Guido Mattia Gallerani Andrea Zanzotto, la pioggia del mythos e il

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Guido Mattia Gallerani Andrea Zanzotto, la pioggia del mythos e il
Guido Mattia Gallerani
Andrea Zanzotto, la pioggia del mythos e il corpus pedagogico *
Non
basta l’impalcatura di «esperienza verbale»1 per circoscrivere il modus operandi dell’opera
zanzottiana, e tantomeno per visualizzare o “immaginare” il campo di battaglia tra le istanze della psiche,
della storia e del cosmo. E infatti Gli sguardi i fatti e senhal 2 inizia con una sentenziosa negazione: «NO
BASTA, non farlo non scriverlo te ne prego»3 a decifrare non solo la pericolosità dell’operazione “verbale”
in fieri, ma soprattutto a sanzionare l’iper-spazio del luogo poetico: suggestiva teoria di Matte Blanco4 sulla
presenza perentoria di un secondo modello più “profondo” rispetto a un primo strato di lettura, che si
configura così “superficiale”. Ebbene, questo “dualismo”, che si pone a livello teoretico più che formale, è
alla base dell’intero corpus poetico; per cui esiste una sub-struttura che, ri-capovolgendo le sentenze
regressive del linguaggio “negativo”, grazie a una medesima implosione della sovra-struttura, la forma, crea
un locus amoenus dove sintetizzare un qualche tipo di teoria.
Il lettore viene immediatamente fatto urtare con una “infelice” negazione del testo stesso; che se sul piano
linguistico ha validità totale minando le basi stesse dell’esistenza di un discorso, su un piano occultamente
celato è solo apparenza e la negatività è mutata in possibilità (forse ardua definizione di eroismo
intellettuale). Se poi voliamo al finale, risulta chiaro che questa non è questione da risolversi in indagine; da
cui il finale sospeso e, ironicamente, “non finale” «passo e chiudo»5: ma ciò (nel misterioso campo abissale)
non è che un’interruzione arbitraria e non conclusiva di un pensiero circolare, che crescerà poi come
processo auto-rigenerativo. Così, nel momento stesso dell’iniezione narrativa all’interno di questo
“primordiale” involucro, ne verrà che tutto il discorso non può esistere se non come negazione della sua
stessa materia; ma è da tale processo degenerativo e degenerante che s’apre un accesso al secondo “spazio”
di lettura, alla zona vitale o, molto più romanticamente, all’anima del poemetto.
La “trama” di negazione, auto-annullandosi, si costituisce però, in quanto tale, come “narrativa” e su
suggerimento stesso dell’autore si divide in quattro sviluppi tematici. Semplificando: «Protocollo relativo
alla I tavola del test di Rorschach6 - cinquantanove interventi-battute di altrettanti personaggi… a modo di
contrasto, con un’altra persona, stabile – panorama su un certo tipo di filmati di consumo e chiacchiere più
o meno letterarie – frammenti di un’imprecisa storia dell’avvicinamento umano alla dea-luna, fino al
contatto»7. Per evitare inutili dispersioni, è meglio attenerci esclusivamente all’ultima, rimandando le restanti
a “naturali” collegamenti di senso con il resto del discorso, che svelandosi come schema ciclico ne facilita la
comprensione.
Nel 1969, anno di ideazione del poemetto (verrà terminato l’anno successivo e, sul piano cronologico e
almeno stilistico, si dichiara come immediata “prole” dell’extra-materia della Beltà; ma sarebbe limitativo
pensarlo come esaurimento della sovra-spinta significativa del massimo libro di Zanzotto, che non poteva e
non doveva ridurre o porre fine al suo moto vulcanico intorno al suo reale, fuorviante spettacolo
psichedelico), Neil Armstrong “donava” al suolo lunare la presenza umana; o meglio dovremmo dire,
facendo nostro il punto di vista zanzottiano (cosa da ora in poi inevitabile) “violava” l’estremo simbolo,
emblema e, ancora più scrupolosamente, senhal di un’idealizzazione globale dei desideri e sogni terreni: il
termine provenzale nello statuto linguistico che gli è proprio non fa altro che inglobare la realtà fisica e
onomastica di una persona in un’icona rappresentativa. Ora, è ovvio che nello spazio dell’ironia zanzottiana
* Intervento al Convegno “L’esperienza”, Università di Parma (Dipartimento di Scienze della Formazione e del Territorio), 16 dicembre 2003.
1
S. Agosti, prefazione all’antologia Andrea Zanzotto Poesie (1938-1986) a cura dello stesso, Mondadori, Milano 1997, p.7
A.Zanzotto, Gli sguardi i fatti e senhal, Mondadori, Milano 1990.
3
Ivi, p.3.
4
I. Matte Blanco, L’inconscio come insiemi infiniti. Saggio sulla bi-logica, Einaudi, Torino 1981.
5
Gli sguardi i fatti e senhal, cit, p.14.
6
Il test di Rorschach è un insieme di tavole figurate poco strutturate così da consentire interpretazioni “aperte” alla personali affinità “psichiche” del
soggetto analizzato; ampi e numerosi studi individuano un set di risposte precise a seconda dell’apparente tipologia, o classe, a cui appartiene
l’individuo. Come tale la I tavola del test presenta una formazione centrale che dovrebbe ricordare, nella maggioranza dei casi, una forma femminile
(all’interno del processo di “carnificazione” del mito di Diana).
7
Gli sguardi i fatti e senhal, cit., p.17.
2
(il cui studio meriterebbe un serio approfondimento) ciò può significare un’icona che sia iper-rappresentativa
più che rappresentativa: cioè mutuerebbe sé stessa in maschere caricaturali. Invece a nostro parere Zanzotto,
qui nello specifico, sfrutta le evoluzioni semantiche dei vari significanti (sia sul piano diacronico) o
l’oscillazione del significato primario (sul piano sincronico; in più presta attenzione alle ricombinazioni
traduttive da una lingua all’altra, nella mentalità di una comune matrice morfologica e sociale) per elaborare
una soluzione di contenuti il più estesa possibile. Ciò vuol dire che ora come in altre funzioni del poemetto i
piani di significato non sono univoci; ma, come daremo prova di segnalare, compatibilmente sdoppiati
(ancora nel senso della teoria di Matte Blanco, da tenere sempre come riferimento in questi discorsi). Del
resto limitarsi al solo motivo del ‘segno’ non poteva essere sufficiente ai fini poetici dell’opera; occorreva
ricollegarsi al tema amoroso d’impianto lirico provenzale, che però si limitava a comporre una semplice
equazione di senso tra la “donna amata” e il senhal, senza decollare verso una semantica trascendentale.
Proprio questa spinta allo scientificamente ignoto è il risultato ultimo del testo. Ciò è ottenuto
dall’ibridazione dei significati suddetti con l’immenso orbitale che stagna immediatamente nei dintorni, cioè
quello della forma angelica della donna (citazione dalla più antica poesia italiana), grazie alla quale si
proietta la materia in sfere divine pur rimanendo ancorati al luogo “fisico” del mito (e in questo senso il
collegamento scatta automaticamente verso un’immagine tutta cinquecentesca, come il viaggio di Astolfo
sulla Luna in Orlando furioso). In poche parole, senhal significa tratto linguistico di definizione che dà
possibilità, grazie allo statuto non assoluto del significante, di rapporto tra l’uomo e la sovranità metafisicoreligiosa (a colpo d’occhio non sembrano esserci grandi differenze nel poemetto). Non è un tema diverso da
quello tradizionale per cui sono le contraddizioni ad essere l’arma principale della poesia.
Per continuare, e concludere, la triangolazione del titolo all’interno del discorso poetico (e questo è un
problema sempre complesso tanto per la critica, che non vi presta sufficiente attenzione, quanto per i poeti,
che a volte ne prestano eccessiva) avremo che i fatti sono sintesi della tendenza a un’analisi il più oggettiva
possibile (non per essere assoluta, ma per darsi l’occasione di partire da una solida situazione di fatti
accaduti)8 e gli sguardi richiamano, non diametralmente, la componente “concreta” e materiale che si unisce,
o si spinge un po’ prepotentemente, all’unione sacrale e quasi matrimoniale col divino (eredità ovviamente
degli “occhi” stilnovisti). Una presentazione di un reale indipendente dal soggetto che però non rinuncia a un
contatto non solo teoretico, ma anche sensibile.
Ebbene, continuando l’esplicazione del “negativo”, la domanda sorge ovvia e ruota attorno al perché di
una così “serrata” distorsione dell’evento più rivoluzionario del secondo Novecento, che sembrerebbe essere
un innocente passo verso le magnifiche sorti e progressive. Ma già dall’inizio il ruolo del critico è di fatto
irrimediabilmente e violentemente arrestato: oltre le speculazioni sul titolo non resta niente su cui cominciare
un’analisi.
Oltretutto l’autore provvede a chiarire non solamente a sé stesso l’orizzonte della contemporaneità storica e
della materia scenica9, ma si preoccupa di sistemare un tabulato di commentari frammentati all’interno del
contenitore testuale, così da conferire un suppletivo cognitivo al trattamento chirurgico dei temi (ma sarebbe
non del tutto esatto pensare a serrata meta-letteratura, poiché le sentenze in campo dibattono su questioni di
problematica innanzitutto comunicativa, e poi storica, globale e “cosmica”; pertanto è più corretto
immaginare saldature logiche, e spesso filosofiche, tra i tentativi di significazione oltre che riflessione sulla
poesia).
Conviene mutare atteggiamento, e farsi esclusivamente lettore; poiché se da un lato la riflessione posteriore
sulla propria opera aiuta, o più che altro esplica, un’uniformità di coordinate del pensiero, dall’altro solo il
linguaggio poetico può chiarire la fenomenologia del landscape zanzottiano; non per timore di inattendibilità
di giudizio del loro autore, che per altro mira anche a difendersi dagli attacchi della critica; ma per le
proprietà che garantiscono alla poesia il “massimo” di informazione o meglio che connettono una pluralità di
eventi, concreti o astratti, sedimentati nello spazio o dilazionati in esso, con le zone “ultime” del pensiero e
della ricezione del destinatario: tutto ciò grazie al sovraeccitamento che le parole subiscono quand’entrano in
contraddizione e ambiguità, e quindi assumono significato polisemico (come già chiarito prima).
«Doveva accadere laggiù che ti e ti e ti e ti
lo so che ti hanno || presa a coltellate ||
lo gridano i filmcroste in moda i fumetti in ik
i cromatismi acrilici
8
La discussione di lunga data, cioè se si sia realmente compiuta l’impresa lunare, è un tema che sarebbe stato interessante nell’ambito dei luoghi
“falsi” ma che non è presente ora.
9
Gli sguardi i fatti e senhal (Alcune osservazioni dell’autore), cit.
2
nulla di più banale
lo sanno i guardoni
da gradini finestre e occhialoni
io guardo || freddo || il freddo
[…]
Io sto gustando i tuoi sangui i tuoi Es a milioni
sì tesoro, sì tettine-di-lupa in sussulto,
mi va mi sta mi gira che laggiù ti abbiano colpita
le mie ||
|| non sono mai state abbastanza robuste
non ti hanno mai buttata in causa
non ti hanno mai inquisita né trasfigurata mai»10
Purtroppo questo non è il luogo dove indagare gli apparati tecnici e i nessi che consentono la
significazione all’interno del testo, per cui dovremmo attenerci solamente ad estrapolare dall’impianto
narrativo il «nutrimento»11 o i «fatti» custoditi dal poemetto.
In queste battute-interventi, prese/i a modello di una totalità e omogeneità interna, risulta evidente che siamo
in presenza di un orribile “delitto”, di una violazione estrema che non sorge dal nulla, ma prende forma e
“magnitudine” tellurica da premesse sociali e storiche. In poche parole dalla vergognosa situazione
dell’odierna civiltà o, per delimitare ulteriormente il campo di analisi, dalle forme comunicative: «i filmati
(anche televisivi) veramente costituiscono una specie di crosta intorno al pianeta» oppure «c’è questa
industria del produrre sogni fasulli, che è arrivata al suo massimo di defecazione»12.
Questa è dichiarazione inappellabile, e non è aggirabile né da uno straniamento dell’osservatore, né da un
mascheramento della realtà o da una “vita” poetica allontanatasi nel magico e cristallizzato iper-uranio. Un
primo movimento dello spirito nasce dall’accettazione dei fatti, secondo termini profondamente leopardiani
(autore moderatamente caro a Zanzotto, e in questo senso va collegato il discorso), per porre le basi del
cosiddetto “tempo di azione”, tempo di secondo movimento.
Solo su quest’ultimo punto o “strato” è possibile, o quasi auspicabile, l’intervento del critico, che subisce una
metamorfosi dei suoi normali e abituali comportamento di lettore, per assumere quelli di interprete della
realtà: quella che rimane dopo la corrosione chimica del linguaggio zanzottiano13. Ma è difficile focalizzare
il punto di passaggio tra i due mundi, e questo perché l’uno richiede il continuo e tempestivo intervento
dell’altro. Occorre dunque definire, come prima cosa, le possibilità di inserimento del soggetto
nell’astronomico movimento “di per sé” dell’universo dei “fatti”, e ciò significherebbe possibilità di
modifica e di valorizzazione. Proprio “di per sé” questa interazione non esiste.
I motivi sono da ricercare nel concetto stesso di mythos. In particolare in quello lunare, che finisce per
estendersi e strariparsi in tutti i termini a esso connessi, come la scienza, la comunicazione, quindi i rapporti
umani, i sogni, la fantascienza (che sempre incuriosisce Zanzotto14), ecc…
Mythos innanzitutto non è, qui o altrove dove se ne fa uguale uso, distinto dalla “trama” perché,
tradizionalmente, questo era l’uso linguistico che gli attribuiva Aristotele; ma soprattutto perché viene a
trovarsi nel ruolo di “contenitore” dell’intera materia; non per capriccio zanzottiano, come se avesse bisogno
di un unico “avversario” di discussione, ma perché la molteplicità e varietà del reale può essere condensata
autonomamente in questa generalizzazione.
Pertanto il poemetto riunisce sotto una sua raffigurazione letteraria l’insieme dei passaggi evolutivi e
“temporali” del mythos stesso, cercando al contempo di darne un’iconografia particolare e conforme allo
stato attuale delle cose; ma il mitico non potendo mutare sensibilmente i suoi densi simbolismi opterà per un
meccanismo inverso, cioè attirerà il reale dentro la unità necessaria (in verità sembra che i due elementi del
processo mettano in atto una sorta di collaborazione, gravitando attorno a un fuoco comune: questo per
10
Ivi, pp.3 e 5.
Termine individuato da Agosti per la volontà assimilatrice del soggetto poetico alla materia da lui stesso creata, e pur nei suoi limiti di chiusa
esegesi linguistica, il critico ufficiale di Zanzotto ha canonizzato il linguaggio “principe” da applicare alla poesia del suo campione, che per
larghissima parte è esaustivo.
12
Alcune osservazioni dell’autore, ivi., p.49
13
In sostanza un panorama frammentato, che nella sua molteplicità favorisce e rende possibile l’azione poetica (N.d.R.): per la critica basti citare il
saggio di F.Carbognin sugli aspetti “residuali” della materia zanzottiana, La materia del “corpus”: nota sulla poesia di Zanzotto, nella rivista “il
verri”, XLVIII, n.22, maggio 2003 (“La materia dell’arte”).
14
Cfr. il saggio di A. Zanzotto, Alcuni sottofondi e implicazioni della SF, in Id., Scritti di letteratura, II (Aure e disincanti del Novecento letterario),
Mondadori, Milano 2001.
11
3
motivi di stabilità esistenzialista, nel senso dell’uguale valore d’essere, e quindi di importanza, che hanno
nella poesia zanzottiana). Ci sembra inutile, dunque, richiamare alla memoria la storia del mythos lunare,
limitandoci a constatare che Zanzotto vi aggiunge un particolare ripescamento romantico: la Luna
frammezzata dagli alberi in una selva buia, eterno luogo di sfida tra le forze della natura e perenne luogo di
violenza15. Poi, per un’associazione ugualmente mitologica, la Luna assume l’antropomorfismo di Diana, dea
della caccia16 (forse un subitaneo richiamo alla “violazione” effettiva del satellite da parte della/e superpotenza/e), ornandosi così di tutti gli attributi femminili e “sessuali” del caso (basti vedere la battutaintervento proposta): essi possono così, all’occorrenza, essere libidinosamente “violati” tanto dalla storia
quanto dal poeta.
Non siamo molto lontani dal riconoscere un tipo di relazione molto “intima” tra la componente mitologica e
quella narrativa; cioè tra l’idealizzazione da una parte e la connotazione realista di un determinato evento
dall’altra. Indipendentemente dall’impalcatura “oggettiva” che si vuole dare il poemetto, l’autore instaura, a
una profondità letterariamente inconscia, quasi un foedus con l’oggetto mitico (in questo caso Diana) che
conserva pressoché intatta tutta la sua componente sacrale e “orgiastica” primitiva. Il rapporto “scambievole”
e condotto in termini così confidenziali da sottendere una fides quasi matrimoniale come già accennato, che
sembra talvolta allontanarsi dalla distinzione strutturalista (dovuta in parte a Lévi-Strauss, e soprattutto alle
polemiche immediatamente consecutive) di pensiero mitico-primitivo e mitico-letterario, dove il secondo
non “potenziava” nulla all’immanenza del primo, tranne che in componente meta-letteraria: per usare
categorie “vicine” ideologicamente, se da un lato il pensiero mitico-primitivo era rifratto in una langue,
l’altro era solamente una rielaborazione soggettiva o, al massimo, “poetica” e come tale il suo linguaggio
s’arena in una labile parole.
Ora, Zanzotto sembra procedere in un esperimento più complesso: non si limita a instaurare una sorta di
dialogo “sociale” attorno alle tematiche in questione, non intacca il mito lunare utilizzando solamente le sue
stesse maturate debolezze; ma estende questo movimento ellittico di uno, intorno a tutti i restanti target di
discussione: e lo fa servendosi della lingua di “profondità”, cioè di un sistema di comunicazione che
rintraccia e riqualifica ogni singolo suo componente (parola) in una ricerca invisibile nei “meandri” della
langue, cioè della radice stessa di un fenomeno linguistico (e in parte anche culturale). In poche parole, non è
totalmente un’intuizione puramente poetica, ma è anche costruzione supportata da precisi risultati e
assimilazioni culturali, personali e non. Se il carattere di parole è innegabile per una lingua poetica e pertanto
legittimamente “singolare”, qualora essa sia supportata e “amplificata” da attributi sovra-personali propri di
una tradizione, in questo caso del mythos considerato nella sua fase letteraria oppure di altre selezioni dalla
storia della cultura (per esempio il discorso del titolo), il suo carattere oggettivo non è da accantonare.
Rimane, nonostante tutto, il problema dell’interazione autore-testo. Richiamare uno dei principali
postulati di Lévi-Strauss sarebbe troppo facile, poiché se è vero che il principio di indeterminazione
formulato da Heisenberg è quanto mai valido per le scienze umane, affermare che «in qualsiasi scienza
l’ostacolo è costituito dalla interdipendenza dell’osservatore e del fenomeno osservato»17 significa escludere
la possibilità stessa di una realizzazione almeno “stabile” nel campo artistico, che gioca tutto su questo
punto.
Frattanto, quello che i maggiori critici hanno configurato come “stridimento” o “irritazione” dell’unità
poetica zanzottiana, non è una sovrapposizione tra io avversi che tentano un’autenticazione su valori
“assoluti” (e per carità nessuno ai nostri giorni è ignorante della relatività di ogni pensiero umano) poiché
consapevoli, e responsabili al tempo stesso, della dissociazione dell’Io in enti molteplici e
antropologicamente diversi (“deflagrazione” del concetto di persona)18; è invece l’ingigantirsi di una frana
che nasce nel punto di contatto tra un Io cosciente e impegnato e il suo passato “primitivo”, racchiuso
(“rimosso”) nella sfera dell’inconscio. Tale anteriorità trova un suo riconoscimento di ragione nel mythos,
grazie al rapporto di prossimità che il soggetto istituisce con un reale in “sbandamento”: cioè con le forme
costitutive della realtà che tanto in apparenza (livello stilistico) quanto in ultima lettura (livello cognitivo)
sono uguali al mythos per i termini di presentazione idealizzata. Ecco quindi scoperto e inventato il nesso e
“luogo” psichico di passaggio tra i due universi di Matte Blanco. Però, se il soggetto è il garante e il princeps
esecutore dello scambio celebrale, non è sufficiente a relazionare il connubio mythos-corpus formale con la
15
“Ero il trauma in questo immenso corpo di bellezza/ corpo di bellezza è la selva in profumo d’autunno/ in perdizione d’autunno/ in lieve niveo
declivio niveo non più renitenza/ stelle bacche stille in cori/ viola e rosso sul lago di neve”, A. Zanzotto, Gli sguardi i fatti e senhal, op. cit., p.5
16
“Ah ballo sui prati || Diana || ah senhal ||”, ivi, p.14
17
Cfr. E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino 1977, p.408.
18
La critica è furiosa: basti vedere il lavoro di S.Agosti citato all’inizio in calce, e in particolare il saggio “post-fazione” al poemetto.
4
produttività pratica dei risultati: occorre un impegno ulteriore, che passa tra le etimologie del corpus o,
meglio, nel punto in cui è ideologicamente scorrevole.
Fondamentalmente, sebbene l’origine teoretica del corpus poetico sia posta ovviamente all’interno del
secondo livello di lettura (in quanto è presumibile dai contenuti del primo) si converte in una spinta ulteriore
dal punto di vista logico e si solidifica ai margini: in orbita satellitare intorno al poemetto. È fuori da
entrambe le logiche e quindi non può essere virtualmente interattivo come logos mitico-primitivo (che
rimane solo arido serbatoio di nozioni). Dovremmo quindi pensare a uno spostamento e “distacco” ancora
più marcato di quanto non sia ontologicamente tra quel logos e quello mitico-letterario.
Prima di trattare l’universo “ultimo” è necessario intervenire sul pensiero mitico-letterario formalmente (e
con questo il ruolo del critico è veramente concluso) per capovolgere quella premessa immutabile del
mythos: la sua inattaccabilità grazie alla sua posizione troppo “sopraelevata”. Infatti, se il poeta avesse voluto
limitarsi a registrare o documentare una situazione a-temporale e divinamente separata, non avrebbe fatto
altro che proiettare il suo essere in tale “etere” (cosa che in verità ha fatto fino a questo punto del processo),
rinunciando a modellare la sua idea in-corporea, magari abbandonandosi a qualche rimpianto dell’età
dell’oro o alla malinconia dell’emarginato (ermetismo contemporaneamente particolare e accettato alla
Quasimodo); ma siccome il suo obiettivo rientra nei termini di “apertura” di spazi di senso, deve precipitare
cristianamente in “carne” sul mondo e sulle sensazioni, portando con sé anche il mythos, così che non sia più
protetto dalla barriera fire-wall del “sublime”, il suo eterno motore immobile.
Questa tangibilità dell’essere poetico si rifà d’altronde al cortocircuito, sopra dichiarato, di mitico e poetico
del poeta, che lo lega a sé con una pietas innologicamente religiosa19.
Occorrerà quindi superare ogni dogmatismo di fondo, e separare la “trama” del mythos dall’assuefazione
ideologica che le compete: cioè la stessa idea di sublime. Si intende ricavare un enorme apparato “detritico”
dall’uniforme unità del pensiero, poiché proprio nella “era del relativismo” avremo che ogni conoscenza non
può che partire dalla molteplicità e rifratta varietà dei temi e degli spazi.
Zanzotto opta per il preciso compito di rappresentare in “vere” forme ciò che le attuali convenzioni umane
hanno mascherato in modelli-forme. Si vede quindi come il problema non sia trascendente all’uomo, ma sia
connaturato all’interno dell’individuo stesso, che al giorno d’oggi ricalca impalcature sempre più
immaginabili ed astratte.20
Nell’universo parallelo del falso, l’uomo non dovrà solo capovolgere la sua materia di visione e di rapporto,
a convergere in un universo secante l’univocità dell’oggetto e a consentire per sé stesso un punto di approdo
“sicuro” alla ricerca (antropologica, scientifica, letteraria ecc…)21; ma dovrà innanzitutto “educare” la mente
umana ad assorbire il “nuovo” locus neo-abitato: perché se da un lato il vero è da raggiungere, dall’altro ciò
significa che fino ad ora l’essere ha vissuto in un universo virtuale (tutti i collegamenti con le moderne
problematiche della costruzione telematica dello spazio e del tempo sono aperti).22
Nel senso di questo risultato è restituito il “secondo” livello di lettura del poemetto. Sarebbe interessante
ripercorrere i luoghi poetici di “dichiarazione” pedagogica ed esaminare le norme espressive di
precipitazione del significante su un settore che finalmente gli compete, ma non è possibile fare altro che
constatare l’involucro sostentativo di questo nuovo parametro mentale e morale. Non solo perché la sede di
discussione non lo consente, ma perché si tratta di una cornice che rifugge da demarcazioni razionali,
“ragionate” e predisposte (da preconcetti o idea “a priori”): è il mundus dell’inconscio, ultimo universo
zanzottiano, dove il linguaggio adotta una forma onirica e autonoma da ogni rimasuglio di tradizione. Sono
costrutti particolari di accesso al significato del testo grazie ad altrettanto particolari chiavi, che apriranno la
via di comunicazione in un canale “sotterraneo”, dove il linguaggio fa proprie regole e non esclude una
pluralità di soluzioni. Ne verrà quindi che, pur potendo abbozzare una “maniera” di senso, esso non sarà
generale e arbitrario della ragione, ma sarà molteplice e ramificato nella psiche di ognuno: il fine poetico è
soggettivo ad ogni lettore (il critico, si ribadisce, ne resta disperatamente fuori) a seconda del suo potenziale
immaginativo – è l’idea di abbassamento del mythos ad essere assoluta, e diviene legge da applicare ad ogni
19
Per esempio l’esasperazione del vocativo nella prima battuta a p.6 del poemetto (Ah quanto ti sei somigliata oggi quanto [ecc…]) o il ripetersi
delle invocazioni dichiarative nell’ultima battuta a p.9 (mi avevi non avevi rimedio/ mi avevi tolto filtro e agogie/ mi avevi [ecc…]).
20
Non siamo di fronte a qualcosa di diverso dalla prostituita prole dell’era televisiva, che non si impegna più artisticamente ad essere “imitazione”
delle azioni umane (la Poetica aristotelica si applica anche alle nuovissime arti), ma si presenta come azione architettata per essere vogliosamente
imitata dai comportamenti sociali. Si veda la Nota del 1989 aggiunta in calce al saggio conclusivo di Zanzotto sul suo poemetto (è d’obbligo
segnalare la “divaricazione” tra cinema e TV, come annota egli stesso).
21
“Ora me ne andrò me ne andremo sull’altro bordo della ferita/ ma lascerò proiezioni di qua nel cristallo/ nello stabilizzato nell’in-fuga che che/
che è il mio respiro-sospiro”: è la Luna o Diana che parla. A.Zanzotto, Gli sguardi i fatti e senhal, op. cit,. p.14
22
Si veda ancora l’ultimo numero del “il verri” sopra citato, dove si tratta “La materialità intermedia del virtuale” (F. Pellizzi) anche in relazione
alle nuove “scoperte” del cinema alle frontiere di Matrix.
5
elemento che pretende di elevarsi al di sopra della sfera relativa che gli compete o al di sopra della sua
specifica unità di esistenza.
Terra a terra, ci sembra che Zanzotto propugni non tanto un modello di relativismo culturale (già
storicamente attestato anche all’interno della restante opera zanzottiana); ma piuttosto renda esplicita,
proprio come fa il test di Rorschach, la varietà dei desideri umani, sotto forma di rappresentazioni
immaginative: più iper-realistiche che virtuali, più corporali che idealmente volatili, e inganni piacevolmente
il lettore a decifrare qualcosa che agli altri non è consentito. Il relativismo è beffeggiato nella sua serietà di
modello: eccolo diventato strumento di appagamento (ancora l’ironia)23.Una soluzione parziale e letteraria
alle velleità umane.
Piuttosto che dichiarare un qualche storico senso dell’impresa lunare, Zanzotto è desideroso di poter
proporre un modello “altro” di relazione tra uomo e natura, tra essere e cosmo e anche tra gli uomini stessi
(non si perda di vista l’architettura dialogica del testo), almeno in prospettiva critica, cioè di interpretazione
della realtà: è un insegnamento carico di ethos, di speranza morale24. Educare però non significa solo
“agganciare” l’orbita del mythos e ricombinare particelle perfettive con particelle corrotte e materiali; ma
vuol anche dire accompagnare passo per passo il lettore nel progresso dell’esperimento, fino a consentirgli di
riconoscere l’immediatezza della comunicazione inconscia là dove si frappone il magma della testualità,
dell’altro da sé o della “carta stampata” converrebbe dire. Per cui un mediatore pedagogico deve
necessariamente manifestarsi in modo frequente e continuo.
Come per altre strutture e tematiche di base, Zanzotto fornisce alcune immagini che sintetizzano un
modello: una sorta di enciclopedia figurata.
Il bimbo-lupo di Wetteravia
il 1° bimbo-orso di Lituania
la bimba-scrofa di Salisburgo
[…]
Il bimbo di Husanpur il bimbo di Sultanpur il bimbo di Bankipur
il bimbo-lampo del Cansiglio la bimba-pioggia della Laguna
[…]
Realizzi, cogli? Tutti giungono le mani
vedi beatrice con quanti beati
vedi la selva con quanti abeti
giungono le mani giungono le zampine
i pueri feri noi pueri feri mi congiungo
orando pro e contra sul tema del ferimento25
La citazione dei casi ci trasporta immediatamente in un ritorno all’infanzia; non nei termini di acquisizione
di “meraviglia” alla maniera pascoliana, ma di regresso allo stadio antropologico: cioè un ritorno a una
possibilità di vita “immediata”, condotta all’insegna dell’unione biologica o biologale26 con la natura, così da
non subire interferenze e manipolazioni subliminali.
Non è però lo spazio degli istinti, dell’alogon; poiché la stessa stesura razionale degli eventi-immagini
presuppone un rimescolamento e ordinamento dei concetti. Il fatto che essi presentino una certa casualità è
da riconoscere nei fini poetici piuttosto che in quelli pedagogici (che come spiegato subiscono slittamenti a
livelli di lettura diversi).
23
«Io o tu o tutti, ho rapporto con queste terre/ con questi sogni di ferite di strappi carnei dirotti/ fabulei non mai maturi» A.Zanzotto, Gli sguardi i
fatti e senhal, op. cit., p.13. Chiaro è il fatto che il soggetto sia labile e prodotto figurale della confusione semantica. Ognuno dei tre subisce un
rapporto di appagamento individuale dalla grande potenza dell’orrido, dal dramma lunare.
24
Non va dimenticato che Zanzotto dà, per primo, esempio della funzionalità spendibile alla sua poesia, non solo nell’impegno intellettuale di
letterato e acuto critico (intendendo nei confronti della totalità della vita condotta all’insegna della forma umanistica dell’essere); ma anche per la sua
attività quotidiana di insegnante, quale è stato fin da ragazzo. Poesia totalmente pragmatica.
25
Ivi, pp. .9-10.
26
Uno dei concetti fondamentali del saggio Il mestiere di poeta, nella sezione Prospezioni e consuntivi, in Andrea Zanzotto, Le poesie e prose scelte,
Mondadori, Milano 1999.
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Quindi l’emblema che condensa il tentativo del poeta-docente è ancora una volta, com’era accaduto per
l’impianto narrativo, storico.
È il “caso” antropologico, pedagogico e giornalistico degli enfants sauvages: cioè di quei bambini, più
spesso neonati, abbandonati alla vita selvaggia e cresciuti dalla natura stessa, come un qualsiasi altro
animale, subendo una marcata metamorfosi a seconda dell’animale che gli ha accuditi27. Una sorta di animalmater, confermando la tendenza esclusiva di Zanzotto a considerare origine della poesia la materia, secondo
la radice etimologica che l’avvicina a una mater.
L’immagine degli enfants sauvages “dice quale peso abbia l’ambiente, cioè il fatto sociale, nella struttura
stessa dell’uomo” ed è la personificazione che “l’uomo è quel particolare animale che non ha natura; la
natura umana è una convenzione; in fondo l’uomo può arrivare ad essere uomo, ma può restare benissimo
al di sotto degli animali”28. Oltre al fatto che è statisticamente verificato che nella stragrande maggioranza
dei casi non si riesce a portare queste persone a un livello “normale” di educazione, e ciò significa che una
parte umana, annidata nell’inconscio, può emergere come “dominante” nell’uomo e dargli forma ferina; è
anche sottolineato, in questo intervento, la precarietà dell’uomo rispetto alla natura, che lo domina
incessantemente; poiché esso non possiede forze sufficienti per contrastarla o sopraelevarla nel suo agire
(tema ampiamente sviluppato, sia da Pico della Mirandola, come ricorda Zanzotto immediatamente dopo, sia
dal lontano Lucrezio).
Per concludere, quindi, Gli sguardi i fatti e senhal, in questo senso opera “apologetica”, non chiedono al
lettore l’abolizione delle convenzioni sociali, così da addentrarsi nei recessi della psiche liberamente; ma
piuttosto tentano una rielaborazione, una “guida” di queste convenzioni. Occorre farsi destinatario di
contenuti e riconsiderare la propria natura primitiva; per vedere il reale non esclusivamente dal punto di vista
dell’esperienza dei sensi e del pathos animale; ma per possedere uno strumento in più da opporre, quando
serve e quando l’artificiosità telematica vuole farsi unica lente del mondo, alla falsità incombente di una
comunicazione appunto snaturata; cioè che non trova in un utile scambio di informazioni il suo fine, ma solo
un meccanico riconoscimento di sé stessa e delle sue potenzialità. È un appello contro “l’arte per l’arte”.
Appello che mira a soverchiare i dogmi e a dare le cose.
Il mezzo per farlo è lo stile; che non è funzionale alla forma, in una sorta d’arido circolo vizioso; ma al
contenuto, al tema, alla storia che accade e che è accaduta, ai movimenti dell’affezione. Come lo stile ha
cercato il senso in un primo strato logico del poemetto secondo una facile equazione:
significante : significato = coscienza poeta : x
in cui x è uguale appunto al senso internato nella psiche; nell’altro strato, quello del fine poetico, la x sarà
l’acquisizione da parte della massa lettrice delle informazioni “scoperte” dal poeta, che è il responsabile della
divulgazione di un nuovo modello di percezione. Egli mira all’unione delle forze intellettuali dell’autore per
progettare un tipo “nuovo” di società: “forse siamo rimasti noi pure enfants sauvage rispetto ad altro, che in
un’altra società, saremmo potuti divenire, tutti […]. Essi ci restano perciò misteriosamente fratelli”29.
Infatti se si ricerca il motivo della struttura a doppio universo dovrebbe apparire chiaro il rifiuto di una
prassi astratta, secondo i termini dettati sopra; ma tuttavia contemporaneamente potrebbe sorgere un naturale
dubbio sulla funzionalità di una simile costruzione. In sostanza il lettore potrebbe vertere in favore di una
scrittura ad andamento singolo; dove la forma sia immediato e totale insieme dei contenuti, svelati senza
allusioni in tutti i loro temi, e chiedersi se il fine poetico non potesse essere conseguito con minore sforzo.
Come esempio potremmo portare il raffronto tra Dante e Boccaccio elaborato da Auerbach nel suo libro
fondamentale; dove dal solo livello stilistico, e in questo senso punto univoco del ragionamento, si dimostra
che Dante, pur utilizzando «una duttilità minore» raggiunge un «dominio […] sui fenomeni30» maggiore di
quello ottenuto dalla varietà linguistica inconcepibilmente originale del Boccaccio.
Zanzotto non fa che utilizzare un sistema tale da consentirgli di riaffermare la necessità dell’esperienza
della realtà, e lo fa in un momento in cui, a causa della situazione storica (clima da Guerra Fredda,
suggestioni favolistiche e fanta-tecnologiche legate alle rivoluzioni copernicane in atto al tempo…) ciò era
27
Ovviamente ciò è vero per la prima sequenza della serie proposta sopra, mentre la seconda è invenzione-amplificazione dell’elenco, per elevare il
carattere storico, unendolo a uno più poeticamente significante.
28
Alcune osservazioni dell’autore, Gli sguardi i fatti e senhal, op. cit., p.51.
29
Ivi, p.52.
30
E.Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, I, Einaudi, Torino 1956, p.239.
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compromesso. Lo era anche da un punto di vista culturale, perché si opponeva allo strutturalismo se non
nello stile, almeno nel pensiero: poi, a nostro parere, anticipava di poco l’esplosione del post-modernismo,
manifestando senza ammiccanti abbagli l’arrocco difensivo di un ragionamento fallace. Già allora per
Zanzotto era evidente che il mondo, anche quando si spinge ad “oltranza” (altro termine definitorio del
poeta), non si riduce a linguaggio; nemmeno se opera una sintesi in questo senso o, appunto, una
“condensazione” delle sue strutture. Di fronte all’incisione violenta degli eventi il corpus poetico non rimane
emotivamente distratto; ma subisce una flessione dei suoi nessi primari, sviluppa contraddizioni
“sentimentali”. Il sistema duale non è ente originale. Ribadisce la natura arcaica dell’essere, che si muove su
due fronti, all’interno di una ricerca mediale tra ideale e reale. Ugualmente la poesia rappresenta e discute
negli stessi mobili termini.
Anche nei nostri tempi dichiaratamente post-moderni si ripropone questo andamento ciclico. Esso,
assumendo descrizioni care a Nietzsche, fa in modo di disilluderci costantemente; ed è motivo di
preoccupazione il fatto che usi sempre la storia per questo: non perché la letteratura è elemento troppo debole
nel suo “profetizzare” – questo è ovvio nei suoi caratteri artificiali di carta scritta – ma perché il
ragionamento non è utile a prevenirlo, a prevaricare la sua costanza anche quando la denuncia è mossa con
l’arte – che sul piano teorico dovrebbe avere capacità informative e formative maggiori di qualsiasi altra
forma comunicativa.
Nonostante tutto il tentativo pedagogico resiste e cerca di indurre in coscienza l’interlocutore; magari
tentando di valutare il fatto che il post-moderno non muore nel momento in cui crollano le Twin Towers,
perché ci devono essere ragioni sempre necessariamente anteriori tanto alla negatività della “strage, quanto
alla positività della “apoteosi”. Ogni ragionamento sembra infatti nascondere in sé un punto di vista alienum,
che lo staglia in una posizione smarrita e traballante rispetto alla sicurezza dell’uniformità; ma che riesce
anche a ruotare il senso (di qualunque segno sia) intorno al suo destinatario, secondo una prospettiva da
eterno ritorno. Zanzotto non si limita a scegliere tra gli estremi di una ambiguità che gli è interna, poiché
umana; preferisce presentarsi come colui che protende ad entrambe.
Sembra, in un certo senso, la gloria della “poetica dei vinti” cara a tanta letteratura, dove Virgilio o Dante
rinunciano a negare una certa altezza agli sconfitti dalla vita e dal destino. Per cui il mundus infernale, che
sembra avere analogia con quello contemporaneo di Zanzotto, non nega l’affermazione dell’orgoglio anche a
chi ha già perso; ma il discepolo, forte della sua missione universale, non può dare il saluto al maestro,
perché è già in prospettiva di superarlo. Si limita solo ad ammirare che Brunetto Latini
Poi si rivolse, e parve di coloro
che corrono a Verona il drappo verde
per la campagna; e parve di costoro
quelli che vince, non colui che perde.31
31
Dante, Inferno XV, 121-24.
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