti pare essere la sua persona19. Facendo un raffronto con le procedure indicate sopra, ne notiamo velocemente le differenze. Per il compimento degli atti di amministrazione straordinaria, indicati dalla delibera CEI, non è ovviamente indicata la necessità della licenza del vescovo, quanto il consenso del CDAE e del collegio dei consultori. La pratica, in questo caso, si conclude con il provvedimento del vescovo che dispone il determinato atto, annotando il pervenuto consenso dei due consigli. Opportunamente l’istruzione CEI al n. 65 afferma: «Il decreto del Vescovo diocesano, controfirmato dal cancelliere, deve menzionare il consenso dei due organi consultivi e la data delle rispettive sedute. Non è opportuno esibire il verbale delle adunanze degli organi consultivi della diocesi». Vorrei sbagliarmi, ma ritengo che il più delle volte la cancelleria non venga coinvolta. Proprio perché riguarda un dinamismo interno della curia, è opportuno che almeno un organo “notarile” come la cancelleria sancisca l’atto finale. È pur vero che le cancellerie si troverebbero a siglare una pratica di cui sono praticamente estranee, non essendo partecipi né degli aspetti sostanziali dell’atto né solitamente membri dei consigli di cui sopra. Si può discutere di questo aspetto. Non sono previste consultazioni per molti atti per cui alle parrocchie o agli enti soggetti al vescovo era richiesta la licenza dell’ordinario Cf C. R EDAELLI, La responsabilità del Vescovo diocesano nei confronti dei beni ecclesiastici, in QDE 4 (1991) 317-335; V. DE PAOLIS, L’amministrazione…, cit., pp. 160-161. 19 claudia Ambroggi - [email protected] I beni ecclesiastici: soggetti e procedure 245 diocesano, e cioè: contestazione di liti attive e passive in foro civile, impiego di denaro eccedente le spese (cf can 1284 § 2, 6°), rifiuto di offerte (cf can. 1267 § 2), accettazione di offerte gravate da modalità di adempimento che comunque non peggiorino la situazione patrimoniale, locazione di immobili di valore inferiore a 250.000 euro. Non sono richieste autorizzazioni nemmeno per le alienazioni che sono inferiori alla somma di cui sopra (somma minima). La modalità del compimento di questi atti è lasciata alla prassi di curia, ma non sempre le prassi “assodate” rispondono ai criteri di legittimità. Deve essere richiesto ciò che il diritto chiede come necessario, oltre che una corretta informazione-trasparenza tra economo e vescovo diocesano. È richiesto invece il consenso dei due consigli per la locazione di immobili superiore a 250.000 euro, se non locati a enti ecclesiastici. Spesso tali atti costituiscono amministrazione di maggiore importanza. Per le alienazioni e gli atti che sono ad esse equiparati, si rimanda alle considerazioni già fatte a riguardo delle parrocchie; è richiesto sempre il consenso dei due consigli, quando il valore dei beni è inferiore alla cifra massima stabilita. Nel caso la superino è richiesta anche l’autorizzazione della Santa Sede. Anche in questi casi la pratica dovrebbe terminare con un decreto del vescovo che disponga l’esecuzione di quell’atto, dopo aver richiamato l’assolvimento degli adempimenti previsti. Amministrazione di grandi patrimoni Tutte le diocesi hanno a che fare con grandi patrimoni che possono essere gestiti in modi diversi: fondazioni autonome, fondazioni non autonome, beni cospicui semplicemente gestiti in modo separato. Sarà importante verificare anzitutto se si tratta di patrimoni non autonomi della diocesi, e quindi si tratta di beni dell’ente diocesi, o se invece si tratta di enti che, pur diocesani, non sono parte dell’ente diocesi, e quindi rientrano nella prima categoria, cioè di enti sotto la vigilanza del vescovo. Ciò, abbiamo visto, comporta modalità assai diverse nel compimento degli atti amministrativi e nella richiesta delle licenze. In tutti questi casi è però opportuno che gli statuti indichino le procedure da seguire nel compimento dei vari atti che eccedono l’amministrazione ordinaria. Il rischio può essere che tali enti vengano erroneamente ritenuti parte dell’ente diocesi quando non lo sono, e si creino situazioni di non claudia Ambroggi - [email protected] 246 Francesco Grazian chiarezza e di commistione che non giovano al fine del patrimonio stesso, né a quello della diocesi. Ne vanno richiamati almeno due. E cioè l’istituto diocesano per il sostentamento del clero e la Caritas. Per quanto concerne l’IDSC l’identificazione e le modalità di compimento degli atti di eccedenti l’ordinaria amministrazione sono stati determinati dalla CEI e fatti propri dagli statuti di ciascun ente20. Altro caso è invece rappresentato dalla Caritas. Essa è e resta organismo diocesano. In questo caso dunque i suoi beni sono in effetti parte dell’ente diocesi. Tuttavia i suoi beni sono a volte gestiti attraverso associazioni e/o fondazioni che si occupano di finalità specifiche oppure ne costituiscono semplicemente il braccio operativo. Va ricordato che, qualora venisse creata un’associazione, o una fondazione, tali enti, e i loro patrimoni, si configurerebbero come separati dall’ente diocesi. È d’obbligo dunque un chiaro inquadramento statutario, che se da una parte non deve imporre vincoli eccessivi per un ente che gestisce solitamente cospicui flussi di denaro, dall’altra garantisca la vigilanza e offra consigli tecnici e pastorali nell’occasione del compimento di atti che superino l’ordinaria amministrazione21. FRANCESCO GRAZIAN 20 21 Cf CEI, Istruzione…, 1° settembre 2005, cit., nn. 92-96. Cf ibid., nn. 89-90. claudia Ambroggi - [email protected] LIBRI RICEVUTI A A .VV., Famiglia e diritto nella Chiesa, a cura di M. Tinti, Città del Vaticano 2014, pp. 315. A A .VV., Il “bonum fidei” nel diritto matrimoniale canonico, Città del Vaticano 2013, pp. 377. A A .VV., Il corpo e l’esperienza religiosa, a cura di G. Ruggieri, Catania 2013, pp. 269. A A .VV., Il potere (Quaderni teologici del seminario di Brescia 24), Brescia 2014, pp. 332. A A .VV., Il sacramento della penitenza. Il ministero del confessore: indicazioni canoniche e pastorali, a cura di E. Miragoli, presentazione di C. Redaelli, Milano 20152, pp. 365. A A .VV., Permanere nella verità di Cristo. Matrimonio e comunione nella Chiesa cattolica, a cura di R. Dodaro, Siena 2014, pp. 302. GHIRLANDA G., Il diritto nella Chiesa mistero di comunione. Compendio di diritto ecclesiale, Roma 2014, pp. 959. Instructionis “Dignitas connubii” synopsis historica, edidit Facultas Iuris Canonici. Pontificia Universitas Gregoriana, Roma 2015, pp. 287. MONTINI G.P., De iudicio contentioso ordinario. De processibus matrimonialibus. I. Pars statica. Ad usum Auditorum. Romae 2014, pp. 463. claudia Ambroggi - [email protected] 248 Libri ricevuti Pius et Prudens. Libro homenaje a Mons. Dr. Bonet Alcón, Buenos Aires 2014, pp. 443. Processi di formazione del consenso. Atti del Convegno di Studi organizzato dallo Studio Teologico S. Paolo di Catania e dal Dipartimento Seminario Giuridico dell’Università degli Studi di Catania. Catania 18-19 aprile 2013, a cura di N. Capizzi - O. Condorelli, Catania 2013, pp. 269. ROSSANO S., La costituzione apostolica “Pastor bonus”. Evoluzione storico-giuridica e possibili prospettive future, prefazione di G. Sciacca, Ariccia (Roma) 2014, pp. 284. claudia Ambroggi - [email protected] I temi della parte monografica di QDE nei prossimi fascicoli n. 3/2015 La cooperazione missionaria della Chiesa particolare n. 4/2015 Irregolarità e impedimenti agli ordini sacri n. 1/2016 Riduzione di chiese ad uso profano n. 2/2016 La confermazione Hanno collaborato a questo numero: MONS. PAOLO BIANCHI Vicario giudiziale del Tribunale Ecclesiastico Regionale Lombardo DON ALESSANDRO GIRAUDO Vicario giudiziale aggiunto del Tribunale Ecclesiastico Regionale Piemontese MONS. ADOLFO ZAMBON Vicario Giudiziale del Tribunale Ecclesiastico Regionale Triveneto MONS. MASSIMO MINGARDI Vicario giudiziale aggiunto del Tribunale Ecclesiastico Regionale Flaminio DON GIANLUCA MARCHETTI Cancelliere della curia diocesana di Bergamo DON FRANCESCO GRAZIAN Cancelliere della curia diocesana di Verona claudia Ambroggi - [email protected] La Redazione di Quaderni di Diritto Ecclesiale, con il patrocinio della Pontificia Università Gregoriana e dell’Editrice Àncora organizza il seguente Corso residenziale di diritto canonico applicato I BENI ECCLESIASTICI: PROFILI CANONISTICI III anno Assisi, Domus Pacis, 24-27 agosto 2015 Il corso è rivolto a coloro che intendono acquisire o completare una preparazione di base per meglio operare nelle strutture ecclesiastiche come l’ufficio amministrativo, l’economato, l’ufficio cassa, le cancellerie e altri uffici di curia. Inoltre è aperto a coloro che, licenziandi o licenziati in diritto canonico o laureati in giurisprudenza oppure in possesso del baccellierato in teologia o del magistero in scienze religiose, hanno un interesse pratico alla prassi amministrativa ecclesiale. Si intende così favorire l’aggiornamento e la formazione di coloro che già operano o inizieranno ad operare in tale settore. Saranno offerte relazioni di esperti, con ampia possibilità di confronto, ed esercitazioni pratiche in gruppo su pratiche della Curia diocesana in materia amministrativa ed economica. Il programma dettagliato del Corso è segnalato sul sito di QDE. Per informazioni e iscrizioni visitare il sito: www.quadernididirittoecclesiale.org claudia Ambroggi - [email protected] Corso residenziale di diritto canonico applicato CAUSE MATRIMONIALI II anno Perugia, Hotel Sacro Cuore, 30 agosto - 3 settembre 2015 Il corso è rivolto a coloro che intendono acquisire o completare una formazione di base per meglio operare nelle strutture ecclesiastiche come i tribunali, le curie, i consultori. Inoltre è aperto a coloro che, licenziati in diritto canonico o laureati in giurisprudenza oppure in possesso del baccellierato in teologia o del magistero in scienze religiose, hanno un interesse pratico alle questioni matrimoniali. Saranno offerte relazioni di esperti sui seguenti temi: - Il can. 1095: origine, sistematica e cause di natura psichica - La perizia nelle cause di nullità per incapacità psichica (can. 1095): i disturbi che più comunemente si riscontrano (anamnesi e lettura degli atti) - Il can. 1095: gli obblighi essenziali oggetto dell’incapacità e la sua prova - La perizia nelle cause di nullità per incapacità psichica (can. 1095): la metodologia e gli strumenti di indagine (esame psichico ed eventuali test psicodiagnostici) - La procedura del processo di nullità matrimoniale - La raccolta delle prove nella fase istruttoria - Scioglimento del matrimonio rato e non consumato. Il corso offre una ampia possibilità di confronto, ed esercitazioni pratiche in gruppo su alcune “cause di nullità”. Il programma dettagliato del Corso è segnalato sul sito di QDE. Per informazioni e iscrizioni visitare il sito: www.quadernididirittoecclesiale.org claudia Ambroggi - [email protected] pp. 360 - E 25,00 www.ancoralibri.it Questo è il quarto di una serie di volumi che intendono percorrere la storia dell’identità teologica, pastorale, spirituale del presbiterio e del presbiterato, entro la domanda, che cosa a questo proposito oggi lo Spirito dica alle chiese. Copre la storia delle chiese d’Occidente tra i secoli X e XI, un periodo apparentemente breve, ma in cui il volto dell’Europa e la sua civiltà cambiano molto profondamente; e gli stili del vissuto ecclesiale, pur sostenuti dalla stabilità connaturale dei riti liturgici, essi stessi si trasformano in modo irreversibile. claudia Ambroggi - [email protected] pp. 128 - E 13,50 www.ancoralibri.it Un vescovo si confessa. Lo fa sulle orme di sant’Agostino: una confessione di lode. L’arcivescovo GianCarlo Maria Bregantini, rispondendo alle domande del teologo Valentino Salvoldi, rivede la sua vita alla luce dell’eroica fede dell’apostolo Pietro. Fede, fonte di estasi e di tormento, dono che porta i suoi frutti in noi nella misura in cui testimoniamo il nostro credo con quella carità che «tutto crede, tutto spera, tutto sopporta», con la grandezza e i limiti di tutto il nostro essere. claudia Ambroggi - [email protected] pp. 192 - E 17,00 www.ancoralibri.it Con tutta la sua opera letteraria, e specialmente con la favola dell’ometto giunto sul nostro pianeta dall’asteroide B 612, Saint-Exupéry ha scritto una sorta di «Nuovissimo Testamento», nel quale può specchiarsi ogni persona in ricerca dell’assoluto e di Dio. Le pagine del pilota-scrittore francese sono colme di riferimenti religiosi e biblici, nel senso più largo e profondo del termine. Questo libro li porta in luce e svela la Parola che si nasconde dietro ogni pagina del Piccolo Principe.