Fanny che voleva sognare

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Fanny che voleva sognare
Roberto Borghesi
Fanny
che voleva sognare
Introduzione di
Costanza Tabacco
Postfazione di
Cristiana Vettori
Edizioni
Helicon
Il bianco
Il bianco abitava in una casa piccola, ma molto pulita.
Di notte, chi passava in quella via, la notava subito.
Emanava una luce molto chiara. Anche quando non
c’erano le stelle, e i lampioni erano rotti, passando di
lì, quasi si dovevano indossare gli occhiali dell’estate
per non chiudere gli occhi. Un giorno passò, nella via,
uno spazzacamino con tutti i suoi attrezzi per pulire
i comignoli del quartiere. Infine arrivò alla casa del
bianco. Bussò. Il bianco gli aprì. Vedendolo, lo spazzino domandò scusa, pensò di avere sbagliato casa,
cercò di restare fermo il più possibile, per non fare
cadere la fuliggine sulla soglia della casa. Ma il bianco
lo guardò, gli sorrise e gli diede quattro denari invitandolo a salire sul tetto. Lo spazzacamino si schernì;
quattro soldi erano il prezzo di tre camini. Il bianco insistette. Allora lo spazzacamino salì e cominciò il suo
lavoro. Ma a mano a mano che mandava giù la scopa,
questa, invece di raccogliere fuliggine, diventava sempre più bianca. E poi, dopo la scopa, incominciarono
Bianca come il latte di Antonella Spada
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ad imbiancare i guanti, e poi le maniche e la giacca,i
bottoni e i calzoni e poi le calze e le scarpe. Infine imbiancarono le mani e le braccia, e il collo e le guance
e gli occhi e tutto. Lo spazzacamino discese dal tetto e
sembrava ora un pierrot. Allora, egli voleva rendere al
bianco i suoi danari, ma il bianco rifiutò. Anzi lo invitò
a pranzo. Il tavolo nella cucina era già imbandito, con
la tovaglia bianca, e i piatti bianchi. Dentro c’era una
pasta in bianco. Il bianco domandò allo spazzacamino
se preferiva la pasta o un formaggio bianco, o il bianco
dell’uovo e magari da bere il latte fresco della bianca
mucca nella stalla. Lo spazzacamino ringraziò, felicissimo di potere mangiare, oggi, quando spesso saltava
il pasto e anzi, passava la notte in bianco perché non
era riuscito a pulire nemmeno un camino. Il bianco,
allora, gli disse che era felice di averlo come ospite,
di avere accettato di cambiare colore, e gli donò un
assegno in bianco. Lo spazzacamino si schernì. Il bianco era troppo generoso. Un assegno simile significava
che il bianco vedeva in lui un cuore senza macchia,
lindo. E come faceva il bianco a sapere che sotto quella coltre di nero, c’era un cuore pulito, luminoso, di
una luce bianca? Il bianco gli sorrise e gli rispose che
anche il buio ha la sua luce, il suo splendore. Il bianco
arrivò a dire che il ben volere, quando viene scritto sul
cuore è scritto con il bianco, perché è di un puro colore. Il pranzo era finito e lo spazzacamino si congedò. Il
bianco lo abbracciò e subito lo spazzacamino riprese
l’antico colore. Si sorrisero apertamente, la bocca larga sui denti bianchi, quasi fossero due cavalli l’uno di
fronte a l’altro prima del galoppo. Il bianco salì, allora,
sul tetto e rovistò nel camino. Trovò un sasso nero.
Sorrise. Lo prese in mano e scese in cucina. Lo mise
sotto l’acqua e il sasso cambiò colore; anzi apparve
come se contenesse in sé un piccolo arcobaleno. Il
bianco andò sulla credenza e lo mise accanto ad una
conchiglia bianca. La conchiglia si animò e cominciò a
risuonare della voce del mare. Il bianco si adagiò sul
divano, si addormentò, e si mise a sognare.
Fece tre sogni. Il primo lo vede camminare lungo un
sentiero fiancheggiato di biancospini. Arriva all’altezza di una panchina grigia e vi vede seduto un uomo
con la barba lunga, incolta e bianca con gli occhi chiusi. Quando il bianco si avvicina, l’uomo alza la testa
senza aprire gli occhi e gli dice: “Tu sia benvenuto,
amico bianco, siedi un po’ sulla mia panchina e dividi
con me il riposo”. Il bianco si sedette e gli domandò:
“Come hai fatto a riconoscermi, con gli occhi chiusi?”
Rispose l’uomo: “Se tu fossi di colore avresti un altro
odore”. Il bianco sorrise, e disse: “Ma io non sono un
uomo bianco, la mia pelle non è chiara, essa è bianca
come la neve!”. L’uomo tenne gli occhi ancor chiusi
per un po’, poi li aprì e disse: “Per bacco, nella mia vita
ne ho viste di tutti i colori, ma un uomo così bianco
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come te non l’avevo mai incontrato! Ma di che paese
sei? Certamente di un paese del Nord, magari abiti
con gli orsi polari o con le renne!”. “Niente affatto - gli
rispose il bianco -, abito a Biancomarina ed è stando disteso sulla scogliera prima dell’alba, sotto i raggi
della luna, che la mia pelle ha assunto questo colore”.
Ad un tratto, il cielo cambiò colore e da azzurro si fece
pieno di nubi bianche, e improvviso scese il buio. Ma
non era un temporale che mostrava di colpo, come
una tempesta. Era la luna che era giunta lì, sentendosi
nominata e che con una voce silenziosa parlò: “Salute
a te amico bianco. La tua fedele schiava è accorsa al
tuo richiamo. Chi vuoi che illumini, questa sera con i
miei raggi? O forse vuoi che canti una delle mie malinconiche canzoni per quell’uomo straniero che sta
con te?” Il bianco rispose: “Salute a te, amica delle
mie solitudini. Sì, vorrei che tu cantassi per noi uno
dei tuoi canti solitari, o magari, perché no, un canto
fuori stagione; bianco natale”. La luna si mise a cantare questo canto e all’improvviso tante piccole stelle scesero giù dal cielo e si posarono su un pino nel
giardino. Era agosto ed era natale; e solo sull’albero
scese anche la neve. Il bianco si accostò e scavò nel
mucchio di neve che si era formato. Ne cavò fuori dei
pacchi avvolti in carta bianca. Li diede all’uomo, che
li aprì. Dentro c’erano tanti confetti, e tanti merletti e
candele di cera bianca e biscotti al latte. Ma il bianco,
intanto si era adagiato sulla panchina e si era addormentato e dentro al sogno fece un altro sogno.
Era seduto al volante di una vecchia “bianchina”, tutta
sgangherata e suonava il suo claxon con forza. Davanti a sé aveva delle enormi strisce pedonali sulle quali
attraversavano sette lumache stanche, con la conchiglia bianca. Il bianco aveva fretta, perché doveva andare alla chiesa, per sposare Biancaneve. Ed era,
come sempre, in ritardo. Ma sulle strisce, dopo le sette lumache, ecco passare i sette nani, sette pinguini
da cerimonia con i guanti bianchi. Il bianco li chiamò
ad uno ad uno e li invitò a salire; avanti, Bianchello,
Biancotto, Biancuccio, Biancaccio, Bianchino, Bianchito, Biancone. Erano piccoli ma stavano stretti lo stesso, dentro alla piccola automobile. Infine, il bianco
partì. Accese l’autoradio e si sentì una canzone. “l’era
del cinghiale bianco”. Tutti cantavano a squarciagola.
Arrivarono, infine, alla chiesa di Nostra Bianca Signora. In cima alle scale di marmo bianco attendeva con
impazienza Biancaneve. Un bianco paggetto le porse
il mazzo di fiori. Il bianco salì i gradini in fretta e arrivò
in cima affannato. Biancaneve gli diede il braccio e
passarono il bianco portone. L’altare era fatto di un
bianco cartone. Non c’era nessun prete ad aspettare
gli sposi. Solo due chierichetti pallidi con in mano i
ceri. Ma il bianco e Biancaneve si strinsero ugualmente la mano giurandosi eterna fedeltà. I sette nani ap-
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plaudirono e il fragore fece crollare l’altare. Dietro la
parete bianca, apparve il mare in tempesta. Tutti corsero a fare festa sulla riva dalla sabbia bianca. Il bianco raccolse una conchiglia e l’accostò all’orecchio.
Sentì il suono del galoppo di un cavallo bianco si addormentò e sognò. Era nella campagna, un campo di
gigli bianchi. In mezzo stavano il re di Francia e il signore di Firenze. Con una falce tagliavano i gambi dei
fiori e li ammucchiavano su un carretto trainato da un
asino albino. Poco distante c’era un mulino ad acqua,
un mulino bianco, di biscotto. Il bianco era affamato e
si mangiò due pale del mulino. Passava di lì un bambino che sghignazzò. Pedalava su una bicicletta bianca,
con i raggi delle ruote trasparenti. Sembrava che pedalasse sul niente. Il bianco entrò nel mulino e vi trovò una tribù di gatti, sette matti, il gatto con gli stivali
e gli stivali del generale. In un angolo c’era un nonno
che stava male e nessuno lo curava. Il bianco lo accostò e il vecchio, lo invitò a porgere l’orecchio: “Amico
bianco, taci su quanto ti dirò. Io ti voglio vendere il
mulino, i gatti, i matti e gli stivali in cambio di due colombe che troverai nel tuo viaggio e che mi porterai.
Coraggio, è un affare”. Il bianco calcolò quante zampe
faceva l’insieme nel mulino e gli parve uno scambio
equo. “Accetto”, disse ridendo. “Bene”, disse il vecchio e tossì con rumore, il che colorì il suo pallore.
“Ora vai a cercare la tua merce e portala a me.” Il
bianco calzò gli stivali delle sette leghe e partì in cerca
delle colombe. Trovò tosto due piccioni che tubavano, due piccioncini amorosi sulla panchina, due fave
senza piccioni, due piccioni senza fava. Rise di cuore e
con gli stivali saltò in mezzo ad un’arena. C’era un toro
accucciato e il torero tracannava una bottiglia di bianchetto. Su un tetto infine vide due colombi. Chiese al
torero il mantello bianco di polvere e lo lanciò sui colombi. Li mise dentro una gabbia bianca e corse dal
vecchio. Ma il vecchio non c’era più. Domandò. Risposero che in questo paese la persona più vecchia ha
sette anni. Si stupì. Allora un nano vestito da sultano
gli disse che aveva sognato. Il mulino bianco non era
in vendita perché era di proprietà dei gatti, dei matti,
del gatto con gli stivali e del generale. Il bianco, allora,
liberò i due colombi, ma questi invece di volare via
saltellavano al suo fianco. Vedendo questo, due fringuelli che cantavano sulla pianta si accodarono loro, e
poi due passeri, e poi due gru, e poi due cigni, e poi
due pulci. Lo strano corteo passò davanti ad un edicolante; il bianco ordinò la Gazza di Montecolombo e il
Pappagallo di Montilgallo. Li sfogliò, scorse i titoli e
uno lo colpì; un vecchio signore aveva venduto per
due tortore un albergo sul monte Calvo. Pensò, allora
di non avere sognato. Chiuse gli occhi e si risvegliò.
Ora era a Corpolò, vicino alla fontana. La gente beveva l’acqua e si girava attorno con la faccia strana. Arri-
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vò, trafelata, sulla scopa bianca, la befana. Era agosto,
faceva caldo, e lei sudava con la lunga sottana. Un ciclista la salutò; lei gli gettò una ruota di scorta. A un
soldato senza divisa regalò una postura decisa. A un
tacchino raffreddato, consegnò un buon gelato e alla
banda della sera una vecchia bandiera garibaldina.
Era notte, fu presto mattina. Il bianco si strofinò gli
occhi ed espresse tre desideri; il primo non si saprà
mai quale è, il secondo è senza un perché e il terzo
voleva essere il primo e si fece avanti nel primo mattino. Il bianco disse all’acqua della fontana che la sua
vita era ben strana, di non sapere più se era sveglio o
se dormiva ad occhi aperti. La fontana cantò l’inno
alla gioia e sulle panchine le foglie degli alberi cominciarono a roteare con forza. All’improvviso un soffio
fortissimo spazzò via ogni cosa, come la scenografia
di un palcoscenico crollata giù dalle quinte. Il bianco
si ritrovò su di un palco, solo, la sala al buio, inondato
da una forte e unica luce bianca, davanti a un leggio.
Ora portava un paio di scarpe da tennis bianche e una
tuta bianca. Sul leggio alcuni fogli, bianchi. Partì un
applauso. Nel buio si vedevano solo le mani guantate
di bianco sbattere fra di loro. Il bianco sentì un brivido
lungo la schiena. E ora? Erano lì per lui; si aspettavano
una parola chiara, illuminante, sincera, vera. Lui sapeva che aveva carta bianca; ma non poteva dire qualsiasi cosa. Andare a ruota libera? Il bianco girò la testa
intorno. Il vuoto. Allora aggrottò le ciglia, socchiuse
gli occhi e cercò l’ispirazione oltre l’ultima fila di bianche poltrone, vuote questa volta. Vide una porta,
bianca e con una vetrata. Guardò oltre e sul bancone
della cassa vide un libro bianco. Cercò il titolo; quando i capelli si fanno bianchi. L’ispirazione lo riportò sul
palco. Ora poteva incominciare. Avrebbe parlato della saggezza. Quale era il colore della saggezza, si domandò e domandò? Era forse il bianco? Troppo facile,
troppo scontato. Era forse al contrario il nero? Ancora
troppo facile? Era forse il grigio mediano e mediatore? Troppo neutro. Il bianco passò in rassegna tutti i
colori , ma nessuno lo soddisfece. E se la saggezza fosse un sapore? Se la saggezza fosse un certo sapere
morbido, un certo sapore del sapere? E se insomma
fosse appunto ciò che da sapore alle pietanze? Se la
saggezza fosse come il sale bianco? Ecco, sì, il colore
della saggezza era il colore bianco e saporito del sale.
E allora pensò al mare e la platea si coprì di onde e il
palco era un vascello e lui il capitano con la benda
sull’occhio sinistro, la benda bianca e la pipa da pirata. Parlò dell’avventura e dei vecchi romanzi pieni di
damigelle e di marinai infedeli. Di colpo ristette. Ora
vedeva le navi con i cannoni, le fumate bianche degli
spari, le bare bianche e i soldati ammassati sul terreno, ammazzati all’arma bianca. Parlò della guerra,
delle guerre e dell’enorme fungo bianco sulla città in-
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nocente. Ora il bianco sudava ed era stanco. Domandò che gli portassero un bicchiere di bianco. Bevve.
Un altro. Bevve ancora. Si inchinò per raccogliere l’applauso. Ma l’applauso non partì. Il bianco capì. Nella
sala non c’era più nessuno. Solo un bambino in una
bianca carrozzella, abbandonato alla buona stella. Il
bianco gli si fece incontro e disse: “Saggia è stata questa giornata girovaga, mi ha portato un figlio. Cosa
posso regalare a questo bambino della fortuna?”.
Guardò di lato e scorse un cilindro bianco abbandonato anch’esso da un mago frettoloso anche lui di non
sentire discorsi troppo intelligenti. Il bianco lo prese
ed infilò la sua bianca mano. Ovviamente ne trasse
fuori un coniglio bianco. Ma questo coniglio aveva
con sé una carota, che sgranocchiava. Il bianco la afferrò e ne diede un pezzo al bambino. Egli la morsicò
e di colpo saltò giù dalla carrozzella. Era cresciuto di
dieci anni in un istante. Ma quanti anni aveva, allora il
coniglio? Il bianco glielo domandò. Il coniglio mostrò
i suoi bianchi denti e disse: “Ho gli anni che ho e di più
non so!” Quanti anni aveva lui, s’interrogò allora il
bianco e si rispose che aveva il tempo necessario per
ascoltare questa sua storia, che pure stava per finire.
Allora, si chiese il bianco, sarebbe giunta presto la
dama bianca? La pagina bianca!! Sì, era giunto al limite della pagina, ormai. Ma ebbe un’idea e parlò direttamente al lettore: “Mi affido a te, amico che mi leggi,
vai sulla pagina che segue e inforca la matita e accompagnala con una gomma bianca. Scrivi ancora e poi
cancella e poi scrivi di nuovo e poi cancella, bianco su
bianco. Non essere stanco. Una vita non va mai cancellata finché c’è il ricordo, la memoria. Cercami intorno dove il bianco è più sporco, nel mondo, e usa la
gomma. Sarò con te, non invano. Andremo lontano”.
...spazio bianco.
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