CRONACA DI UN CONVENTO CARMELITANO

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CRONACA DI UN CONVENTO CARMELITANO
CRONACA DI UN CONVENTO CARMELITANO DIVENTATO UN CAMPO PROFUGHI
Bouar – St. Elie, Pasqua 2013
Carissimi Amici,
normalmente vi disturbo soltanto a Natale, ma in molti mi avete scritto per avere notizie in
seguito agli avvenimenti che hanno colpito in questi ultimi giorni la Repubblica Centrafricana. Ecco
allora qualche informazione che spero possa tranquillizzarvi e invitarvi ad accompagnarci ancora di
più con la vostra amicizia e la vostra preghiera in questi giorni un po’ più difficili del solito.
Innanzitutto vi assicuro che stiamo tutti bene; sia qui alla missione di Bouar - St Elie, dove
abito, come anche nelle nostre altre quattro missioni: Bozoum, Yolè, Baorò, Bangui.
Domenica 24 marzo, come avete probabilmente saputo dai mezzi di informazione, c’è stato
un colpo di stato che ha condotto al potere il capo di una coalizione di ribelli chiamata Seleka.
Purtroppo la storia del Centrafrica è abituata a questi bruschi cambi di potere. Lo stesso expresidente era salito al potere in seguito a un colpo di stato nel 2003. Da mesi si temeva come
imminente questo colpo di stato. I ribelli infatti, da diversi anni, controllavano già la zona nord-est
del paese, che è anche la più ricca di petrolio. Nel mese di dicembre i ribelli erano ulteriormente
avanzati conquistando diverse città, alcune delle quali piuttosto importanti, e seminando paura e
insicurezza nell’intero paese. Proprio pochi giorni dopo Natale i ribelli si erano fermati alle porte
della capitale minacciando di conquistare il potere con la forza. Nel mese di gennaio, grazie alla
pressione e alla mediazione di alcuni paesi africani confinanti, si era giunti a convincere tutte le
parti – presidente, opposizione e ribelli – a firmare un accordo di pace nella città di Libreville,
capitale del Gabon. Questo accordo prevedeva la formazione di un governo di unità nazionale
(ribelli compresi), il rilascio dei prigionieri politici, il disarmo dei ribelli e l’abbandono, da parte
della Seleka, delle città conquistate.
Tuttavia la situazione – tutti ne eravamo ben coscienti – restava piuttosto precaria e, nel
corso delle settimane, è andata addirittura deteriorandosi. Sia per il mancato rispetto degli accordi,
sia per la determinata volontà dei ribelli di arrivare al potere. Nel frattempo, sempre più, è emersa
anche la percezione che ci fosse qualcosa di più di un semplice tentativo di colpo di stato. Le
testimonianze di quanti sono già stati raggiunti dalla Seleka affermano che i ribelli parlano arabo,
sono di religione musulmana e che – cosa che ci preoccupa di più – sono soprattutto le missioni
cattoliche ad essere oggetto dei saccheggi. C’è in atto una volontà di islamizzazione forzata del
paese? È sicuramente presto per dirlo, ma il timore è fondato. Inoltre, quanto sta accadendo in
Centrafrica si inserisce in un processo molto simile a quello già avvenuto in altri paesi limitrofi.
Tuttavia non sono soltanto le missioni cattoliche a soffrire. È soprattutto la popolazione più
povera che subisce le conseguenze dell’insicurezza generale. Molta gente si è ritrovata con la
propria abitazione distrutta ed è stata costretta a vivere per giorni nella paura, nascosta nella foresta.
Anche le poche attività economiche del paese hanno subito pesanti danni. L’appello dei vescovi del
paese, che denunciano l’asfissia in cui sta ormai vivendo la popolazione, resta senza effetto.
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Gli avvenimenti sono poi precipitati verso la metà di marzo. I ribelli hanno ripreso le armi –
che non avevano effettivamente mai lasciato – e hanno conquistato, una dopo l’altra, altre città,
avanzando rapidamente verso la capitale. La resistenza dell’esercito regolare è stata inefficace e il
presidente è stato costretto a fuggire all’estero, lasciando il paese in mano ai ribelli. Purtroppo il
colpo di stato ha portato con sé una situazione di grande anarchia e insicurezza. Inizialmente
saccheggi e regolamenti di conto si sono concentrati nei quartieri della capitale creando un clima di
grande tensione, paura e caos. Chi ha sofferto di più sono stati i nostri confratelli di Bangui che
hanno vissuto per una settimana chiusi in casa pregando, ascoltando gli spari provenienti dalla città
e ricevendo via radio gli aggiornamenti sull’evolversi della situazione politica. Ma per fortuna,
anche grazie al fatto che il nostro convento si trova in una zona periferica della città, i ribelli non si
sono mai fatti vedere. Purtroppo, invece, in diverse altre missioni, i ribelli hanno preso macchine,
gasolio, computer e soldi.
Con il colpo di stato ormai avvenuto ci illudiamo che sia ritornata una certa tranquillità. Non
è così. In capitale i saccheggi continuano e, velocemente, i ribelli si dirigono verso nord-ovest,
raggiungendo le altre città del paese non ancora occupate. L’operazione non è particolarmente
difficile, dal momento che in molte prefetture della provincia le autorità e i soldati dell’esercito
regolare si sono dati alla fuga.
Martedì pomeriggio arriva la notizia che i ribelli stanno per arrivare a Bouar. Qualcuno dice
dal sud (cioè dalla capitale), qualcuno dice dal nord (cioè dalla frontiera con il Camerun). Saranno i
ribelli o ‘semplicemente’ dei banditi che approfittano della situazione? Le telefonate tra le missioni
si susseguono frenetiche. Padre Carlo – 76 anni, fondatore della missione e da pochi giorni arrivato
in Centrafrica per un soggiorno di alcuni mesi – accelera il ritmo dei rosari che sta sgranando ormai
da giorni. Nel frattempo nascondiamo le macchine e i soldi. Teniamo in garage una sola vettura, la
più vecchia. Telefoniamo ai padri della nostra missione a Baorò, a 60 km da qui, dove abitano p.
Dieudonné, centrafricano, e p. Niccolò, altro fondatore della missione, 90 anni, di cui 42 in Africa e
altri in Giappone (chissà quante ne ha già viste e gli tocca vedere ancora questa… ). Per fortuna
stanno bene e i ribelli non si sono ancora fatti vedere.
Mentre siamo a cena arriva la notizia che i ribelli sono stati a Baorò e hanno preso soldi e
una vettura. Ormai ce li aspettiamo in casa. Padre Carlo incomincia a confondere i Pater noster con
le Ave Maria. Dopo circa un’ora ci telefonano, assicurandoci che la vettura è stata restituita.
Ringraziamo il Signore. Ma la paura resta. Teniamo il gruppo elettrogeno acceso, ma accendiamo
soltanto poche luci in modo che, se dovessero arrivare, i ribelli non localizzino immediatamente il
nostro convento. La città piomba in un silenzio assoluto.
Mercoledì mattina i ribelli arrivano in città. Per prudenza evitiamo di andare a scuola, come
di consueto, perché dovremmo attraversare la città che nel frattempo è rimasta ancora silenziosa e
immobile, come in attesa di qualcosa. Veniamo a sapere che tutti i negozi sono chiusi e che nessuna
vettura o moto circola per le strade.
A mezzogiorno papa Francesco lancia un appello per la pace in Centrafrica. Che onore! Che
gioia! Il papa ha pensato a noi nella sua prima udienza del mercoledì. Ecco le sue parole: “Seguo
con attenzione quanto sta accadendo in queste ore nella Repubblica Centroafricana e desidero
assicurare la mia preghiera per tutti coloro che soffrono, in particolare per i parenti delle vittime, i
feriti e le persone che hanno perso la propria casa e che sono state costrette a fuggire. Faccio
appello perché cessino immediatamente le violenze e i saccheggi, e si trovi quanto prima una
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soluzione politica alla crisi che ridoni la pace e la concordia a quel caro Paese, da troppo tempo
segnato da conflitti e divisioni”. Sapere di essere nei pensieri e nelle preghiere del papa ci
commuove, le sue parole ci scaldano il cuore, ci ridanno coraggio e tolgono un po’ di paura. Ma,
purtroppo, l’appello del papa resta inascoltato.
Sappiamo bene che i ribelli sono comunque in città e, per sdrammatizzare un po’ la tensione,
dico al cuciniere di turno di preparare un po’ di pasta in più… caso mai venissero e avessero fame.
Quando è ormai buio e siamo a cena arriva una macchina. Sono loro. Ci precipitiamo alla porta,
forse anche un po’ curiosi di vedere i loro volti. I mitra che portano al collo mi convincono che è
meglio attendere prima di invitarli a cena. Sono in due: uno in abiti civili e l’altro vestito da
militare. Ci chiedono se da noi è tutto tranquillo e se qualcuno è venuto a disturbarci. Parlano un
sango, la lingua locale, un po’ diverso da quello della nostra zona. Vorrei rispondere alla loro
domanda con queste parole : “Dipende da cosa siete venuti a fare”. Ma mi limito ad affermare che
la situazione da noi è stata tranquilla. Mi chiedono se abbiamo del gasolio. Evidentemente non
erano venuti per la pasta al sugo! A malincuore dico di sì, sperando che sia sufficiente fare il pieno
della loro vettura, sicuramente rubata in qualche missione visitata precedentemente. Ma quando si
avvicinano al garage insistono per avere un intero fusto di gasolio (200 litri!). Accettiamo per
evitare storie. Meglio perdere 200 litri di gasolio, piuttosto che una macchina. Nel frattempo
chiedono alla nostra sentinella della notte se abbiano una macchina nuova. La sentinella dice di no e
questa santa bugia gli varrà un aumento di stipendio. Chiedono poi a fra Odilon dove nascondiamo i
soldi. Fra Odilon gli dice di chiedere al responsabile della casa, cioè il sottoscritto. Ma per fortuna
preferiscono desistere e non mi chiedono nulla. Con fatica carichiamo il gasolio sulla loro
macchina. Fra Michaël è immobile, quasi pietrificato. Non riesco a capire perché non ci dia una
mano a caricare i 200 litri di gasolio. Poi, in seguito, mi fa intendere che non avrebbe voluto
sollevare neppure un granello di sabbia per chi sta ingiustamente conquistando il suo paese. Lo
capisco e mi accorgo della sofferenza, della confusione e dell’umiliazione che abitano nei cuori dei
miei confratelli autoctoni, per certi aspetti più a rischio di noi europei.
Mentre li aiutiamo a caricare il maltolto ci accorgiamo che il veicolo è stracarico di armi e
munizioni. Non ne ho mai viste così tante in vita mia. Quando il veicolo parte osservo il fusto di
gasolio appoggiato su quella montagna di armi; quasi temo che esploda, ma è poi una preghiera che
mi sgorga nel cuore: “Fa’, o Signore, che quelle armi non uccidano nessuno, fa’che quel gasolio si
trasformi in olio di pace, fa’ che diventi balsamo sulle ferite della nostra gente, fa’ che i fiumi di
petrolio che scorrono sotto il suolo del Centrafrica diventino fiumi di giustizia”.
Partita la vettura siamo stranamente più rilassati. Sono venuti e non ritorneranno. Recitiamo
Compieta, spegniamo il gruppo elettrogeno e andiamo a dormire. Ma, poco dopo le dieci, sentiamo
il rumore di alcune moto davanti al cancello. In un attimo siamo tutti in piedi, nei corridoi, vestiti
alla bell’e meglio. Decidiamo di non aprire la porta e di non reagire. Dalle finestre ci sembra di
capire che si tratti di militari, probabilmente aiutati da alcuni ragazzi del quartiere, venuti ad
approfittare della situazione. Attendiamo. Le moto ripartono, ma temiamo che si siano nascosti
nella concessione. Attendiamo ancora ed escogitiamo strategie che facciamo e disfacciamo. Quando
la situazione sembra essersi tranquillizzata ci ritiriamo. Faccio une breve visita in chiesa e ringrazio
il Signore che tutto è andato bene. E poi cerco di dormire… anche se ad ogni rumore mi sembra che
un ribelle possa uscirmi da sotto il letto.
Arriva il Giovedì Santo. Seguendo le indicazioni dell’arcivescovo di Bangui anticipiamo tutte le
celebrazioni alle 16h30 in modo che i fedeli possano rientrare nelle loro case prima del tramonto e,
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soprattutto, prima del coprifuoco. Ci aggrappiamo, come ad un porto sicuro, alle parole, ai gesti, ai
segni di quelle liturgie antiche, che celebriamo in modo semplice, quasi dimesso, ma pieno di fede
nel Signore, di speranza nella sua protezione, di amore per i nemici. Chiediamo al Signore che
infonda pace a questa terra e converta i cuori di chi è caduto nel vortice folle della violenza. La
preghiera ci dà conforto e ci aiuta a trovare un po’ di senso nell’intricato groviglio delle vicende
umane. E ci sentiamo un po’ solidali con i cristiani in Siria, in Nigeria e con tutti quelli che con la
guerra ci convivono veramente.
La sera del giovedì e la giornata del Venerdì Santo trascorrono piuttosto tranquille. Alla sera
del venerdì avvertiamo per circa un quarto d’ora degli spari. Non ci inquietiamo più di tanto.
Pensiamo che i ribelli vogliano semplicemente segnalare la loro presenza e stiano festeggiando la
conquista della città. Al mattino del Sabato Santo gli spari si ripetono e veniamo a sapere che ci si
sono stati degli scontri tra ribelli e qualche residuo dell’esercito regolare. È paradossale e
indimenticabile questo Sabato Santo 2013: nel giorno in cui Cristo dorme, l’uomo si agita; nel
giorno in cui anche la Chiesa sembra tacere e non osa neppure suonare le campane, gli uomini
litigano e risuonano gli spari dei fucili.
Nel pomeriggio ci apprestiamo a celebrare la veglia pasquale alle 16h30. I liturgisti più
animosi ci perdoneranno. Necessitas non habet legem, dice la regola carmelitana. E chissà se quei
miei confratelli del secolo XIII, costretti a lasciare a malincuore il Monte Carmelo incalzati dai
turchi, avevano pensato anche a questa eventualità. Ma forse non è soltanto per prudenza che
vogliamo anticipare la celebrazione. È soprattutto la fretta di cantare al Signore risorto e di gridare
finalmente l’alleluia, in barba a chi vorrebbe impedircelo.
Poco prima di iniziare la celebrazione ci raggiunge improvvisamente la notizia che i ribelli
si sono impossessati della nostra vettura, sebbene l’avessimo nascosta in una missione lontana dal
centro cittadino. Proprio la macchina nuova, acquistata grazie al vostro generoso aiuto e di cui vi
avevo parlato nella mia lettera di Natale. Ci sembrava di aver già pagato abbastanza e di aver
sufficientemente contribuito, con il nostro gasolio, alla causa della Seleka. Per fortuna i ribelli non
hanno fatto del male a chi custodiva la nostra macchina. Ma l’alleluia quasi ci muore in gola e non
ce la sentiamo ancora di suonare le campane. Per calmare il dispiacere penso a quanti, in questo
paese, una macchina mai l’hanno avuta e mai l’avranno.
Presiedo per la prima volta in vita mia la celebrazione dei riti della veglia pasquale. Fra
Michaël canta sicuro l’Exultet in sango. Sembra quasi una sfida – mentre il sole splende ancora nel
cielo – stringerci attorno al cero pasquale e cantare a squarciagola : “ Questa è la notte in cui
Cristo, spezzando i vincoli della morte, risorge vincitore dal sepolcro…”. Ma, più avanti, quasi
raccogliendo le nostre suppliche e per assicurarci che non ci siamo sbagliati, l’antico inno prosegue
e ci fa pregare: “O immensità del tuo amore per noi! Di questa notte è stato scritto: la notte
splenderà come il giorno. Il santo mistero di questa notte sconfigge il male, lava le colpe,
restituisce l’innocenza ai peccatori, la gioia agli afflitti, dissipa l’odio, piega la durezza dei
potenti, promuove la concordia e la pace…”. Padre Carlo tiene una semplice e appassionata omelia.
Ad un certo punto fa gridare ai fedeli “Jésus a zingo awe!” (Gesù è risorto). L’assemblea apprezza
e applaude, quasi per esorcizzare la paura che tutti ci avvolge.
Io osservo i nostri pochi fedeli: ci sono dei giovani e dei bambini. I primi sono già troppo
abituati a subire la violenza del prepotente di turno e la parola democrazia l’hanno letta solo sui
libri di scuola; i secondi sono troppo abituati ad avere paura e non sono neppure consapevoli che il
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loro paese è allo sbando. Quale futuro li attende ? Difficile dare una risposta. Io sono contento di
essere qui, di essere cristiano, di essere carmelitano, di pregare con questi miei confratelli, di essere
sacerdote per questa gente… Il pensiero di andarcene non ci sfiora neppure. Non pensate però che
siamo eroi! Ci siamo semplicemente trovati in una di quelle ‘periferie del mondo’, come ama
chiamarle papa Francesco: fuggire sarebbe non soltanto una vigliaccheria, ma perdere un’occasione
per vivere il Vangelo.
La notte trascorre tranquilla, come anche l’intero giorno di Pasqua. Poco prima della
preghiera di mezzogiorno ci raggiunge una bella notizia. Papa Francesco ha avuto ancora una volta
un pensiero per noi, in occasione del messaggio pasquale: “ Domandiamo a Gesù risorto, che
trasforma la morte in vita, di mutare l’odio in amore, la vendetta in perdono, la guerra in pace. Sì,
Cristo è la nostra pace e attraverso di Lui imploriamo pace per il mondo intero. Pace per l’Africa,
ancora teatro di sanguinosi conflitti. Pace nella Repubblica Centroafricana, dove in molti sono
costretti a lasciare le proprie case e vivono ancora nella paura”.
A tavola la gioia non manca. Ci sono i peperoni della mamma, il grignolino del papà, gli
ovetti al cioccolato del provinciale: manca solo il papa! Il chiostro è in fiore che sembra primavera,
sono nati 11 pulcini ed è arrivato pure un gattino che abbiamo battezzato Seleka.
Le nostre uscite di casa sono ancora piuttosto timide e le attività non sono ancora del tutto
ricominciate. Nel frattempo facciamo delle inchieste per cercare di recuperare la nostra vettura. Ed è
forse anche per questo che, chiuso in casa, posso permettermi il lusso di ammazzare il tempo
scrivendovi con una certa spensieratezza.
La situazione, sebbene si stia lentamente normalizzando, resta tuttavia ancora molto
precaria. Ci sono ancora dei saccheggi, si contano i morti e ci si lecca le ferite. Il paese è come un
ammalato che aveva bisogno di medicine e invece ha ricevuto bastonate. Il nuovo presidente ha
sospeso la Costituzione, sciolto il parlamento, assicurato di non presentarsi alle elezioni del 2016 e
promesso di cancellare la miseria che affligge il paese. È, quest’ultimo, anche il nostro augurio. Le
incognite sul futuro sono molte. Per qualche giorno il paese è stato alla ribalta della cronaca
internazionale. Ci auguriamo che gli interessi internazionali, in agguato sulle ricchezze minerarie
del paese, non impediscano al paese di avviarsi sulla strada dello sviluppo, della democrazia, del
rispetto dei più deboli. La Repubblica Centrafricana manca purtroppo di una classe dirigente
efficace. Chissà se alcuni di quei giovani che – grazie alla vostra generosità – stiamo aiutando a
studiare, potranno un giorno servire il loro paese con competenza e disinteresse. E, soprattutto, ci
auguriamo che cristiani e musulmani possano convivere in pace come è stato fino ad ora nella storia
del paese.
Ancora grazie per le vostre preghiere, la vostra amicizia e il sostegno con cui ci avete
accompagnati in questi giorni difficili, ma comunque di grazia. Non dimenticatevi di chi sta
sicuramente peggio di noi e ha subito più danni.
Viva il papa!
Un abbraccio
Padre Federico Trinchero
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Notiziario da Bangui n° 1 - 5 Dicembre 2013
Carissimi confratelli, ciao!
Come penso abbiate già saputo, oggi la situazione a Bangui è improvvisamente precipitata. Anche
per noi qui è difficile capire cosa stia veramente succedendo. Ci sono stati spari, morti e saccheggi
in quasi tutti i quartieri. Gli ultimi spari si sono sentiti verso le 19.00.
Al Carmel stiamo ospitando più di 500 persone. E’ difficile contarli tutti. Provengono da diversi
quartieri. La maggior parte sono bambini molto piccoli con le loro mamme. Ma ci sono anche tanti
ragazzi.
Siamo riusciti a dare un po’ di cibo caldo a quasi tutti. Nell’attesa abbiamo recitato insieme il
rosario per chiedere a Maria il dono della pace. Per fortuna c’è anche Cedric e quindi abbiamo
anche un dottore.
Gli studenti e i pre-novizi si sono dati da fare senza tregua. Ora la gente sta più o meno dormendo
nel cortile tra la chiesa e il refettorio. Sappiamo che la situazione è analoga in altre parrocchie e
comunità religiose della capitale.
Oggi non siamo andati a scuola e penso che per qualche giorno sarà più prudente non andarci, anche
se si tratta di un viaggio di soli 4 km.
Non c’è dubbio. Siamo proprio una ‘chiesa ospedale da campo’… Che privilegio!
Un forte abbraccio nel Signore e portateci sempre nella preghiera come avete fatto fin’ora.
Padre Federico
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Notiziario da Bangui n° 2 – 6 Dicembre 3013
Carissimi,
ecco un altro aggiornamento dal Carmel di Bangui.
La notte è passata abbastanza bene per i nostri 600 graditissimi ospiti.
Verso le tre del mattino arriva però la pioggia – anche se la stagione secca è appena iniziata – e
quindi siamo costretti ad aprire anche la Chiesa per proteggere tutti. Del resto, già ai tempi di papa
Leone Magno il popolo di Roma si salvò dai Vandali rifugiandosi nelle chiese. La storia si ripete e
ogni epoca ha la sua seleka… e per fortuna i suoi Leone Magno.
Alle 6h45, dopo aver messo un po’ di ordine celebriamo la Messa. La Chiesa è ovviamente piena.
Tutti sappiamo per cosa e per chi vogliamo pregare. In particolare affidiamo al Signore le anime di
chi ieri è morto nei quartieri di Bangui. Pare che siano circa 300.
Dopo la Messa molti ripartono per rientrare nelle loro abitazioni. Il coprifuoco è infatti terminato.
Provo a fare colazione, ma mi chiamano al portone d’ingresso. La gente corre verso il Convento. E’
il panico. In quartiere si spara ed è meglio ritornare al Carmel. Li accogliamo a braccia aperte. Li
sistemiamo come meglio possiamo. Anche se la poggia, ad un certo momento molto forte, rende
tutto più difficile. C’è per fortuna solo un ferito. Moltissimi, ovviamente, sono bambini. Provo a
contarli discretamente, perché non vorrei mai che qualcuno pensasse che non ci sia posto per lui.
Sono quasi 2000.
Telefoniamo all’arcivescovo, in nunziatura, all’ambasciata francese per informarli della nostra
situazione e chiedere se ci possano dare una mano per nutrire la gente. Ma comprendiamo che non
siamo gli unici a vivere una situazione del genere. Attraversare la città per venire qui da noi è
difficile per tutti. Pazienza ci organizzeremo diversamente.
Verso le 10 due caccia rombanti attraversano il cielo nuvoloso. Sono arrivati i francesi! La gente
applaude. Io quasi piango.
Poco dopo il cielo si rischiara un po’. Gli uomini rientrano nei quartieri. Restano con noi le donne e
i bambini.
Ci organizziamo per preparare qualcosa da mangiare. Raccogliamo qualcosa nell’orto. Svaligiamo,
con il suo permesso, il pollaio di un nostro amico musulmano Youssouf, che si trova poco distante
dal convento. Riusciamo a recuperare più di 2000 uova che, in questi giorni, non potrà vendere in
città. Poi prepariamo delle deliziose frittelle per i più piccoli.
Ogni tanto faccio qualche giro per salutare i nostri ospiti. Molti preparano qualcosa da mangiare.
Altri si lavano come possono o sistemano i pochi vestiti con cui sono venuti. C’è addirittura chi ha
messo su una farmacia ambulante e vende a prezzi stracciate medicinali di prima necessità.
Ovviamente le nostre aiuole di fiori subiscono ingenti danni. Pazienza!
Non ho il coraggio di chiedere a questa gente la loro storia e il motivo per cui sono qui. Soffriamo
tutti della stessa cosa. Chiedo ai bambini il loro nome. Uno si chiama Shalom, l’altro Dieu Sauve…
cosa volete di più? Le donne sono tutte concentrate a cucinare e a consolare i loro bambini. I vecchi
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sono pochissimi. I volti più tristi sono quelli dei giovani e degli uomini della mia età. Sono esausti.
Che futuro li attende? Deve essere insopportabile avere una voglia matta di ribellarsi e non poterlo
fare.
In questi giorni non riusciamo più a pregare secondo l’orario abituale. Inoltre la nostra chiesa è
ormai occupata da trecento bambini. Ci pensano loro a pregare al posto nostro. I loro strilli e il loro
pianto ininterrotto suppliscono abbondantemente alla nostra salmodia.
Alle 16.30 organizziamo la più grande merenda sinoira della storia con igname e manioca per quasi
tutti. Qualche difficoltà nell’organizzare le file… ma alla fine ne siamo usciti sani e salvi.
Dopo le 17.00 arrivano altri aerei. Siamo tutti con il naso all’insù. I bambini non stanno più nella
pelle e per qualche minuto dimenticano la fame. Cose così le hanno viste soltanto nei film e questa
è realtà.
Come vedete ho anche il tempo di scrivervi. I miei confratelli sono così bravi che non mi lasciano
far niente. Lavorano senza sosta dal mattino alla sera come cuochi, idraulici, elettricisti, servizio
d’ordine… Sono davvero fiero di loro. La nostra chiesa-ospedale da campo si è mobilizzata con una
efficacia impressionante.
Per caso ci è capitato di vivere questa cosa. Ed è un dono che non vogliamo sprecare. E ci dispiace
per voi che siete tanto in pensiero per noi. Ma le vostre preghiere, la vostra amicizia ci sostengono
più di quanto possiate immaginare.
A domani
Padre Federico
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Notiziairio da Bangui n° 3 – 7 Dicembre 2013
Carissimi,
ecco altre notizie dal campo profughi Carmel de Bangui.
La notte è trascorsa piuttosto tranquilla. Ma, dopo la precedente notte passata quasi in bianco, ho
preferito cambiare stanza da letto. La finestra della mia cella dà giusto sul cortile dove centinaia di
bambini piangono e strillano a turni regolari. Io, che per scelta non ho avuto figli, in questi tre
giorni penso di aver recuperato egregiamente! Ma bisogna pur riposare bene per essere efficaci il
giorno dopo. Dormo nella stanza del provinciale: sono sicuro mi perdonerà. Mi vergogno di potermi
fare una doccia e di dormire su un materasso. Ma il sonno è forte e mi aiuta a scacciare questi
pensieri.
Alla cinque siamo quasi tutti già svegli. Faccio un giro di perlustrazione per dare il buongiorno ai
miei ospiti. Trovo due famiglie nella sala del capitolo! Neppure me ne ero accorto che erano finiti
lì! Poi vado in chiesa. Due bambini hanno pensato bene di mettersi a dormire proprio sotto l’altare.
Questo sì che è sensus fidei dei piccoli : non c’è posto più di protetto di quello. Altri sono
addormentati sugli stalli del coro e pregano al nostro posto.
Alle 6h30 celebriamo la Messa all’aperto. I bambini non ne vogliono sapere di lasciare la loro
chiesa e noi non abbiamo voglia di svegliarli. A malincuore decidiamo di spostare il Santissimo in
una cappella interna. Ma ci sono i poveri, dunque Gesù c’è.
Gli uomini e alcune donne, come ieri, rientrano nei quartieri per recuperare qualcosa, costatare i
danni e, purtroppo, sapere di chi è morto. C’è una bambina che da due giorni cerca il suo papà e la
sua mamma. Facciamo un affido temporaneo alla cuoca che, con suo marito nostra sentinella, abita
nella nostra concessione. Ha già tre figli e giusto qualche giorno fa le chiedevo se pensava di farne
un quarto. Eccola esaudita! C’è anche un papà con un bambino di pochi mesi che da due gironi non
trova sua moglie. Registriamo i loro dati e spargiamo la voce. Speriamo. Alla sera il papà ritrova
finalmente la moglie e la mamma del suo bambino.
Alle 9h00 parte la nettezza urbana… perché circa 2000 persone che insistono su uno spazio, grande
più meno come un campo da calcio, hanno indubbiamente le loro esigenze e qualche inconveniente.
Se dobbiamo essere un campo profughi lo dobbiamo fare bene.
Con i bambini ripuliamo tutta la zona. Poi in fila indiana ci si lava le mani e in premio c’è una
frittella. Il nostro campo profughi è quasi più pulito di Bolzano! Nel frattempo la gente cucina, lava
i bambini, fa il bucato e stende i panni. Anche la rete del campo da pallavolo diventa un comodo
stenditoio.
Organizziamo l’accesso all’acqua e ai WC; disinfettiamo con la candeggina e delimitiamo le zone
con la calce. Neppure Guido Bertolaso e la protezione civile italiana avrebbero potuto fare meglio
in così poco tempo e con così pochi mezzi.
Cedric, il nostro medico da campo (mannaggia! davvero un frate mancato!) continua a ricevere
gente e distribuire medicine. I casi più gravi sono nel noviziato.
Continuano ad arrivare aerei, ma ormai non li contiamo più.
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Verso le 15 arriva dal vicario episcopale e dall’Unicef l’ordine di registrare tutti per ricevere degli
aiuti. Ci mettiamo subito al lavoro. Sei segretari (2 per i bambini, 2 per le donne e 2 per gli uomini)
lavorano alacremente fino a quasi le 21 e non riescono a finire. Ovviamente posso già annunciarvi
che bambini hanno stravinto! La gente è davvero tanta, il cortile, le casette, la chiesa non bastano
più, e ormai dobbiamo aprire un’altra ala del convento, quella dove ci sono i garage e gli atelier.
I miei confratelli non smettono un istante di lavorare e riposano a turni. Ogni tanto si mangia un
boccone e poi si riparte.
Io cerco, come posso, di dirigere il traffico con l’aiuto di p. Mesmin e di p. Matteo (da soli due mesi
in Africa, ma se la cava benissimo!). Come vedete, ho anche il tempo di dedicarmi alle trasmissioni
delle informazioni e alle pubbliche relazioni… cercando di sorridere un po’ per non piangere
troppo.
Alle 21 mangiamo qualcosa e organizziamo la strategia per l’indomani. Ascoltiamo le notizie e ci fa
piacere sapere che il mondo parla di noi.
Poi preghiamo per i nostri 2000 ospiti. Questa gente che proteggiamo in realtà ci protegge.
Preghiamo per i nostri confratelli e la gente di Bozoum che a quanto pare se la passano peggio di
noi. Ne approfittiamo anche per chiederci perdono l’un l’altro perché con la tensione ci possono
essere state delle parole dure tra noi e piccole incomprensioni. Se vogliamo – e quanto la vogliamo!
– la pace nel paese, dobbiamo fare in modo che ci sia pace innanzitutto tra di noi.
Buona notte!
Padre Federico
PS. Per quanti, nel notiziario di ieri, non avessero capito cosa fosse una merenda sinoira : dicesi
merenda sinoira una merenda abbondante che fa da cena, distribuita verso le 17, ora di Torino.
Insomma: una sorta di the all’inglese, ma molto più abbondante e rustico. Per un piemontese aver
fatto questo in Centrafrica per 2000 persone procura una discreta soddisfazione.
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Notiziario da Bangui n° 4 - 8 dicembre 3013
Carissimi!
La notte è passata abbastanza tranquilla. Soprattutto abbiamo un po’ di paura per gli uomini. Alcuni
sono un po’ agitati e covano sentimenti di rancore. Inoltre, pur essendo i più forti sono i più
minacciati. La Seleka li cerca e li vuole eliminare. Qui da noi si sentono protetti.
Alle 8.30 celebriamo la Messa ormai sempre all’aperto. Il salmo 71 della seconda domenica di
Avvento scende nel nostro cuore e risale subito verso il cielo: “Le montagne portino pace al
popolo… ai poveri del popolo renda giustiza…. abbondi la pace… Egli liberà il misero che lo
invoca e il povero che non trova aiuto..”. Chiedo a p. Mesmin di presiedere. E’ il suo popolo, lui sa
cosa dire alla sua gente. Parla di perdono, anche per i Seleka. Chissà quanti miei confratelli
sacerdoti hanno invidiato questa nostra assemblea di poveri e di piccoli stretti dalla paura e dalla
fede.
Poco dopo la Messa riusciamo finalmente a ritrovare i genitori di Fatoù, la piccola bimba di cui vi
avevo scritto ieri. Sia ringraziato il Signore!
Verso le 11.00 distribuiamo ai bambini 700 uova sode. Una vera impresa… ma alla fine ce la
caviamo. Esigere 4 file indiane ordinate da questi piccoli bambini è davvero difficile, ma intanto
incominciamo ad insegnare ordine e disciplina all’esercito centrafricano del 2030!
Il numero dei nostri ospiti supera ormai i 2100.
Per la precisione: 800 bambini con meno di 12 anni (alcuni di pochi mesi); 600 donne (di cui non
poche incinte… mi sa tanto che ci scappa il parto in convento) e 700 uomini.
Fra Jeannot, fra Martial e Salvador continuano indefessi a registrare nomi, età, quartieri.
Fra Felix è un ottimo infermiere al seguito di Cedric.
Fra Rodrigue, fra Christo e fra Michael si occupano dell’acqua, dell’elettricità e della preparazione
e della distribuzione del cibo.
Benjamin si occupa con i nostri aspiranti della raccolta dei rifiuti.
Léonce, ruandese e il più giovane della comunità, non smette un attimo di lavorare. Alle 5.00 del
mattino lo trovo che spazza il corridoio. Gli chiedo di riposarsi. E mi racconta che è nato in un
campo profughi a Goma, in Congo. La sua famiglia fuggiva dal genocidio in Rwanda.
Padre Matteo si occupa della cucina della comunità con una dedizione che neanche una mamma
saprebbe fare meglio. Prepara ottimi minestroni e ogni tanto si avvicina e mi chiede se gradisco un
caffè.
Padre Mesmin con tanta discrezione e pazienza si occupa dei nuovi casi, ascolta, prende nota, dice
una buona parola.
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Io passo tra la gente, saluto e cerco di spegnere sul nascere piccole tensioni per un metro quadro di
terra. Poi cerco ci mantenere i contatti con le organizzazioni e l’ambasciata affinché vengano a darci
una mano.
Come potete ben capire, non ci si annoia.
In pomeriggio si organizzano delle partite a calcio. Abbiamo gente per fare tutte le partite della
seria A.
Arrivano anche i primi aiuti dal nostro insuperabile Youssouf : un sacco di riso, uno di zucchero e
un bidone di olio.
Per tutta la giornata andiamo avanti e indietro con la radio accesa per capire cosa sta succedendo in
città. Due elicotteri sorvolano la nostra zona più volte. Verrà qualcuno a trovarci domani?
Speriamo.
Dopo i pasti la nostra com-unità di crisi fa il punto della situazione. Condividiamo i problemi e le
esigenze dei nostri ospiti, distribuiamo gli incarichi, cerchiamo nuove soluzioni, moltiplichiamo
tutto per 2000 e speriamo che funzioni.
Scusatemi se non riesco a rispondere a tutte le email… ma riceverle dà tanto coraggio. E durante i
pasti dico ai miei fratelli chi ci scrive e chi prega per noi. Grazie!
Buonanotte!
p. Federico
PS: Se conoscete il francese e volete un po’ di notizie cliccate qui:
http://www.rfi.fr/afrique/20131125-crise-centrafrique-dossier-rca-seleka-djotodia-bozize
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Notiziario da Bangui n° 5 – 10 Dicembre 2013
Carissimi,
eccoci ormai al sesto giorno. Cominciamo ad essere un po’ stanchi… ma non ci arrendiamo e ad
ogni difficoltà ci consultiamo reciprocamente, decidiamo da che parte andare e proseguiamo fino al
prossimo ostacolo.
Ieri ad esempio c’è stata una pioggia torrenziale. E non potevamo lasciare a dormire nel fango tutti
quelli che non hanno trovato un riparo al coperto. Tra i miei confratelli basta uno sguardo d’intesa e
in pochi istanti – e con l’aiuto dei nostri chierichetti – il refettorio si trasforma in un dormitorio
abbastanza capiente. Poi spostiamo i rimorchi e i trattori del garage. Ed ecco altro spazio. Ho
sempre sostenuto che i conventi devono essere grandi. Ora ne sono convinto più di prima. Se
vivessimo in un appartamento il miracolo che stiamo vivendo non sarebbe stato possibile.
Ieri sera abbiamo avuto qualche attimo di paura. La gente ci dice che alcuni ribelli, che stanno
fuggendo, potrebbero arrivare anche da noi. Ovviamente queste informazioni sono sempre da
valutare con prudenza, perché la paura in Africa fa 190 ed è poi molto difficile che i ribelli possano
visitare un campo profughi. Ma la prudenza non è mai troppa. Ci organizziamo per un turno di
guardia tra i corridoi del convento: ognuno assicura un’ora. Il mio turno è dall’una alle due con fra
Martial. In questa veglia notturna ne approfitto per recuperare un po’ l’orazione divenuta
impossibile. La mia preghiera è fatta dei frammenti disordinati raccolti tutto il giorno : volti, numeri
di telefono, pianti dei bambini, sacchi di mais, e-mail, fango, paracetamolo, pompa dell’acqua,
merci mon père… E poi concludo : “Fa, o Signore, che questa notte passi veloce, che i ribelli se ne
stiano a casa loro e che possiamo riposarci bene per servirti meglio. Proteggici Tu con tua Madre.
Amen”
Ieri pomeriggio arriva a piedi scalzi, da una parrocchia vicina, una suora polacca infermiera. La sua
moto è rimasta in panne. Però! Che coraggio questa donna a spostarsi in questa situazione ! Ci porta
dei medicinali e chiede delle uova. Poi passa nella nostra chiesa e contempla commossa lo
spettacolo dei nostri bambini. Quasi si vergogna che loro hanno molti meno rifugiati e ci offre la
disponibilità per accoglierne almeno una cinquantina dei nostri 2600. Cerco di accontentarla, ma un
po’ mi dispiace e i nostri ospiti faticano a lasciare il Campo Profughi Carmel.
Durante la notte, poco prima delle undici, sento il pianto di una donna. Esco nel corridoio e trovo il
nostro dottore che consola una ragazza. Rose, la sua bambina di pochi mesi giunta da noi già
ammalata, è morta fra le sue braccia. Mi accascio quasi pietrificato. Sembra quasi una sconfitta
davanti a tutto quello che stiamo facendo. Poi mi rialzo. Padre Mesmin benedice Rose e i genitori la
portano in quartiere per la sepoltura. Vado a dormire e mi consolo pensando alle centinaia di
bambini come Rose che stiamo proteggendo.
In mattinata mi accorgo che i bimbi ammalati sono troppi. Provo a chiamare Patrizia, una dottoressa
italiana in Africa da una vita. Si precipita da noi con la sua ambulanza e due infermieri. Quando
arriva ci abbracciamo e scende qualche lacrima. Poi in un attimo il refettorio, che di notte era stato
un dormitorio, diventa un piccolo ospedale e le mamme passano ad una ad una con i loro bambini.
Cedric, quasi medico, l’aiuta con Aristide, aspirante quasi infermiere…
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I miei confratelli sono sempre più straordinari. C’è chi passa con la scala, chi con un cacciavite, chi
con dei medicinali, chi tiene in braccio un bambino in preda a una crisi di pianto, chi si permette il
lusso di una partita a carte con i nostri ospiti, chi accompagna un malato, chi scalda un po’ di riso…
A colazione fra Christo mi chiede quante latrine deve costruire oggi. Léonce spazza e disinfetta
senza tregua. E gli tiro le orecchie perché si dimentica di mangiare; poi, viene a mangiare senza
togliersi gli stivali. Fra Rodrigue smista con voce forte il traffico. Che i miei confratelli fossero
bravi lo sapevo, ma non così bravi come li sto scoprendo ora!
Finalmente riceviamo una visita dell’Unicef e di Acted. Raccolgono dati, ci fanno domande, ci
offrono consigli e ci fanno i complimenti per come ce la siamo cavata fin’ora. Promettono infine di
farci avere del cibo e altri aiuti. La Croix Rouge International porta in mattinata 60 sacchi di mais,
40 di fagioli, 600 litri di olio e 3 sacchi di sale. Il parlatorio diventa il deposito di tutta questa
abbondanza. Tutto deve bastarci per tre giorni. Nel pomeriggio distribuiamo ad ogni mamma 3
scodelle di mais e 3 di fagioli, un bicchiere di olio e un cucchiaio di sale. Qualche mamma usa i
propri vestiti come unico contenitore di questo dono del cielo. La Croix Rouge ci informa che ci
sono nella città una ventina di siti come il nostro. Ci sono anche campi da più di 10000 profughi.
Cosa succede esattamente in città è per noi difficile da capire. In alcune quartieri è cominciato in
modo capillare il disarmo dei ribelli. Purtroppo ci sono già due vittime nell’esercito francese venuto
a liberarci.
Ogni tanto non resisto alla tentazione e faccio un salto in chiesa. L’altare è circondato da un
giardino di visetti neri e occhioni bianchi. Ma trovo anche Jean, 64 anni, il nostro profugo più
anziano e che ha visto tutti i colpi di stato del Centrafrica. Tutti mi chiamano mon père, ma lui si è
preso giustamente il privilegio di chiamarmi mon fils. Ha un piede fasciato e cammina col bastone.
Poco prima di cena riesco a trovargli un letto, un materasso e un cuscino e lo sistemo nella stanza
del capitolo. Dopo 5 notti passate sul pavimento della chiesa, penso che un letto se lo meriti proprio.
Da sei giorni andiamo avanti più o meno così. Stiamo facendo una cosa che nessuno di noi aveva
mai fatto e mai vissuto in vita sua. Una ONG avrebbe fatto forse meglio, ma sicuramente più tardi.
La Chiesa, invece, è arrivata prima. Anzi: era già qui, non se ne è andata e quasi non si è accorta di
restare. E i poveri hanno capito che venire qui era fare la strada più corta e andare nel luogo più
sicuro.
Buona notte!
Padre Federico, i fratelli del Carmel e i nostri 2632 ospiti
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Notiziario da Bangui n° 6 - 13 Dicembre 2013
Carissimi,
il nostro Campo Profughi Carmel festeggia il nono giorno e incomincio subito con due bellissime
notizie che hanno quasi dell’incredibile.
La prima notizia è che questa mattina Karine, una giovane donna, ha dato alla luce un bellissimo
bambino, diventando mamma per la terza volta. Il lieto evento è avvenuto niente poco di meno che
nella nostra Chiesa. Il parto è avvenuto senza complicazioni e siamo stati informati soltanto a cose
fatte. Il bambino e la mamma stanno al momento bene e riposano nella sala del capitolo. Quindi, per
noi, oggi è già Natale e mi dispiace per voi che dovete aspettare ancora qualche giorno. Non posso
descrivervi la mia gioia per quest’avvenimento che, sono sincero, un po’ ci speravo. Il Signore ha
preso qualche giorno fa la piccola Rose. Oggi ci allieta con il dono di questa nuova vita. Ho
proposto alla mamma di chiamare il neonato Jean de la Croix, il nostro fondatore, di cui proprio
domani ricorre la festa. Stiano tranquille le nostre carissime monache, che ci stanno
accompagnando con una passione senza precedenti: se la prossima sarà una bambina, la
chiameremo sicuramente Thérèse de Jésus.
La seconda notizia è stata la visita inaspettata del nostro coraggiosissimo arcivescovo Dieudonné
Nzapalainga. Per la nostra gente è come se fosse arrivato il papa in persona. Ci ha trovati al lavoro:
chi alla distribuzione del cibo, chi impegnato nella pulizia del campo, chi intento a sistemare i teloni
di plastica contro la pioggia, chi concentrato a seguire i malati... Il vescovo, venuto con un imam, ha
visitato il nostro campo e poi ha fatto un breve, ma forte discorso invitando tutti alla pace, alla
riconciliazione e al perdono. Anche l’imam ha fatto un discorso analogo. Come potete ben capire,
l’intento di questa visita è quello di gettare acqua sul fuoco di uno scontro tra cristiani e musulmani
che rischia di incendiare l’intero paese. Vogliamo, possiamo e dobbiamo vivere in pace insieme. Il
nostro piccolo Carmel vorrebbe essere nient’altro che questo: una scintilla di pace in un grande
fuoco di violenza. Il vescovo stringe la mano ad ognuno di noi. Gli chiedo se vuole un bicchiere
d’acqua, ma mi dice che non ha tempo. Prima di partire ci lascia 14 sacchi di riso, scatole di
sardine, olio. Sarà il pranzo di domani per i nostri ospiti. Lo abbraccio piangendo e poi se ne va.
Per il resto la vita trascorre normale… per quanto possa essere normale la vita di un convento con
annesso campo profughi. Certamente la vita regolare di un tempo comincia a mancarci un po’. In
fondo il nostro lavoro preferito resta quello del frate. Quello che stiamo facendo resta pur sempre un
diversivo. Comunque, ad orari decisamente un po’ elastici in base alle urgenze, ci raduniamo per la
preghiera, quasi attratti dal suono di una campana invisibile. La gente si accorge che per un po’ di
tempo non ci siamo perché abbiamo bisogno di stare insieme per pregare un po’. Il canto dei vespri
sembra per qualche istante superare le grida dei bambini. E ho come impressione che i miei
confratelli non abbiamo mai cantato così bene. I loro volti sono quasi modificati dal dolore per le
sorti del paese e dalla stanchezza dell’estenuante lavoro. Ma pregare ci ricarica e ci aiuta a
preservare un po’ di spazio per noi, un po’ di spazio per Lui. E non ci sembra una cosa poi così
diversa rispetto al tempo trascorso con i profughi. Se qualcuno di noi non è presente sappiamo tutti
che, come dice la nostra regola, è sicuramente ‘impegnato in qualche legittima occupazione’.
Spesso dobbiamo radunarci per affrontare la tappa successiva e migliorare il nostro servizio. La
geografia del nostro convento varia di giorno in giorno. Facciamo capitoli conventuali nei posti più
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impensabili, ma soprattutto in refettorio (attualmente anche lui ‘profugo’ nel corridoio delle celle),
alla fine dei pasti. Un parlatorio esterno è diventato ambulatorio medico, un altro parlatorio si è
trasformato nel deposito viveri, la sala del capitolo è per i malati in osservazione, il refettorio è un
dormitorio d’emergenza in caso di pioggia. Nelle brevi ricreazioni che ci possiamo permettere,
proviamo addirittura ad immaginare un nuovo convento più grande, con tante tettoie e WC…
insomma : già predisposto - Dio non voglia! - per il prossimo colpo di stato e i prossimi profughi.
Molte persone ci danno una mano: pulizia del campo, servizio d’ordine, guardia notturna,
distribuzione del cibo. Suor Renata, originaria di Venezia, dà una grossa mano nel nostro piccolo
ambulatorio. I nostri aspiranti più grandi della Jeunesse Carmélitaine condividono tutta la nostra
vita e tutto il nostro lavoro. In questi giorni era previsto un ritiro vocazionale. Ed ecco che stanno
facendo una sorta di noviziato accelerato. Gli aspiranti più piccoli, i nostri simpatici Compagnons
de l’Enfant Jésus, ci aiutano in tante piccole cose. Sono diventati una sorta di piccola Armée du
Carmel. Ovviamente pacifica e armata di scope, secchi e carriole.
I nostri profughi stanno bene. Qualcuno, scherzando, ha affermato che, sebbene tutti dormano per
terra, il nostro è il Ledger Plaza dei Campi Profughi. Il Ledger Plaza è l’unico albergo di lusso
della città di Bangui. Altri profughi vorrebbero organizzare una partita a calcio con il campo
profughi più vicino al nostro. Vi terrò informati sul risultato.
Io mi dedico, come posso e cercando di arrabbiarmi il meno possibile, di smistare e distribuire i
doni che stiamo ricevendo: cibo, medicinali, sapone, bidoni per l’acqua, teloni di plastica... Poi, nei
ritagli di tempo, cerco di rispondere alla posta e di mantenere i contatti con gli organismi… lieto di
fare questo lavoro ai tempi di internet e non del telegrafo. Scrivervi, lo confesso, mi rilassa un po’ e
mi permette di guardare il lato positivo di ogni avvenimento in questa tragedia in cui siamo
immersi. Si parla ormai di 600 morti – solo in questi giorni – e di più di centomila profughi in tutto
il paese. Situazioni come la nostra sono numerose e, purtroppo, c’è chi sta veramente peggio e
rischia la vita.
Vi ringrazio ancora per l’amicizia con cui ci seguite. Nostro malgrado stiamo diventando addirittura
famosi. Qualche giorno fa ognuno di noi si è trovato nella casella della posta elettronica un
messaggio da parte del nostro padre Generale. Ci ha manifestato il suo orgoglio e il desiderio di
poterci dare una mano. Abbiamo veramente apprezzato questo gesto.
Un grande grazie anche al nostro provinciale, ai nostri confratelli, alle nostre consorelle, ai nostri
parenti e amici in Italia. Tutti vorreste essere qui da noi per darci un po’ il cambio. Ma la vostra
amicizia e la vostra preghiera sono più veloci degli aerei e ci fa andare avanti… chissà ancora per
quanti giorni.
Un forte abbraccio
Padre Federico Trinchero, i fratelli del Carmel e i nostri 2000 e più ospiti
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Notiziario da Bangui n° 7 - 24 Dicembre 2013
Carissimi,
solitamente sbuco nella vostra casella della posta elettronica in occasione del Natale. Quest’anno gli
avvenimenti mi hanno costretto a disturbarvi con qualche giorno di anticipo. Qui al Carmel di
Bangui, dove mi trovo da soli quattro mesi, è stato davvero un Avvento speciale. Dal 5 dicembre il
nostro convento si è trasformato in un campo profughi e i nostri graditi ospiti sembrano non avere
alcuna intenzione di andarsene. Nei quartieri la tensione e la paura sono ancora alte. Meglio dormire
qui da noi, anche se per terra.
Le giornate si susseguono una dopo l’altra tra bambini che nascono e che purtroppo muoiono,
malati e feriti da curare, distribuzione di cibo, coperte, sapone, pulizia del campo… e tanti,
tantissimi altri imprevisti. I nostri profughi sono così a loro agio che a volte mi domando se non
siamo noi frati i veri profughi e che il nostro è un convento finito per caso in mezzo a loro.
Ogni mattino ci alziamo e sappiamo, più o meno esattamente, cosa dobbiamo fare e che quello che
dobbiamo fare è la cosa giusta. Inutile negare che la stanchezza, spesso più psicologica che fisica,
cominci a farsi sentire. Ma comunque andiamo avanti… anche perché non è possibile fare
altrimenti. E ogni tanto troviamo addirittura il tempo per fare qualcosa – senza troppi sensi di colpa
– che non riguardi i nostri profughi.
Purtroppo venerdì scorso ci sono stati degli scontri molto violenti in città, in un quartiere piuttosto
vicino al nostro convento. Questo ha provocato un improvviso aumento dei nostri profughi. Come
ogni giorno, verso le sette, ci avviamo verso il luogo all’aperto, dove celebriamo la Messa. Lungo il
tragitto sentiamo diversi spari, alcuni molto forti e vicini. Mi domando se non sia più opportuno non
iniziare la celebrazione per evitare il panico. Ma il canto d’ingresso è ormai iniziato. Gli spari si
susseguono senza sosta. Verrà qualcuno a farci del male? Celebro la Messa più lunga della mia vita.
Ammiro tuttavia la compostezza dell’assemblea. Quando gli spari sono più forti, c’è come un
sussulto e un gemito collettivo; ma i nostri fedeli non si schiodano da dove sono. L’Eucaristia che
celebriamo è la nostra migliore protezione, uno scudo impenetrabile, davvero la nostra unica
salvezza. La celebrazione continua, ma un fiume di gente che corre impaurita, con poche masserizie
sulla testa, raggiunge il nostro sito e ci circonda. Che impressione e che sfida questa Eucaristia
inerme nel pieno vortice della guerra! La celebrazione termina e, in pochi istanti, ci accorgiamo che
i nostri ospiti da 2.500 sono diventai circa 10.000. Inizialmente siamo un po’ spaventati e ci
domandiamo come potremo gestire una tale massa di gente. Ma, superati questo iniziale
smarrimento e sensazione di impotenza, comprendiamo che tutto quello che abbiamo vissuto fin’ora
non è stato che un allenamento per l’avventura che ci sta davanti. Ripensiamo al miracolo della
moltiplicazione dei pani, contiamo i nostri pani e i nostri pesci, ci rimbocchiamo le maniche e
ripartiamo. Se ce l’ha fatta Gesù, ce la faremo anche noi. E vi confesso che, per certi aspetti, un
numero così grande è quasi più gestibile. La gente stessa comprende che possiamo fare ben poco e
quindi si organizza autonomamente o, meglio ancora, si arrangia come può. Noi ci ‘limitiamo’ ad
affrontare le urgenze, a seguire i casi più gravi e a gestire gli aiuti dei vari organismi.
La distribuzione del cibo diventa però un po’ problematica. Testardo e perfezionista come sono,
anche in tempo di guerra, insisto per mettere in fila circa 2000 donne. Cosa veramente
impossibile… soprattutto se le donne in questione sono affamate. Sono costretto quindi a gettare la
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spugna e a convertirmi a una metodologia più africana. Il nostro campo viene diviso in 11 zone.
Ogni zona ha una sorta di capo villaggio che, aiutato da due consiglieri, si occupa della
distribuzione nel proprio settore. Il nuovo sistema sembra funzionare e, in breve tempo, la
tonnellata di mais che stazionava nel chiostro viene distribuita in parti più o meno eque e senza
troppi intoppi e discussioni.
Il numero dei nostri profughi aumenta anche a causa delle frequenti nascite. Con mia grande gioia
sono ridiventato papà non so quante volte. Ho sinceramente perso il conto: Thérèse, Elisabeth,
Federico (il papà, quello vero, ha insistito troppo!), Carmel e Carmeline (due gemelli), Joseph (in
onore al mio papà, anche lui nato durante una guerra) e altri ancora… Quando è possibile,
cerchiamo di chiamare l’ambulanza affinché il parto avvenga in ospedale. Ma, come potete ben
immaginare, a causa delle strade e della situazione di generale insicurezza, le ambulanze possono
impiegare molte ore prima di arrivare fin qui. E le mamme africane sono decisamente più veloci e
capaci di gestire il parto senza troppe difficoltà. Ormai il refettorio è sala parto e il capitolo funge da
maternità. Purtroppo ci sono stati altri due bambini (gemelli) che sono morti. La mamma, che
neppure sapeva di portare in grembo due creature, ha avuto una gravidanza anticipata a causa di una
forte malaria. Subito è morta la bambina. I suoi occhi non hanno fatto in tempo ad aprirsi per vedere
la tragedia della guerra. Pesava solo 1kg: non avevo mai visto un essere umano così piccolo. Il
fratellino, un po’ più robusto, è sopravvissuto altri due giorni e poi se ne è andato anche lui.
La Vita è comunque più forte della morte e della guerra. E trovo poi significativo che la Vita ci
abbia visitato nei luoghi più importanti della nostra comunità : la chiesa e il refettorio. Sono i luoghi
dove preghiamo e dove mangiamo, dove ci incontriamo più volte durante la giornata, dove la nostra
vita di comunione con Dio e con i fratelli è ogni giorno rinnovata e plasmata. Tutto questo mi
sembra quasi una conferma della bellezza della nostra vocazione.
Sabato scorso il nostro vescovo, dopo aver saputo che il nostro campo profughi ha accolto altra
gente, è venuto ancora una volta a farci una visita. Ci informa che anche il seminario maggiore vive
una situazione analoga alla nostra. Questa volta il nostro vescovo trova il tempo di bere un bicchier
d’acqua e di chiacchierare un po’ e di spiegarci cosa sta avvenendo in città. Ci promette di venire –
appena può – a celebrare la Messa qui da noi e di portarci ancora un po’ di riso. Sono sicuro che
manterrà entrambe le promesse.
Nel frattempo è arrivato il Natale. Quasi di nascosto i miei confratelli hanno trovato il tempo – e
direi anche il coraggio – di mettere qualche addobbo e di allestire un piccolo presepe. Ma fare il
presepe forse non era neppure necessario. In realtà il presepe, quest’anno, più che farlo, lo siamo
diventati, improvvisamente e con un po’ di anticipo, il 5 dicembre. E il nostro presepe si è sempre
più ingrandito con l’arrivo di altre migliaia di statuine e la nascita di tanti Gesù Bambini. Del resto,
anche Maria e Giuseppe non erano, in quel di Betlemme, esattamente a casa loro: erano anche loro
po’ profughi. E il parto avvenne in condizioni piuttosto precarie, come per le nostre mamme qui al
Carmel. Se un tempo c’erano Cesare Augusto ed Erode, oggi i sovrani di turno portano il nome di
François Hollande et Djotodia. La storia sembra quasi non cambiare, ma il miracolo di quella
nascita non cessa di meravigliarci e di rallegrarci.
La Messa di mezzanotte l’abbiamo celebrata alle tre del pomeriggio per terminare prima del buio e
del coprifuoco. Durante la celebrazione sentiamo degli spari in lontananza, ma i nostri fedeli
cantano più forte della guerra. Sembra quasi una contraddizione dire a questa gente “la pace sia con
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voi”. Ma forse, più che una contraddizione, la preghiera, la fede, la gioia di essere cristiani sono per
tutti l’unica vera salvezza.
Dopo i Vespri ci regaliamo finalmente qualche minuto tutto e solo per noi. Abbiamo veramente
tanta nostalgia della nostra fraternità, della nostra intimità e del nostro silenzio. La tradizione
carmelitana vuole che questo momento di auguri natalizi avvenga nella sala del Capitolo. Ma
quest’anno non è possibile. Restiamo nella cappellina. Ci scambiamo gli auguri – sperando che un
Natale così unico sia veramente unico – e qualche piccolo regalo recuperato dal priore in tempo di
pace. Come sono contento dei miei undici confratelli! Permettetemi ancora una volta di ringraziali
perché sono stati con me gli spettatori e gli attori del miracolo che ha trasformato il nostro convento
in un campo profughi. Vorrei ringraziarli per quando li vedo arrivare trafelati alla preghiera
comune. Vorrei ringraziarli per il lavoro che fanno, per il lavoro che vedo e per quello che non vedo
e che trovo già fatto non so neppure da chi… Terminiamo mangiando qualche biscotto al mais
preparato da padre Matteo. Poi, danzando e cantando con campanelli e tam-tam, portiamo la statua
di Gesù Bambino nella sala del Capitolo dove, stupiti, ci accolgono i nostri bambini con le loro
mamme. Poi, sempre cantando, ci rechiamo in refettorio (sempre profugo nel corridoio delle celle)
che, nel frattempo, i nostri aspiranti hanno riempito di fiori…
E grazie, ancora una volta, anche a voi per il vostro sostegno davvero cordiale e commuovente. Un
grazie particolare alle nostre consorelle di clausura. Ci hanno accompagnato in ogni istante con
un’amicizia e una preghiera davvero speciali. È come se fossero venute a darci una mano.
Sono sicuro che saremo nei vostri pensieri e nelle vostre preghiere in questi giorni di festa.
Finché il Signore ce ne darà la forza, andremo avanti. Nessuno di noi sa ancora quando verrà il
momento di smontare questo presepe in cui siamo precipitati. Quando scoppierà la pace questa
gente potrà finalmente raggiungere la propria abitazione e condurre una vita normale. E noi
ritorneremo a fare i frati a tempo pieno.
Buon Natale! E che il Signore doni presto la pace al Centrafrica!
Padre Federico Trinchero, i fratelli del Carmel e i nostri 10.000 ospiti.
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Notiziario da Bangui n° 8 – 17 Gennaio 2014
Carissimi,
eccomi con qualche aggiornamento dal Carmel di Bangui.
Dopo il mio ultimo notiziario, l’avvenimento più importante sono state, il 10 Gennaio, le dimissioni
del presidente Djotodia, salito al potere con un colpo di stato lo scorso 24 marzo. In tutto il
Centrafrica c’è stato come un grande sospiro di sollievo collettivo, così forte che forse l’avete
sentito anche voi. Ma, dopo qualche ora di gioia e di speranza – e qualche rifugiato si è pure
permesso una bella sbronza – la guerra si è di nuovo fatta sentire con spari – e ancora morti – ,
saccheggi e disordini in molti quartieri, alcuni dei quali molto vicini al nostro convento. I nostri
rifugiati, quindi, non se la sono data e hanno preferito restare con noi, in attesa di tempi migliori e di
una pace più vera. Secondo le ultime stime ufficiali un centrafricano su cinque – il che vuol dire
quasi un milione – è attualmente un rifugiato. Difficile non dare ragione a questa gente, ormai toppo
abituata ai giochi di prestigio della politica; difficile non ammettere che il Centrafrica, dopo tutta
questa brutta storia, meriti qualcosa di più. Restare qui è una forma di protesta pacifica per esigere
al più presto una pace vera e non una pace a metà. Ora siamo tutti in attesa dell’elezione di un
presidente provvisorio; bisogna poi disarmare tutte le armate irregolari che non obbediscono a
nessuno e terrorizzano il paese e, infine, cercare di arrivare in tempi ragionevoli a delle elezioni più
o meno democratiche. C’è un paese da ricostruire e un sacco di lavoro da fare.
Nel nostro campo rifugiati – il cui numero è comunque un po’ diminuito, anche se sono sempre
tanti – la vita procede abbastanza normale… per quanto possa dirsi normale la vita di migliaia di
persone strette attorno ad un convento. Più che un campo profughi il nostro sembra un
accampamento romano con un tocco tropicale. È davvero interessante osservare come la gente si è
organizzata per sopravvivere in questa emergenza. Si è creato addirittura un piccolo – ma neanche
tanto piccolo – mercato di verdura, carne, generi alimentari di ogni sorta e altre cose utili. Ci sono
addirittura dei salon de coiffure, piccole farmacie, negozi di articoli religiosi, una sorta di gioco del
lotto, buvette e bistrot sempre molto frequentati. Il priore precedente al sottoscritto amava andare
spesso al famoso Km5, il più affollato mercato di Bangui, per fare acquisti a buon mercato. Io posso
dire di aver avuto la fortuna che il Km5 è venuto qui da me!
Abbiamo fatto addirittura un regolamento per aiutarci a vivere meglio insieme di giorno e riposare
un po’ di più la notte. Il regolamento non è del tutto e sempre rispettato, ma ha la sua utilità (tanto
che altri campi rifugiati l’hanno preso in prestito). Forse vi sembrerà strano, ma al 4° parallelo
dall’equatore ci sono valori e principi che non son per nulla scontati: la precedenza ontologica del
bambino e dell’anziano, tanto più se malati, nella distribuzione anche solo di una coperta;
l’importanza del rispetto di un bene comune, che appartiene e serve a tutti, fosse anche una sedia; il
lavoro fatto bene e gratuitamente a servizio degli altri; il rispetto della proprietà privata…
soprattutto se la proprietà in questione è dei frati! Nel Medioevo i monasteri furono per l’Europa
cellule di civiltà e democrazia. Nel 2014, in Africa, conventi di frati e suore danno ancora un
notevole contributo, spesso sottovalutato, allo sviluppo dei popoli e alla promozione di valori umani
essenziali per vivere insieme senza farsi troppo male.
Un intraprendente comitato – con tanto di presidente, vicepresidente, segretario generale, segretario
aggiunto, segretario disgiunto, consiglieri, aiuto consiglieri, assistenti, aiuto assistenti, portaborse e
facchini… – assicura il trait d’union, tra la comunità dei frati e i rifugiati, per il coordinamento
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delle attività. E, manco a farlo apposta, è sorto pure il sindacato per i diritti dei rifugiati! Insomma:
attorno al convento ora c’è un Centrafrica in miniatura con tutte i suoi vizi e le sue virtù. E questa
coabitazione forzata mi ha permesso di conoscere meglio i primi e di apprezzare di più le seconde.
Per fortuna, a darci una mano, arriva ogni tanto Pietro, un mio coetaneo, originario di Lecco, che
lavora con grande passione competenza per la Croce Rossa Internazionale. Dall’Afghanistan è stato
inviato d’urgenza in Centrafrica: uno sbalzo termico e culturale davvero notevole. I miei rifugiati lo
amano molto perché qualche giorno fa ha portato due camion di mais, fagioli, olio e sale. Quando
arriva dice a tutti di appartenere alla mia stessa tribù. Ma, poiché Pietro è alto due metri, biondo e
con gli occhi azzurri, nessuno gli crede.
Le nascite dei bambini, dopo un picco di quattro parti il giorno di Natale (mi sembra anche ovvio!)
sono diminuite. In compenso, tanto per non disabituarci all’idea, la nostra gatta ha sfornato tre
piccolissimi gattini nell’armadio della sacrestia. Abbiamo saputo che tra i centomila sfollati
dell’aeroporto un neonato è stato chiamato François Hollande: come vedete, ognuno ha i suoi santi
patroni o, forse, non sappiano più a che santo votarci!
Nel frattempo, oltre ai santi, ci affidiamo ai militari francesi, che stanno facendo un meticoloso
lavoro di disarmo e pacificazione tra i diversi gruppi ostili. Proprio pochi giorni fa, una pattuglia è
venuta a farci visita. Il sergente Thierry si è fermato a chiacchierare un po’ con noi per aggiornarci
sulla situazione. Purtroppo ci sono ancora gruppi di ribelli che si nascondono attorno alla capitale…
e attorno al nostro convento; ma vi sono comunque segnali concreti di distensione. Speriamo che
abbia ragione. Ci assicura che sono qui per una missione di pace, anche se hanno addosso degli
strumenti che sembrano dire il contrario. Mi fa quasi tenerezza questo giovane sergente! Prima di
essere precipitato qui, tra seleka e antibalaka, è stato in Afghanistan, in Libano e in Mali. Ci
racconta che una notte, su una strada di Bangui, ha dovuto assistere con la sua pattuglia al parto di
una donna: “Solitamente noi militari vediamo la gente morire, quando non siamo noi stessi costretti
a uccidere. Questa volta ci è invece capitato di aiutare un bimbo a nascere”. E poi, un po’
emozionato, mi rivela che da pochi giorni è diventato lui stesso papà di due gemelli e che non ha
ancora avuto la possibilità di vederli.
Il nostro piccolo ospedale da campo funziona a pieno regime. E, tanto per non peccare di orgoglio,
diciamo pure che è il nostro fiore all’occhiello. Con quattro giovani medici, quattro infermieri (tra
cui suor Renata, che ci raggiunge ogni giorno facendo un’ora di strada a piedi) e altri aiutanti
riusciamo a fare centinaia di consultazioni al giorno e non pochi interventi la notte. I medicinali ci
sono forniti gratuitamente da un organismo. Il deposito dei medicinali è nella mia stanza e quindi
mi trovo a dormire tra montagne di paracetamolo, antibiotici e disinfettante. Pochi giorni fa, con
l’aiuto di un’ONG, quattro squadre d’infermieri hanno vaccinato più di 2000 bambini contro il
morbillo e la poliomelite. Vi lascio immaginare gli strilli che abbiamo sentito perché, anche qui, le
punture non piacciono a nessuno. Un’equipe di Medici senza frontiere olandese, dopo aver visitato
il nostro ambulatorio e la sala parto, è rimasta quasi allibita e ci ha salutato dicendo: “Non possiamo
fare niente per voi, perché non potremmo fare di più di quello che state già facendo”. Tutto nella
vita avrei immaginato fuorché diventare il direttore sanitario di un ospedale, sbocciato in un baleno,
nel refettorio del mio convento. A volte mi viene quasi il pensiero che, dal momento che la nostra
casa ha ben poco dell’architettura tipica di un convento carmelitano, il luogo in cui abitiamo non sia
quasi più funzionale come ospedale. Meglio non pensarci: questa è roba da non fa dormire padre
Anastasio e i nostri benefattori!
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Mi permetto, però, di aprire una parentesi su padre Anastasio, perché forse qualcuno di voi non ha
la fortuna di conoscerlo. Padre Anastasio è il fondatore e l’anima di questo paradiso che è il Carmel
di Bangui. Ha più del doppio dei miei anni e il triplo del mio entusiasmo. Dal 1998 vive nel nostro
convento di Praga, ma dal 1975 il suo cuore è in Centrafrica. Questo frate gentile e sorridente,
sempre armato della sua macchina fotografica, gira il mondo ai cento all’ora, dall’India agli Stati
Uniti, parlando fin troppo bene – e in 8 lingue diverse – di noi missionari; mi sembra giusto che,
almeno una volta, qualche missionario parli un po’ bene di lui. Senza di lui e senza la sua
infaticabile animazione missionaria le nostre missioni non sarebbero quello che sono e che tutti ci
invidiano. Per dedicarsi a questa sua missione, con uno zelo davvero ineguagliabile, vorrebbe che le
giornate fossero di trentasei ore. Padre Anastasio, dotato di una memoria incredibile, è stato per
tanti anni professore di storia della Chiesa. Questa sua memoria gli ha permesso di raccogliere volti,
storie e amicizie di migliaia di benefattori sparsi per il mondo. E pensare che, quando cominciò
questo lavoro, non aveva un indirizzo e neppure i soldi per venire in Africa. Per chi non lo sapesse,
è proprio lui l’inventore della mitica lavanda dei frati di Arenzano che ha profumato il mondo
intero. Padre Anastasio ha tre amori: Gesù Bambino (preferibilmente quello di Praga, in seconda
battuta quello di Arenzano), i poveri del Centrafrica (e se gli date un euro statene certi che arriverà
nelle loro mani) e poi i tek (penso che ne abbia piantato un numero pari a quello degli abitanti del
Centrafrica). Alla fine degli anni novanta acquistò questo pezzo di foresta, nella periferia della
capitale del Centrafrica, pensando a un monastero di carmelitane. Ma le monache purtroppo non
arrivarono. E allora padre Anastasio trasformò questo pezzo di foresta in un giardino, con
un’immensa piantagione di palme da olio e un lussureggiante vivaio di tek e altre piante, dicendo:
“L’olio possiamo produrlo in poco tempo, i tek saranno utili tra 40 anni”. In seguito, per
l’esattezza dal 2006, vi s’installarono i frati, adattando a convento quelle che erano in realtà le
strutture destinate per un oleificio. Venne così inaugurata una presenza carmelitana stabile in
capitale, da tempo desiderata e per tante ragioni. Da allora Padre Anastasio viene al Carmel più o
meno ogni tre mesi per incoraggiarci nel nostro lavoro e controllare la crescita dei tek. Quando è tra
noi le ricreazioni sono animate dai racconti dei suoi viaggi e allietate dall’ottimo cioccolato che non
manca mai nelle sue valigie. Ero certo che, nonostante i recenti avvenimenti e l’insicurezza che
regna nel paese, non avrebbe mancato a quest’appuntamento. Ci ha raggiunto qualche giorno fa,
passando addirittura per il Marocco. Prima del suo arrivo lo avevo prevenuto, un po’ preoccupato,
che i nostri cari rifugiati si erano serviti dei tek e dei rami di palma per costruire centinaia di piccole
capanne attorno al convento. Ma, appena arrivato, mi saluta e mi rassicura, prima che possa dirgli
qualcosa: “Stai tranquillo, caro padre priore! Tu sei giovane. Io so cos’è la guerra perché l’ho
vista da bambino. Pensavo che i tek sarebbero stati utili tra quarant’anni, quando non ci sarò più;
e, invece, sono stati utili prima e ho fatto in tempo a vederlo! Corro a fare qualche foto”. Questo è
padre Anastasio. Anche se non è mai stato un missionario in senso stretto, è difficile trovare
qualcuno che ami l’Africa più di lui.
Il capodanno è passato senza troppi bagordi e con nessun botto: sarebbe stato confuso con qualche
colpo di mortaio o sparo di kalashnikov. Per la festa dell’Epifania vorrei introdurre in terra d’Africa
una tradizione italiana, suggerendo a tutti i miei bambini di presentare ai loro genitori le loro calze,
per ricevere qualche piccolo dono. Ma mi fermo giusto in tempo, quando mi accorgo che i miei
bambini camminano quasi tutti scalzi e che metterei in serie difficoltà i loro genitori, perché hanno
ben poco con cui potrebbero riempire le calze dei loro bambini.
Grazie al diretto interessamento della senatrice Puppato, che ha fatto risuonare nell’aula del Senato
italiano il dramma del popolo centrafricano, il ministero degli esteri organizzerà un volo umanitario.
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Quando l’ho saputo ero così felice che, la notte, ho sognato un aereo dell’aeronautica militare
italiana, guidato da Emma Bonino, atterrare qui al Carmel, carico di agnolotti, tartufi, tomini freschi
al pepe, gianduiotti e krumiri per tutti i miei ospiti…
In questi giorni abbiamo ricevuto tantissime attestazioni di stima dal mondo intero e soprattutto dai
nostri confratelli e consorelle del nostro Ordine. Tanta celebrità ci ha un po’ confusi. Li meritiamo
davvero tutti questi complimenti? Vi confesso che non ce ne siamo neppure accorti di aver fatto
qualcosa di così straordinario. Anche voi, al nostro posto, avreste fatto la stessa cosa. Inoltre, è bene
che sappiate che ci sono siti che vivono situazioni simili alla nostra e anche con più rifugiati.
Comunque, a scanso di equivoci, vorrei che non v’immaginaste il sottoscritto sempre prono, giorno
e notte, ai piedi dei nostri ospiti. Anzi, più di una volta ho perso la pazienza e qualcuno dei rifugiati
più turbolenti o esigenti l’ho mandato, più o meno gentilmente, a farsi benedire (che è però un vero
boomerang per un prete!). Per fortuna padre Mesmin, il mio vice-priore, supplisce al sottoscritto
con una calma e una pazienza davvero eccezionali.
Come già era successo nel mese di Marzo, anche questa volta Papa Francesco si è ricordato di noi.
Lo ho fatto una prima volta il giorno Natale, chiedendo il dono della pace per questa terra: “Dona
pace, bambino, alla Repubblica Centrafricana, spesso dimenticata dagli uomini. Ma tu, Signore,
non dimentichi nessuno! E vuoi portare pace anche in quella terra, dilaniata da una spirale di
violenza e di miseria, dove tante persone sono senza casa, acqua e cibo, senza il minimo per
vivere”. E poi una seconda volta, parlando, alcuni giorni, fa al corpo diplomatico in Vaticano: “In
Africa i cristiani sono chiamati a dare testimonianza dell’amore e della misericordia di Dio. Non
bisogna mai desistere dal compiere il bene anche quando è arduo e quando si subiscono atti di
intolleranza, se non addirittura di vera e propria persecuzione. Il mio pensiero va soprattutto alla
Repubblica Centrafricana, dove la popolazione soffre a causa delle tensioni che il Paese attraversa
e che hanno seminato a più riprese distruzione e morte. Mentre assicuro la mia preghiera per le
vittime e per i numerosi sfollati, costretti a vivere in condizioni d’indigenza, auspico che
l’interessamento della Comunità internazionale contribuisca a far cessare le violenze, a
ripristinare lo stato di diritto e a garantire l’accesso degli aiuti umanitari anche alle zone più
remote del Paese. Da parte sua, la Chiesa cattolica continuerà ad assicurare la propria presenza e
collaborazione, adoperandosi con generosità per fornire ogni aiuto possibile alla popolazione e,
soprattutto, per ricostruire un clima di riconciliazione e di pace fra tutte le componenti della
società”. Non potete immaginare come queste parole ci abbiano rincuorato e assicurato di essere
sulla buona strada.
La saggezza popolare, in modo forse un po’ grossolano, ricorda che l’ospite è come il pesce e che
dopo tre giorni puzza. Il Vangelo e la Regola di san Benedetto affermano invece che il forestiero e
l’ospite sono Cristo. Quindi, anche dopo tanti giorni, forestieri, ospiti o profughi che dir si voglia
profumano ancora di Lui. Cerchiamo di attenerci, con tutti nostri limiti, a questa regola… anche se
di giorni ne sono passati ormai 44!
Alla prossima!
Padre Federico Trinchero, i fratelli del Carmel e tutti i nostri ospiti
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Notiziario da Bangui n° 9 – 13 Febbraio 2014
Carissimi amici,
il nostro campo profughi ha ormai superato abbondantemente i due mesi. Davvero chi l’avrebbe
immaginato che quelle porte, spalancate il mattino del 5 Dicembre dello scorso anno, sarebbero
rimaste aperte per così tanto tempo e che i nostri ospiti si sarebbero così affezionati al Carmel!
Evidentemente, se i nostri ospiti sono ancora qui, sebbene diminuiti, un motivo c’è. La situazione,
infatti, stenta a migliorare in modo significativo. A Bangui non passa giorno, e soprattutto non
passa notte, in cui non ci siano morti, saccheggi e regolamenti di conto. Ma la cosa ancor più
drammatica è che, da diverse settimane, è ormai quasi l’intero paese ad essere teatro di scontri e di
violenze senza precedenti. Se in capitale una certa presenza militare, soprattutto francese, assicura
una relativa tranquillità e la possibilità di spostarsi senza rischiare troppo la vita, in provincia la
situazione è molto più complessa. Tutta la zona nord-occidentale del paese è stata a più riprese
oggetto di rappresaglie da parte ora dei seleka ora degli anti-balaka: saccheggi, uccisioni, case –
tantissime case – e mercati bruciati. Il paese è entrato nel vortice di una violenza becera che sembra
non arrestarsi. Quello che all’inizio sembrava una lotta per il potere, si è ora trasformato in uno
scontro tra queste due fazioni che hanno avvelenato il paese e mietuto vittime innocenti. La follia
della guerra non ha risparmiato neppure le famiglie dei miei confratelli: a qualcuno è stato ucciso un
membro della famiglia, a qualcun’altro è stata bruciata o saccheggiata la casa. Se i seleka, e chi li ha
sostenuti, sono indubbiamente all’origine della situazione in cui ci troviamo, gli anti-balaka hanno
dimostrato una violenza pari, se non superiore, a chi li ha preceduti e provocati.
Gli anti-balaka, che non sono musulmani, non possono dirsi cristiani. Se lo erano, le loro azioni
dicono il contrario. Più volte, infatti, i vescovi hanno denunciato questa violenta reazione popolare,
che i media hanno frettolosamente interpretato come cristiana. Ma, poiché non sono musulmani, la
confusione è stata inevitabile. Ci consola la consapevolezza che, sebbene tutto ciò sia una vergogna,
sono stati centinaia, forse migliaia, i musulmani che hanno trovato rifugio nelle parrocchie e nei
conventi sparsi nel paese... salvandosi letteralmente la vita. Ma l’esodo di questa minoranza è ormai
cominciato. Tantissimi musulmani – e tra questi anche alcuni nostri carissimi amici – sono stati
costretti a lasciare il paese, pur essendo nati qui. A ciò si aggiunge un effetto collaterale che renderà
ancora più difficile la già fragile economia del paese. Le poche attività commerciali del paese –
soprattutto, ma non solo, la vendita all’ingrosso e al dettaglio dei generi alimentari di base – era
infatti in mano ai musulmani. Il futuro del paese, anche quello economico, è quindi una vera
incognita.
In questo quadro desolante c’è stato, il 20 gennaio, un segnale di distensione: l’elezione di un nuovo
presidente nella persona di Cathérine Samba Panza, ex-sindaco di Bangui. Se pace sarà, quindi, sarà
donna. Tale elezione è stata salutata positivamente dalla comunità internazionale. Cathérine Samba
Panza ha poi una cosa alla quale i politici tengono molto e che faceva difetto a chi l’ha preceduta: il
favore popolare. Ciò non toglie che il compito che le sta davanti sia difficile, quasi impossibile. È
ancora presto, allora, per cantare vittoria e brindare alla pace. Del resto, nel nostro frigo, dorme uno
spumante che non abbiamo ancora avuto il coraggio di stappare da due mesi a questa parte.
La nuova presidente ha in seguito nominato un nuovo primo ministro il cui cognome è tutto un
programma: Nzapayeke, che significa ‘Dio c’è’. Un ottimo tandem con il vescovo di Bangui, il cui
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cognome, Nzapalainga, significa ‘Dio sa’. Quindi: Dio c’è e Dio sa. Queste due certezze, che non
sembrano mai essere venute meno nel cuore di tutti i centrafricani, siano essi cristiani o musulmani,
sono più che sufficienti per non scoraggiarci, sentirci al sicuro e andare avanti.
Ve lo ricordate padre Anastasio? Il suo soggiorno è stato breve, ma i nostri profughi lo hanno subito
preso in simpatia. Tutti i nostri bambini hanno imparato a dire ‘ciao’… “anche senza dargli una
caramella” (o, almeno, così sostiene padre Anastasio, noto in tutto il Centrafrica come père Ciao).
Comunque se padre Anastasio avesse presentato la sua candidatura come presidente del Centrafrica
avrebbe avuto qualche chance di vittoria. Qui al Carmel avrebbe stravinto. Ma purtroppo, dopo aver
fotografato tutto il fotografabile, padre Anastasio è stato costretto a ripartire, confessandomi che
non gli era mai stato così difficile lasciare il paese.
Per fortuna, al suo posto, è arrivato subito fra Nicola, un dono del padre provinciale per offrirci un
po’ di aiuto e di sostegno. Fra Nicola, che proprio in Centrafrica scoprì, ormai più di vent’anni fa, la
sua vocazione, ha lasciato il silenzioso Eremo di Varazze per questo convento trasformato in un
chiassoso campo profughi. Mastica ancora un po’ di sango (la lingua del Centrafrica) dal sapore
lucano e quindi il suo inserimento è stato veloce. Ha portato con sé una bella statua della Regina
della Pace che è andata a ruba tra i miei confratelli per un giro di novene. Fra Nicola, quando non
s’infiamma parlando della Madonna, sa fare veramente di tutto e appartiene a quella specie di frati
dei più apprezzati e contesi nei conventi. Il suo soggiorno sarà breve, ma ci ha comunque dato una
grossa mano.
Nel frattempo è nata una scuola d’emergenza, grazie anche all’iniziativa degli insegnanti cattolici
presenti tra i nostri rifugiati. L’organismo incaricato di costruire la scuola avrebbe voluto utilizzare
il nostro campo da calcio. Ma i miei confratelli, che sono stati alquanto generosi nell’offrire la
chiesa per il sonno dei più piccini, molto sportivamente non hanno voluto sentir parlare di
rinunciare al campo di calcio conventuale per farne una scuola. E quindi la scuola è sorta nel
giardino delle suore, a pochi metri dal nostro cancello. Il giorno dell’inaugurazione, seduto sulla
poltrona principale, ho ricevuto gli onori degni di un direttore scolastico di una popolatissima
scuola con classi, purtroppo senza banchi e sedie, che sfiorano i duecento allievi. Mi hanno dato la
parola presentandomi come Bwa Federico, baba ti adéplacés kwe ti Carmel (padre Federico, papà
di tutti i profughi del Carmel). In questi giorni, la gioia più grande è vedere ogni mattina frotte di
bambini che sciamano dal nostro campo profughi, con le loro cartelle griffate Unicef, per
raggiungere le loro classi profumate di plastica… per fare una cosa così normale, così bella e così
giusta come andare a scuola. Io, alla loro età, non mi ero accorto di essere fortunato perché i giorni
di scuola superavano quelli di vacanza. Qui, invece, da alcuni anni, è purtroppo quasi il contrario.
Se avete dei bambini, diteglielo prima che sia troppo tardi.
Purtroppo, se i bambini non mancano, la nostra fattoria ha subito un duro colpo a causa di diversi
furti. A Bangui i prezzi dei generi alimentari sono a volte addirittura raddoppiati e la carne è
diventata introvabile. Il nostro bestiame, quindi, fa gola a tutti, soprattutto ai ladri. Ma noi teniamo
duro. Se mai ne usciremo da questo diluvio, le 22 mucche e le 37 anitre del Carmel saranno una
sorta di arca di Noè, grazie al quale sarà ripopolato il Centrafrica. Quanto alla prosecuzione della
specie umana, i centrafricani non hanno bisogno di essere incoraggiati.
Quanto a bambini, tuttavia, al Carmel non ne sono più nati. In compenso è arrivato Geoffroy, un
bambino di circa 12 anni, proveniente da Bossangoa, una città situata a 400 Km a nord di Bangui.
Geoffroy non ha fratelli, i suoi genitori sono morti a causa di una granata e la sua casa è stata
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incendiata; e lui, accompagnato da dei militari, è arrivato fino a Bangui. Dopo aver trascorso
qualche giorno nel campo profughi dell’aeroporto – che ospita qualcosa come 100.000 rifugiati – un
taxi-moto lo ho lasciato davanti al cancello del nostro convento senza troppe spiegazioni. E noi lo
abbiamo lavato, vestito, nutrito, cercando di comprendere qualcosa della suo passato e di trovare
una soluzione per il suo futuro. Nel frattempo, senza troppe difficoltà, Geoffroy si è adattato ad usi
e costumi del convento, forse un po’ smarrito per tanta accoglienza da parte di 12 giovani frati, ma
felice di poter dormire in un luogo sicuro. A noi, tutta questa simpatica e incredibile storia, è
sembrata la versione africana di ‘Marcellino, manioca e vino’…
Abbiamo anche ricevuto la visita delle suore di Madre Teresa di Calcutta. Senza troppo rumore e
zero burocrazia, questi angeli vestiti di sari sono riusciti a fare qualcosa che nessuna ONG era
fin’ora riuscita a fare. Per ben due volte hanno offerto un pasto caldo per tutti – proprio tutti – i
bambini: una zuppa di riso dolce. E, prima di ripartire, hanno preso con sé Pierre, un vecchio
congolese ammalato, rimasto abbandonato nel fuggi fuggi della guerra.
C’è poi, qui al Carmel, un Corpus Domini quotidiano. Ogni mattina, al termine della celebrazione
eucaristica nella nostra cattedrale di palme e cielo, riportiamo quanto resta dell’Eucaristia nel
tabernacolo all’interno del Convento. Sembrano, ogni volta, le dodici ceste avanzate dopo la
moltiplicazione dei pani. Il Santissimo, per nulla infastidito, attraversa il nostro campo di profughi
in un caleidoscopio di colori, odori, fumi e profumi, fango e polvere. E, mentre compio questa
surreale processione, ringrazio in cuor mio questa gente, che forse non sa che sta obbligando me e i
miei confratelli a vivere un po’ di più il Vangelo.
Alla prossima!
Padre Federico, i fratelli del Carmel e i nostri ospiti
Se volete darci una mano potete fare :
1) un bonifico bancario a MISSIONI
IT42D0503431830000000010043;
CARMELITANE
LIGURI
usando
l'IBAN:
2) un versamento tramite Conto Corrente Postale n. 43276344 intestato a AMICIZIA
MISSIONARIA ONLUS.
Più informazioni sul sito www.amiciziamissionaria.it/Donazioni.aspx
Grazie!
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Notiziario da Bangui n° 10 – 25 Marzo 2014
Carissimi Amici,
eccomi ancora una volta nella vostra casella di posta elettronica con nuove notizie dal fronte di
Bangui. L’espressione ‘fronte’ non è forse troppo esagerata, se penso ad una delle ultime avventure
che ci è capitata, proprio pochi giorni dopo avervi inviato la mia ultima lettera.
Nella seconda metà del mese di febbraio sono venuti a trovarci padre Emilio, il padre Vicario del
nostro Ordine, padre Marco, il nostro provinciale, e fra Claudio, mio compagno di noviziato.
Nonostante l’insicurezza, e con molto coraggio, i nostri confratelli sono riusciti a visitare tutte le
nostre cinque missioni, attraversando il Centrafrica in macchina e in aereo, dormendo in alberghi di
fortuna, distribuendo parole e generi di conforto. Non potete immaginare come la loro visita ci
abbia fatto piacere e come la loro semplice presenza ci abbia rincuorato e permesso di sperimentare,
ancora una volta, la vicinanza di tutti i confratelli e le consorelle del nostro Ordine. Qui al Carmel di
Bangui i nostri ospiti sono arrivati con un volo dell’ONU e la loro visita è stata breve ma intensa.
La mattina della partenza li abbiamo accompagnati all’aeroporto di buon’ora. Con me sono venuti
anche fra Felix, fra Martial e André, il nostro autista tutto-fare. A meno di 1Km dall’aeroporto,
costatiamo che la strada è interrotta da barricate e da alcuni pneumatici in fiamme. Un giovane
grida verso di noi: “Dove credete di andare? Qui si muore tutti!”. “Parla per te, caro il mio antibalaka!”, vorrei rispondergli. Ma, per fortuna, i nostri ospiti non conoscono la lingua locale. Siamo
costretti a fare marcia indietro e cerchiamo di raggiungere l’aeroporto da una strada laterale. Vorrei
tanto approfittare della situazione per prolungare il soggiorno dei miei confratelli, ma non posso
permettermi di fargli perdere l’aereo. Lungo la strada attraversiamo una zona controllata da un
grande numero di anti-balaka. Arriviamo infine all’aeroporto e, dopo aver superato il check-point
dei militari francesi, raggiungiamo il parcheggio. Mentre scarichiamo i bagagli, cominciamo a
sentire i primi spari. Ci precipitiamo al check-in. Il comandante dell’aereo informa che la partenza è
anticipata, anche se dovesse partire con due soli passeggeri. Le formalità si svolgono rapidamente.
Saluto i miei confratelli e il Vicario mi sussurra: “ Federico, penso sia bene che attendiate un po’ in
aeroporto prima di ripartire”. Mai l’obbedienza mi è stata più facile. Partiti i nostri tre confratelli,
ci consultiamo sul da farsi. Sono le 8 del mattino. Un proverbio, di quelli tramandati in latino dal
buon padre Nicola, offre tre preziosi consigli di sopravvivenza, utili anche in casi del genere:
“Nella vita è bene stare sempre davanti ai buoi, dietro i cannoni e lontano dai superiori”. I buoi
sono al sicuro nella stalla del convento. I superiori sono anche loro al sicuro sull’aereo e tra poco
saranno veramente lontano. Restano i cannoni. Ci voltiamo e, nel parcheggio dell’aeroporto,
vediamo schierati davanti a noi una dozzina di carri armati francesi. Quindi, almeno per ora, siamo
giusto dietro i cannoni. Pochi metri più in là, dalle vetrate dell’ingresso dell’aeroporto, osserviamo,
attoniti, la guerra in diretta. Gli spari si susseguono senza tregua e colonne di fumo si alzano lungo
la via di accesso principale all’aeroporto. La gente fugge. Donne e bambini invadono l’aeroporto.
Ad un certo punto i cecchini francesi, posizionati sul tetto dell’aeroporto cominciano a sparare pure
loro… sopra le nostre teste. I colpi sono fortissimi. Ci sdraiamo per evitare che ci raggiunga qualche
pallottola vagante. Dopo un po’ di tempo, riteniamo che sia più prudente mettersi dietro un muro in
cemento, piuttosto che dietro le vetrate. Provo ad alzarmi, ma il rumore di una mitragliatrice mi fa
rimbalzare per terra. Tutti i bambini si mettono a ridere gridando: “Mounjou a kwi! (L’uomo bianco
è morto)”. “Mounjou a kwi ape (L’uomo bianco non è morto… e non ne ha nessuna voglia),
rispondo ai miei simpatici compagni di avventura. Riusciamo comunque a raggiungere una
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posizione più riparata. Ci sdraiamo, mentre gli spari continuano per qualche ora. Telefoniamo ai
nostri confratelli assicurandoli che stiamo bene e chiedendo se, dalla radio, riescono a capire cosa
stia succedendo. Ma, a quanto pare, loro ne sanno meno di noi. Per occasioni del genere, il Manuale
del carmelitano perfetto, che per fortuna non esiste, ma questo paragrafo tutti lo conoscono a
memoria, è perentorio: “Nulla ti turbi. Nulla ti spaventi. A chi ha Dio nulla manca. Dio solo
basta”. Provo a pregare, ma non ci riesco. Sparo solo qualche Ave Maria. Mi viene spontaneo
ringraziare il Signore perché, dopo aver accolto dei profughi, per qualche ora sono profugo anch’io;
e ho la grazia di vivere quella precarietà che la mia gente vive da mesi e di condividere questo
momento con i miei confratelli. Verso mezzogiorno gli spari sembrano cessare e i carri armati si
allontanano. Saliamo in macchina per tentare di ritornare a casa. Al check-point i militari francesi ci
incoraggiano: “Ma dove crede di andare, mon père? Sparano ancora dappertutto. Se vuole
proseguire, è a suo rischio e pericolo”. Ovviamente desistiamo. Facciamo marcia indietro e
proviamo ad immaginare il resto della giornata. Come e quando torneremo a casa? Passeremo qui la
notte, chiedendo di riservare per noi una tenda tra i centomila profughi dell’aeroporto? Dopo circa
un’ora, mentre stiamo cercando di mangiare qualcosa, ci accorgiamo dell’arrivo di un’ONG che
conosciamo bene. Organizzano un convoglio per evacuare alcuni colleghi rimasti bloccati come noi.
Chiedo se possiamo unirci anche con noi. Accettano. In pochi secondi il convoglio è formato e,
velocissimi, abbandoniamo l’aeroporto. Lungo il tragitto preghiamo tutti i santi del paradiso perché
ci proteggano. Attraversiamo quartieri deserti, per i quali non passavamo da mesi, perché
considerati ‘zona rossa’. Le case sono distrutte o incendiate, i tetti in lamiera divelti, nessun
negozio, pochissime persone e carcasse di macchine: Gesù mio, com’è brutta la guerra! Alle 14
siamo finalmente in convento. Riabbracciamo i confratelli. E poi faccio una breve visita in chiesa
per ringraziare il Signore di averci fatti ritornare a casa sani e salvi.
La vita del nostro campo profughi prosegue al ritmo delle stagioni e dei tempi liturgici. In occasione
del Mercoledì delle Ceneri i nostri fedeli hanno superato, quanto a numero, zelo e devozione, gli
abitanti di Ninive dopo la predicazione di Giona. Fino a pochi giorni fa il numero dei nostri
profughi si era stabilizzato intorno ai 5.000. Ma, dal momento che in diversi quartieri di Bangui si
spara ancora, la gente, anche quella che aveva provato a rientrare, spesso è costretta a ritornare da
noi. Attualmente potrebbero essere intorno ai 15.000 (il 40% dei quali sotto i 15 anni). A Bangui i
siti che accolgono profughi sono ancora 59, alcuni dei quali con molta più gente di noi. Queste cifre
vi dicono le dimensioni e la complessità della situazione che tiene prigioniera la città. Pensavamo di
risolvere tutto per Natale… ed ora siamo quasi a Pasqua.
Per questo motivo la nostra comunità, dopo tre mesi di emergenza, è stata costretta a fare un
discernimento. Sul tavolo del capitolo conventuale quattro ipotesi. La prima: mandare a casa tutti i
nostri profughi. La seconda: andarcene via noi e lasciare il convento ai profughi. La terza: aspettare
che i profughi se ne vadano per poter riprendere la nostra vita normale. La quarta: provare a fare i
frati con migliaia di profughi attorno al convento. La prima e la seconda ipotesi non le abbiamo mai
prese seriamente in considerazione, se non durante la ricreazione o quando siamo un po’ stanchi. La
terza è stata scartata perché dovremmo aspettare troppo, nessuno sa fino a quando. E poi avevamo
una voglia matta di tornare a fare i frati a tempo pieno. La quarta ipotesi, quindi, è stata votata
favorevolmente all’unanimità. Abbiamo così raccolto la sfida di fare i frati in un convento con
annesso un campo profughi… certi della benedizione di Papa Francesco e dell’approvazione del
Padre Generale.
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Per questa ragione siamo stati costretti, anche se a malincuore, a ridimensionare il nostro piccolo
ospedale d’emergenza, trasferendolo in una struttura all’esterno. Inoltre, anche se non è stato facile
dare lo sfratto ad un centinaio di bambini, con solo una settimana di preavviso, abbiamo ripreso
possesso della nostra Chiesa. È stato un po’ emozionante risentire il suono delle nostre voci nel
luogo abituale della nostra preghiera. Il confratello sacrestano, scherzando, ha suggerito di fare una
sorta di rito di purificazione. Ma i poveri non profanano un bel niente. Anzi è stata forse la loro
presenza che ha come consacrato e reso ancora più bella la nostra chiesa. Rientrare nella nostra
chiesa è stato come entrare nella stiva di una nave o nel ventre di una madre che ha salvato la vita a
centinaia di bambini nel naufragio della guerra. E poi, proprio nella nostra chiesa, era nato Jean de
la Croix, il primo bambino venuto al mondo al Carmel il 13 dicembre 2013.
Abbiamo anche ripreso le nostre attività apostoliche. Solo fra Jeannot non ne ha voluto sapere di
riaprire il gruppo Santa Teresina che insegna a pregare ai bambini dai 3 ai 7 anni. Teme,
giustamente, di avere troppi nuovi clienti. Anche il nostro gruppo vocazionale ha qualche nuovo
candidato. Alcune settimane fa, un giovane tra i nostri profughi, di nome Alain, chiede di parlarmi.
Avevo già notato la sua assidua partecipazione alla messa mattutina. Ci sediamo e, senza troppi
preamboli, Alain espone le sue intenzioni: “Mon père, vorrei essere come voi”. Poi, come per
assicurarmi di aver ben capito che è la preghiera il cuore pulsante del Carmelo, continua: “Potrei
avere anch’io la vostra Bibbia con le preghiere (cioè il breviario)? Quando vi mettete a cantare in
Chiesa, riesco solo a dire ‘dans les siècles des siècles’”. Ogni volta che un giovane apre il suo
cuore ad un sacerdote e manifesta il desiderio di consacrarsi a Dio, al di là di come finirà un giorno
la vicenda, c’è sempre come un reciproco brivido d’intesa e di complicità. Il giovane, fatta la sua
dichiarazione, pensa di avere già fatto la professione solenne. Il sacerdote, più prudente, pensa che
sia solo questione di fissarne la data. Ora: il discernimento è cosa difficile a tutte le latitudini, ancor
di più da queste parti. Quindi è bene non farsi illusioni. Ma, pensando al modo in cui Alain ci ha
conosciuto, mi è venuto in mente un capitolo della regola di san Benedetto. Per colui che chiede di
essere introdotto in monastero, la regola esige che il superiore metta alla prova le sue motivazioni,
obbligandolo a sostare davanti alla porta del convento, per almeno quattro o cinque giorni, prima di
essere accettato. Alain si trova davanti alla porta del convento da più di tre mesi… e quindi abbiamo
ritenuto che fosse sufficientemente pronto per condividere un po’ di più la nostra preghiera e il
nostro lavoro. E scoprire cosa faranno mai questi giovani frati quando non sono in giro tra le tende
dei profughi. Dopo Alain si è presentato anche Jon… Il futuro di questi giovani, e di tanti altri, è ora
nelle mani di Dio e delle vostre preghiere.
Gli studenti, cioè i sei confratelli più giovani della cui formazione sono responsabile, hanno ripreso
gli studi di filosofia e teologia dopo tre mesi di vacanza. Ne avrebbero meritati altri tre per quanto
hanno lavorato, ma anche loro avevano voglia di fare una cosa così normale come andare a scuola.
E così, se al mattino disquisiscono di etica e metafisica, al pomeriggio guidano il trattore,
distribuiscono riso e fagioli, risolvono con grande pazienza piccole discussioni che nascano tra i
profughi. Anche il sottoscritto è ritornato a scuola, ma solo per un giorno. Tutti i responsabili dei
siti di Bangui sono stati infatti convocati per una giornata di formazione. Ed io, che speravo di fare
un dottorato in patrologia, mi sono ritrovato, dopo tre mesi di pratica e un giorno di teoria, con un
diploma honoris causa in ‘Gestione e coordinazione di un sito di profughi’ conferitomi niente poco
di meno che dall’Alto commissariato dell’ONU per i profughi. La vita riserva sempre delle belle
sorprese!
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Vi ringrazio per l’attenzione con cui seguite le puntate della nostra avventura. Quello che all’inizio
non era che un’e-mail inviata ad alcuni confratelli per informarli che avevano a cena qualche ospite
in più, si è trasformato in un bollettino di guerra e di pace che sta facendo il giro del mondo. Spero
di non annoiarvi troppo. Ma è anche vero che, se tardo a scrivere, dopo qualche giorno qualcuno
comincia a chiedermi se tutto procede bene.
Un grande grazie, infine, a tutti quelli che, oltre che con la preghiera e l’amicizia, hanno voluto
manifestare in modo concreto e generoso la loro vicinanza. Anche se molti di voi ci sono quasi
sconosciuti, siete, ogni sera, nelle nostre preghiere.
Padre Federico, i fratelli del Carmel e i nostri ospiti
PS: Vi chiedo gentilmente di prendere nota della mia nuova e-mail: [email protected]
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